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Franco Margola e la seduzione dell'arché

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

DOTTORATO DI RICERCA IN LETTERATURA E FILOLOGIA

CICLO XXIII

TITOLO DELLA TESI DI DOTTORATO

FRANCO MARGOLA E LA SEDUZIONE DELL’ARCHÉ

S.S.D.

L–ART/07 MUSICOLOGIA E STORIA DELLA MUSICA

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INDICE

I. Introduzione ... 3

II. Note biografiche ... 5

III. Stato degli studi ... 11

IV. Prologo ... 19

V. Franco Margola e la seduzione dell’arché ... 49

. Margola. L’epica guerriera ... 54

. Il cosmo mitologico margoliano ... 57

. Il Concerto e l’elegia I, X di Tibullo: Ipotesto/pretesto/ipertesto ... 84

. La Dramatis Persona ... 104

. La partitura ... 108

. Il tempo zero: Il ritorno, Possa tu giungere ... 119

. La soglia: La preghiera d’un clefta ... 127

. Tre epigrammi greci... 134

VI. Esodo ... 143

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2. Il centenario della nascita di Franco Margola ... 227

3. Scritti di Franco Margola ... 257

X. Bibliografia ... 271

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Introduzione

Contestualizzare criticamente il pensiero musicale di Franco Margola (1908 – 1992), compositore di cultura vasta e poliedrica, molto noto per l’attività didattica svolta a Roma – all’Accademia di Santa Cecilia -, Messina, Cagliari e Brescia, ha reso necessaria una complessa analisi delle fonti documentarie. Ponendo in rilievo i molteplici aspetti delle sue scritture musicali, ha consentito di avvicinare un periodo storico, quello tra le due guerre, rivelatosi particolarmente interessante. La piena adesione al linguaggio neoclassico, determinando il suo allontanamento dal dibattito sulla

Neue Musik, fece sì che la sua lunghissima parabola artistica venisse a lungo ignorata. Tuttavia, il tempo sta attribuendo il rilievo artistico che merita la sua generosissima produzione musicale.

Sebbene le pubblicazioni succedutesi dagli anni novanta a oggi abbiano contribuito a diffondere la conoscenza, ancora troppo superficiale, dell’opera compositiva margoliana, la sua figura di compositore non ha ancora avuto piena valorizzazione in sede critica. La programmatica opera di divulgazione promossa dal figlio Alfredo, favorendo il delinearsi di un più preciso profilo d'artista, ha spinto molti studiosi a interrogarsi sulla sua opera. A quasi vent’anni dalla scomparsa, musicologi e strumentisti tornano a guardare con rinnovato interesse al suo personalissimo cosmo musicale. Anche il mio contributo, considerando l’elevato numero di composizioni mai eseguite presenti in catalogo, non è che un ulteriore, piccolo varco sul suo vastissimo corpus compositivo.

Il presente percorso critico si propone dunque di analizzare un particolare aspetto della sua singolarissima dimensione musicale. Una seduzione dell’arché che emerge dalle pagine strumentali in cui Margola risemantizza il mito della guerra. Il Concerto per la

candida pace per grande orchestra e voce recitante (1959) - l’asse dell’intero percorso -, personalissima sintesi di un intenso apparato di immagini letterarie, è parte di un cosmo mitologico che diviene oggetto di un’originale operazione trasformazionale. Un cortocircuito di archetipi narrativi che genera un percorso rituale oltre i moduli favolistici.

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NOTE BIOGRAFICHE

- 30 ottobre 1908, Franco Margola nasce a Orzinuovi (Brescia); - 1926, consegue il diploma di magistero all’Istituto Musicale

Venturi (l’attuale Conservatorio cittadino) dove studia violino con Romano Romanini e segue i corsi di pianoforte complementare, armonia e contrappunto con Isidoro Capitanio;

- 1927, inizia lo studio della composizione al Conservatorio di Parma, dove si diploma con Achille Longo nel 1933;

- 1930, il Campiello delle streghe (dC 9) viene premiato al concorso della Camerata Musicale di Napoli;

- 1932-33, compone il Quintetto n° 1 in fa diesis per archi e

pianoforte. L’editore Bongiovanni di Bologna lo pubblicherà nel 1934;

- 1933, Margola presenta ad Alfredo Casella, giunto a Brescia per la rappresentazione della sua Favola d’Orfeo al Teatro Grande, la Preghiera d’un clefta per canto e pianoforte (dC 21);

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6

- 1934-35, compone il Trio n° 2 in La per violino, violoncello e

pianoforte (dC 37) che Casella inserirà nel repertorio del Trio Italiano (Casella-Bonucci-Poltronieri);

- 1936, con il Trio in La per violino, violoncello e pianoforte (dC 37) rappresenta la musica moderna italiana al IV Festival Internazionale di Venezia;

- 1937, vince il Premio Scaligero di Verona con il Quartetto n°

3 (dC 49);

- 1938, vince il Concorso Nazionale del Sindacato dei Musicisti con il Quartetto n° 4 (dC 53). Nello stesso anno, con il

Quartetto n° 5 (dC 54), ex-aequo con Gianandrea Gavazzeni, vince il Premio San Remo per la musica da camera;

- 1936, ottiene la cattedra di Storia della Musica all’Istituto musicale di Brescia, incarico che manterrà fino al 1939;

- 4 novembre 1938, al Teatro Grande la sua orchestra d’archi, di recente fondazione, esegue il primo concerto;

- 1939-41, diviene direttore e insegnante di Armonia e Contrappunto al Liceo Musicale di Messina (Filarmonica Laudamo);

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- 29 settembre 1940, al Teatro Donizetti di Bergamo viene rappresentata l’opera/oratorio Il mito di Caino (dC 58);

- 1941, ottiene per chiara fama la cattedra di Composizione al Conservatorio di Cagliari;

- 1943, compone il Concerto per pianoforte e orchestra (dC 73) dedicato ad Arturo Benedetti Michelangeli;

- luglio 1944, avviene la deportazione nel campo di lavoro di Mühldorf, in Germania;

- 1944-45, insegna Armonia complementare al Conservatorio di Parma;

- 1947, con il Trio per archi (dC 85) ottiene un premio al concorso indetto dal Ministero della Pubblica Istruzione; - 1948, compone l’Ode italica per orchestra (dC 88);

- 1951, con Possa tu giungere per canto e pianoforte (dC 101) inaugura la sua seconda fase compositiva;

- 1950-52, insegna Armonia e Contrappunto al Conservatorio di Bologna;

- 1952-57, insegna Armonia, Contrappunto, Fuga e Composizione al Conservatorio di Milano;

- 1954, compone il Kinderkonzert n° 1 per pianoforte e piccola

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- 1957-59, insegna Armonia, Contrappunto, Fuga e Composizione all’Accademia di Santa Cecilia di Roma;

- 1959, compone il Concerto per la candida pace (dC 128), Tre

epigrammi greci (dC 126), Ode alla guerra (dC 129) e la

Partita per orchestra d’archi (dC 110), eseguita a Napoli dall’Orchestra ‘Alessandro Scarlatti’ diretta da Sergiu Celibidache;

- 1960, vince il concorso di direttore al Conservatorio di Cagliari;

- 1963-1975, insegna Alta composizione al Conservatorio di Parma;

- 1980, compone La Spavalda (originariamente epos), canto

eroico (dC 252);

- 9 marzo 1992, muore a Nave (Brescia) all’età di ottantatré anni.

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Le prime fonti critiche relative all’opera e alla figura di Franco Margola risalgono ai primi anni trenta del Novecento. Nelle scritture musicali dell’epoca, a parere della critica, erano già presenti quegli elementi che, di lì a poco, sarebbero divenuti costanti estetiche del suo stile compositivo. Musica e musicisti

d’Europa dal 1800 al 1938, edito da Hoepli nel 1939, è la prima opera a carattere enciclopedico ad annoverare il nome di Margola tra i compositori più interessanti. Antonio Capri, predisponendo una prima importante coordinata critica,1 colloca il compositore bresciano entro un più ampio gruppo di compositori che, muovendo entro procedimenti di vario genere, oscillavano fra impressionismo francese, procedimenti caselliani e romanticismo. Ma il primo contributo musicologico di rilievo, più generale, sulla sua figura e la sua produzione musicale, fu pubblicato nel 1950 sulla «Rivista Musicale Italiana». Pagine in cui Vittorio Brunelli, l’autore, citando l’importantissimo incontro con Alfredo Casella, avvenuto nel 1933, traccia un profilo della sua formazione musicale, approntando una prima descrizione dell’attività didattica da lui svolta in importanti conservatori italiani, approdando, in conclusione, a un interessante preliminare di un catalogo delle opere composte da Margola fino a quel momento. Un preliminare che non manca di elencare le opere più note ed eseguite, da Il

Campiello delle streghe (1931), al Concerto per orchestra con due

pianoforti concertanti (1950). Un’interessante pubblicazione che descrive quella che, a posteriori, si potrebbe considerare come una delle più importanti dichiarazioni di poetica in cui Margola definisce la dodecafonia come una «conquista dell’arte musicale contemporanea», assumendo, al contempo, una precisa posizione nei confronti di coloro che «vorrebbero imporla come unica forma d’espressione della musica contemporanea».2

Un breve ma interessante profilo è stato dedicato al compositore da Roman Vlad nella sua Storia della dodecafonia, edita nel 1958 da Suvini Zerboni. Saggio in cui l’autore descrive sinteticamente il percorso stilistico del compositore, ponendo in rilievo l’interessante fase dodecafonica - considerata da Margola stesso come «un processo di naturale evoluzione» - che rimane un breve intervallo nell’omogeneità stilistica del corpus compositivo.3 Gli anni cinquanta sono, in effetti, anni di intensa sperimentazione.

1 Antonio Capri, Musica e musicisti d’Europa dal 1800 al 1938, Milano, Ulrico Hoepli, 1939,

p. 102

2 Ugo Brunelli, Franco Margola, «Rivista Musicale Italiana», IV, anno LII, 1950, p. 365 3 Roman Vlad, Storia della dodecafonia, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, 1958, p. 224

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Con la precisa volontà di conciliare tratti tonali e procedimenti diatonici a stilemi dodecafonici, Margola intese dimostrare «che non vi sono né limiti né incompatibilità di mezzi espressivi là dove sussista una logica del pensiero musicale». Al fine di esemplificare l’esperimento, Vlad propone uno stralcio tematico del

Kinderkonzert (1954, dC 106), la composizione forse più conosciuta ed eseguita.4

Nell’importante Breve storia della musica, Massimo Mila, cui si deve la nota definizione di “Generazione dell’ottanta” utilizzata per circoscrivere il cluster di compositori, musicologi e musicisti nati negli anni ottanta dell’Ottocento, offre un’ulteriore coordinata critica sulla formazione del compositore bresciano. Margola non fu direttamente allievo di Alfredo Casella, tuttavia, come accade per Orazio Fiume e Jacopo Napoli, rimane debitore di quella generazione.5 Il saggio, edito da Einaudi nel 1963, per la sua breve descrizione ed elencazione dei musicisti della generazione di mezzo,6 è tutt’oggi considerato un importante strumento didattico.

Ancora nel volume dedicato al Novecento, nella sua Storia

della musica. Dalle antiche civiltà orientali alla musica elettronica, Antonio Capri, concordando con quanto scritto precedentemente, individua «nell’organicità e solidità» della forma l’identità stilistica di Franco Margola.7

Roberto Zanetti in La musica italiana nel Novecento,8 edita da Bramante Editrice nel 1985, delinea un’interessante analisi dell’ambiente musicale italiano impegnato nel confronto con la nuova musica caselliana. Analizzando i rapporti della musica col fascismo, nel quadro culturale dell’Italia tra le due guerre, descrive i rapporti esistenti tra gli esponenti della “Generazione dell’80”, che nel frattempo non avevano cessato la loro produzione musicale, e i nuovi compositori che, come Margola, che anche Zanetti annovera tra gli allievi di Alfredo Casella, andavano inserendosi nella corrente neoclassica europea.

Non è possibile procedere a un’elencazione sistematica dei numerosi scritti apparsi su altrettante riviste musicologiche. Basti

4 Ivi, p. 225

5 Massimo Mila, Breve storia della musica, Torino, Giulio Einaudi editore, 1993 (I ed. 1963), p.

438

6 Renzo Cresti, Linguaggio musicale di Franco Margola, Milano, Guido Miano Editore, 1994, p.

12

7 Antonio Capri, Storia della musica dalle antiche civiltà orientali alla musica elettronica, Vol.

VI, Il Novecento, s.l., Società editrice libraria, s.d., p. 189

8 Roberto Zanetti, La musica italiana nel Novecento, Voll. I e II, Busto Arsizio (VA), Bramante

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citare, in questa sede, «BresciaMusica», «Civiltà Musicale»,

«Accademia della chitarra classica» e «Rassegna Musicale Italiana» che, a mio avviso, sono i palinsesti dove furono pubblicati i contributi musicologici più interessanti.

Tuttavia, le opere in cui è stata predisposta un’indagine sistematica dell’opera di Franco Margola (una prima valutazione della sua attività) sono state pubblicate dopo il 1992, anno della sua morte.

La prima di queste ultime, in ordine di tempo, indispensabile per conoscerne la vastissima produzione, è Franco Margola,

Catalogo delle opere, edito nel 1993 per i tipi della Fondazione Civiltà Bresciana. È il catalogo dettagliato delle composizioni e, come avverte l’autore, costituisce il primo termine di riferimento per indagare sistematicamente la produzione margoliana. È stato necessario individuare dei criteri di selezione delle innumerevoli scritture che, per l’assenza di alcune caratteristiche, non sempre possono essere considerate composizioni a tutti gli effetti. Motivazione che ha indotto Ottavio de Carli, l’autore del catalogo, a considerare anche i piccoli frammenti9 e le opere incompiute. Brani per i quali non è stato possibile stabilire se il pezzo si trovasse in stato di abbandono, perché non adeguato alle aspettative, o incompleto perché perduto il possibile sviluppo. Il

modus compositivo di Margola ha sempre seguito percorsi molto irregolari10 e l’assenza di una datazione dei manoscritti, così come il disordine originario delle partiture e dei carteggi, ha reso possibile la datazione cronologica di una sola parte dell’intero

corpus. Considerata dunque l’impossibilità di datare con certezza le opere inedite – 540 ascrivibili all’ultimo periodo di attività –, il catalogo è stato suddiviso in due sezioni principali: la prima, per le composizioni da 1 a 334, catalogata seguendo un criterio cronologico, la seconda, da 335 a 814, in base agli organici orchestrali.

Nel 1994 Renzo Cresti pubblica da Miano Editore il

Linguaggio musicale di Franco Margola. Piccola opera che, individuando nella «tendenza alla linearità melodica, a una costruzione simmetrica e chiara, al raffinato gusto armonico e a un forte senso della forma»11 le costanti estetiche del suo stile, per prima analizza il linguaggio musicale del compositore bresciano.

9 Ottavio de Carli, Franco Margola, Catalogo delle opere, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana,

1993, p. 3

10 Ivi, p. 9

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Stilemi che gli derivano dalla lezione caselliana e che contribuiranno a inserirlo, come detto, nel panorama del neoclassicismo europeo degli anni trenta e quaranta.

La seconda pubblicazione di Ottavio De Carli Franco Margola,

il musicista e la sua opera,12 apparsa nel 1995, sempre per i tipi della Fondazione Civiltà Bresciana, affronta i primi importanti anni di formazione, fondamentali per comprendere a fondo il percorso artistico compiuto da Margola. Nei primi anni di studio a Brescia, in cui fu allievo di Romano Romanini - serio professionista radicato culturalmente nell’Ottocento -, il compositore, pur acquisendo una preparazione classica che sarà decisiva, non partecipò al dibattito teorico generato dalla crisi del linguaggio tonale. Saranno gli studi compiuti al Conservatorio di Parma, sotto la direzione di Guido Guerrini, Carlo Jachino e Achille Longo,13 ad avvicinarlo a una più aggiornata cultura nazionale che, soprattutto negli anni del fascismo, sarà foriera di grandi novità: i primi contatti con la vita musicale italiana, l’incontro con Alfredo Casella, i primi riconoscimenti e l’inizio di quell’attività didattica che, negli anni cinquanta, lo impegnerà attivamente nelle discussioni legate ai nuovi codici espressivi.

Ancora Renzo Cresti, nel 1996, pubblica da Miano Editore il secondo saggio dedicato al compositore bresciano. Con Franco

Margola nella critica italiana,14 l’autore presenta i numerosi articoli giornalistici, scritti in occasione delle prime esecuzioni assolute, da cui emerge un riconoscimento, direi unanime, della naturale musicalità e della gradevole espressività delle sue linee melodiche. Gettando una panoramica sulle costanti estetiche del suo stile, Cresti prende in considerazione un arco temporale, dagli anni trenta ai settanta, che racchiude gran parte dell’attività musicale di Franco Margola.

L’ultima indagine, in ordine cronologico, è stata da me realizzata in occasione della tesi di laurea. Un’esplorazione che, oggetto di una recente pubblicazione sui «Quaderni di Musicologia

dell’Università degli Studi di Verona», editi da Cierre Edizioni, per la sua approfondita analisi de Il mito di Caino, unica “opera lirica”

12 Ottavio de Carli, Franco Margola, il musicista e la sua opera, Brescia, Fondazione Civiltà

Bresciana, 1995

13 Ivi, pp. 76 - 92

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resente in catalogo, si aggiunge ai contributi critici pubblicati fino a questo momento.15

Sono inoltre da ricordare le voci bio-bibliografiche presenti in numerose opere a carattere enciclopedico che, in quanto tali, forniscono l’elenco delle opere più significative e alcune interessanti coordinate critiche. Si segnalano l’Enciclopedia della

musica edita da Ricordi, The New Grove Dictionary of Music and

Musicians, edito da Stanley Sadie, l’Enciclopedia dei musicisti

bresciani, edita dalla Fondazione Civiltà Bresciana e l’Enciclopedia

della Musica edita da Rizzoli – Ricordi.

15 Davide Marchi, Il mito di Caino. Opera in un atto di Franco Margola (1908 – 1992),

«Quaderni di Musicologia dell’Università degli Studi di Verona», a cura di Francesco Bissoli e di Elisa Grossato, II, Sommacampagna (VR), Cierre edizioni, 2008, pp. 295 - 312

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NEOCLASSICISMO. NEOCLASSICISMI

1. Ripensare il ruolo di molti compositori del Novecento rende necessaria la rivalutazione di una stagione artistica che, per la sua intrinseca complessità, non è criticamente collocabile all’interno di opposizioni binarie. Com’è noto, ogni singolare esperienza artistica nasce da una riflessione metalinguistica1 sulle innumerevoli vicende musicali entrate a far parte del canone musicale europeo. Ed è interessante notare come due storie musicali parallele, quella codificata dalla critica musicologica e quella soggettiva di ogni singolo compositore, siano sempre procedute parallelamente, trovando un comune punto d’incontro solo nel primo Novecento, con il movimento neoclassico. Termine polisemico in continua oscillazione che, tratto dall’ambito delle arti plastiche e figurative, ha generato una serie di fraintendimenti2 che non sempre hanno favorito il delinearsi di un preciso profilo delle numerose esperienze artistiche affermatesi nel decennio successivo al primo conflitto bellico. Le correnti neoclassiche che si imposero nell’ambiente musicale italiano dell’epoca, assunsero, nella loro diversità, i tratti di una koiné artistica che, nata in Francia nei primi anni del Novecento,3 trovò in «quel non so che di remoto» quella semplicità intesa come il risultato di un compimento.4

Franco Margola, compositore molto noto per la sua attività didattica svolta fra Roma – all’Accademia di Santa Cecilia -, Messina, Cagliari e Brescia, è una delle molte figure che non hanno ancora avuto piena valorizzazione in sede critica. Nel suo dialogo con le fonti antiche non è presente quell’instancabile ricerca di un perduto linguaggio strumentale che accomunò i compositori della “Generazione dell’ottanta”. Pur essendo molto partecipe al dibattito sulla crisi del linguaggio tonale, Margola avvicina una forma classica già codificata,5 che con Il mito di Caino6 (1940), unica opera “lirica” in catalogo, produrrà risultati molto interessanti. Una

1 Daniele Lombardi, Il suono veloce. Futurismo e Futurismi in musica, Lucca, BMG Ricordi,

1996, p. 19

2 Gianfranco Vinay in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, a cura di

David Bryant, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1988, p. 77

3 Roman Vlad, Modernità e tradizione nella musica contemporanea, Torino, Giulio Einaudi

editore, 1955, p. 124

4AA.VV., Alfredo Casella e l’Europa. Atti del Convegno internazionale di studi, a cura di Mila de

Santis, Firenze, Leo S. Olschki, 2003, p. 250

5

Renzo Cresti, Linguaggio musicale di Franco Margola, cit., p. 12

6 Davide Marchi, Il mito di Caino. Opera in un atto di Franco Margola (1908 – 1992), «Quaderni

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scelta che avviene con la precisa intenzione di ricreare gli equilibri formali interni alle antiche tradizioni estetiche italiane. La ricerca di una «purezza classica»,7 sperimentata dalle avanguardie europee nate dall’impressionismo francese,8 ha fatto in modo che la sua personalissima interpretazione ne marginalizzasse, dagli anni cinquanta in poi, l’intero corpus compositivo. Ancor oggi ampia parte della sua musica, ma direi della musica sinfonica italiana in genere - che com’è noto è nata nel primo Novecento dopo un lungo intervallo temporale -, non è stata ancora oggetto di uno studio sistematico. Margola appartiene a una generazione di compositori sfavorita dalla notorietà della “Generazione dell’ottanta”9 e, a seguire, dalla celebrità di compositori come Bruno Maderna, Luigi Nono e Luciano Berio che, nati negli anni venti del Novecento, avvicinarono integralmente il linguaggio seriale.10 Dei musicisti nati negli anni dieci, solo Goffredo Petrassi e Luigi Dallapiccola11 hanno avuto una visibilità internazionale. Tuttavia, gli altri compositori della generazione di Margola, che potrei definire della generazione di mezzo, hanno avuto l’importante ruolo, per certi aspetti non facile, di consolidare il legame con le tendenze internazionali12 e sviluppare il lavoro avviato da Alfredo Casella (1883 – 1947), il compositore forse più aggiornato. Casella, analogamente a Gian Francesco Malipiero (1882 – 1973), che completò gli studi a Vienna e Berlino, e a Ottorino Respighi (1879 – 1936), che fu allievo di Rimskij-korsakov a Pietroburgo, visse a Parigi le più importanti esperienze europee. Esperienze in cui è ravvisabile l’origine di una poetica multiforme e discussa che non impedì ai compositori del gruppo di sperimentare poetiche molto eterogenee sempre mediate da una consapevolezza critica13 che si pose quale punto di riferimento nella querelle d’inizio secolo. Posizioni individuali che acquisirono i tratti di una vera e propria avanguardia, una “pars

destruens” che mise in discussione il

7 Adriana Guarneri Corazzol in Alfredo Casella e l’Europa, Atti del Convegno internazionale di

studi, cit., p. 287

8 Guido Salvetti, La nascita del Novecento, Torino, E.D.T. Edizioni, 1991, p. 307 9 Ivi, p. 12

10 Un nuovo tipo di approccio al materiale sonoro in cui il singolo suono non veniva più inteso

solamente come ponte di passaggio funzionale tra due altri suoni, ma come valore in sé, come micro universo autosufficiente, come luogo di esplorazioni inedite, in Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, Pisa, Edizioni ETS, 2007, p. 29

11Renzo Cresti, Linguaggio musicale di Franco Margola, cit., p. 12 12 Ivi, p. 13

13 Fiamma Nicolodi, Musica e Musicisti nel ventennio fascista, Fiesole, Discanto Edizioni, 1984,

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legame con la tradizione melodrammatica ottocentesca. Casella partecipò attivamente al dibattito critico riuscendo a porre le basi per la nascita di un «sinfonismo spiccatamente nazionale».14 Soluzione formale aperta ai linguaggi musicali internazionali che il compositore torinese sperimentò nonostante le posizioni teoriche all’interno del gruppo non avessero favorito il suo ideale modernista,15 con la sola eccezione di Malipiero, che come lui non andò mai oltre la politonalità.16 Il gruppo dell’80, proprio perché eterogeneo, fu composto da musicisti che, almeno fino al 1913, non trovarono un comune punto d’incontro. Costituito inizialmente da soli musicisti, in seguito accolse critici, musicologi e direttori d’orchestra: da Fausto Torrefranca (1883 – 1955) a Giannotto Bastianelli(1883 – 1927), da Vittorio Gui (1885 – 1975) a Victor de Sabata (1892 – 1967) e molti altri.17

All’interno dell’avanguardia, nonostante le differenze originarie dei vari compositori si ampliassero nel corso degli anni venti, la poetica neoclassica divenne un vero e proprio linguaggio comune, all’interno del quale lo steso Margola riconobbe un codice espressivo adeguato alla propria natura ottimistica. Diviene dunque opportuno ri-pensare al ruolo dei compositori appartenuti alla generazione di mezzo nell’evoluzione musicale della prima metà del secolo, periodo in cui gli esponenti della “Generazione dell’ottanta”, ancora molto attivi, non avevano ancora cessato la loro attività compositiva. Tralasciando il rapporto originario tra il compositore che produce musica e l’ascoltatore, è ora importante riconsiderare criticamente un sistema di trasmissione che, per tradizione, tende a imporre criteri di valore. Troppe opere compositive “non canoniche” sono oggi considerate minori perché conosciute superficialmente.

Enrico Fubini individua nella sopravvalutazione di alcune correnti dell’avanguardia darmstadtiana, influenzata dal pensiero critico di Adorno e della sua scuola, una delle cause che contribuirono a relegare nella dimenticanza ampia parte dei

14 Alfredo Casella, 21+26, Firenze, Leo S. Olschki, 2001, p.2

15 Esperienza internazionale che interessava, fra i pochi, lo stesso Puccini, il quale però non aveva

il sufficiente pensiero critico e la preparazione culturale per poter mettere a frutto le informazioni che indubbiamente possedeva, ma che poteva utilizzare solo d’istinto: non è un caso che Puccini rimanga interdetto all’ascolto della musica di Schönberg, mentre Casella la sappia accogliere con vigile curiosità intellettuale e con ben altra coscienza storico-culturale in Renzo Cresti, Linguaggio musicale di Franco Margola, cit., p. 14

16 Massimo Mila, Breve storia della musica, cit., p. 421

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compositori18 che, come Franco Margola, iniziarono la loro attività negli anni trenta. Una visione critica dell’avanguardia che fece di alcuni musicisti il simbolo esclusivo del cambiamento che si andava profilando.19

L’aver considerato le correnti che hanno contribuito a disgregare i portati della tradizione come le uniche fonti di cambiamento, non ha reso possibile una descrizione organica del complesso panorama musicale europeo. Rileggendo Schönberg is

dead di Pierre Boulez (1925) – uno dei più lucidi protagonisti delle avanguardie post-weberniane –, è possibile osservare la posizione assunta dalle avanguardie – intese come atonalità, dodecafonia e serialismo -, nei confronti della tradizione musicale europea.20 Tuttavia Boulez fu il primo a mettere in discussione la genealogia adorniana Wagner-Schönberg-Webern-Darmstadt,21 individuando in Claude Debussy (1862 – 1918) e Igor Strawinskij (1882 – 1971), che nella seconda metà degli anni venti andava codificando i tratti normativi22 del classicismo, gli anticipatori di Anton Webern (1883 – 1945) e della scuola di Darmstadt.

Nel Novecento si sono così affermate due concezioni estetiche diametralmente opposte, a volte intrecciate in modo quasi indistinguibile. Una prima tendenza, più radicale, che si è espressa mediante il dissolvimento dell’espressione musicale e l’abolizione della forma come fonte di significato, e una seconda che si è orientata, al contrario, verso la ricerca di un tipo di espressione fondata sul rifiuto degli aspetti formali ereditati da un wagnerismo ancora vivace alla fine dell’Ottocento.23 Due concezioni estetiche che, individuando in Parigi e Vienna i principali centri d’irradiazione, legittimarono l’esistenza di una doppia polarità nelle radici dell’avanguardia.

Con la prima esecuzione della Sagra della Primavera di Strawinskij, avvenuta nel 1913, a Parigi furono poste le basi per una reazione neoclassica all’impressionismo postromantico24 teorizzata

18 Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, Pisa, Edizioni ETS, 2007, p. 7

19 L’asse portante del corso della musica negli ultimi cent’anni si può senz’altro ravvisare nello

stretto collegamento individuabile nella genealogia che a partire da Wagner, attraverso Mahler, Schönberg e la scuola di Vienna, giunge sino a Webern e al postwebernismo con la scuola di Darmstadt e la serialità integrale, Ivi, p 12

20 Ivi, p. 8 21 Ivi, p. 13

22 Raffaele Pozzi, L’ideologia neoclassica, in Enciclopedia della musica, Le avanguardie musicali

del Novecento, Vol. III, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001, p. 460

23 Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, cit. p. 30

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inizialmente dal «socratico insegnamento»25 di Erik Satie (1866 – 1925) - avvicinatosi all’arte del contrappunto in tarda età –, e del Gruppo dei sei. Il Neoclassicisme fu inteso, sin dalla nascita della Societé Nationale de Musique, avvenuta il 25 febbraio 1871 dopo la guerra franco-prussiana, come una reazione al pensiero musicale germanico, così come la stessa definizione di Ars gallica, incluse intenti chiaramente nazionalistici.26 Antiromanticismo e nazionalismo, tra antico-nazionale e antico-popolare - come accadrà più tardi anche in Italia -, stimolarono questo rinnovato interesse per il sinfonismo del Seicento e del Settecento. Una tendenza antiquaria che giunse in Italia dalla Francia - all’epoca volta alle rievocazioni nostalgiche dei Parnassiani -, sin dalla fine dell’Ottocento, quando, nel 1892, con Cavalleria Rusticana l’opera verista giunse nei teatri parigini.27 Ideale estetico che favorì la nascita di una poetica detta del retour à che diverrà modello imprescindibile per i musicisti successivi a Claude Debussy e Maurice Ravel (1875 – 1937), i quali, con Suite bergamasque (1890 – 1905) e Menuet antique (1895), ricorsero a una metamorfosi stilistica28 che li accomunò ad alcuni esponenti della “Generazione dell’ottanta”, in particolar modo ad Alfredo Casella che, con le sue personalissime interpretazioni orchestrali della Ciaccona e dei

Ricercari sul nome di Bach espresse, tra gli innumerevoli modelli di rilettura dell’antico, una «musica latente» fatta di chiarezza ed equilibrio.29

L’idea adorniana di avanguardia musicale, collegata alla seconda scuola di Vienna, mise ai margini molte correnti della musica contemporanea: una prospettiva storiografica parziale che non esclude solamente Debussy ma anche Ravel, Satie, Varèse e forse anche Béla Bartók,30 che stava procedendo in una direzione intermedia fra Strawinskij e Arnold Schönberg31 (1874 – 1951), e altri musicisti della prima metà del Novecento e molti altri ancora

25 Massimo Mila, Breve storia della musica, cit., p. 363

26 Jean Cocteau scrisse in Le Coq et l’Arlequin (1918): «Satie insegna la più grande audacia per la

nostra epoca: essere semplice. […] Ora, mentre Debussy sfoggiava con delicatezza la sua grazia femminea, a passeggio con Stéphane Mallarmé nel Giardino dell’Infanta, Satie proseguiva la sua strada classica», in Enciclopedia della musica, Le avanguardie musicali del Novecento, Vol. III, cit. p. 458

27 Fiamma Nicolodi, Musica e Musicisti nel ventennio fascista, cit., p. 122

28 Raffaele Pozzi, L’ideologia neoclassica, in Enciclopedia della musica, Le avanguardie musicali

del Novecento, cit., pp. 457-458

29 Alfredo Casella, 21+26, cit., p. 9

30 Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 21

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per quanto riguarda gli ultimi decenni. Ripensare le coordinate storiche delle avanguardie del Novecento diviene un passaggio obbligato per avviare una seria riconsiderazione di uno schema interpretativo oramai superato.

La pubblicazione di notevoli contributi critici provenienti dall’area musicologica francese contribuisce, oggi, a pensare un più organico approccio storiografico agli spazi musicali interestetici. In Italia la prima traduzione de La musique et l’ineffable di Vladimir Jankélévitch (1903 – 1985), pubblicato a Parigi nel 1961, è apparsa solo nel 1985. Anche Jankélévitch, filosofo e musicologo francese, conducendo un’equilibrata revisione di alcune coordinate critiche, ha dimostrato che Debussy, al pari di Wagner, può essere considerato uno dei padri dell’avanguardia.32 Una sorta di reazione al wagnerismo che accomuna non solo Schönberg e Debussy, ma anche i compositori attivi in Italia negli stessi anni. Alfredo Casella, in I Segreti della giara (1941), dichiarerà che «per reagire al verismo l’unica via possibile era quella di appoggiarsi alle avanguardie europee nate dall’impressionismo». La reazione antiwagneriana si espresse infatti estremizzando la concentrazione e la condensazione delle scritture orchestrali, un’antiretorica espressa mediante una riduzione sistematica dei mezzi - attraverso un rigore espressivo senza precedenti -, che spostò l’attenzione verso quelle correnti che non furono oggetto di studio, almeno fino al momento in cui T. W. Adorno (1903 – 1969) pubblicava i risultati delle sue analisi musicologiche. Sono numerosi gli aspetti formali che, come la negazione di un sinfonismo ipertrofico, dei grandi insiemi orchestrali, come la semplificazione degli impasti sonori e il ripensamento di forme troppo lunghe e complesse,33 dimostrano come anche l’Ars gallica contribuisse a rifondare il linguaggio musicale. Infatti, a parere di Pierre Boulez, furono Debussy, come poi Webern, a dissolvere l’organizzazione formale delle composizioni. Appare chiaro come la visione adorniana possa essere accettata solo escludendo elementi molto importanti delle avanguardie, soprattutto francesi, che ancora non conoscevano l’opera filosofica di Adorno.34 Con le avanguardie viene dunque meno il senso affermativo della musica,35 aspetto fondamentale che, presente sin dall’inizio dell’era tonale, è stato ritrovato” dalla “Generazione dell’ottanta” in Italia, dal Gruppo dei sei in Francia

32 Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 18

33 Pierre Boulez, Note d’apprendistato,Torino,Giulio Einaudi editore, 1968, p. 241 34 Enrico Fubini, Il pensiero musicale del Novecento, cit., p. 15

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e dalle scuole nazionali russe, spagnole, ceche e ungheresi,36 di cui Adorno non ha mai fatto menzione. Scuole che stavano indicando percorsi musicali alternativi a un canone estetico che aveva favorito solamente alcuni aspetti della composizione musicale.37 Anche Casella, immerso profondamente nelle maggiori esperienze europee, nel poema sinfonico Italia (1909), breve parentesi folclorica, si affidò alla citazione delle linee melodiche di canzoni siciliane e napoletane.38 Instaurare un nuovo rapporto con la tradizione, come nel caso di Leoš Janáček (1854 – 1928), pensare un diverso modo di elaborarne i portati e la ricerca di una nuova concezione di modernità sono caratteri comuni alla via nazional-popolare, la cui importanza è ravvisabile nell’implicita analisi dell’identità nazionale a confronto con le avanguardie musicali.

Oggi la tradizione viennese non è più così centrale. Una nuova valutazione della pluralità dei linguaggi musicali ha dato visibilità e pari dignità alle poetiche fondate su un equilibrio assoluto tra la dimensione orizzontale e verticale del discorso sonoro.39 Tuttavia, numerose opere compositive novecentesche devono ancora essere ridefinite alla luce dei rispettivi linguaggi, complicati e molteplici. 2. Una trattazione più specifica, per le peculiari caratteristiche storiche, merita il caso italiano, ambito in cui la nascita di un

«sinfonismo spiccatamente nazionale» ebbe un percorso più accidentato di altre realtà europee che potevano vantare una tradizione sinfonica più stabile. Tuttavia in Italia non si rinunciò alla ricerca di nuove formule oltre la consolidata relazione ottocentesca moralità/emozione del melodramma.40

La “Generazione dell’ottanta”, come Massimo Mila definì il gruppo di cui fecevano parte Casella, Malipiero, Pizzetti, Respighi e altri compositori, si pose inizialmente quale punto d’incontro tra un atteggiamento classico/nazionale e le voci europee più innovative. Dopo un intenso periodo di convergenza, compreso tra il 1913 il 1917,41 ognuno di loro abbandonò la linea inizialmente condivisa per sviluppare personali poetiche di allontanamento/avvicinamento alla tradizione in cui i temi del neoclassicismo e dell’internazionalismo furono posti al centro delle

36 Ivi, p. 18 37 Ibidem

38 Fiamma Nicolodi, Musica e Musicisti nel ventennio fascista, cit., p. 134 39 Roman Vlad, Modernità e tradizione nella musica contemporanea, cit. p. 46

40 AA. VV., Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p. XXXIX 41 Guido Salvetti, La nascita del Novecento, cit., pp. 296-7

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numerose contese createsi all’interno del gruppo. Una frattura che divenne decisiva nel 1932 quando, sulle pagine del «Corriere della

sera» e de «La stampa», i compositori più tradizionalisti sostennero posizioni critiche chiaramente avverse ai «modernisti» Malipiero e Casella.42

Per comprendere l’urgenza di una mediazione può essere molto interessante rileggere le pagine de «La Voce», negli scritti di Fausto Torrefranca e Giannotto Bastianelli, tra il 1909 e il 1912, per avere una reale panoramica del dibattito più strettamente musicologico del primo Novecento. Anni in cui i miti del nazionalismo stavano favorendo una tensione ideale che, orientata al recupero dell’antica grandezza musicale italiana, condizionò notevolmente l’evolversi della cultura musicale dell’epoca. Anche alcuni musicisti del gruppo dell’80, come Casella e Pizzetti, furono attivamente impegnati nel dibattito culturale degli intellettuali vociani e lacerbiani.43 Alla fine del primo decennio si andava così prospettando quella sintesi tra posizioni idealiste, spiritualiste e irrazionaliste, che fu determinante per la cultura italiana in un momento di apertura alle più aggiornate esperienze europee.44 Anni apparentemente sereni che posero in evidenza i frequenti e dolorosi conflitti sociali che influirono sui più importanti aspetti della cultura e del costume.45

Una tarda testimonianza di Alfredo Casella, in uno dei suoi scritti più autobiografici, descrive la situazione degli istituti musicali in Italia sul finire dell’Ottocento:

«È noto che, dopo aver fatto i primi studi a Torino, fui condotto a Parigi a scopo di perfezionarmi. […] Non è agevole cosa l’immaginare oggi quale fosse lo stato dell’insegnamento musicale italiano trentacinque anni fa. Basti dire che i miei genitori decisero l’esodo a Parigi dietro consiglio di due direttori di conservatorio italiani: Bazzini e Martucci!».46

42 Fiamma Nicolodi, Musica e Musicisti nel ventennio fascista, cit., p. 140

43 Elisa Grossato, Il tema della ‘grande guerra’ nelle creazioni dei musicisti “vociani” e

“futuristi”, in Omaggio a Soffici nel 35° anniversario dalla scomparsa, «Quaderni Sofficiani», a cura di M. Richter e J. Francois Rodriguez, n° 5, 1999, pp. 117-8

44 Guido Salvetti, La nascita del Novecento, cit., p. 291

45 Alvise Zorzi in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p. 7 46 Alfredo Casella, 21+26, cit., p. 1

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In tale prospettiva, il contributo musicologico che Fausto Torrefranca scrisse nel 1910 sulle pagine de «La Voce» diviene un’importante testimonianza:

«L’Italia ha l’essenziale per costituirsi una coltura, ossia una coscienza musicale tutta sua, non v’ha chi non lo veda. Tuttavia […] l’Italia è quel paese nel quale non esistono sezioni musicali nelle Biblioteche regie. E perciò gli studiosi poveri – ossia i veri studiosi – non hanno libri per studiare, né la tecnica, né l’estetica, né la storia della musica. Né possono accedere ai capolavori dell’arte antica […] Esse – le biblioteche – sono chiuse agli studiosi per la semplicissima ed evidentissima ragione che lo studio e la volgarizzazione delle opere che esse contengono farebbe perdere di pregio alle singolari collezioni che vi stanno a dormire […] Esiste una sola società che si proponga un programma organico da svolgere in pro della conoscenza della nostra arte antica – da camera e da teatro – mediante concerti e conferenze storico-critiche? […] L’Italia non ha coscienza viva del proprio passato musicale: né ufficialmente né popolarmente. […] Ogni musicista italiano che si rispetti […] balbetta il linguaggio musicale dei suoi avi naturali e, poiché gli riesce più facile parlar tedesco o francese o slavo o boemo, si dedica corpo e anima allo studio di un neo-dialetto musicale straniero […] Sarebbe forse interessante conoscere le opere antiche ma esse sono ormai peste o stritolate dal sacro carro wagneriano che si avanzò sui loro corpi, abbattuti dalla forza dell’evoluzione storica. Il Settecento, questo secolo ignorato e vilipeso, è precisamente quello che ci offre i capolavori più prossimi al nostro sentire moderno; e però meglio di ogni altra età musicale varrà a ridare continuità storica alla nostra coscienza musicale e ad animare di schietta italianità una futura rinascita. […] Quanti sanno che questi prodigiosi settecentisti composero con una armonia di proporzioni, con un impeto di ricchezza melodica e sinfonica e con una drammatica modernità di intenti che fanno ancora sbalordire?».47

Pur racchiudendo posizioni di aperta polemica nei confronti della tradizione operistica, di cui oggi si è ridimensionata la portata, l’analisi di Torrefranca pone in rilievo l’importante opera di recupero delle fonti musicali italiane, all’epoca in stato di completo abbandono, e le prime discussioni sulle pratiche esecutive.48

Negli stessi anni l’editoria musicale, con la riproposta dell’opera omnia di Giovan Battista Pergolesi e l’importante ricerca critica su alcune composizioni di Claudio Monteverdi condotta da

47 Giuseppe Prezzolini, La Voce, 1908 – 1913, Cronaca, antologia e fortuna di una rivista,

Milano, Rusconi Editore, 1974, pp. 869-873

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Gian Francesco Malipiero,49 stava avviando un intenso programma di pubblicazione di antiche musiche italiane. Il repertorio antico divenne oggetto di un vivace interesse che, avviando gli studi di critica musicale, favorì l’intensa attività di musicologi-trascrittori, musicologi-musicisti (Gasperini, Tebaldini) e compositori revisori ed elaboratori (Orefice e Ghedini).50 È opportuno osservare che, ancora nel 1919, tra i concerti di Antonio Vivaldi solamente Le

quattro stagioni, peraltro nella versione per pianoforte a quattro mani, erano entrate stabilmente nel repertorio dei musicisti.

La pubblicazione del manifesto che rendeva note le intenzioni dei «cinque italiani», gruppo più ideale che reale,51 avvenuta nel 1911 sulle fiorentine «Cronache letterarie» (redatto da Bastianelli in collaborazione con Malipiero, Bossi, Respighi e Pizzetti)52 intese esprimere il desiderio di rivitalizzare il patrimonio strumentale italiano. Lo stesso Bastianelli in Crisi musicale europea, pubblicato nel 1912, fu tra i primi musicologi a riflettere sulle esperienze musicali contemporanee. Guardando con ammirazione all’inventio compositiva delle ultime sonate di Skrjabin, giudicava la complessità cromatica dell’opera di Richard Strauss inadatta allo spirito italiano, orientando il suo pensiero critico sull’opera di Debussy e Ravel.53 Un problema, quello della crisi musicale europea, di cui Bastianelli scrisse anche sulle pagine de «La Voce» del 20 giugno 1912:

«Perosi, Mascagni, Massenet, Charpentier, Magnard, Saint Saëns, Max Reger ecc. ecc., sono inferiori ai decadenti Albeniz, D’Indy, Strauss, Debussy, Ducas, Ravel, Roger Ducasse, e chi più ne ha più ne metta, appunto in questo: che la loro aisthesis e l’espressione musicale di questa loro sensibilità o potenzialità d’introspezione, è infinitamente più grossolana e meno profondamente bella di quei sunnominati decadenti. […] Progresso e regresso in arte non c’è. […] Voglio soltanto affermare che la musica, oggi come nel ‘300-‘400-‘500, è sulla via d’una nuova espansione e progressività. Sempre a suo tempo confronterò, a prova di ciò, l’inizio del nuovo periodo tonale verso cui ci incamminiamo, con la grande nascita dei «modi» tonali che dovevano poi imperare da Frescobaldi a Wagner, a Brahms e a Strauss. […] Credo cioè che chi oggi vuole comporre non può essere un retrogrado nell’armonia come senso

49 Guido Salvetti, La nascita del Novecento, cit., p 285 50 Ivi, p. 288

51 Fiamma Nicolodi, Musica e Musicisti nel ventennio fascista, cit., p. 127

52 Marcello De Angelis in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit.,

p. 46

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tonale psicologicamente modernissimo, né un retrogrado nel modo di trattare il ritmo, il contrappunto e il colore strumentale, al modo stesso che un poeta moderno non può esprimersi col senso grammaticale della latinità o con quello italiano del ‘700-‘800 […] Ma è bene però che fin dal principio io dichiari che nel fare dell’arte (e per far dell’arte nuova occorre rivivere anche la vecchia) è impossibile essere futuristi, sebbene,

come diceva un mio acuto amico, degli eternisti».54

Gli scritti teorici di Bastianelli, Pizzetti e Torrefranca diedero espressione a una linea critica che, sviluppatasi oltralpe, intese indagare, contribuendo alla diffusione di alcune posizioni vociane, i modi della scena musicale primonovecentesca. Progetto dimostratosi in seguito poco duraturo per le note divergenze all’interno del gruppo dell’80: Dissonanza,55 il periodico fiorentino curato nel 1914 da Bastianelli e Pizzetti presso «La libreria» de «La

voce», fu sospeso dopo soli tre numeri.56 Ed è a Parigi, nel 1913, quando «La Voce» stava perdendo la sua funzione di comune punto d’incontro, che si intravede, nel forte legame tra Alfredo Casella, nella capitale francese dal 1896, Gian Francesco Malipiero e Ildebrando Pizzetti, l’esistenza di una stagione musicale italiana. Per iniziativa dello stesso Casella, nel 1914, vi fu organizzato un concerto di musiche italiane, il cui programma prevedeva anche l’esecuzione di liriche di Pizzetti, Malipiero e un concerto per due pianoforti di Giannotto Bastianelli.57 In occasione di questo importante evento i tre compositori pubblicarono un manifesto programmatico in cui si affermava che il perfezionamento del linguaggio sonoro doveva mantenere un preciso equilibrio fra la tradizione estetica nazionale e il «dinamismo costruttivo»58 delle esperienze musicali più avanzate. I risultati della sperimentazione non furono però così scontati. Questa volontà d’antico fu inizialmente contrastata dalle difficoltà generate dalla fusione di gregoriano, polifonia rinascimentale e il meglio di Verdi con le esperienze nate dall’impressionismo francese.59 Negli stessi anni in cui si faceva divieto a Toscanini di eseguire brani sinfonici di Haydn o di Wagner5 0 Casella, con la sua vitalità intellettuale e la

54Giuseppe Prezzolini, La Voce, 1908 – 1913, Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, cit., pp.

876-878

55 Antologia di nuove musiche italiane selezionate da Bastianelli e Pizzetti. 56 Fiamma Nicolodi, Musica e Musicisti nel ventennio fascista, cit., p. 127 57 Guido Salvetti, La nascita del Novecento, cit., p. 295

58 Alfredo Casella, 21+26, cit., p. 18

59 Marcello De Angelis in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit.,

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qualità delle sue conoscenze, propose nuove formule compositive per il rinnovamento della vita musicale italiana esplorando il campo delle tendenze internazionali. Nel 1915 diresse Petrouschka all’Accademia di Santa Cecilia a Roma e, nel 1917, con Pizzetti, Respighi e Malipiero fondò la Società Italiana di Musica Moderna (SIMM). La pubblicazione del periodico «Ars Nova », dal 1917 al 1919, che vedeva Arturo Toscanini e Ferruccio Busoni quali presidenti onorari,60 favorì un vivace intreccio di collaborazioni. Un intenso dialogo da cui scaturì la necessità di un allargamento dei generi musicali e di un confronto con i diversi aspetti della musica europea in un quadro estetico-culturale che andava trasformandosi rapidamente.

3. È oramai chiaro quanto il neoclassicismo italiano sia debitore di una poetica che, diffusasi in tutta l’Europa, restituì le scritture musicali a un ordine classico che i compositori realizzarono attraverso un complesso dialogo con i maestri antichi. Una tendenza sotterranea, quella rivolta all’antico, che si snoda lungo una linea che emerge negli stessi ambiti dell’avanguardia. In questa prospettiva artistica i binomi contemporaneità/innovazione e antico/tradizione61 indicano quanto il ritorno all’ordine, o rappel à

l’ordre, per utilizzare il motto cardarelliano de «La Ronda», di poco anticipato dai proclami classicisti di Valery,62 fosse presente fin dai primi anni del secolo e andasse affermandosi nel tempo, trovando un suo peculiare carattere nelle manifestazioni artistiche degli anni compresi tra le due guerre. Il ritorno all’ordine, che cela pulsioni più disordinate di quanto possa apparire,63 fu rivendicato da Francia e Italia come un tratto costitutivo della civiltà latina, mediterranea e classica, in aperta opposizione alle soluzioni formali di area germanica.64 L’espressione rondista non fu in realtà adottata da alcun artista, né in Italia né altrove. I musicisti, in particolar modo, preferirono alludere a una più generica classicità.65 Tuttavia, la maggior parte degli artisti, come degli intellettuali, manifestò una certa riluttanza verso l’adozione del termine neoclassico perché inteso come una ripetizione meccanica dell’antico, mentre, al

60 Guido Salvetti, La nascita del Novecento, cit., p. 303

61 Guido Salvetti in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p. 67 62 Elena Pontiggia, Modernità e classicità: il ritorno all’ordine in Europa, dal primo dopoguerra

agli anni trenta, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2005, p.24

63 Ivi, p. 9 64 Ivi, p. 46 65 Ivi, p. 49

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contrario, gli artisti che aderirono a «Valori Plastici» (1919), parallelo pittorico de «La Ronda», lo intesero come il segno di una grande stagione artistica.66 Tuttavia il neoclassicismo, che, come detto, si configura come una koiné internazionale, fu caratterizzato da un composito insieme di movimenti nazionali, non privi di analogie e parallelismi, che si espresse compiutamente nella riscoperta del legame con la cultura di appartenenza, che permise agli artisti di sperimentare personalissime riletture dell’antico. Il

rappel à l’ordre raggiunse una sua fase di maturazione, coincidente con il periodo di maggior vitalità - tra il 1919 e il 1925 -, quando anche tra i musicisti della “Generazione dell’ottanta” si ebbe una singolare convergenza dalla quale originò un movimento di ricostruzione della forma che tese a configurarsi come una «terza via»67 alternativa alla tradizione melodrammatica. Una terza via neoclassica, che Vinay68 definisce caselliana, volta alla sperimentazione di un modernismo internazionale e avanguardistico69 caratterizzato da un fare compositivo inteso quale «artigianato superiore».70

La difficoltà di imporre limiti teorici a una tendenza multiforme che sfugge a ogni tentativo di categorizzazione storica,71 è evidente nel percorso artistico di Alfredo Casella, il quale ha trovato la sua ‘intonazione’ compositiva più stabile relativamente tardi.72 Una stabilità che, come egli stesso afferma in 21+26, raggiunse nel 1923 con le Tre Canzoni Trecentesche. Una ricercata continuità con la tradizione che si realizza compiutamente in

Quattro Favole di Trilussa, nel balletto La Giara, nella Partita per

pianoforte e orchestra e in La donna serpente, opera in tre atti e un prologo.73 La sua “terza maniera” corrisponde a una vera e propria svolta stilistica caratterizzata da un codice musicale che, per sua stessa affermazione, Casella apprese, sin dal 1920, durante l’assidua frequentazione di un movimento pittorico che in quel momento stava rivisitando le opere di Giotto, Masaccio, Paolo Uccello e Piero della Francesca. Anni in cui la sua casa romana, crocevia dei più importanti esponenti dell’arte europea e americana, divenne un

66 Ivi, p. 51

67 Alfredo Casella, 21+26, cit., p. V 68 Ibidem

69 Ivi, p. X 70 Ivi, p. 14

71 AA. VV., Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p. V 72 Alfredo Casella, 21+26, cit., p. 7

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cenacolo culturale di altissimo livello.74 Conobbe Casorati, de Chirico, Carrà, artisti da cui colse quelle suggestioni che tradusse in astrazioni neoclassiche, dimostrando lo stretto legame tra le più varie dimensioni artistiche.

Nei primi anni venti i giovani artisti iniziavano ad attribuire grande rilevanza agli ideali espressi da «Leonardo», da «Lacerba» e dalla «Voce».75 Le stesse pagine di «Valori Plastici» e de «La

Ronda», divennero luoghi di un intenso dibattito culturale. Le varie dimensioni artistiche, pur rimanendo ben distinte, furono accomunate da un unico ideale poetico in cui la musica prestava le sue regole alla pittura, la scultura offriva nuovi riferimenti spaziali alla musica e la poesia accoglieva in sé ogni possibile espressione artistica.76 Una complessa osmosi che trovò nello scambio tra «Ars

Nova» e «Valori Plastici»77 un terreno ideale. L’essenzialità e l’oggettività espressa da alcune opere di Strawinkij (Sonata per due

pianoforti), in cui la geometria interna esprime un preciso senso di unità stilistica,78 fu accolta favorevolmente e intesa quale innovativa formula compositiva.

Il concetto di neoclassico può essere dunque continuamente ripensato79 nei termini di un atteggiamento attivo nei confronti del passato.80 Guido Salvetti ritiene, a ragione, che gli ideali di ciò che può essere inteso come neoclassicismo siano riconoscibili in una serie di composizioni musicali che, fino alla metà degli anni venti del Novecento, espressero tratti omogenei.81 Un anno prima dell’uscita de «La Ronda» Alfredo Casella pubblicava su «Ars

Nova» il celebre elenco delle caratteristiche della musica, detta della seconda maniera, che andava componendo in quegli anni: grandiosità, concisione, sobrietà e semplicità delle linee furono viste come elementi di un classicismo (caselliano) fondato su un’instancabile ricerca di novità. Tratti che si possono individuare anche nella Junge klassizität di Ferruccio Busoni, anch’essa agita entro una riconquista/rigenerazione del passato.82

74 Carlo Belli in Musica Italiana del primo Novecento, “La generazione dell’80”, a cura di

Fiamma Nicolodi, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1981, p. 329

75 Ivi, p. 323 76 Ivi, p. 330

77 AA. VV., Alfredo Casella e l’Europa, cit., p. 106 78 Ivi, p.322

79 Gianfranco Vinay in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p.

77

80 Guido Salvetti in Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p 71 81 Ivi, p. 72

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Tuttavia, la riflessione sulla poetica neoclassica non coinvolse il pensiero strumentale. Il neoclassicismo fu un’esclusiva questione di contenuti che, nelle sperimentazioni formali di Casella e Malipiero, corrispose a una ricerca in progressione delle fonti che fu compiuta attraverso stilemi strumentali della tradizione ottocentesca. Lo stesso Ottorino Respighi tradusse il suo pensiero compositivo nei termini di un virtuosismo tradizionale.83

La poetica musicale neoclassica, per quella frammentarietà che le è peculiare, deve essere riportata alle forme situate nel «fra».84 Sin dal primo Novecento, come detto, la musica seguì percorsi individualistici che, osservati a posteriori, rivelano una frattura maggiore di quella verificatasi nell’ambito delle lettere,85 in cui la cultura stava procedendo organicamente mediante movimenti, riviste e poetiche ben definite.86 Basti pensare, a scopo esemplificativo, che uno stesso soggetto letterario dannunziano fu meditato, con esiti diversissimi, da almeno tre compositori: da Malipiero, con Sogno di un tramonto d’autunno, da Pizzetti, con

Pisanella, e da Mascagni con Parisina.87 Esempio che può evidenziare la presenza di un humus culturale che fu in grado di assorbire molteplici identità. Un cortocircuito di superamenti e ritorni alla/della tradizione88 in cui non erano segnali che lasciassero intravedere l’imminente superamento della ricchissima tradizione operistica.89

Le oscillazioni di gusto occorse nell’ambito delle arti figurative possono porre nella giusta prospettiva la lettura di questi primi decenni, almeno fino al secondo dopoguerra, inducendoci a osservare quanto quelle voci musicali, nella loro molteplicità, si siano illuminate e commentate vicendevolmente,90 nonostante fossero prive di «conflittualità costruttiva».91

4. La descrizione delle tendenze musicali italiane d’inizio Novecento costituisce dunque una premessa necessaria. Non sarebbe possibile iniziare una trattazione del linguaggio musicale di Franco Margola ignorando la funzione progressiva svolta dalla

83 Piero Rattalino in Musica Italiana del primo Novecento, “La generazione dell’80”, cit., p. 374 84 AA. VV., Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p. IX

85 Giorgio Petrocchi in Musica Italiana del primo Novecento, “La generazione dell’80”, cit., p. 14 86 Ivi, p. 15

87 Ivi, p. 14

88 AA. VV., Il Novecento musicale italiano, tra neoclassicismo e neogoticismo, cit., p. XII 89 AA. VV., Musica Italiana del primo Novecento, “La generazione dell’80”, cit., p. 5 90 Ivi, Luciano Berio, p. 10

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“Generazione dell’ottanta”. I musicisti bresciani attivi all’epoca degli studi di Margola erano certamente consapevoli di quanto stava accadendo negli ambienti nazionali più aggiornati. E, senz’ombra di dubbio, la figura che più poteva dare in questo senso, proprio per quelle esperienze e conoscenze che aveva maturato durante tutta la sua carriera, fu Romano Romanini.92 L’apprendimento delle basi della tradizione ottocentesca consentì a Margola di avere una formazione di alto livello: classicità, contrappunto, senso della forma, dell’equilibrio e della costruzione logica93 divennero elementi di continuità di un linguaggio musicale che, per il suo atteggiamento di moderazione, poco incline a soluzioni di rottura, tese a conservare aspetti della tradizione tardo-romantica.94 Elementi che segnano l’originaria appartenenza di Margola a un ambito culturale attardato su posizioni ottocentesche – che per lui non costituì mai un problema -, che comunque non gli impedì di partecipare attivamente al dibattito musicale contemporaneo. Furono gli anni di studio al Conservatorio di Parma,95 in cui inizia l’attività di compositore, a metterlo in contatto con personalità artistiche di rilievo.

Il senso della polifonia, gli stilemi madrigaleschi e il declamato di ascendenza pizzettiana sono elementi che segnalano la sua piena adesione a una koiné neoclassica che vede però coesistere nella sua personale visione anche il paradigma romantico. Tuttavia affermare con certezza quanto nei lavori giovanili sia presente un’individuale ricerca delle fonti e quanto tali forme siano invece utilizzate perché già note, è cosa difficile da stabilire. Vi sono comunque sufficienti elementi per affermare che le forme neo-classiche siano state accolte da Margola perché già codificate dai compositori dell’80, fatto che gli consentì di riflettere maggiormente sui contenuti emotivi delle fonti musicali.96 Ed è proprio negli anni fra le due guerre che il problema della forma diviene centrale nella produzione musicale. Una forma che Margola ammorbidisce discorsivamente mediante un fraseggio spontaneo, particolarmente infuso di energia, frutto di una meditata architettura sonora97 la cui simmetria dei giochi interni vide convergere i pareri

92Ottavio de Carli, Franco Margola, il musicista e la sua opera, cit., p. 71 93 Ivi, p. 73

94 Ivi, p. 96 95 Ibidem

96 Renzo Cresti, Linguaggio musicale di Franco Margola, cit., p. 15 97 Ivi, p. 29

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della critica musicologica. Un’architettura che può trovare nella brevità un mezzo per potenziare l’intensità dell’espressione musicale. Una poetica intimistica, che nasce da un soliloquio interiore, dalla quale scaturisce con grande originalità una musica fatta per la convivialità, una sua personalissima Hausmusik.98 Dimensione musicale attraverso la quale Margola dialoga con numerosi compositori dai quali desume stilemi collocabili in un arco temporale che va dal canto gregoriano all’opera barocca.99

Il corpus compositivo margoliano è costituito da quartetti, quintetti, concerti per orchestra, composizioni di più ampio respiro, ma a colpire l’attenzione è la presenza di un’ampia produzione di scritture per flauto dolce, chitarra e violino e chitarra. Ascoltando alcune delle composizioni realizzate a partire dagli anni cinquanta (come la Sonata IV per flauto e chitarra (1974-75) dC 208100 – durata otto minuti circa –, i Tre pezzi per flauto e pianoforte (1957) dC 116 – durata due minuti circa -, o i Contrasti per flauto e

contrabbasso (1983) dC 324 – durata due minuti circa –) la memoria rimanda a quei compositori, attivi nei primi decenni dell’Ottocento, che produssero una musica, finalizzata all’uso privato, particolarmente distante dalle concezioni estetiche preunitarie che, com’è noto, furono influenzate totalmente dal melodramma.101 In quel periodo, il flauto e la chitarra, che vantavano un maggior numero di esecutori dilettanti, furono oggetto d’interesse di numerosi compositori. Scritture per il duo flauto e chitarra furono realizzate anche da compositori virtuosi e acclamati come Ferdinando Carulli (1770 –1841) che, proveniente da una famiglia di musicisti, abbandonò lo studio del violoncello per dedicarsi da autodidatta allo studio della chitarra, che armonizzò con altri strumenti, esplorandone tutte le potenzialità. La sua produzione musicale, comprendente trecento sonate e notturni per chitarra, fu ingiustamente dimenticata alla fine dell’Ottocento, forse per la scarsa notorietà di cui godeva lo strumento,102 così come la produzione di compositori meno noti come Giuseppe Anelli, Giacomo Monzino e Cesare Ciardi. Il suono delicato e la resa

98 Termine impiegato per definire quelle raccolte musicali di carattere sacro espressamente

concepite per uso domestico.

99 Fiamma Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Firenze, Sansoni Editore,

1982, p. 124

100 Trattasi della numerazione progressiva del Catalogo delle opere di Ottavio de Carli (dC). 101 Maurizio Bignardelli, Hausmusik italiana, Inedita (CD musicale).

102 1 v., Carulli Ferdinando in Dizionario Enciclopedico Universale della musica e dei musicisti,

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