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La formazione informale tra docenti.

Comunità di pratiche, conoscenze tacite e conversazione

The informal learning among teachers. Community

of practices, tacit knowledge and conversations

ABSTRACT

The link between teachers’ initial and in-service training and the quality of education has been widely debated and has recently been re-launched by Law 107/2015. This issue has been mainly linked to formal training, but this perspective does not resolve the matter. On the contrary, by referring to teachers’ level of knowledge and to school internal dynamics, informal training is essential. In this respect, the communities of practice and infor-mal exchanges are the most appropriate place where to build and share a practical, tacit, situated and dynamic knowledge. In this perspective, it is im-portant to consider new organizational set-ups for school institutions, to enhance teachers’ intermediary functions and to think new professional fig-ures able to support this organization.

Il nesso tra formazione, iniziale e in servizio, dei docenti e qualità del-l’istruzione è stato ampiamente dibattuto ed è stato recentemente ripro-posto dalla Legge 107/2015. La questione è stata per lo più posta nella prospettiva della formazione formale, che però si rivela insufficiente. Esplo-rando la natura della conoscenza degli insegnanti e le dinamiche che oper-ano all’interno dell’organizzazione scolastica, si pone come indispensabile il contributo della formazione informale. Se infatti la conoscenza che emerge nella pratica si caratterizza per la sua dimensione tacita, situata e di-namica, i contesti più adeguati per la sua condivisione e costruzione sono le comunità di pratica e gli scambi informali che ne segnalano l’esistenza e ne supportano lo sviluppo. Questo induce a prendere in considerazione nuovi assetti organizzativi delle istituzioni scolastiche, a valorizzare le fun-zioni intermedie che i docenti svolgono e a pensare nuove figure profes-sionali che sostengano questa organizzazione scolastica.

KEYWORDS

Teachers’ Informal Learning, Conversation, Communities of Practice, Tacit Knowledge, School Organization.

Formazione Informale dei Docenti, Conversazione, Comunità di Pratica, Conoscenza Tacita, Organizzazione Scolastica.

Nicolò Valenzano

Università degli Studi di Torino nicolo.valenzano@unito.it Fo rm a z io n e & I n se g n a m e n to X V – 3 – 2 0 1 7 IS S N 1 9 7 3 -4 7 7 8 p ri n t – 2 2 7 9 -7 5 0 5 o n l in e d o i: 1 0 7 3 4 6 /-fe i-X V -0 3 -1 7 _ 1 0 © P e n sa M u lt iM e d ia

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Introduzione

Negli ultimi decenni nella riflessione pedagogica vi sono state due svolte episte-mologiche rispetto alle attività lavorative, particolarmente significative per la professione docente: la svolta pratica e quella riflessiva (Tacconi, 2012). Secondo la prima, l’attività lavorativa deve essere considerata una vera e propria forma di conoscenza (Bruni & Gherardi, 2007; Mortari, 2010; Mortari, 2013, pp. 11-31). Il sa-pere pratico che il docente mette in atto si costituisce di un repertorio di strate-gie e di idee, per lo più inespresse, utilizzate in relazione alle circostanze grazie all’abilità di interpretazione di indici contestuali. Il sapere pratico dell’educare, in questa prospettiva, emerge nel momento in cui i docenti sviluppano e utilizzano le proprie capacità di ricerca e di riflessione sull’esperienza (Mortari, 2013, p. 25). La svolta riflessiva, originata dai lavori di Donald Schön (1993; 2006; Fabbri, 2008), consente di superare un’epistemologia della pratica fondata sulla razionalità tec-nica, che attribuisce lo status di conoscenza solo a quei saperi codificati e siste-matizzati e caratterizza la pratica come il contesto di applicazione di conoscen-ze elaborate e acquisite altrove. A questo paradigma si oppone quello della ra-zionalità riflessiva, secondo il quale i professionisti non sono semplici esecutori, ma viceversa sono capaci di riflettere sull’azione compiuta e soprattuto di riflet-tere nel corso dell’azione. Questa qualità consente loro di riconoscere i proble-mi (problem-posing) che incontrano e, facendo ricorso all’intuizione, di inventa-re strategie cinventa-reative di risoluzione (problem-solving), attivando così processi in-novativi e trasformativi della pratica stessa (Schön, 1993, pp. 49-95). A questo pro-posito, Luigina Mortari (2003, pp. 25-45) ha individuato due livelli di riflessione: in primo luogo il pensare a ciò che si fa, che seguendo la linea interpretativa di Schön consiste nella riflessione sull’azione e nell’azione; in secondo luogo, il pensare i pensieri, ossia una metariflessione che consente di tematizzare il mo-do in cui si pensa e i processi epistemici amo-doperati per la costruzione del proprio sapere a partire dall’esperienza.

Partendo da questi presupposti, nel prossimo paragrafo accennerò alla tema-tica della formazione in servizio dei docenti in relazione alla qualità dell’istruzio-ne, illustrando come le proposte di formazione formale non siano sufficienti per lo sviluppo professionale e personale. Nel paragrafo successivo, mi soffermerò sulla natura della conoscenza degli insegnanti e, in connessione con la svolta pratica dell’epistemologia del lavoro, illustrerò la centralità della dimensione ta-cita al fine di sostenere la necessità di pratiche di formazione informale tra gli in-segnanti in servizio. Nel terzo paragrafo, in conseguenza di questi due elemen-ti, proporrò di valorizzare le comunità di pratiche esistenti nelle scuole e di pro-muoverne di nuove, sostenendo l’importanza che assume la conversazione in-formale in questo quadro. Tale proposta, che si muove nel quadro teorico che concepisce la scuola come un’organizzazione che apprende fondata su cono-scenza, comunicazione, cooperazione e comunità (Argyris & Schön, 1998; Bute-ra, 1999), sarà sviluppata in sede conclusiva delineando nuove figure professio-nali intermedie che operino in queste direzioni.

1. La formazione in servizio dei docenti

Nel 1989, l’IRRSAE dell’Emilia Romagna pubblicava un dossier intitolato La

forma-zione in servizio per la qualità della scuola sottolineando nelle prime pagine

quanto fosse ricorrente nel dibattito allora attuale l’associazione dei due termi-ni, la formazione in servizio e la qualità della scuola (Calidotermi-ni, 1989). Ciò

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nia quanto la questione della formazione permanente dei docenti e la qualità dell’istruzione siano due temi ampiamente dibattuti, sicuramente a partire dagli anni Settanta e che nel decennio successivo hanno condotto a riflessioni appro-fondite e proposte operative articolate. La connessione dei due termini presenti nel titolo del dossier corre però il rischio di trasformarsi in uno slogan che die-tro ad un’efficace retorica nasconde una sostanziale inconsistenza. Nonostante gli slogan abbiano una certa pertinenza pratica, ossia una finalità e un’applicabi-lità in riferimento al contesto, in questa sede mi interessa assumere quel nesso non tanto come “simbolo di un movimento sociale pratico”, quale è lo slogan, quanto come “asserzione schietta e genuina” che merita di essere esplorata in termini teorici e nelle sue dimensioni pratiche (Scheffler, 1972, p. 76).

Il fatto che si tratti di un tema ampiamente dibattuto negli ultimi trent’anni non significa però che non sia più attuale, come dimostra la recente reintrodu-zione dell’obbligo della formareintrodu-zione in servizio dei docenti (L. 107/2015) e il con-seguente Piano per la formazione dei docenti (DM 797/2016). Con la legge cosid-detta “Buona Scuola” la formazione in servizio diventa obbligatoria, permanente e strutturale (L. 107/2015, comma 124). Il documento dell’ottobre del 2016 rappre-senta il quadro di riferimento istituzionale della formazione in servizio, eviden-zia le ragioni che stanno alla base, stabilisce i principi che lo guidano e indica delle aree prioritarie di intervento per il prossimo triennio. Nella più recente normativa come in quella degli anni Ottanta è ripetutamente ribadito il nesso tra la formazione dei docenti in servizio e il miglioramento della qualità delle

scuo-le1. In questa prospettiva, “la formazione in servizio rappresenta, eticamente

ol-tre che giuridicamente, il presupposto fondamentale per lo sviluppo professio-nale individuale e della intera comunità docente” consentendo di conseguenza di migliorare la qualità del sistema di istruzione (Piano per la formazione dei

do-centi, p. 13; Benadusi, 2014). Lo sviluppo del capitale umano degli insegnanti

co-stituisce una priorità sociale capace, da un lato, di valorizzare la professione do-cente e, dall’altro, di promuovere l’innovazione sia a livello di singola scuola che di intero sistema scolastico. In questo modo, infine, è possibile “restituire credi-bilità sociale a chi opera nel mondo della scuola” (Piano per la formazione dei

docenti, p. 5), contrastando la perdita della tradizionale centralità di luogo di

ap-prendimento culturale (Frabboni & Scurati, 2011, pp. 66-67).

Il frequente richiamo a questa tematica nella legislazione scolastica rappre-senta un segnale di un problema più ampio e articolato, che in questa sede non può essere affrontato: gli insuccessi della normativa e della pratica organizzativa e gestionale nel sostenere lo sviluppo professionale dei docenti e, di conseguen-za, il miglioramento della qualità dell’istruzione. Una delle cause di questi falli-menti si trova nell’insufficienza della formazione formale (e non formale) dei do-centi in servizio, “quasi a segnare una ‘sconnessione strutturale’ tra formazione-apprendimento-azione” (Ellerani, 2016, p. 122). Intendo sostenere non l’inutilità ma l’insufficienza delle proposte di formazione e aggiornamento, nella forma della lezione frontale o secondo declinazioni più attive e interattive: nel prossi-mo paragrafo proporrò, come conseguenza della tesi per cui la conoscenza

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1 Non è il caso in questa sede ripercorrere la storia della normativa scolastica in materia di aggiornamento e formazione in servizio, a partire dall’art. 2 del D.P.R. 417/1974 sino dall’art. 26 del D.P.R. 399/1988: viene più volte ribadito che si tratta di un diritto-dovere dei docenti che devono pertanto prendersi cura del proprio aggiornamento culturale e professionale.

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esplicita per essere applicata ha bisogno della conoscenza tacita, di considerare interdipendenti la formazione formale e quella informale. In questa prospettiva lo sviluppo professionale e personale dei docenti e il miglioramento della quali-tà della scuola avviene solo se si riesce a integrare conoscenza tacita e esplicita attraverso l’azione sinergica di proposte formali e informali di formazione in ser-vizio, integrando cioè lezioni frontali, attività cooperative di riflessione e costru-zione della conoscenza e contesti informali di narracostru-zione, “riflessione ed elabo-razione costruttiva e significativa delle esperienze” secondo una dialettica tra

problem setting e problem solving (Urbani, 2016, p. 303). Coerentemente con

questa proposta, molti studi mostrano l’influenza che contesti capacitanti eserci-tano sullo sviluppo professionale e personale dei docenti, sulla loro efficacia di-dattica e sugli esiti di apprendimento degli studenti (Ellerani, 2016).

2. La conoscenza tacita e la formazione informale tra docenti2

Le scuole sono organizzazioni della conoscenza in quanto da un lato trasmetto-no e certificatrasmetto-no cotrasmetto-noscenze e, dall’altro, ne impiegatrasmetto-no e ne elaboratrasmetto-no per il pro-prio funzionamento (Butera, 2002, p. 26). La conoscenza degli insegnanti non è un’entità stabile e chiusa ma vive nell’atto del conoscere e si configura come un processo attivo e creativo che prende corpo nell’impegno nell’esperienze profes-sionali almeno quanto nelle diverse forme di reificazione e immagazzinamento della conoscenza stessa. In questa prospettiva il conoscere si configura come una conversazione riflessiva con la situazione, definita da un coinvolgimento con i problemi che emergono nella pratica di tipo interattivo, riflessivo e con un certo grado di improvvisazione (Schön, 1993, pp. 76-95). La conoscenza dei docenti, più che essere un corpus statico di informazioni, si presenta come un processo dina-mico, “la creazione di un ‘residuo’ delle loro azioni, del loro pensiero e delle loro conversazioni” (Wenger, McDermott, Snyder, 2007, p. 50). Sebbene l’esperienze del conoscere di ciascuno è individuale, la conoscenza si caratterizza per la sua dimensione sociale. Come per la conoscenza scientifica, anche quella degli inse-gnanti si sviluppa attraverso un processo comune di partecipazione: la natura col-lettiva della conoscenza permette ai docenti di sostenere la rapida evoluzione in molti aspetti cruciali del loro lavoro, consentendo di fronteggiare il rischio di un “sovraccarico di informazioni” difficilmente gestibile a livello cognitivo e affettivo (Davenport & Beck, 2001, p. 77).

Un ultimo aspetto che contraddistingue la conoscenza degli insegnanti è la dialettica tra dimensione esplicita e quella tacita: la prima si compone di tutte quei saperi, in primo luogo di natura concettuale, che si riescono facilmente ad esprimere perché codificati e sistematizzati. La dimensione tacita, che secondo Polanyi “precede e fonda tutta la conoscenza”, si compone di competenze incor-porate (embodied), relative al “sapere come”, e di competenze radicate nelle procedure e nelle routine (embedded) (Polanyi, 1979, p. 36; Blackler, 1995). La co-noscenza tacita è quindi esperienziale, situata e emergente dalla pratica.

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2 Utilizzo l’espressione “formazione informale tra docenti” piuttosto che “formazione informale dei docenti”, ricalcando la distinzione proposta da Mariani, per sottolineare la distinzione tra gli interventi formali e non formali ma istituzionalizzati e quei “processi educativi in cui gli adulti sono coinvolti nelle attività sociali e nel quotidiano” (1997, p. 68).

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do la tesi di Polanyi, i docenti sanno molto più di quel che riescono a riferire ed articolare a parole: la conoscenza esplicita rappresenta solo la punta dell’iceberg del corpo complessivo delle conoscenze. La parte più consistente del sapere de-gli insegnanti è costituito dalla conoscenza tacita, che esiste ma che è difficil-mente esprimibile. Queste due tipologie di conoscenza non costituiscono enti-tà separate e indipendenti, ma dimensioni mutuamente complementari che in-teragiscono fra loro in un articolato interscambio che avviene in tutte le direzio-ni (Nonaka & Takeuchi, 1997). Nella dialettica tra elementi taciti ed espliciti si svi-luppa un processo di costruzione della conoscenza sia a livello individuale che organizzativo. Attraverso una complessa dialettica tra esplicito e implicito, com-posta da socializzazione, esteriorizzazione, combinazione e interiorizzazione, la scuola può configurarsi come una comunità di ricerca in cui la conoscenza dei singoli docenti acquista rilevanza per l’organizzazione in modo tale che le

inno-vazioni possano sedimentarsi e la qualità del servizio incrementare3.

In questa prospettiva la pratica del docente è una “combinazione ingarbuglia-ta di dimensioni ingarbuglia-taciingarbuglia-ta ed espliciingarbuglia-ta” che, in visingarbuglia-ta della formazione in servizio, invi-ta a non focalizzarsi esclusivamente sulla seconda componente (Wenger, McDer-mott, Snyder, 2007, p. 51): i percorsi formativi e di aggiornamento professionale dei docenti sono progettati solitamente nella chiave della trasmissione, secondo me-todologie più o meno attive e collaborative, di conoscenze. Questa fase è però so-lamente un aspetto di un’efficace formazione in servizio, infatti la conoscenza esplicita, per essere “applicata”, ha bisogno della conoscenza tacita (Wenger, McDermott, Snyder, 2007, p. 51). Per questa ragione vorrei suggerire che le attività di formazione formale dei docenti sono fondamentali ma insufficienti affinché la scuola possa migliorare e l’innovazione diffondersi: i contesti informali sono gli ambiti privilegiati per far emergere la dimensione inespressa della conoscenza. Vi è infatti una sorta di parallelismo epistemologico tra la conoscenza che emerge dalla pratica e l’apprendimento che avviene nella pratica stessa.

A partire dagli anni Sessanta la dimensione informale dell’educazione è stata rivalutata dalla riflessione pedagogica sia come conseguenza della constatazione di un dato di fatto, riconoscendone la significatività e preponderanza rispetto ad altre modalità educative, sia in virtù di una precisa scelta (Mariani, 1997, pp. 27-39; Tramma, 2005). Da un lato si è constata l’impossibilità di negare significato for-mativo “a tutto ciò che concorre, consciamente o inconsciamente, attraverso tut-te le circostanze della vita e sul piano affettivo quanto quello cognitivo, a modi-ficare i comportamenti di una persona o di un gruppo e la sua rappresentazione del mondo” (Mariani, 1997, p. 29). Dall’altro si è sviluppata una riflessione sul ruo-lo che l’intenzionalità ricopre nei contesti informali: se l’educazione informale non è organizzata né sistematica, la riconsiderazione della categoria di intenzio-nalità, tradizionalmente utilizzata per distinguere la dimensione educativa, ha consentito di ripensare l’informalità. Focalizzando l’attenzione sull’intenzionali-tà dei soggetti in educazione più che su quella dell’educatore, si è affermato il ruolo educativo positivo dei contesti informali e degli influssi ambientali (Pain, 1990, pp. 130-136). Con ciò non si intende negare rilevanza alla categoria di inten-zionalità, riconosciuta come centrale nella riflessione pedagogica e nella prassi educativa, ma sostenere la presenza di una qualche forma di intenzionalità, quel-la dei soggetti coinvolti nelle pratiche, anche nei contesti informali. Questo

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3 Molta letteratura sul management scolastico ha insistito nel concepire la scuola come una comunità; si vedano per esempio i lavori di Thomas Sergiovanni (2000; 2002).

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noscimento invita a prendere in considerazione diverse modalità attraverso cui il formatore può intervenire in questa dimensione. La proposta di Wenger, McDermott e Snyder di coltivare più che progettare comunità di pratiche è coe-rente con questa prospettiva nella misura in cui la coltivazione non si configura secondo un criterio rigido preordinato, andando viceversa a delineare principi che non vanno interpretati come uno schema procedurale di operazioni da ap-plicare in ordine gerarchico (2007, pp. 93-108).

Se le conoscenze tacite all’interno della scuola circolano grazie alla comuni-cazione informale allora si tratta di valorizzare gli scambi di esperienze che av-vengono negli interstizi di tempi e luoghi in cui l’istituzione organizza lo svolgi-mento delle attività lavorative. Proprio come per i tecnici addetti alla riparazione delle macchine fotocopiatrici della Xerox descritti da Julian Orr (1995), gli inse-gnanti davanti alla macchinetta del caffè, nell’”ora buca” o a pranzo in attesa de-gli impegni pomeridiani si raccontano le esperienze particolarmente problema-tiche e le soluzioni innovative adottate, chiedono consigli, creano e condivido-no cocondivido-noscenza, sviluppando il sapere esperienziale nella direzione di teorie lo-cali, “che si strutturano attraverso la ricorsività dialogica tra il lavoro di problema-tizzazione del sapere teoretico e l’analisi riflessivamente critica e quanto più pos-sibile radicale dell’esperienza” (Mortari 2013, p. 112). Questi momenti informali e questi spazi svolgono la duplice funzione di segnalatori della presenza e di ani-matori di comunità di pratiche, che più o meno strutturate e formalizzate anima-no l’attività lavorativa degli insegnanti e che si configuraanima-no, all’interanima-no delle scuole, come le strutture sociali preposte alla gestione della conoscenza.

In un’intervista del 1999 Peter Senge, a circa dieci anni di distanza dalla pub-blicazione della sua opera di maggior successo, rispondendo alla domanda su che cosa avesse imparato sulla possibilità di trasformare in realtà l’idea di un’or-ganizzazione che apprende, affermava che le innovazioni rilevanti sono diffuse in reti informali che si auto-organizzano attraverso comunità di pratiche (Zemke, 1999, p. 49; Senge, 1992). Le comunità di pratica possono essere interpretate, in questa prospettiva, come contesti in grado di combinare le risorse interne dei singoli docenti, secondo la logica dell’educazione tra adulti (Mariani, 1997, pp. 73-82), con lo sviluppo di prassi organizzative capacitanti, valorizzando così la stretta interdipedenza tra gli insegnanti e l’ambiente in cui operano al fine di fa-re emergefa-re il sapefa-re insito nelle pratiche lavorative (Costa, 2016). In questa pro-spettiva l’innovazione può avvenire solo all’interno di comunità di pratiche e non si configura mai come un’iniziativa solitaria né come effetto di un cambiamento ordinamentale (Butera, 2002, pp. 30-34; Butera, 2009, pp. 86-95).

3. Riconoscere e coltivare comunità di pratiche nelle scuole

Le comunità di pratiche sono “gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi, una passione rispetto a una tematica e che approfondi-scono la loro conoscenza ed esperienza in quest’area mediante interazioni con-tinue” (Wenger, McDermott & Snyder, 2007, p. 44). Rappresentano una combina-zione di tre elementi fondamentali che ne definiscono il modello strutturale. Il primo, il campo tematico, rappresenta l’ambito di argomento sul quale si svilup-pa la comunità, accomuna i membri e stimola la svilup-partecisvilup-pazione, creando un sen-so di identità condivisa. La comunità, secondo aspetto, rappresenta il “tessuto sociale dell’apprendimento”, incoraggia relazioni fondate sul mutuo rispetto e sulla fiducia cosicché anche i disaccordi possano essere gestiti in modo produt-tivo. La pratica, infine, si compone di “un insieme di idee, strumenti,

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ni, stili, cornici di significato, linguaggi, storie e documenti condivisi dai membri della comunità” e rappresenta la conoscenza specifica che la comunità sviluppa e condivide” (Wenger, McDermott & Snyder, 2007, pp. 70, 71). L’apprendimento che avviene nella pratica è inestricabilmente connesso alla negoziazione del-l’identità all’interno della comunità al punto che “la costruzione deldel-l’identità consiste nel negoziare i significati del nostro agire in quanto membri di una co-munità” (Alessandrini, 2007, p. 39; Wenger, 2006, pp. 103-120; 173-196).

Nelle scuole sono numerosi i momenti di incontro tra colleghi, più o meno istituzionalizzati, che possono assumere i tratti della comunità di pratica (Ales-sandrini, 2007, pp. 70-82; Ales(Ales-sandrini, 2010; Pignalberi, 2012). L’organizzazione del lavoro docente offre vari momenti istituzionali di confronto collegiale che ri-chiede la disponibilità a comunicare e lavorare insieme e un’organizzazione con funzioni di delega reciproca che agevoli la manifestazione di siffatte qualità. Vor-rei esaminare brevemente alcune di queste strutture organizzative (i consigli di classe, i dipartimenti disciplinari e le commissioni) per poi sottolineare il valore degli incontri e scambi informali e concludere il paragrafo accennando ad

alcu-ni principi che possano guidare lo sviluppo delle comualcu-nità di pratiche4.

Il consiglio di classe è l’organo operativo della struttura organizzativa, è dele-gato alla funzione del coordinamento didattico e della realizzazione dei rappor-ti interdisciplinari, si occupa della costruzione e realizzazione del percorso for-mativo e della valutazione e certificazione delle competenze dello studente (T.U. 297/1994, art. 5). Laddove non diventa luogo di mero espletamento burocratico, può configurarsi come il momento dell’incontro tra professionisti che si scam-biano e costruiscono conoscenze per progettare il successo formativo degli stu-denti: diventa l’ambito privilegiato per il confronto sugli studenti e sulla classe.

I dipartimenti disciplinari, organo in cui si articola il collegio dei docenti (T.U. 297/1994, art. 7), sono il luogo in cui gli insegnanti concordano scelte comuni ri-guardanti la programmazione didattico-disciplinare, stabiliscono gli standard mi-nimi e definiscono i contenuti fondamentali delle discipline, coerentemente con le Indicazioni Nazionali. Possono rappresentare contesti di apprendimento in merito alle scelte didattiche disciplinari, al come si fa scuola, nella misura in cui riescono a configurarsi come comunità di pratiche.

Il collegio dei docenti può, inoltre, istituire e articolarsi in specifici gruppi di lavoro, le commissioni, per lo studio di particolari questioni che non riguardano specifici aspetti della didattica disciplinare. In questi contesti i docenti affronta-no tematiche trasversali alle discipline e alle singole classi, quali per esempio l’in-clusione, la continuità e l’orientamento, l’autovalutazione d’istituto o la gestione del Piano Triennale dell’Offerta Formativa.

Esistono infine, o dovrebbero essere stimolate, comunità di pratiche tra reti di scuole e insegnanti. Le reti, già previste dalle legge istitutiva dell’autonomia scolastica (D.P.R. 275/1999, art. 7), permettono lo sviluppo della dimensione ne-cessaria al miglioramento delle istituzioni scolastiche, grazie alla condivisione di

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4 L’articolazione del collegio docenti in una struttura organizzativa a matrice che contempli consigli di classe e dipartimenti disciplinari è sostenuta, tra gli altri, anche da Fumarco (2000, pp. 157-161) e Romei (1999, pp. 234-250; 2005) ed è stata ripetutamente discussa in sede parlamentare; si veda per esempio il Testo unificato della Commissione cultura, scienza e istruzione, Disposizioni in materia di organi collegiali della scuola

dell’autonomia, approvato il 10 febbraio 1999 e, più recentemente, il Disegno di legge

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conoscenze e risorse. L’importanza delle reti tra scuole è riaffermata dalla più re-cente legge 107/2015, in cui si invitano gli uffici scolastici regionali a promuover-ne la costituziopromuover-ne, sia promuover-nella forma di rete di ambito che di rete di scopo, al fipromuover-ne di valorizzare le risorse professionali, di gestire in comune funzioni e attività ammi-nistrative e di realizzare progetti o iniziative didattiche (L. 107/2015, commi 70, 71, 72). In questo quadro teorico e normativo, si può prevedere la costituzione di co-munità di pratiche all’interno di reti scolastiche di ambito, al fine di condividere e costruire conoscenze e innovazioni.

I momenti non istituzionalizzati in cui avvengono scambi informali relativi ad argomenti anche di stretta attinenza professionale costituiscono il luogo privile-giato per osservare l’esistenza e promuovere la costituzione di tutte queste di-verse forme di comunità di pratica. Le conversazioni che avvengono nelle pause dal lavoro, davanti alla macchinetta caffè, in sala insegnanti o a pranzo in attesa degli impegni pomeridiani svolgono un ruolo decisivo seppur ancillare e di sup-porto. La conversazione informale, in cui si parla di temi non sempre connessi con problemi professionali, consente ai partecipanti, e ai neofiti in particolare, di imparare e condividere il linguaggio della comunità, che svolge un fondamenta-le ruolo di guida della pratica dei docenti. Nelfondamenta-le conversazioni informali, in altri termini, si impara non tanto a parlare della pratica, aspetto per altro non insigni-ficante, quanto il parlare nella pratica, ovvero il linguaggio che la comunità degli insegnanti utilizza nel lavoro quotidiano e che pertanto costituisce il fondamen-to della loro pratica e della loro identità. Nella conversazione in altri termini non è determinante il contenuto ma lo stabilire una relazione. In una prospettiva più generale, la conversazione informale tra docenti ha un valore formativo nella mi-sura in cui produce uno scambio che consente da un lato di introdurre cambia-menti, creare nuovi rapporti e concepire nuove pratiche e, dall’altro, di acquisi-re consapevolezza di quanto si ritiene meritevole di esseacquisi-re conservato, di quegli aspetti del lavoro che la comunità, negoziando significati, stabilisce che possono essere riprodotti e trasmessi ai neofiti (Mariani, 1997, p. 153).

Le dinamiche attraverso le quali nelle comunità di pratiche si capitalizza il sa-pere tacito dei docenti sono due: la narrazione e la riflessione. Il fatto la pratica educativa sia un’esperienza e il racconto sia il modo appropriato per renderne conto giustifica la tendenza dei docenti a ricorrere alla narrazione (Mortari, 2013, pp. 50-59). La narrazione svolge la duplice funzione di “organizzare l’esperienza” e di contribuire alla costruzione e negoziazione di significati (Bruner, 1992, p. 48, 97): in questi termini riveste un ruolo determinante sia nella pratica sia nella de-finizione dell’identità dell’insegnante. Questo compito si realizza nella misura in cui il racconto diviene una formalizzazione utile per il futuro comprensibile an-che dagli altri membri della comunità, così da diventare elemento della memoria collettiva del gruppo. Le “storie di guerra” raccontate dai docenti nei momenti informali e nei contesti più strutturati in cui l’organizzazione si declina costitui-scono dei veicoli della memoria di comunità, andando a costituire un repertorio condiviso di conoscenze utile per stimolare l’apprendimento organizzativo (Orr, 1995; Brown & Duguid, 1995; Fabbri, 2009, pp. 105-110). La narrazione è però in-sufficiente se manca la capacità critica di distaccarsi dall’io narrante, osservare l’esperienza da un altro punto di vista consentendo così un confronto produtti-vo con i colleghi: questa è la dimensione in cui si dispiega la riflessione, intesa come quell’atto attraverso il quale i docenti interrogano il proprio modo di inse-gnare. La riflessione si esercita sulla pratica educativa e sui pensieri che condu-cano a quelle decisioni pedagogiche, consentendo così di descrivere le teorie che soggiaciono alla pratica, di risalire alle precomprensioni che tacitamente danno forma l’agire, di individuare le convinzioni dei docenti rispetto ai

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mi dell’agire educativo, di analizzare le routine di cui si compone il lavoro e, in-fine, di soffermarsi sulle situazioni irregolari e impreviste che emergono dall’iti-nerario didattico programmato (Mortari, 2013, pp. 119-135). In questa prospettiva le conversazioni professionali tra insegnanti che si sviluppano nelle comunità di pratiche riflessive costituiscono un dispositivo indispensabile affinché la loro co-noscenza tacita possa divenire patrimonio condiviso (Striano 2008, pp. 91-101;

Fabbri, 2009, pp. 90-97; Mortari, 2013, pp. 148-151)5.

I momenti istituzionalizzati e informali che costituiscono le comunità di pra-tica svolgono, in sintesi, un ruolo decisivo per la formazione tra i docenti, perché operano sulla loro conoscenza tacita ed esplicita. In tutte questi incontri e riu-nioni inoltre i giovani insegnanti con poca esperienza sono accolti nella comuni-tà e, partecipando legittimamente ma in modo periferico al lavoro del gruppo, apprendono competenze professionali e costruiscono un’identità personale (La-ve & Wenger, 2006). I nuovi docenti, appena arrivati nella scuola, attra(La-verso la par-tecipazione a queste multiformi e variegate comunità di pratica entrano in pos-sesso della conoscenza tacita, incorporata nei colleghi più esperti o radicata nel-le procedure e nelnel-le routine, che in questo modo diventa patrimonio condiviso. In questo modo dunque le comunità di pratiche possono rappresentare dei rile-vanti contesti formativi per i docenti in servizio, per quelli in formazione iniziale e per coloro che sono nella fase dell’induction, di introduzione alla professione (Costa, 2011, pp. 53-55).

Le scuole che comprendono il vasto potenziale delle comunità di pratica pos-sono valorizzarle in vari modi. In primo luogo si tratta di riconoscere l’esistenza e l’importanza di quelle che in qualche modo già operano dentro l’organizzazio-ne. In secondo luogo è opportuno assegnare alle comunità di pratiche esistenti le risorse necessarie al loro sviluppo, sia economiche che infrastrutturali, ossia avendo cura dello spazio e del tempo necessari alla socializzazione senza la pre-tesa di una gestione rigorosa. Può essere opportuno, a questo proposito, mette-re a disposizione supporti digitali in grado di facilitamette-re le spontanee modalità d’apprendimento collaborativo (Wenger, White & Smith, 2009; Trentin, 2004). I di-rigenti scolastici e gli staff di direzione devono infine progettare interventi volti a sostenere la vitalità e la crescita spontanea delle comunità di pratiche, rifletten-do sui sette principi proposti da Wenger, McDermott e Snyder per la loro colti-vazione (Wenger, McDermott & Snyder, 2007, pp. 93-108). Secondo il primo prin-cipio, “progettare per l’evoluzione”, si tratta di assecondare lo sviluppo della co-munità e della sua vitalità, senza imporre una struttura precostituita. Il secondo principio, “aprire un dialogo tra prospettive interne ed esterne”, suggerisce di in-centivare lo scambio di esperienze e saperi tra i docenti appartenenti ad una co-munità di pratica e altri docenti esterni, come fonte di arricchimento e per evita-re l’illusione dell’autosufficienza: in questa prospettiva il confronto con altevita-re co-munità di pratiche o la partecipazione a reti scolastiche può risultare un elemen-to di sviluppo professionale. Il principio per cui bisogna “favorire diversi livelli di partecipazione” consiglia di evitare la cristallizzazione dei ruoli all’interno delle comunità, bilanciando l’istanza della professionalizzazione dei coordinatori dei

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5 In questa sede non è il caso di approfondire il concetto di riflessione in connessione alla pratica dei docenti; è però utile segnalare la banalizzazione che il lessico amministrativo e scolastico ha esercitato sulla riflessività e la figura dell’insegnante riflessivo, sovente riducendo la riflessione all’atto spontaneo di descrizione e commento di eventi avvenuti (Roldão, 2008, p. 53).

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6 Utilizzo l’espressione “figure di sistema”, introdotta dal CCNL 1994-1997, art. 38, perché più ampia di altre forme utilizzate successivamente negli accordi contrattuali del comparto scuola, come per esempio “funzioni obiettivo” o “figure strumentali” (CCNL 1998-2001, art. 28), che designano specifici profili e peculiari rapporti gerarchici con il dirigente scolastico.

gruppi con il principio della turnazione degli insegnanti nei ruoli intermedi di re-sponsabilità organizzativa e gestionale. Il dirigente e lo staff dirigenziale devono inoltre, seguendo l’invito di “sviluppare spazi di comunità sia pubblici che priva-ti”, creare occasioni pubbliche di incontro, anche attraverso il ricorso alle tecno-logie informatiche, senza dimenticare di incoraggiare interazioni duali private anche di tipo informale. Ottemperando al quinto principio, “concentrarsi sul va-lore”, bisogna prestare attenzione alle conoscenze, alle capacità, alla sicurezza e all’identità che una comunità contribuisce a generare, così da alimentare la vita-lità e le motivazioni dei docenti a partecipare alla comunità. In altri termini, in questa prospettiva le dinamiche della partecipazione e quelle della reificazione si sostengono a vicenda. Seconda la sesta raccomandazione, “combinare espe-rienze familiari ed eventi inconsueti”, è importante per la vita della comunità di pratica alternare routine e novità, in modo da stimolare l’interesse e l’eccitazio-ne del gruppo ma senza trascurare la dimensiol’eccitazio-ne di familiarità e confortevolez-za che i docenti devono percepire quando lavorano insieme. Il settimo principio, infine, suggerisce di “dare ritmo alla comunità” e riguarda i tempi e i modi di svolgimento dell’azione: gli insegnanti devono percepire la vitalità della comuni-tà, grazie ad un ritmo sostenuto, ma senza sentirsi sovraccaricati di impegni per-ché smetterebbero di partecipare.

Conclusione

La proposta delineata in queste pagine invita a predisporre contesti formativi e au-toformativi che offrano opportunità di apprendimento reciproco, capace di spinge-re i docenti “fuori dal tracciato ristspinge-retto ed autospinge-refespinge-renziale delle proprie pspinge-rerogati- prerogati-ve esistenziali, al fine di contemplare nuoprerogati-ve possibilità realizzatiprerogati-ve” sia a liprerogati-vello pro-fessionale che personale (Urbani, 2014, p. 113). Il sostegno e la costruzione di comu-nità di pratica fondate su modalità cooperative e partecipative, che sappiano al con-tempo valorizzare la dimensione informale dell’educazione tra docenti, dovrebbero favorire nuove forme di apprendimento tali da promuovere modalità inedite di svi-luppo personale e professionale sia tra gli insegnanti in servizio che tra i neofiti. Per sostenere questi momenti e questi spazi può essere utile delineare nuove figure professionali intermedie, che sappiano riconoscere e sostenere le comunità di pra-tiche esistenti nelle singole scuole e, al contempo, coltivare comunità di prapra-tiche a livello di reti scolastiche. Se infatti l’innovazione educativa non può essere disgiun-ta dall’innovazione organizzativa, si devono predisporre e coltivare comunità di pra-tiche, come strutture sociali che nelle scuole gestiscono e creano conoscenza, e le-gittimare e formare le figure professionali intermedie di coordinamento e promo-zione di questa struttura e di questa cultura organizzativa.

Si tratta da un lato, quindi, di valorizzare le figure di sistema già esistenti nel-le scuonel-le, i coordinatori dei consigli di classe, dei dipartimenti disciplinari e del-le commissioni, del-le funzioni strumentali e i referenti di specifici progetti o

aspet-ti dell’organizzazione scolasaspet-tica6. Dall’altro lato, coerentemente con la proposta

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descritta in queste pagine, bisogna delineare delle posizioni professionali inter-medie anche a livello di rete di scuole: per esempio all’interno di ogni ambito territoriale potrebbe essere individuato un responsabile/coordinatore della for-mazione in servizio o più animatori delle diverse comunità di pratiche che si so-no costituite. Al di là della questioni di quali siaso-no nello specifico questi profili professionali, decisione che va assunta a livello delle singole scuole o di reti di scuole, è opportuno insistere, senza trascurare la formazione, il riconoscimento economico e la valutazione dell’operato, sulla legittimazione collegiale che tali figure devono acquisire, fondata sul riconoscimento delle competenze e della qualità del lavoro svolto ma anche in termini più generali sul clima e la cultura organizzativa che caratterizzano la scuola. Tradizionalmente nella scuola è diffu-sa una cultura individualistica, per cui l’insegnante è ritenuto autosufficiente ri-spetto al su compito. Lo sfondo teorico che caratterizza la prospettiva delineata in queste pagine, viceversa, assume il lavoro dei docenti nel quadro di una mag-giore collaborazione e integrazione collegiale. Per questo motivo ritengo priori-tario sviluppare figure di sistema a presidio e sostegno del coordinamento dei vari momenti di azione collegiale, piuttosto che ragionare su figure di supporto all’attività individuale dei singoli insegnanti: questi profili professionali dovreb-bero avere come compito prioritario di far superare quella mentalità individuali-sta e tradizionale che evita il confronto collegiale, se non su questioni minori e laterali.

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