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Studio preliminare degli effetti del trattamento termale in pazienti fibromialgici mediante analisi proteomica.

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INDICE

CAPITOLO 1-INTRODUZIONE 2 1.1 LA FIBROMIALGIA 2 1.1.1 DEFINIZIONE 2 1.1.2 EZIOPATOGENESI 6 1.1.3 DIAGNOSI 12 1.1.4 TERAPIA FARMACOLOGICA 15

1.1.5 TERAPIA NON FARMACOLOGICA 18

1.2 LA SALIVA 23

1.3 LA PROTEOMICA 26

CAPITOLO 2-SCOPO DELLA TESI 30

CAPITOLO 3-MATERIALI E METODI 31

3.1 RECLUTAMENTO DEI PAZIENTI 31

3.2 RACCOLTA DEI CAMPIONI 33

3.3 DOSAGGIO PROTEICO DC/BIORAD 34

3.4 PREPARAZIONE DEL CAMPIONE 35

3.5 ISOELETTROFOCALIZZAZIONE 36

3.6 EQUILIBRATURA STRIP 39

3.7 SECONDA DIMENSIONE 40

3.8 PREPARAZIONE DEI GEL 12,5% NEL MULTICASTING 41

3.9 COLORAZIONE DEI GEL 42

CAPITOLO 4-RISULTATI E DISCUSSIONE 44

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C

APITOLO

1- I

NTRODUZIONE

1.1 La Fibromialgia

1.1.1 Definizione

La Fibromialgia (FM) è una patologia caratterizzata da una sintomatologia cronica particolarmente intensa che colpisce l’apparato muscolo-scheletrico. Nonostante la sua considerevole diffusione, di questa malattia esiste tuttora una scarsa conoscenza anche se diversi studi hanno appurato derivi da un disordine psicomotorio (Bazzichi et al., 2009).

La sindrome fibromialgica può verificarsi sia come un disturbo di natura primaria, in cui è la patologia stessa a causare i diversi sintomi, o come disturbo secondario, quando essa è associata ad altri stati patologici, quali sclerosi sistemica, sindrome di Sjogren, tiroide autoimmunitaria, tetano o anche sindrome da fatica cronica, che ne rendono la diagnosi assai complessa (Bazzichi et al., 2009).

Con il termine FM (da “fibro” che fa riferimento ai tessuti fibrosi e “mialgia” che indica l’intenso dolore muscolare percepito dai soggetti malati) si intende una malattia reumatica che colpisce i muscoli causando un aumento della tensione muscolare, a sua volta responsabile di algie muscolo scheletriche diffuse, rigidità e parestesie.

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giustificare il dolore e la rigidità muscolare; solo alla fine degli anni ’40 venne esclusa l’ipotesi dell’infiammazione alla base della patologia e si ritenne la genesi “psicologica” come causa più probabile. Dunque, il moderno concetto di FM come sindrome da dolore centrale è molto più recente, nel 1990 sono stati definiti i criteri diagnostici della malattia e solo a partire dal 1994 la diagnosi di FM è stata riconosciuta a livello internazionale con la “Dichiarazione di Copenhagen”. A tutt’oggi, la FM risulta essere sempre una sindrome tra le più controverse in ambito reumatologico e algologico, per la quale non esistono tecniche laboratoristiche o strumentali ben definite e dunque, si incontrano notevoli difficoltà non soltanto nella sua diagnosi, ancora per lo più sintomatica, ma anche nella sua classificazione (Sarzi-Puttini et al., 2010).

Per la diagnosi e per la classificazione della FM sono considerati tuttora validi i criteri dettati dall’ACR (“American College of Rheumatology”), secondo cui la malattia è definita come un disturbo che si associa ad una notevole gamma di sintomi aspecifici quali fascicolazioni, visione sfocata, senso di confusione e stordimento, fatica, alterazione dell’equilibrio, secchezza degli occhi, della bocca e della pelle, insonnia o sonno non riposante, ansia, disfunzione sessuale, depressione, attacchi di panico e altri stati cronici quali sindromi da intestino e vescica irritabili (Bazzichi et al., 2009). I criteri dell’ACR sono comunque fortemente criticati per svariate ragioni: in primo luogo perchè esclusivamente clinici e dunque non definiti da

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dati strumentali, secondariamente perchè identificano solamente un sottogruppo di pazienti nei quali il dolore è molto più diffuso rispetto ad altri e questi aspetti clinici non rappresentano interamente la popolazione osservata nella pratica clinica (Sarzi-Puttini et al., 2010).

Quanto detto può essere utile a capire che la malattia in questione non è ben definibile e identificabile attraverso chiari elementi; d’altronde, la grande varietà dei sintomi che comporta la fa intrecciare con molte altre patologie, sebbene le uniche caratteristiche che accomunano tutti i casi in cui si manifesta la FM sono certamente un’intensa sofferenza muscolare che tende a peggiorare nel tempo, accompagnata da ipossia (scarsa concentrazione di ossigeno nel tessuto muscolare).

I criteri dell’ACR hanno comunque rappresentato un’evoluzione in campo scientifico e attualmente sono ancora utilizzati nel tentativo di formulare una corretta diagnosi; in particolare, è stata stilata una mappa di 18 tender points, ovvero siti anatomici specifici corrispondenti alle zone di inserzione dei muscoli sull’osso e che se sottoposti a digitopressione provocano una generalizzata condizione di dolore. Infatti, a causa della persistenza di una sintomatologia cronica e dunque difficile da tollerare, si riscontra un impatto assai negativo sulla vita sociale dei pazienti, sulla loro capacità lavorativa e più in generale sulla qualità della loro vita (Fioravanti et al., 2007). Questo tuttora rappresenta un punto di partenza nell’identificare il paziente con FM.

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In occidente si stima che la popolazione colpita da FM sia pari al 2%, interessando le donne (3,4%) ben sei volte in più rispetto agli uomini (0,5%) ( Joseph et al., 2008).

La FM, dunque, è una patologia dall’eziologia complessa e grazie ai tanti studi effettuati, sono state formulate diverse ipotesi a riguardo; a tutt’oggi, si può affermare che i sintomi del paziente fibromialgico, dipendono da un’alterazione della soglia del dolore, in particolare a livello muscolo-scheletrico, per cui stimoli che normalmente non evocano dolore, in questi pazienti vengono percepiti come dolorosi. Si parla dunque, di “iperalgesia”, ovvero aumentata risposta a uno stimolo che normalmente non provoca dolore, secondo la definizione IASP (Association for the Study of Pain) e sicuramente anche “allodinia” ossia dolore dovuto ad uno stimolo che normalmente non provoca dolore (Ghini M., www.fibromyalgia.it). Probabilmente, meccanismi centrali e periferici (del sistema che regola il sintomo del dolore) prendono parte a questo processo di sensibilizzazione responsabile della FM (Sarzi-Puttini et al., 2010).

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1.1.2 Eziopatogenesi

La FM è una patologia cronica ancora oggi diffusa e la sua complessità deriva da un’eziologia sconosciuta e da una patogenesi ancora poco chiara, a tal punto da non poterne definire un giusto profilo terapeutico. In epoca recente, un intenso studio sperimentale è stata destinato alla ricerca dei meccanismi scatenanti la malattia ma, se pur con risultati incoraggianti, non si è potuto giungere a dati concreti che potessero permettere di realizzare una strategia di intervento. Nonostante ciò, si sono potuti ottenere numerosi dati di tipo anatomopatologico, neurochimico ed endocrinologico, a volte addirittura contrastanti tra loro e comunque non definitivi, ma che possono essere utili per definire un percorso eziopatogenetico quanto più esauriente possibile. Innanzitutto, i fattori ambientali sembrerebbero giocare un ruolo fondamentale nel determinare lo sviluppo della patologia e in particolare, alcuni fattori di stress quali traumi fisici (soprattutto quelli che colpiscono il tronco), interventi chirurgici, malattie infettive (HIV, virus di Epstein-Barr, virus di epatite C), stress emozionali, eventi catastrofici, disturbi di natura autoimmune e qualsiasi altra condizione che provochi dolore possono essere implicati nell’origine della FM. È stato dimostrato che ciascuno di questi fattori causa dolore diffuso o FM in una percentuale compresa tra il 5% e il 10% dei soggetti affetti (Clauw DJ et al., 2003; Daoud et al., 2002). Anche quando tale evento apparentemente non si è verificato, un’attenta indagine riesce a documentare comunque un trauma psichico più o meno recente che si

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può dimostrare correlato all’insorgenza della FM (Ghini M., http://www.fibromyalgia.it/patogenesi.htm).

Dunque, la risposta dell’uomo allo stress è stata particolarmente esaminata nei termini di un possibile rapporto causa-effetto e si è riconosciuto che il sistema che la controlla è mediato dal rilascio di due particolari ormoni, la norepinefrina e la corticotropina, anch’essi potenzialmente coinvolti nella genesi della patologia (Di Franco et al., 2010).

Quanto finora detto aiuta a comprendere che i fattori ambientali possono essere determinanti, ma talvolta non sono sufficienti a scatenare la patologia; approfonditi studi hanno dimostrato, infatti, che i fattori genetici possono predisporre gli individui alla FM ed anzi, la presenza di soggetti malati in famiglia deve costituire un campanello d’allarme in quanto potrebbe esserci una eventuale predisposizione genetica. I fattori ambientali, in tal caso, verrebbero a sommarsi ad una condizione già determinata dal punto di vista genetico causando i vari sintomi della patologia (Buskila et al., 1996; Buskila et al., 1997; Arnold et al., 2004).

Secondo quanto riscontrato da uno studio parallelo sulle relazioni tra due condizioni psichiatriche (MDD e GAD, rispettivamente depressione maggiore e sindrome di ansia generalizzata) e patologie somatiche quali FM, sindrome di fatica cronica e mal di testa ricorrenti, le indagini hanno confermato l’influenza di due fattori: uno, di natura prettamente genetica, condiviso dalle patologie psichiatriche (MDD e GAD), l’altro, di natura ambientale, più

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specifico per le affezioni somatiche (Kato et al., 2008). Questo a conferma della costante relazione tra genetica e fattori ambientali.

Nel corso degli anni la conoscenza del sistema nervoso dell’uomo ha avuto un notevole incremento rispetto al passato, ma nonostante questo, risulta essere ancora molto complicato comprendere nel profondo i meccanismi che portano alla genesi di una patologia che ha un origine centrale; secondo un’ipotesi largamente riconosciuta, infatti, le cause scatenanti la FM sembrerebbero affondare le proprie radici nel sistema nervoso centrale e periferico. Nella malattia, i segnali del dolore sono rilevati dalle terminazioni nocicettive periferiche e convogliati verso neuroni situati nei gangli della radice dorsale (DRG); da questi gangli poi, il segnale è dirottato ai neuroni sensoriali localizzati nel midollo spinale della colonna dorsale tramite fibre-C e A-delta (Maletic et al., 2009). La sensibilizzazione periferica che si riscontra nella patologia può verificarsi in conseguenza di alterazioni della connettività sinaptica negli assoni contenuti nei gangli della radice dorsale (generando un aumento della percezione dolorosa) o in seguito a scariche ectopiche; la sensibilizzazione centrale, invece, può essere causata da un danno a carico dei neuroni GABA-inibitori determinando anche in questo caso un potenziamento della trasmissione nocicettiva (Maletic et al., 2009; Freeman et al., 2005).

Nella FM, inoltre, sono state dimostrate e più volte confermate alterazioni di numerosi neurotrasmettitori, a riprova dell’origine centrale della patologia; ad

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esempio, la ridotta concentrazione di serotonina e 5-idrossi-triptofano nel liquor e nel plasma, la ridotta produzione di melatonina o l’aumento di oltre tre volte della concentrazione di sostanza P del liquor sono tutti segnali di variazioni di meccanismi fisiologici nella modulazione del dolore e nella regolazione del sonno che sono alla base della FM.

E' probabile comunque che alcune delle alterazioni dei neurotrasmettitori siano l'effetto di questi meccanismi piuttosto che la causa (fig.1).

Per quanto riguarda le manifestazioni muscolari della malattia (rigidità, dolore diffuso), queste derivano verosimilmente da una sregolazione delle vie simpatiche midollari, secondaria alle alterazioni centrali, che controllano la vascolarizzazione e la contrazione muscolare. Tali meccanismi vengono poi potenziati e mantenuti da numerosi eventi collaterali, tutti orientati verso un mantenimento dello squilibrio neurovegetativo, che complicano lo scenario patogenetico (variazioni climatiche, alterazioni ormonali, ecc.); probabilmente in alcuni pazienti resta comunque fondamentale il meccanismo serotoninergico, mentre in altri, nel tempo, possono prevalere altri meccanismi.

Per quanto concerne la possibilità di un ruolo del sistema nervoso nella patologia, è necessario comunque chiarire che i dati e i risultati ottenuti sono tuttora discordanti, anche se tale ipotesi resta ancora del tutto valida; non a caso infatti, i farmaci che hanno dimostrato maggiore efficacia nella cura

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della malattia sono quelli che agiscono a livello del sistema nervoso centrale (Ghini M., http://www.fibromyalgia.it/patogenesi)

Figura 1. Eziopatogenesi della FM

Sebbene la patogenesi di molti disturbi reumatici sia determinata spesso da una condizione autoimmunitaria, la FM è generalmente considerata una patologia dalla natura non autoimmunitaria. Nonostante ciò, diversi studi hanno cercato di dimostrare la relazione tra la presenza di anticorpi nel siero di pazienti affetti e la patogenesi della FM stessa. Ad esempio, è stato

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verificato che anticorpi quali l’antiganglioside, l’antiserotonina e l’antifosfolipide sono presenti ad un livello superiore rispetto al normale nel siero di pazienti affetti da sindrome da fatica cronica e da FM, evidenziando che queste patologie fanno parte dello stesso ambito clinico ma che possono manifestarsi come disturbi psico-neuro-endocrinologici di natura autoimmunitaria (Klein & Berg et al., 1995). Anche un altro gruppo di studio è stato in grado di confermare la prevalenza di anticorpi contro la serotonina e la tromboplastina, ma a causa dei risultati contrastanti con altri studi si è concluso che i dati non sono sufficienti ad accertare la rilevanza diagnostica degli anticorpi proposti (Werle et al., 2001).

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1.1.3 Diagnosi

I meccanismi alla base della FM sono ancora poco chiari e in parte sconosciuti, e come diretta conseguenza di un’eziopatogenesi a tal punto articolata, anche la diagnosi risulta essere molto difficile. Ancora oggi, per la diagnosi della patologia, si utilizzano i criteri stabiliti dall’American College of Rheumatology (ACR) nel 1990. Il primo criterio è la presenza, da almeno tre mesi, di un dolore muscolo-scheletrico diffuso che interessa i quattro quadranti del corpo sia nella parte superiore che inferiore del lato destro e sinistro del corpo, includendo tra le zone lese anche la colonna vertebrale che può essere considerata il quinto quadrante. La sola percezione del dolore non è sufficiente a diagnosticare la malattia, pertanto in associazione allo stesso, è necessario riscontrare la dolorabilità di almeno 11 dei 18 “Tender Points”, in risposta a digitopressione (fig.2). L’interpretazione dei suddetti criteri è soggetta a critiche: stabilire un limite netto di undici punti potrebbe dare adito a contraddizioni in quanto ogni inserzione tendinea e ogni muscolo sono dolenti nel soggetto fibromialgico e la dolorabilità dei vari tender points potrebbe variare spontaneamente giorno dopo giorno (Sarzi-Puttini et al., 2010). È necessario anche chiarire che nonostante le differenze riscontrate nei diversi studi effettuati, e sebbene i criteri siano stati utilizzati per standardizzare i diversi gruppi di pazienti, la diagnosi della FM è a tutt’oggi essenzialmente clinica (Bazzichi et al., 2010) e la mancanza di metodiche di laboratorio facilmente accessibili, rende pressoché impossibile ricondurre alla

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FM, soggetti che presentano una medesima prognosi e caratteri sintomatici omogenei (Natelson et al., 2009; Clauw et al., 2008).

Figura 2. Visualizzazione dei 18 tender points nel corpo

Fondamentalmente, la difficoltà di riuscire a formulare una specifica diagnosi deriva dal fatto che i sintomi che affliggono i pazienti malati sono molto comuni e quindi simili a quelli che si riscontrano in altri stati patologici come i disturbi reumatici, malattie psichiatriche e anche malattie di origine somatica. I sintomi che maggiormente ricorrono in FM sono diversi, si può

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riscontrare depressione, ansia ma anche dolore intenso, fatica cronica e disturbi del sonno, dunque sintomi assai frequenti ed è per questo e che sarebbe utile cercare di escludere i disturbi reumatici prima di procedere con una diagnosi di FM; inoltre, è stato stimato che sono necessari in media cinque anni dal momento in cui il paziente per la prima volta ha riscontrato sintomi tipici della malattia per poter formulare una corretta diagnosi (Kasper et al., 2009; Millea PJ et al., 2000). La FM non è soltanto una condizione dolorosa e il FIQ test (Fibromyalgia Impact Questionnaire) cui i pazienti sono sottoposti, definisce l’ampio range di sintomi riscontrati comunemente e fornisce buone indicazioni sull’impatto che questa patologia ha sulla vita degli stessi (Kasper, 2009).

Attualmente, non sono stati segnalati specifici markers per la FM, e gran parte di questi vengono utilizzati unicamente per scoprire i meccanismi patogenetici della malattia; la speranza per il futuro è quella di riconoscere quanto prima dei marcatori biologici che in accordo con la riproducibilità dei criteri possano essere fondamentali per formulare una pronta diagnosi e stabilire un giusto profilo terapeutico (Bazzichi et al., 2010).

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1.1.4 Terapia Farmacologica

La FM è una patologia fortemente dolorosa che inevitabilmente viene a condizionare la quotidianità dei pazienti avendo un impatto assai negativo nella loro capacità lavorativa, nella vita di famiglia e più in generale nella qualità della vita. In quanto tale deve essere curata, ma a causa della sua eziologia sconosciuta e della patogenesi poco chiara non c’è un regime terapeutico standard e questo lo dimostra il fatto che vengono spesso applicate cure farmacologiche in combinazione a trattamenti terapeutici non farmacologici ai quali, ormai molto spesso, i pazienti fibromialgici ricorrono a causa di uno scarso impatto dei farmaci nel decorso della malattia (Millea and Holloway, 2000 ).

Per ciò che concerne la terapia farmacologica, è necessario fare uso di farmaci che siano in grado di correggere i deficit alla base della malattia e in particolare si parla dei deficit di serotonina; attualmente, è possibile distinguere fondamentalmente due classi di farmaci utilizzati per il trattamento di tale patologia: i farmaci miorilassanti, che agiscono sulla manifestazione “periferica” della FM e dunque sulla contrattura muscolare, e i farmaci che potenziano l’attività della serotonina che agiscono invece su uno dei meccanismi “centrali” della patologia. Generalmente questi farmaci vengono associati nello stesso paziente.

Tra i tanti miorilassanti, quelli che hanno dimostrato maggiori effetti sono la ciclobenzaprina e la tizanidina mentre per i farmaci che potenziano l’attività

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della serotonina, la maggior parte risulta essere classificata tra gli antidepressivi, considerando che la serotonina stessa è implicata nella genesi di alcune forme di depressione. I primi farmaci ad essere utilizzati con questo scopo sono stati i “triciclici” quali l’amitriptilina e il trazodone, ma attualmente si preferisce ricorrere ad una nuova generazione di antidepressivi, ossia gli inibitori del re-uptake della serotonina e tra questi citiamo la fluoxetina, la paroxetina, la sertralina e il citalopram. Inoltre, sono stati sviluppati farmaci in grado di agire aumentando l’attività di molteplici neurotrasmettori quali serotonina, noradrenalina e dopamina; attualmente sono in commercio in Italia due di questi preparati, la venlaflaxina e la duloxetina. Nella cura della FM sono utilizzati anche alcuni farmaci antiepilettici anche se con risultati variabili: il più noto è il gabapentin, del quale però è stato recentemente commercializzato un derivato più efficace e meglio tollerato, il pregabalin. (Ghini M., http://www.fibromyalgia.it).

Per quanto concerne, invece, il ruolo degli oppioidi nel controllo e nella cura del dolore cronico a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, si riscontra ancora una sostanziale incertezza riguardo al loro impiego per la scarsa conoscenza del meccanismo di azione degli analgesici di origine oppioide sui recettori che mediano la persistenza del dolore cronico nella patologia. Come riflesso di un quadro clinico poco chiaro, alcuni reumatologi sono riluttanti alla prescrizione di questa particolare categoria di farmaci; questo lo si deve anche ai rischi connessi all’uso degli analgesici che sono passibili di

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dipendenza e abuso a causa dell’assuefazione che da essi deriva. Dunque, comprendere al meglio i rischi e i benefici connessi all’assunzione di analgesici di natura oppioide è estremamente importante per rendere la terapia sicura e quanto più specifica possibile per ciascun paziente (ACR, 2010).

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1.1.5 Terapia Non-farmacologica

Tenendo in considerazione che molto spesso la terapia farmacologica nella FM non ha gli effetti sperati, a causa della cronicità della malattia e degli effetti collaterali dei farmaci impiegati, inevitabilmente, i soggetti malati spesso ricorrono a trattamenti di natura non-farmacologica. Le attuali strategie terapeutiche sono rivolte essenzialmente a ridurre il dolore e tutti gli altri sintomi che la patologia comporta (disturbi del sonno, ansia, depressione ecc.). Negli ultimi anni è stato approfondito lo studio inerente la medicina alternativa e complementare come possibile soluzione curativa o quanto meno, possibile sollievo per tutti quei pazienti che a causa di sintomi debilitanti hanno visto la loro quotidianità fortemente condizionata.

Con il termine “medicina alternativa” si fa riferimento a qualsiasi pratica che non ricade nell’alveo della medicina scientifica convenzionale e che include una variegata serie di pratiche di cui non è stata dimostrata l’efficacia; d’altro canto, il termine “medicina complementare” è per lo più utilizzato per descrivere quelle pratiche che sono usate in congiunzione o come complemento di terapie tradizionali.

Dunque, per quel che concerne la cura della FM, il panorama terapeutico offre oggi una vasta gamma di trattamenti diversi e dall’origine non omogenea: parliamo certamente di esercizi fisici mirati (è dimostrato che un allenamento aerobico migliori la condizione psico-fisica e diversi altri parametri fisiologici nei pazienti), di massaggi terapeutici, di terapie fisiche, di agopuntura, di

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manipolazione osteopatica (chiropratica), dell’educazione terapeutica del paziente e addirittura anche di terapie cognitivo-comportamentali (Fioravanti et al., 2007). Si tratta ovviamente di pratiche specifiche che non godono di una comprovata efficacia ma che potrebbero essere comunque d’aiuto per controllare l’evoluzione della patologia.

Nel contesto della medicina complementare, la terapia termale rappresenta notoriamente una delle strategie terapeutiche più riconosciute per il trattamento dei disturbi reumatici; tuttavia, nonostante la lunga storia e popolarità, sono stati effettuati solo pochi studi controllati e randomizzati che dimostrano il loro effetto sui pazienti affetti da FM (Fioravanti et al., 2007). Dunque, la cura termale viene spesso messa in discussione e il suo ruolo nella medicina moderna non è ancora del tutto chiaro. Riguardo i trattamenti termali, la balneoterapia e la balneo-fangoterapia sono le metodiche più utilizzate e diversi studi sono rivolti a comprendere i meccanismi fisiologici che questi trattamenti determinano nei soggetti fibromialgici; ciò che rende più complessa la questione delle terapie termali risulta essere la difficoltà nel distinguere se gli eventuali benefici riscontrati nei pazienti siano dovuti realmente al trattamento o più semplicemente siano attribuibili al giovamento psicologico che essi ricevono dal soggiorno nelle terme (Fioravanti et al., 2007).

Negli ultimi anni, gli studi riguardanti gli effetti della balneoterapia sono aumentanti rispetto al passato, segno che l’interesse scientifico per la FM si è

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fortemente incrementato; nello specifico, sono state formulate diverse ipotesi sull’effetto benefico delle terme e in particolare una tra queste sembra spiccare sulle altre: oggigiorno, si ritiene infatti che alla base del dolore e dei diversi sintomi della FM ci sia uno stato infiammatorio molto intenso, fattore questo che ha permesso di focalizzare l’attenzione sull’infiammazione e sul rilascio di tutti quei mediatori coinvolti nella risposta infiammatoria. Grazie ad una sperimentazione mirata, già dal 1988 è stato possibile riscontrare un incremento nel fluido spinale dei soggetti fibromialgici dei livelli di uno dei più importanti mediatori infiammatori, la “Sostanza P” (SP) (Vaerøy et al.,1988).

In epoche più recenti invece, altri studi hanno considerato la possibilità che le citochine fossero coinvolte nella genesi dello stato patologico; questa ipotesi straordinaria è basata sul presupposto che mediatori quali le interleuchine “IL-6” e “IL-8” , il cui rilascio è causato dalla Sostanza P, sembrerebbero avere un ruolo importante nel generare i sintomi della FM, dal momento che l’IL-8 promuove il dolore per via simpatica mentre l’IL-6 è associata a ipersensibilità al dolore, fatica e depressione. È dimostrato, infatti, che la condizione di depressione maggiore, ad esempio, sia accompagnata dall’attivazione della risposta infiammatoria con un conseguente rilascio delle citochine pro-infiammatorie sopra citate; e dunque, i pazienti fibromialgici sono trattati con antidepressivi che hanno proprio l’obbiettivo di sopprimere la produzione di IL-8 e IL-6 in quanto promotori dell’infiammazione e

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favorire così il rilascio di citochine anti-infiammatorie come l’IL-10 (Ortega et al.,2009; Van West et al.,2001).

Il profilo delle citochine pro- e anti-infiammatorie ha attirato una notevole attenzione in ambito scientifico, e non a caso si sta cercando di identificare le citochine come possibili markers infiammatori della FM. Oltre ad elevati livelli di IL-8, nei soggetti malati sono stati riscontrati anche alti valori di TNFα che sembrerebbe essere un altro fattore molto importante nel processo infiammatorio alla base della FM (Bazzichi et al., 2007; Wang et al., 2008). Una misura dell’effetto anti-infiammatorio della balneoterapia può essere valutato sulla base dei livelli di alcuni fattori biochimici nel siero dei pazienti trattati; è dimostrato che nell’artrosi trattamenti quali i bagni di fango possano ridurre i livelli serici di IL-1, che altro non è che una citochina potenzialmente coinvolta nel processo infiammatorio. La balneo-fango terapia sembrerebbe avere un effetto positivo anche su fattori pro-infiammatori particolarmente coinvolti nella genesi del dolore, riducendone ancora una volta i livelli serici, parliamo a tal proposito di prostaglandine PGE2 e leucotrieni LTB4. (Ardiç et

al.,2007).

L’α1-antitripsina (AAT) è una proteina con attività inibitoria delle proteasi

abbondante nel siero umano; diversi studi hanno dimostrato che l’AAT è in grado di inibire l’elastasi neutrofila (NE) impedendo così la degradazione dell’elastina, componente principale del tessuto connettivo. Inoltre, la sua

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attività permette di neutralizzare le citochine pro-infiammatorie IL-8 e LTB4

(Blanco et al., 2005).

Recentemente, uno studio mirato sugli effetti dell’α1-antitripsina su due donne

affette da FM, ha mostrato una possibile relazione tra la carenza di AAT e la patologia stessa, si è osservato infatti che una terapia volta ad aumentare i livelli di AAT riusciva a controllare efficacemente i sintomi della FM (Blanco et al., 2005).

Le terapie non-farmacologiche sono certamente delle pratiche dall’efficacia non comprovata che tuttavia sono ancora oggi molto sfruttate per i benefici che possono procurare; nonostante ciò, un’intensa sperimentazione è ancora in atto per cercare di comprendere i meccanismi che generano la FM e quale impatto i diversi profili terapeutici hanno su di essa.

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1.2 La saliva

Le procedure diagnostiche di laboratorio più utilizzate sono incentrate per lo più sull’analisi delle componenti cellulari e chimiche del sangue ma attualmente l’attenzione si è spostata anche su altri fluidi biologici che offrono vantaggi non trascurabili dal punto di vista sperimentale (Kaufman et al., 2002); a tal proposito, si può certamente focalizzare l’attenzione sulla saliva, la quale ben si presta all’analisi per differenti aspetti: innanzitutto, bisogna considerare che la raccolta dei campioni avviene in modo non invasivo e può essere effettuata anche da personale con preparazione limitata e senza particolari attrezzature; inoltre, fattore molto importante, la raccolta del materiale comporta meno problemi se paragonata a prelievi di altri fluidi biologici, come il sangue ad esempio, che richiedono procedure invasive molto poco gradite a pazienti non collaboranti quali anziani, bambini e soggetti infermi mentalmente. Per quanto riguarda l’eventualità di uno screening di grandi popolazioni, la raccolta di saliva offre, inoltre, la possibilità di ridurre fortemente i costi, fattore questo che rappresenta un indubbio vantaggio.

La saliva è costituita per il 90% dai fluidi secreti dalle ghiandole salivari maggiori (parotidi, sottomandibolari, sottolinguali) e minori (si trovano nel labbro inferiore, lingua, palato, guance e faringe) e per un 10% è rappresentata dal fluido gengivale crevicolare (Hirtz et al., 2005; Humphrey et al., 2001). La sua composizione vede essenzialmente la presenza di acqua

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(99%) che contiene elettroliti, proteine, enzimi, mucine, immunoglobuline e composti azotati come l’urea (Humphrey et al., 2001; Vitorino et al., 2004). L’importanza fisiologica della saliva è giustificata dalle diverse funzioni che essa svolge all’interno dell’organismo umano (Humphrey et al., 2001; Vitorino et al., 2004; Wilmarth et al., 2004); è importante chiarire, ad esempio, che il fluido salivare è in grado di lubrificare i tessuti orali facilitando il linguaggio, la deglutizione e l’ingestione di cibi (mucine, acqua), nonché garantire la pulizia del cavo orale. La saliva, inoltre, ha il compito di mantenere l’omeostasi nella cavità orale attraverso i tamponi fosfato e carbonato, rimineralizzare i denti con calcio e fosfato e soprattutto proteggere la superficie di denti e mucose attraverso un’azione antimicrobica svolta da diverse componenti quali immunoglobuline, cistatine, lactoferrina, lisozima e istatine; non va dimenticato, tra le tante funzioni svolte, che la saliva è anche in grado di avviare la digestione degli amidi grazie all’amilasi salivare.

La raccolta di saliva direttamente dalle ghiandole che la producono può essere utile per individuare alcune patologie specifiche delle ghiandole mentre per la diagnosi di diverse malattie sistemiche viene frequentemente prelevata la saliva presente nel cavo orale e questo unicamente perché contiene alcuni costituenti del siero che raggiungono le ghiandole salivari attraverso una via intracellulare (diffusione passiva) o attraverso una via extracellulare (ultrafiltrazione attraverso le giunzioni strette tra le cellule) (Kaufman et al.,

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2002). Inoltre, i componenti del siero possono raggiungere la saliva anche attraverso il flusso del fluido gengivale.

Certamente i livelli di certi costituenti serici nella saliva non sono sempre un riflesso dei livelli di questi markers nel siero, ma c’è un crescente interesse nell’uso della saliva per scopi diagnostici, soprattutto nel caso di malattie sistemiche (ereditarie, autoimmuni, infettive) e malattie virali, ed anche per monitorare i livelli di farmaci, sostanze d’abuso ed ormoni (Kaufman et al., 2002).

Nello studio della saliva, risulta essere di una certa importanza l’identificazione delle componenti proteiche del campione mediante analisi proteomica; nello specifico infatti, mettere a confronto pazienti sani con pazienti malati potrebbe evidenziare unici o incrementali livelli di proteine che possono poi essere utilizzati come possibili “biomarkers”. Nella pratica si vengono in questo modo a valutare gli effettivi cambiamenti dei profili delle proteine che incorrono nella patologia nel corso di un tempo ben definito, e dunque partendo da queste mappature riuscire a identificare eventuali marcatori biologici utili, sia dal punto di vista diagnostico che dal punto di vista prognostico, per controllare l’evoluzione della patologia nei pazienti.

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1.3 La Proteomica

Il termine “proteoma” viene usato per indicare tutte le proteine espresse da un genoma; detto ciò, la proteomica può essere definita come lo studio di tutte le proteine espresse in un dato organismo, tessuto o cellula (Choudhary et al., 2004)

In origine, lo studio della proteomica si è basato sull’identificazione delle proteine e sulle differenze tra coppie di campioni derivati da diversi tessuti o condizioni; tuttavia col passare del tempo e con l’evoluzione delle tecnologie messe a disposizione, si è spinta a definire gli aspetti strutturali e funzionali delle proteine su larga scala. Infatti, l’analisi diretta delle proteine di una cellula offre indubbi vantaggi rispetto al comune approccio genomico, dato che gli studi genomici non forniscono informazioni precise sui livelli di proteine della cellula; inoltre, non possono rilevare le eventuali modificazioni post-traduzionali che determinano le funzioni delle proteine e che risultano particolarmente importanti nella traduzione del segnale (Godovac et al., 1999; Imam-Sghiouar et al., 2002).

Dunque, sarebbe un errore definire il proteoma come un’entità statica considerando che, talvolta, le cellule di un medesimo organo esprimono proteine differenti e che questo stesso tipo di cellule anche al variare delle condizioni fisiologiche (età, malattia, ambiente) potrebbe esprimere diversi tipi di proteine (Choudhary et al., 2004).

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La tecnologia attualmente più utilizzata nell’ambito della proteomica è sicuramente la “spettrometria di massa” (MS), la quale viene spesso accoppiata a metodi di separazione delle proteine (Phizicky et al., 2003); sebbene il panorama delle tecnologie proteomiche a disposizione sia vasto, certamente la MS rappresenta la tecnica più sensibile e versatile per lo studio delle proteine e viene utilizzata per quantificare le proteine e per determinare sequenza, massa e informazioni strutturali (Pandev et al., 2000). La combinazione della MS, per l’identificazione proteica, con l’elettroforesi bidimensionale (2-DE), come tecnica separativa ad alto potere risolutivo, è il metodo classico e più utilizzato (Herbert et al., 2001).

Lo sviluppo di nuove tecniche di spettrometria di massa e la disponibilità di sequenze genomiche, ha garantito negli ultimi anni un crescente interesse da parte del mondo scientifico verso la proteomica e non a caso, infatti, è al momento sfruttata come un moderno mezzo nella scoperta di farmaci, per la

determinazione di processi biochimici implicati nelle malattie, per monitorare processi cellulari, per ricercare differenze tra fluidi biologici o cellule di soggetti sani e malati e per identificare markers di una malattia.

Nell’ambito della proteomica è possibile riconoscere due principali aree di interesse: la “proteomica funzionale” e “la proteomica profiling”; quest’ultima fornisce la descrizione dell’intero proteoma di una cellula, di un tessuto o di un organismo mentre la prima focalizza l’attenzione sull’attività e sulle interazioni delle proteine e dunque sulla presenza di modicazioni

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post-traduzionali al fine di approfondire i meccanismi della cellula. Sebbene sia un metodo volto a identificare specifiche proteine di una cellula, tessuto o organo, lo scopo fondamentale della proteomica funzionale non è quello di caratterizzare ogni proteina del campione ma solo quel piccolo numero di proteine che sono implicate nella questione biologica in esame.

Più in generale, le metodiche di proteomica funzionale risultano essere adatte per effettuare studi di varia natura quali, ad esempio, il monitoraggio delle vie di trasduzione del segnale e soprattutto sono utili per lo sviluppo di nuovi farmaci, rendendo possibile il monitoraggio di eventuali cambiamenti nel pattern proteico di cellule, tessuti o organismi in seguito a trattamenti farmacologici e la scoperta di nuove proteine chiave in determinate patologie, come target per nuovi farmaci o biomarkers per la diagnosi di malattie. Un’altra metodica importante sotto questo punto di vista è considerata la “proteome mining” che è finalizzata all’identificazione delle interazioni farmaco-proteina altamente selettive; di fatto, consiste di uno screening di una vasta gamma di composti chimici contro un proteoma e fornisce utili informazioni sulla specificità di suddetti composti verso le proteine target. Eventuali cambiamenti nei profili delle proteine possono essere poi individuati attraverso la metodica dell’elettroforesi bidimensionale grazie alla quale si potranno valutare eventuali alterazioni nei livelli di espressione, nella fosforilazione e nelle modificazioni post traduzionali.

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Per poter ottenere, infine, tutte le ulteriori informazioni sulle proteine di interesse è possibile venire ad identificare gli spots con le metodiche di spettrometria di massa.

(30)

C

APITOLO

2

S

COPO DELLA

T

ESI

Lo scopo del nostro studio, ancora in fase preliminare, è quello di usare un approccio proteomico per confrontare i patterns di proteine presenti nella saliva di pazienti affetti da FM, con quello salivare degli stessi pazienti in seguito a trattamento termale. Per lo studio abbiamo scelto di analizzare il proteoma salivare attraverso l’elettroforesi bidimensionale. In particolare, abbiamo voluto valutare se due diverse tipologie di trattamento termale e diversi tempi di esposizione dei pazienti a tali trattamenti, possono incidere in maniera diversa sui profili di espressione delle proteine di pazienti fibromialgici (T0). I risultati preliminari riportati in questa tesi, sono relativi ad un più ampio progetto di ricerca (FoRST), articolato su due anni che prevede il reclutamento di 40 pazienti fibromialgici.

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C

APITOLO

3 – M

ATERIALI E

M

ETODI

3.1 reclutamento dei pazienti

Nello studio sono stati compresi 20 pazienti affetti da FM (FM) opportunamente selezionati dalla Clinica Reumatologica dell’Università degli Studi di Pisa (Dott.ssa Bazzichi L., Prof.re Bombardieri S.) nell’ambito del progetto di ricerca “FoRST”.

I 20 pazienti sono donne con età media 51.9±8.5 anni (M±SD); la diagnosi è stata formulata in accordo con i criteri stabiliti nel 1990 dall’ American College of Rheumatology (ACR), che includono: dolore diffuso per più di 3 mesi, dolore scheletrico e dolore in seguito alla digitopressione di almeno 11 dei 18 tender points.

I pazienti sono stati suddivisi casualmente in due gruppi:

Gruppo 1 (n=10) sottoposti a balneoterapia per 20 min al giorno. Gruppo 2 (n=10) sottoposti a fango terapia per 20 min al giorno.

I fanghi applicati sul corpo ad una temperatura di 47°C per 20 min la mattina, sono seguiti da immersione in acqua termale a 38 °C per 20 min. Alla balneoterapia è seguito per entrambi i gruppi un periodo di attesa in accappatoio caldo.

I pazienti che hanno partecipato allo studio, hanno effettuato il loro trattamento termale per 2 settimane (per un totale di 12 sessioni) presso

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I pazienti sono stati valutati dal punto di vista reumatologico e psichiatrico prima (T0), subito alla fine (T1) e tre mesi dopo (T2) il programma termale. La valutazione clinica di ciascun paziente ai tre tempi include:

Tests specifici di valutazione per FM:  Fibromyalgia Impact Questionnaire (FIQ)

 La sensibilità a livello dei tender points è valutata in ciascun soggetto mediante digitopressione

 Visual analogue scale (VAS) per sintomi minori nella FM (fatica, disturbi del sonno, mal di testa, rigidità al mattino, sintomi gastro-intestinali e altri sintomi); 0 indica l’assenza di sintomi mentre 10 la peggiore condizione.

 Functional Assessment of Chronic Illness Therapy-Fatigue (FACIT fatigue) Scale (version 4)

Valutazione di altri parametri:

 Health Assessment questionnaire (HAQ) per determinare la disabilità fisica

 Pittsburgh Sleep Quality Index questionnaire (PSQI) per determinare qualità e disturbi del sonno

 SF-36 questionnaire (Short Form with 36 questions), a well-documented, self-administered quality of life (QoL) scoring system

Valutazione degli aspetti Psichiatrici:

 Structured Clinical Interview (SCID) for DSM-IV

 Experiences in Close Relationships (ECR)

 Questionario della gelosia (QUEGE)

Per l’intero periodo dello studio, i pazienti sono stati invitati a non modificare il loro trattamento farmacologico e non è stato loro permesso l’uso di altri farmaci. La storia clinica di ciascun paziente è stata attentamente valutata e sono state effettuate analisi complete del sangue: sono stati esclusi dallo

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studio tutti quei pazienti che prensentavano infezioni da Epatite B e/o Epatite C. Sono stati anche esclusi gli affetti dalla forma secondaria di FM o da ogni altra malattia sistemica. Alla fine, ciascun paziente fibromialgico ha avuto una valutazione psichiatrica per stimare la concomitanza di disturbi psichiatrici. Ciascun soggetto ha firmato un consenso informativo relativo alle finalità dello studio approvato dal Comitato Etico Locale dell’Università di Pisa.

3.2 Raccolta dei campioni

I campioni di saliva dei soggetti sono raccolti tramite sputo, senza stimolazione chimica, al mattino e a digiuno. La saliva è stata raccolta ai tre tempi (T0, T1 e T2) la mattina tra le ore 8 e le ore 10 in condizioni standard; a tutti i soggetti è stato chiesto di essere a stomaco vuoto dalla sera precedente. Per minimizzare la degradazione proteica, i campioni sono sempre mantenuti in ghiaccio e trattati immediatamente. Da ogni soggetto sono stati ottenuti 1-2,5 ml di saliva che vengono centrifugati a 14000 g per 20 minuti a 4°C per rimuovere materiale insolubile e cellule. I risultanti sovranatanti sono sottoposti al dosaggio proteico (metodo DC/Biorad) .

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3.3 Dosaggio proteico DC/Biorad

Il DC protein assay è un dosaggio colorimetrico basato come principio sul saggio di Lowry. Il dosaggio è basato sulla reazione delle proteine con una soluzione alcalina di tartrato di rame e con il reagente Folin.

La curva di riferimento dovrà essere preparata utilizzando la proteina standard albumina bovina (BSA), risospesa in acqua milliQ.

Vengono preparate cinque concentrazioni (con un volume di 20 µl) di proteina standard (0,3-0,6-1,2-1,8-2 mg/ml ) che abbracciano l’intervallo di sensibilità del metodo (Tab.1).

Per il dosaggio proteico del campione incognito si procede con una diluizione 1:4 dello stesso con acqua per avere 20 µl di volume finale. Il dosaggio viene effettuato in doppio, a temperatura ambiente. Agli standards ed al campione sono aggiunti 100 µl di soluzione A*, si vortexa, quindi si aggiungono 800 µl della soluzione B, si vortexa e si attendono 30 minuti prima di leggere a 750 nm l’assorbanza.

Tabella Tabella Tabella Tabella 1111 .... Diluizioni della BSA per la retta di taratura.

HHHH2222O milliQO milliQ O milliQO milliQ BSABSABSABSA ConcentrazioneConcentrazione µg BSAConcentrazioneConcentrazione µg BSAµg BSAµg BSA

Bianco Bianco Bianco Bianco 20 µl20 µl20 µl20 µl ---- 0 µg/µl0 µg/µl 0 µg/µl0 µg/µl 0 µg0 µg0 µg0 µg 1 11 1 17 µl17 µl17 µl17 µl 3 µl3 µl3 µl3 µl 0,3 µg/µl0,3 µg/µl 0,3 µg/µl0,3 µg/µl 6 µg6 µg6 µg6 µg 2 22 2 14 µl14 µl14 µl14 µl 6 µl6 µl6 µl6 µl 0,6 µg/µl0,6 µg/µl 0,6 µg/µl0,6 µg/µl 12 µg12 µg12 µg12 µg 3 33 3 8 µl8 µl8 µl 8 µl 12 µl12 µl 12 µl12 µl 1,2 µg/µl1,2 µg/µl 1,2 µg/µl1,2 µg/µl 24 µg24 µg24 µg24 µg 4 44 4 2 µ2 µ2 µllll 2 µ 18 µl18 µl 18 µl18 µl 1,8 µg/µl1,8 µg/µl 1,8 µg/µl1,8 µg/µl 36 µg36 µg36 µg36 µg 5 55 5 ---- 20 µl20 µl20 µl20 µl 2 µg/µl2 µg/µl 2 µg/µl2 µg/µl 40 µg40 µg40 µg40 µg

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Dalle letture di assorbanza ottenute con concentrazioni note di proteina

standard si costruisce una retta di taratura nell’intervallo di sensibilità da 5 µg a 37,5 µg: y=Ax (A=assorbanza)

e dall’equazione della retta si procede al calcolo della concentrazione proteica per il campione incognito.

3.4 Preparazione del campione

I campioni sono stati suddivisi in 2 gruppi sulla base del trattamento termale effettuato, per costituire il pool della Balneoterapia e quello della Balneo-fango terapia ai tre tempi (T0, T1, T2) da 600µg ciascuno.

In base alla concentrazione proteica dei pool vengono fatte aliquote contenenti 200µg di proteine e si arriva ad un volume finale di 400 µl con la soluzione di reidratazione.

La soluzione di reidratazione contiene:

 Urea 7M – Tiourea 2M: servono per solubilizzare e denaturare le

proteine così che siano presenti in una sola configurazione;

 Chaps 4%: è un detergente non ionico che permette di solubilizzare le

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 Ditiotreitolo (DTT) 60mM: agente riducente, serve per rompere ogni ponte disolfuro e permettere alle proteine di distendersi completamente;

 Blu di Bromofenolo 0,002%: per seguire la corsa, se il tracciante non

migra all’anodo non c’è flusso di corrente;

 IPG Buffer pH3-10 1.2%: aumentano la solubilità delle proteine

minimizzando la loro aggregazione dovuta ad interazioni carica-carica.

I campioni devono rimanere in tale soluzione 30 minuti, a temperatura ambiente, per ottenere una completa denaturazione e solubilizzazione. A questo punto i campioni possono essere utilizzati per la prima dimensione o congelati a -80°C ma in tal caso l’IPG Buffer pH3-10 sono omessi e si addizioneranno al momento della prima dimensione.

3.5 Isoelettrofocalizzazione

La prima dimensione è effettuata su strip di 18 cm in cui è presente un gradiente lineare di pH 3-10 (Amersham Biosciences).

I 400µl di campione, corrispondenti a 200µg di proteine, vengono caricati nell’IPG Reswelling Tray (Fig.3), si pone sopra l’IPG strip e la si lascia idratare overnight.

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FigFigura FigFigura ura ura 3333.... IPG Reswelling Tray.

Come supporto per la prima dimensione è utilizzato il manifold (Fig.4), in materiale di ceramica d’ossido di alluminio che permette di sottoporre alla corsa fino a 12 strip

contemporaneamente. Fig FigFig

Figura ura ura ura 4444.... Manifold.

Terminata la fase di reidratazione le strip devono essere trasferite nel manifold.

Si misurano 100ml di IPG Cover Fluid che minimizza l’evaporazione e la cristallizzazione dell’urea, in modo da riempire tutti i canali del manifold, quindi vi si immergono le strip con la superficie del gel rivolta verso l’alto. Su entrambi i poli, anodo e catodo, si inseriscono gli electrode pads di carta per

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IEF previamente bagnati con H2O MilliQ. I pads assorbono l’eccesso di

acqua e sali preservando gli elettrodi dalla precipitazione degli ioni.

Si fissano gli elettrodi sopra i pads assicurandosi che aderiscano anche alle strip sottostanti e si avvia il programma per l’IEF del campione.

Per la prima dimensione si usa l’Apparecchio IPGphor (Amersham Biosciences) (Fig.5), che permette di impostare tempi e voltaggio secondo il seguente programma (Tab.2).

I Step 2:30 h V=200 II Step 1 :00 h V=300 III Grad 3:00 h V=3500 IV Step 0:10 h V=5000 V Step 8:30 h V=8000

Figura 5. Ettan IPGphor Isoeletric

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3.6 Equilibratura strip

Prima di effettuare la seconda dimensione la strip viene equilibrata incubandola, in successione, con:

1) 10 ml di SDS Equilibration Buffer + DTT 1% per 15 minuti in agitazione a temperatura ambiente;

2) 10 ml di SDS Equilibration Buffer + IAA 2,5% per 15 minuti in agitazione a temperatura ambiente;

L’SDS equilibration buffer contiene:

 Tampone equilibrante (Tris-HCl 50 mM pH 8,8): per mantenere le strip

in un range di pH appropriato per l’elettroforesi;

 Urea (6 M)Glicerolo (30%): per ridurre l’elettroendoosmosi e migliorare

il trasferimento delle proteine alla seconda dimensione. L’elettroendoosmosi è dovuta alla presenza di cariche fisse sulla strip all’interno di un campo elettrico e può interferire con il trasferimento delle proteine dalla strip al gel della seconda dimensione;

 Sodio dodecil solfato (2%): denatura le proteine e forma complessi

proteine-SDS carichi negativamente. La quantità di SDS legato ad una proteina, e quindi la carica negativa, è direttamente proporzionale alla massa della proteina, in questo modo l’elettroforesi separerà le proteine in base al loro peso molecolare;

 Blu di Bromofenolo (0,002%): usato come agente tracciante per seguire

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 Ditiotreitolo (1%): agente riducente per preservare lo stato ridotto delle proteine;

 Iodoacetammide (2,5%; al 2° lavaggio): per alchilare i gruppi tiolici

delle proteine e prevenirne la riossidazione durante l’elettroforesi.

3.7 Seconda dimensione

La strip viene posta sopra un gel di poliacrilammide 12,5% (20cm×20cm×1,5mm), facendo bene attenzione che aderisca in tutta la sua lunghezza al gel, e bloccata con una soluzione di agarosio 0.1% in Running Buffer.

L’elettroforesi è effettuata in due step: per i primi 60 minuti si impostano 96 mA aumentando poi la corrente a 192 mA finché il fronte della corsa, visualizzato tramite il Blu di Bromofenolo, esce dal fondo di corsa (circa 15:30 ore).

Per la corsa elettroforetica si utilizza il RUNNING BUFFER 10X (Tris-base 25mM, Glicina 192 mM, SDS 0.1%) diluito 1:10; la diluizione viene fatta il

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giorno precedente per mantenere il tampone a 4°C e poterlo utilizzare freddo (Fig.6).

Figura 6. Protean plus Dodeca cell Biorad

3.8 Preparazione dei gel 12,5% nel multicasting

Al fine di minimizzare la variabilità sperimentale e quindi aumentare la riproducibilità, i gels di acrilammide (12,5%) vengono preparati contemporaneamente (fino a 12 gels-Tab.3) utilizzando l’apparecchio Multicasting della Biorad e la corsa è condotta su di un apparecchio Protean plus Dodeca cell Biorad in grado di ospitare e far correre contemporaneamente fino a 12 gels in condizioni termostatate (circa 15°C).

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Tabella 3. Volumi per 12 gels di acrilammide al 12,5%.

3.9 Colorazione dei gel

I gels bidimensionali così ottenuti sono stati colorati utilizzando una colorazione al ruthenium II tris (bathophenanthroline disulfonate) tetrasodium (Sunatech Inc.) (fig.7). Il RuPB è un colorante sensibile, lineare, stabile nel tempo e compatibile con la spettrometria di massa.

Figura 7. struttura molecolare del rutenio (RuPB)

12 gels H2O milliQ 313.3 ml Tampone Tris 1.5M pH8.8 245 ml Acrilammide/bis-acrilammide 30% 407 ml Ammonio persolfato 10% 9.8 ml Temed 490 µl

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Alla fine della seconda dimensione, il gel viene rimosso dai vetri ed è lasciato per 1 ora in una soluzione di fissaggio 1% acido fosforico e 30%etanolo. Successivamente incubiamo tutta la notte i gel in una soluzione contenente 1µM di RuBP, 1% acido fosforico e 30% di etanolo. Il giorno successivo decoloriamo i gel per 5 ore con una soluzione 1% acido fosforico e 30% di etanolo (Rabilloud et al, 2001). Tutti gli steps della colorazione sono condotti a temperatura ambiente e sotto agitazione.

Alla fine facciamo un lavaggio con H2O per 10 minuti e siamo pronti per

l’acquisizione dei gel con lo strumento “ImageQuant LAS4010” (GE-Healthcare). L’analisi dei gel è stata effettuata con il software “Progenesis SameSpot (Nonlinear - Dynamics)”.

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C

APITOLO

4 – R

ISULTATI E

D

ISCUSSIONE

L’FM è una malattia reumatica extra-articolare con sintomatologia dolorosa cronica, caratterizzata da una generalizzata condizione di dolore evidenziabile ad un esame fisico in risposta a digitopressione di siti anatomici specifici, definiti tender points (ACR 1990). Può essere di natura primaria o in associazione con altre patologie autoimmuni, quali la fatica cronica, l’artrite reumatoide, la tiroidite autoimmune (Buskila and Sarzi-Puttini, 2008). Tale patologia è caratterizzata da un ampio spettro di sintomi aspecifici, quali il disturbo del sonno, la depressione, l’ansia (Arnold et al., 2008), disfunzioni sessuali, ma anche disturbi come la sindrome del colon irritabile. La persistenza di una sintomatologia cronica e dunque difficile da tollerare comporta un impatto assai negativo della FM sulla vita sociale dei pazienti, sulla loro capacità lavorativa e più in generale sulla qualità della loro vita (Fioravanti et al., 2007). Per questo spesso sono applicate cure farmacologiche in combinazione a trattamenti terapeutici non farmacologici ai quali, ormai molto spesso, i pazienti fibromialgici ricorrono a causa di uno scarso impatto dei farmaci nel decorso della malattia (Millea and Holloway, 2000 ).

L’FM è una patologia multifattoriale e la sua diagnosi è a tutt’oggi essenzialmente clinica, poiché la mancanza di metodiche di laboratorio facilmente accessibili, rende pressoché impossibile ricondurre alla FM,

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soggetti che presentano una medesima prognosi e caratteri sintomatici omogenei (Natelson et al., 2009; Clauw et al., 2008). Negli ultimi anni sono stati fatti diversi tentativi per identificare specifici markers biologici nella FM, ma ancora non è stata provata la validità di alcun test diagnostico. Recentemente, il nostro gruppo ha utilizzato l’approccio proteomico sulla saliva di pazienti fibromialgici rispetto a quella di soggetti sani e sono state identificate una serie di proteine differenzialmente espresse, alcune coinvolte nel metabolismo, quali Transaldolasi e Fosfoglicerato Mutasi 1 (PGAM1), che sono risultate esclusive e sovraespresse nei fibromialgici rispetto ai controlli, altre sono proteine citoscheletriche, come la Profilina 1, altre ancora proteine specifiche del processo infiammatorio come le Calgranuline (Bazzichi et al. 2009). In questo studio preliminare, abbiamo quindi voluto confrontare i patterns di proteine presenti nella saliva di pazienti affetti da FM con quello degli stessi pazienti in seguito a trattamento termale e vedere se e che tipo di proteine venivano coinvolte dall’azione termale. Infatti, nel contesto della medicina complementare, la terapia termale rappresenta notoriamente una delle strategie terapeutiche più riconosciute per il trattamento dei disturbi reumatici; tuttavia, nonostante la lunga storia e popolarità, sono stati effettuati solo pochi studi controllati e randomizzati che dimostrano il loro effetto sui pazienti affetti da FM (Fioravanti et al., 2007). Dunque, la cura termale viene spesso messa in discussione e il suo ruolo nella medicina moderna non è ancora del tutto chiaro. Balneoterapia e balneo-fango

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terapia sono le metodiche più utilizzate e diversi studi sono rivolti a comprendere i meccanismi fisiologici che questi trattamenti determinano nei soggetti fibromialgici; ciò che rende più complessa la questione delle terapie termali risulta essere la difficoltà nel distinguere se gli eventuali benefici riscontrati nei pazienti siano dovuti realmente al trattamento o più semplicemente siano attribuibili al giovamento psicologico che essi ricevono dal soggiorno nelle terme (Fioravanti et al., 2007). Sulla base dei risultati ottenuti nello studio proteomico effettuato nel nostro laboratorio sulla FM (Bazzichi et al., 2009) accanto alla valutazione clinica e psichiatrica di questi pazienti, abbiamo scelto di analizzarne il proteoma salivare, attraverso l’elettroforesi bidimensionale a diversi tempi e con diverse tipologie di trattamento come descritto in materiali e metodi.

I gel bidimensionali sono stati sottoposti a colorazione con rutenio, i pattern proteici acquisiti tramite Image Quant LAS4010 e i profili proteici analizzati tramite software “Progenesis SameSpot (Nonlinear - Dynamics)”.

Per ogni tipologia di trattamento termale effettuato (balneoterapia, balneo-fango terapia) sono stati confrontati i pattern proteici ai tempi T1 e T2 rispetto al T0. In figura 8 e 9 sono riportati i gel rappresentativi del tempo T0, considerata la condizione basale, per le classi balneoterapia e balneo-fango terapia ed è stata definita una media di 550 spots.

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Dal confronto dei gel relativi ai tre tempi (T0, T1 e T2) con test statistico Anova, abbiamo trovato 14 spots differenzialmente espressi (p-value < 0,05) nel pool per la balneoterapia (Tab.4; fig.10) e 17 spots nel pool per la balneo-fango terapia (Tab. 5; fig.11).

Tabella 4. spots differenzialmente espressi nel pool balneoterapia

Spot Anova (p-value) T1/T0 T2/T0

1391 7,39E-04 0,8 1,0 2997 0,003 1,0 1,3 703 0,006 1,2 0,9 590 0,012 1,4 1,1 637 0,015 1,4 0,8 585 0,016 1,4 0,9 1416 0,017 0,8 0,8 935 0,02 1,2 1,4 3143 0,03 0,6 0,9 657 0,031 1,3 0,8 1330 0,033 0,8 1,0 842 0,04 0,7 0,7 1140 0,043 0,6 1,0 538 0,05 1,2 1,1

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Spot Anova (p-value) T1/T0 T2/T0 3152 1,677e-005 0,6 0,3 640 8,681e-004 0,8 0,7 703 0,001 1,3 0,6 446 0,002 0,9 1,2 3211 0,002 0,4 0,4 3072 0,002 0,9 1,4 3235 0,008 0,6 0,1 2987 0,020 1,2 1,4 525 0,023 0,7 1,0 155 0,029 0,9 1,1 1398 0,029 1,0 1,2 378 0,031 0,9 1,2 452 0,033 1,2 0,7 3002 0,037 1,1 1,3 1291 0,042 1,4 0,8 740 0,043 1,2 0,7 3039 0,048 1,5 2,0

Tabella 5. spots differenzialmente espressi nel pool balneo-fango terapia

Le variazioni di espressione degli spots significativi sono state riportate in tabella come rapporto rispetto a T0 considerata la condizione basale. Valori di rapporto superiori ad uno ci indicano quindi un incremento di intensità dello spot dopo trattamento, una riduzione è segnalata con un rapporto inferiore ad uno. Gli spots che mostravano variazioni più ampie sono evidenziati in grassetto nelle tabelle. Di seguito mostriamo le immagini rappresentative di

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alcuni spots i cui livelli di espressione sono risultati significativi dal confronto dei tre tempi di trattamento (T0, T1, T2) rispettivamente nel pool balneoterapia (fig.10) e nel pool balneo-fango terapia (fig.11), ciascuno con il relativo grafico a barre.

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Figura 10. immagini rappresentative degli spots differenzialmente espressi nel pool

balneoterapia ai tre tempi (T0, T1, T2) e relativo istogramma che rappresenta la densità ottica normalizzata degli spots ai tempi T0, T1 e T2. La significatività è stata valutata con test statistico Anova. *p<0,05; **p<0,01; ***p<0,001

Balneoterapia 703 935 1140 637 0.0×10-00 2.5×1006 5.0×1006 7.5×1006 T0 T1 T2 ** * * * Spot O .D . A v e ra g e N o rm a li s e d V o lu m e s (M ±±±± S D )

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Figura 11. immagini rappresentative degli spots differenzialmente espressi nel pool

balneo-fango terapia ai tre tempi (T0, T1, T2) e relativo istogramma che rappresenta la densità ottica normalizzata degli spots ai tempi T0, T1 e T2. La significatività è stata valutata con test statistico Anova. *p<0,05; **p<0,01; ***p<0,001

Balneo-fango terapia 452 703 740 3152 3211 3235 640 3072 0.0×10-00 1.0×1007 2.0×1007 3.0×1007 T0 T1 T2 * ** * *** ** ** *** Spot O .D . A v e ra g e N o rm a li s e d V o lu m e s ( M ±±±± S D ) **

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Al momento l’identificazione di questi spots tramite analisi di massa e la loro validazione tramite western blot non è stata ancora condotta, ma sulla base dei risultati già ottenuti nel nostro laboratorio in lavori precedenti sulla sclerodermia (Giusti et al., 2007) e sulla FM (Bazzichi et al., 2009), possiamo riconoscere alcune proteine comuni. Nel pool per la balneoterapia troviamo una proteina differenzialmente espressa (spot n° 1140), la sua intensità si riduce di 1,6 volte al tempo T1 per poi tornare ai livelli iniziali dopo tre mesi dal trattamento (T2). Questa proteina è stata identificata in un lavoro realizzato nel nostro laboratorio sulla sclerodermia (Giusti et al., 2007), ed è la proteina Actin related protein 2/3 complex subunit 2 (Arp 2/3 complex) coinvolta nel processo di polimerizzazione dell’actina e nel processo di fagocitosi. Nel pool per la balneo-fango terapia possiamo vedere come lo spot n° 3211 riduca di 2.6 volte la propria intensità dopo trattamento termale (T1, T2) rispetto al tempo T0; tale proteina è stata identificata nel precedente studio sulla FM con la Profilina-1 (Bazzichi et al., 2009). La Profilina-1 è anch’essa coinvolta nell’arrangiamento citoscheletrico, infatti è una actin binding protein e come tale promuove la crescita dei filamenti di actina catalizzando la dissociazione dell’ADP legato all’actina e sostituendolo con ATP. Il complesso Profilina-ATP-actina si può assemblare all’estremità del filamento in crescita. Così come nel nostro precedente lavoro (Bazzichi et al., 2009) la Profilina-1 risultava over-espressa nei pazienti fibromialgici rispetto ai sani, in questo studio preliminare abbiamo osservato come l’intensità dello

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spot risulti sovra-espresso al tempo T0 rispetto ai tempi T1 e T2; infatti l’espressione dello spot si riduce in maniera significativa subito dopo la balneo-fango terapia e la sua riduzione è aumentata a distanza di tre mesi dal trattamento termale. L’attività di questa proteina è spesso legata a quella di altre proteine, quali la Cofilina e la Gelsolina, identificate nel precedente lavoro, che hanno un ruolo chiave nella via di trasduzione del segnale mediata dal fosfatidilinositolo 4,5-bisfosfato nella regolazione della polimerizzazione dell’actina del citoscheletro e quindi nel processo di divisione cellulare. Troviamo inoltre una riduzione di 1,4 volte dell’actina (spot n°640) sia al tempo T1 che T2 rispetto ai livelli basali. Troviamo inoltre un aumento d’intensità di 1,5 volte dello spot n°3072 al tempo T2 rispetto alla condizione basale (T0), tale spot corrisponde alla Calgranulina B (Giusti et al., 2007), proteina rilasciata dai neutrofili in condizioni infiammatorie. Le Calgranuline sono coinvolte in un’ampia varietà di attività intracellulari, dalla proliferazione cellulare e differenziazione, alle interazioni citoscheletriche , al riarrangiamento e organizzazione strutturale delle membrane, all’omeostasi intracellulare del calcio, all’infiammazione, alla protezione della cellula dallo stress ossidativo. Nell’ambito del pool balneo-fango terapia uno spot differenzialmente espresso interessante sembra essere lo spot n° 3235, che mostra una riduzione progressiva della propria intensità fino ad 8 volte al tempo T2.

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Possiamo dire che l’uso di una terapia costituita da trattamento termale complementare a quella farmacologica, ha effetto sull’espressione di alcune proteine, in particolare su quelle coinvolte nell’apparato citoscheletrico, con una maggiore efficacia della balneo-fango terapia rispetto alla semplice balneo terapia. Questa differenza potrebbe dipendere dalla combinazione delle due tipologie di trattamento o semplicemente dalla doppia durata di esposizione al trattamento come avviene nella balneo-fango terapia rispetto alla balneoterapia.

Lo studio quindi, dovrebbe fornirci indicazioni riguardo le condizioni migliori di trattamento in termini di durata e tipologia.

Un aumento della casistica nei pazienti infine, potrà essere utile a mettere in luce le differenze più importanti, quindi l’identificazione delle proteine differenzialmente espresse non ancora note, potrà aggiungere un tassello importante nella comprensione di questa malattia multifattoriale.

Figura

Figura  ura  ura  ura 4 44 4....    Manifold.
Figura 5. Ettan IPGphor Isoeletric
Figura  10.  immagini  rappresentative  degli  spots  differenzialmente  espressi  nel  pool  balneoterapia  ai  tre  tempi  (T0,  T1,  T2)  e  relativo  istogramma  che  rappresenta  la  densità  ottica normalizzata degli spots ai tempi T0, T1 e T2
Figura  11.  immagini  rappresentative  degli  spots  differenzialmente  espressi  nel  pool  balneo-fango  terapia  ai  tre  tempi  (T0,  T1,  T2)  e  relativo  istogramma  che  rappresenta  la  densità  ottica  normalizzata  degli  spots  ai  tempi  T0,

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