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Aggressività dell'impresa e rischi di reputazione

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Indice

Prefazione. Aggressività e violenza: conoscere per contrastare,

di Maria Giuseppina Lucia pag. 13

Presentazione, di Alberto Riccadonna » 17

Introduzione, di Guido Lazzarini, Luigi Bollani, Francesca Silvia

Rota » 19

Prima parte - L’origine dell’aggressività e della violenza 1. Stati di integrazione e ordine: un continuo assestamento,

di Guido Lazzarini » 37

1.1. Introduzione » 37

1.2. L’attore sociale tra rispetto delle regole e contrasto » 38 1.3. Costruzione di legami tra soggetto e società inclusiva » 39

1.4. Appartenenza e appartenenze » 40

1.5. Spazi di libertà di scelta e responsabilità del soggetto » 42 1.6. Comportamenti devianti e reazione della società » 43 1.7. La costruzione e ricostruzione dell’ordine sociale » 44

Riferimenti bibliografici » 47

2. Fattori neurobiologici, psicogenetici e psicosociali

dell’aggressività e della violenza, di Giuseppe Luciano » 48

2.1 Un approccio multidisciplinare » 48

2.2 Dalla psichiatria nosografica alla psicogenesi dei disturbi

mentali » 51

2.3 Le ricerche della psicofarmacologia moderna e la loro

ri-caduta sullo sviluppo della psichiatria » 53 2.4 I comportamenti violenti patologici e i più recenti

orien-tamenti diagnostici della psichiatria » 55

2.5 Disturbi mentali con comportamenti violenti dell’età

evo-lutiva » 57

2.6 Disturbi mentali con comportamenti violenti dell’età

(8)

2.7 La fattibilità della prevenzione dei comportamenti

vio-lenti individuali pag. 63

Riferimenti bibliografici » 64

3. Gli aspetti profondi ed inconsci dell’aggressività e della vio-lenza. Le origini psicoanalitiche del Male nell’individuo, di

Luciano Peirone » 66

3.1 Aggressività e aggressione, violenza e distruttività » 66 3.2 Aggressività e violenza: fra desiderio conscio/inconscio e

comportamento agito » 67

3.3 I vissuti fantasmatici » 67

3.4 L’aggressività nel Mondo Interno: gestione delle tensioni

e controllo dell’ansia persecutoria » 68

3.5 L’aggressività nel Mondo Interno: elaborazione dell’ansia

depressiva » 70

3.6 Oltre i fantasmi paranoidi, oltre i fantasmi depressivi:

l’Inconscio che “ripara” » 71

3.7 Il superamento dell’aggressività distruttiva e del trend violento: il processo di autoconoscenza e la

“pacificazio-ne” del Mondo Interno » 72

3.8 Le buone pratiche sociali e le buone pratiche

intrapsichi-che » 72

3.9 L’eterna lotta fra Érōs e Thánatos, fra Pulsione di Vita e

Pulsione di Morte » 74

Riferimenti bibliografici » 75

4. Aggressività come dimensione della natura umana, di

Giorgio Maria Bressa » 76

4.1. Introduzione » 76

4.2. Origini e sviluppo dell’aggressività » 77

4.3. Tipi di aggressività » 79

4.4. Aggressività biologica » 80

4.5. Aggressività e neuroscienze » 81

4.6. Conclusione » 83

Riferimenti bibliografici » 84

5. Aggressività e relazioni primarie: una lettura psicologica,

di Marco Gonella » 85

5.1 Introduzione » 85

5.2 Aggressività: una questione di emozioni tra individuo e

ambiente » 86

5.3 Aggressività e sviluppo psichico » 90

5.4 Conclusioni » 93

(9)

6. Aggressività e amore: dall’autenticità individuale

all’indignazione etica, di Maurizia Albanese pag. 95

6.1 Aggressività benigna e autenticità » 95

6.2 Il dissenso e la disobbedienza » 97

6.3 Aggressività e indignazione etica motori dell’azione

so-ciale » 100

6.4 Conclusioni » 102

Riferimenti bibliografici » 103

Seconda parte - La violenza delle armi

7. La violenza globale delle armi: costi umani e prezzo di

mercato, di Fabrizio Floris, Luigi Bollani » 107

7.1 Una stilla di rugiada al mattino » 107

7.2 I conflitti nel mondo » 109

7.3 Il mercato globale delle armi » 113

7.4 Traffico illegale e finanza di guerra » 116

7.5 L’Italia » 119

7.6 Conclusioni » 121

Riferimenti bibliografici » 122

8. Immigrazione in Europa e attrazione giovanile per il ra-dicalismo violento. Concetti chiave per l’analisi, di

Maria-grazia Santagati, Maria Chiara Giorda, Antonio Cuciniello » 123 8.1. Una premessa. Sfide per la socializzazione dei figli

dell’immigrazione » 123

8.2. Parole chiave e distinzioni concettuali » 129 8.3. Conclusioni provvisorie. Ripartire dall’analfabetismo

re-ligioso » 139

Riferimenti bibliografici » 140

9. Il profilo psicosociale e culturale del terrorista

postmo-derno: alcune considerazioni, di Luciano Peirone » 145

9.1. Fondamentalismo, radicalismo e violenza » 145 9.2. Il terrorista di base, il terrorista estremo, il foreign fighter » 146 9.3. Ideologia, religione o psicopatologia? » 147

9.4. L’incontro/scontro fra civiltà » 149

9.5. L’emarginazione sociale: eteroindotta o autoindotta? » 150 9.6. La “conversione”, l’affiliazione, il reclutamento » 151 9.7. Stravolgimenti dell’identità: la negazione dell’Io e il

do-minio del Noi » 152

9.8. Distanza e freddezza, anaffettività e mancanza di

autocri-tica » 153

9.9. La non-esistenza dell’Altro e il bisogno della sua

(10)

9.10 La sensibilità, la speranza e la conoscenza contro la

bar-barie pag. 155

Riferimenti bibliografici » 156

10. Perché qui? Le stragi di studenti nelle scuole americane,

di Francesca Silvia Rota » 157

10.1. Il fenomeno delle sparatorie di massa nelle scuole » 157 10.2. Le stragi nelle scuole americane: un fenomeno place-based? » 158

10.3. Non è un paese per assassini » 161

10.4. Conclusioni » 168

Riferimenti bibliografici » 169

11. Dal puzzle balcanico alla costruzione cruenta dello

Stato-nazione, di Italo Talia » 170

11.1. Il puzzle balcanico » 170

11.2. La guerra nella ex-Iugoslavia » 172

11.3. Alle origini dei conflitti » 173

11.4. La percezione dell’“altro” e la definizione dei confini » 175

11.5. Conclusioni » 178

Riferimenti bibliografici » 180

Terza parte - Aggressività e stadi di vita

12. Il tempo sotto aggressione del bambino, di Paola Lazzarini » 183

12.1. Il bambino, una “scoperta” recente » 183

12.2. Le necessità fondamentali del bambino » 186 12.3. Il bambino nella società capitalistica-tecnocratica e le

sue implicazioni sulla fisiologia » 188

12.4. Il tempo assediato dei bambini » 191

12.5. Favorire la soggettività dei bambini » 193

Riferimenti bibliografici » 195

13. L’aggressività nel mondo giovanile, di Sara Ibrahim » 197 13.1. Il periodo travagliato dell’adolescenza » 197

13.2. Teorie in materia di aggressività » 199

13.3. Il rapporto dell’adolescente con l’aggressività » 200 13.4. Forme frequenti di aggressività maligna nelle patologie

mentali adolescenziali » 204

13.5. Considerazioni conclusive » 206

Riferimenti bibliografici » 206

14. Giovani a rischio. Il ruolo della formazione professionale

contro il fenomeno dei NEET, di Mirella Cristiano » 207 14.1. Le recenti dinamiche economiche e occupazionali e il

(11)

14.2. L’importanza della formazione pag. 210 14.3. L’esperienza dei Centri di Formazione Professionale » 213 14.4. Proposta per una nuova rete di servizi territoriali » 215

14.5. Conclusioni » 217

Riferimenti bibliografici » 217

15. L’aggressività nel percorso di vita: una lettura psicologica della vecchiaia, tra malattia e istituzioni di cura, di Andrea

Dughera » 219 15.1. Introduzione » 219 15.2. Vecchiaia e aggressività » 220 15.3. La vecchiaia e l’istituzione » 222 15.4. Conclusioni » 226 Riferimenti bibliografici » 227

16. La violenza invisibile, di Bruno Pizzica » 229

16.1. Quando la violenza è omissiva o invisibile » 229

16.2. L’anziano vittima di violenza » 231

16.3. La risposta della politica » 232

16.4. Conclusioni » 238

Riferimenti bibliografici » 239

17. La violenza psicologica di genere, di Milena Molinari » 241 17.1. La violenza di genere. Fenomeno sociale e culturale » 241 17.2. Violenza simbolica, culturale, diretta e indiretta » 242

17.3. Il femminicidio » 244

17.4. La violenza psicologica in ambito familiare » 246

17.5. Conclusioni » 251

Riferimenti bibliografici » 252

18. Lo stalking oggi, di Simona Codrino » 253

18.1. Un fenomeno nuovo ma antico » 253

18.2. I comportamenti che definiscono lo stalking » 256

18.3. Dallo stalking al cyberstalking » 257

18.4. Chi è lo stalker » 258

18.5. Le vittime dello stalking » 259

18.6. La disciplina contro il reato di stalking » 261

18.7. Conclusioni » 264

Riferimenti bibliografici » 265

Quarta parte - La violenza nei luoghi di vita e lavoro 19. Dalla sacralità alla violazione della Natura. Conseguenze

sull’ambiente e percezione dei rischi, di Luigi Bollani,

(12)

19.1. Uomo e Natura: un difficile equilibrio pag. 269 19.2. Il funzionamento del geosistema: alterazioni e

conse-guenze » 271

19.3. Eventi estremi e responsabilità umana » 273 19.4. Le violenze all’ambiente nella percezione dell’opinione

pubblica » 275

19.5. Conclusione » 281

Riferimenti bibliografici » 282

20. Dinamiche di inquinamento globale, di Alessandro Ratto » 284 20.1. Il problema dell’inquinamento ambientale: una proposta

metodologica » 284

20.2. Inquinamento e geopolitica » 288

20.3. Conclusioni » 292

Riferimenti bibliografici » 293

21. La violenza del luogo. Isole di città che non comunicano,

di Fabrizio Floris » 294

21.1. Città-mondo e dinamiche darwiniane » 294

21.2. Slums e campi » 295

21.3. Quali insediamenti? » 299

21.4. Problemi aperti » 301

21.5. Riflessioni conclusive: lungo le strade dell’identità » 303

Riferimenti bibliografici » 306

22. L’aggressività nei luoghi di cura, di Tiziana Stobbione » 307

22.1. Le vessazioni nel mondo sanitario » 307

22.2. Il casus belli: l’esperienza del vissuto quotidiano » 308 22.3. I principali stressors lavorativi in ambito sanitario » 309

22.4. Gli aspetti normativi » 312

22.5. La tutela del capitale umano come strumento di gestione

del ben-essere in Azienda e di riduzione dell’aggressività » 313 22.6. Un piano di azioni positive per la tutela del lavoratore » 314

22.7. Conclusioni » 316

Riferimenti bibliografici » 317

23. Aggressività e violenza in ambito sanitario, di Maria

Giu-seppe Balice, Maria Grazia Imperato » 319

23.1. Introduzione » 319

23.2. Un problema epidemiologicamente rilevante » 321 23.3. La natura multifattoriale dell’aggressività in ambito

sa-nitario » 323

23.4. Prevenire e gestire l’aggressività: il ruolo della formazione » 327

23.5. Conclusioni » 329

(13)

24. L’inganno. Il caso Banca Etruria e dintorni, di Giuliana Berardo pag. 333 24.1. Introduzione » 333 24.2. Fiducia » 333 24.3. Inganno e violenza » 335 24.4. Professionalità e/nell’inganno » 336

24.5. Il caso Banca Etruria » 337

24.6. Dintorni: il mio quotidiano » 341

24.7. Conclusioni » 342

Riferimenti bibliografici » 343

25. Violenze e abusi sul lavoro: breve viaggio nel mondo del

mobbing, di Tiziana Stobbione, Alessandro Mastinu » 344 25.1. La diffusione della violenza nei contesti lavorativi:

ana-tomia di un fenomeno » 344

25.2. Che cos’è veramente il mobbing? » 346

25.3. Le fasi del mobbing » 348

25.4. Il mobbing: uno sguardo dal punto di vista legale » 351

25.5. Conclusioni » 353

Riferimenti bibliografici » 354

26. Aggressività dell’impresa e rischi di reputazione, di Anna

Claudia Pellicelli » 356

26.1. Comportamenti aggressivi e rischi di reputazione » 356 26.2. I drivers e l’impatto sulla reputazione » 359 26.3. Disaster recovery e contingency plan » 362

Riferimenti bibliografici » 366

Quinta parte - Gestire l’aggressività e la violenza 27. Training autogeno: una tecnica per il controllo delle

emo-zioni eccedenti e dell’aggressività, di Elena Gerardi » 369 27.1. Emozioni in eccesso e sfaccettature dell’aggressività » 369 27.2. Emozioni in eccesso e componenti collaterali » 370 27.3. L’antidoto all’aggressività e alla violenza » 372

27.4. Formule e visualizzazioni » 374

27.5. Il TA per la gestione delle emozioni eccedenti/aggressive » 376 27.6. Gestire la persona aggressiva mediante la psicologia » 379 27.7. TA, autoipnosi e creatività: per vincere il Male Interiore » 380

Riferimenti bibliografici » 381

28. Aggressività nello sport: il ruolo educativo delle regole, di

Vincenzo Prunelli » 383

28.1. Introduzione » 383

(14)

28.3. Lo sport al positivo pag. 387

28.4. Gli stimoli positivi » 389

28.5. Lo sport che educa » 392

29. La Mafia e la paura, di Enrico Colajanni » 394

29.1. Il potere intimidatorio della criminalità organizzata » 394 29.2. Il ricatto della Mafia sugli imprenditori siciliani » 395 29.3. Conoscere (la paura) per agire in modo consapevole » 397

30. Politiche di promozione culturale contro l’aggressività verso la natura e il paesaggio. Il caso del sito Unesco

Lan-ghe-Roero e Monferrato, di Chiara Cerrato » 401

30.1. Introduzione » 401

30.2. Ritorno al patrimonio territoriale come strategia anticrisi » 402 30.3. Un sito Unesco come punto di partenza » 405

30.4. Un invito all’azione » 407

30.5. Conclusioni » 409

Riferimenti bibliografici » 410

31. L’esperienza teatrale come strategia educativa per con-trastare il fenomeno del bullismo, di Marco Bricco, Grazia

Fallarini » 411

31.1. Dall’Alto in basso: un progetto esemplificativo di

con-trasto al fenomeno del bullismo » 411

31.2. L’articolazione del progetto » 415

31.3. La ricerca » 417

31.4. L’attività teatrale » 419

31.5. Il confronto con le figure educative di riferimento » 422

31.6. Conclusioni poetiche » 423

Riferimenti bibliografici » 424

(15)

Prefazione.

Aggressività e violenza: conoscere per contrastare

di Maria Giuseppina Lucia

La violenza, come narra la Genesi, si è manifestata sulla terra fin dai primordi dell’esistenza umana. Il fratricidio di Abele, il primo delitto della storia dell’uomo, è interpretato non solo come disagio e invidia verso l’altro», ma in una più ampia prospettiva di alterazione della Natura da parte dell’agricoltore Caino e di conflitti di uso delle risorse del suolo1 o

addirittura come interventi devastanti o indifferenza e assenza» del Crea-tore verso le sofferenze degli uomini2.

Qualsiasi opinione si voglia assumere è incontrovertibile che la violenza è diventata una presenza perseverante, nonostante il progresso della civiltà, dell’organizzazione sociale, delle scoperte scientifiche e delle tecnologie. Al contrario si è evoluta, diventando talora meno visibile ma non meno in-cisiva e pericolosa, forse proprio per l’impiego delle stesse tecnologie nel perfezionamento di metodi brutali finalizzati alla conquista di potere politi-co ed epoliti-conomipoliti-co da parte degli stati e dei singoli individui.

Dall’analisi delle informazioni fornite dal rapporto del Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI) si rileva che nel periodo compreso tra il 2004 e il 2010 il tasso annuo medio di morte violenta nel mondo ha regi-strato un valore di 7,9 ogni diecimila abitanti, range superato di quasi quat-tro punti dai paesi in ritardo di sviluppo, insieme a molti paesi emergenti. Le situazioni più drammatiche, riconducibili oltre che al sottosviluppo, alla debolezza delle istituzioni formali e informali, si riscontrano negli stati ca-raibici, in molte aree dell’America meridionale e dell’Africa Sub Saharia-na3. Al vertice della tragica classifica si situa El Salvador che, dominato da

1 Vallega A. (1990), Esistenza, società, ecosistema. Pensiero geografico e questione

ambientale, Milano: Mursia.

2 Saramago . (2010), Caino, Milano: Feltrinelli.

(16)

potenti gang criminali4, è contraddistinto da un alto indicatore di mortalità

provocata da eventi delittuosi - ben 104 morti violenti ogni 100 mila abitan-ti - seguito dal Guatemala e dal Venezuela5. Nel continente africano la

vio-lenza affligge con più intensità lo stato dello Swaziland (35,5), della Re-pubblica Democratica del Congo, del Sud Africa e del Ruanda. Mentre in Asia detiene il triste primato per morti violente il M amar, insieme ad Af-ghanistan, Iraq e Siria, paesi ancora martoriati da feroci conflitti6.

Tuttavia, a fronte di questi dati, lo studioso canadese Steven Pin er nel volume The Better Angels of our Nature: The Decline of Violence in Histo-ry and its Causes7 afferma, sulla base di inconfutabili supporti statistici, che

i progressi della modernità, la formazione di stati democratici, il riconosci-mento dei diritti umani, insieme alla lotta alle malattie e alla povertà, al cambiamento dell’ambiente culturale, alla diffusione del benessere con il conseguente miglioramento delle condizioni di vita materiale hanno procu-rato risultati apprezzabili nella diminuzione delle condotte criminose. Ma il declino della violenza, sempre secondo Pin er, è correlato soprattutto al progressivo sopravvento sui demoni interiori» dell’animo umano di alcune funzioni psicologiche, di motivazioni etiche, di autocontrollo che hanno in-fluito sulle pulsioni aggressive orientandole verso la cooperazione e l’altruismo»8.

In altre parole, la nostra fase storica è rappresentata come l’epoca più pacifica della storia, dichiarazione che ha suscitato le reazioni di quanti in-vece affermano che il ventesimo secolo appena trascorso pur connotato da tutti i fattori ritenuti capaci di mitigare le manifestazioni di violenza è stato segnato a breve distanza di tempo dai due più grandi eventi bellici del-la storia. Al tempo stesso i conflitti interni, le intolleranze etniche e le guer-re civili hanno pguer-reso il posto delle guerguer-re convenzionali tra Stati, con

4 La hani N. (2016), Violent Death in El Salvador Spic ed 70 in 2015, in The

Guardi-an, 4 anuar , www.theguardian.com/world/2016/ an/04/el-salvador-violence-deaths-murder-

2015, visitato il 7 luglio 2016.

5 orld Life Expectanc (2015), World Health Rankings, www.worldlife expectanc .com, visitato il 15 giugno 2016.

6 Per la situazione del mondo occidentale pu interessare il report Crime Prevention Re-search Center (2014), Comparing Murders rates and Gun Ownership across Countries, http://crimeresearch.org/, visitato il 7 luglio 2016

7 Pin er S. (2011), The Better Angels of our Nature: the Decline of Violence in istor and its Causes, London: Allen Lane.

8 Il lavoro di Steven Pin er, anche nella recente edizione italiana, è stato accolto da re-censioni favorevoli ma anche da critiche non sempre condivisibili che rilevano, oltre all’assenza di una precisa definizione di violenza, l’elogio del capitalismo e dello stile di vita americano. Per questi aspetti si rinvia a: ewis R. (2011, Pin er the Prophet, in The

Na-tional Interest, November/December, pp. 54-64), Cimatti F. (2016, La violenza disarmata.

Cognitivismo alla riscossa, in Il Manifesto) e De Maglie M. (2013, Il declino della violenza, in Il Fatto Quotidiano).

(17)

seguenze altrettanto tragiche di quelle del passato. Infatti, ancora ai nostri giorni si combatte in varie parti del mondo dove si violano i diritti fonda-mentali dell’umanità, si consumano orrori e crimini efferati sui soggetti più deboli, donne e bambini, e si alimentano ancor più la povertà9, le epidemie

e ogni genere di degrado, compreso quello ambientale10. Cos come i più

recenti processi secessionisti hanno determinato efferate pulizie anche nel mondo occidentale. Basti pensare alla guerra civile combattuta negli anni 1991-1995 nell’ex Repubblica Socialista Federale di ugoslavia.

Considerando, inoltre, che l’aumento del benessere non è illimitato, il rischio di tragici impatti sulla pace e la coesione sociale è sempre presente e insidioso, come dimostrano le sollevazioni popolari determinate in alcuni paesi dell’Europa meridionale segnatamente la Grecia dalla crisi finan-ziaria del 2007-2008.

A tutto ci consegue un contrasto di orientamenti che impone l’obbligo di una approfondita discussione che non è possibile affrontare in questa se-de. Tuttavia, qualche osservazione, seppure breve, è ineludibile. Le due li-nee di pensiero sono solo apparentemente contrastanti perch è comprova-bile sia l’opinione di chi sostiene l’andamento decrescente dei fenomeni di violenza in tutte le sue forme11, ma è pur vero che nonostante la maggiore

consapevolezza della gravità dei danni causati da violenza e illegalità è ancora troppo elevato il numero di persone coinvolte. Ed è altrettanto con-divisibile l’osservazione sulle imprevedibili configurazioni che la violenza assume ai nostri giorni, aggravando rischi e conseguenze, sebbene rimanga sempre viva la congenita aspirazione umana a un mondo pacifico e solida-le.

A ben vedere, l’ampio campo di analisi e la complessità delle tematiche persuadono a non assumere posizioni radicali, perch la liceità delle azioni è diversamente valutata nello spazio e nel tempo, nel quadro sociale, politi-co, culturale, religioso12. Pertanto, ogni interpretazione risulta efficace solo

se contestualizzata nella complessità dell’ambiente in cui ha origine e se esaminata nella molteplicità e varietà di forme e manifestazioni. Tale ap-proccio è applicato dalla scala dello spazio di vita fino al livello planetario

9 Uno studio della orld Ban del 2011 mette in luce la correlazione tra povertà e vio-lenza, tale per cui i paesi con livelli di povertà superiori alla media del 20 sono contrasse-gnati da più elevata criminalità. orld Ban (2011), World Development Report 2011 -

Conflict, Security and Development, http://siteresources.worldban .org, visitato il 10 luglio

2016.

10 ammond D. (2015), Mapped: ow the orld Became more Violente, in The

Tele-graph, www.telegraph.co.u /, visitato il 7 giugno 2016.

11 uman Securit Report Pro ect (2013), The Decline of Global Violence: Evidence,

Explanation and Contestation, www.hsrgroup.org, visitato il 7 luglio 2016.

(18)

come si rileva dalla letteratura di materia, perch sono pur sempre le dina-miche situazionali, ossia le interdipendenze tra una pluralità e di differen-ziati fattori che determinano il fenomeno all’interno di una situazione.13

Aggressività e violenza hanno interessato da sempre il mondo scientifi-co. Le scienze mediche nelle loro varie branche, la biologia, le scienze so-ciali e le discipline filosofiche hanno dedicato accurate analisi ai compor-tamenti che coinvolgono la dimensione fisica, psichica e il vissuto degli in-dividui, conseguendo esiti molto avanzati nella conoscenza teorica e nelle applicazioni pratiche. E i lati ancora oscuri stimolano gli studiosi a prose-guire non solo nella conoscenza dei numerosi e tragici volti delle manife-stazioni violente dell’animo umano, ma soprattutto nella ricerca di metodi efficaci per orientare l’aggressività verso comportamenti socialmente accet-tabili. Il mondo istituzionale, naturalmente, si muove nella stessa direzione elaborando strategie di prevenzione della criminalità, delle malattie e di ogni altro genere di disagio che affligge l’umanità14.

Per concludere, per rimuovere le tensioni sperimentate dall’umanità si devono necessariamente contrastare quelle caratteristiche dell’animo uma-no, egoismo, avidità, aggressività, ricerca della potenza e del dominio su-gli altri» che, utili nel passato quali forze fondamentali per far fronte alla natura e per selezionare la specie15, ora rendono difficile adottare codici di

comportamento sociale improntati alla solidarietà, alla rinuncia a vantaggi immediati per garantire il conseguimento di una pacifica convivenza.

auspicabile che i numerosi rischi che al giorno d’oggi il mondo deve fronteggiare non inducano paura e morte della speranza. Ed è auspicabile che tensioni sociali vengano gestite per i loro aspetti positivi. Questi sono i messaggi che il lettore troverà nel volume Aggressività e violenza. Feno-meni e dinamiche di un mondo che spaventa, presentati in un’ampia pro-spettiva di analisi interdisciplinare che affronta la tematica in tutte le sue manifestazioni e nelle più diverse estensioni, dalla quotidianità dei singoli individui alla scala della società globale.

13 Lewin . (1939), “Field Theor and Experiment in Social Ps colog : Concepts and Methods”, in American Journal of Sociology, n. 6, pp. 868-896.

14 Come per esempio i report della orld ealth Organization e, specificamente per i paesi in ritardo di sviluppo, il documento UNDP (2014), Sustaining Human Progress:

Re-ducing Vulnerability and Building Resilience,

http://hdr.undp.org/sites/default/files/hdr14-report-en-1.pdf, visitato il 7 luglio 2016.

15 La Rocca N.L. (1999), Aspetti geografici dell’educazione ambientale, Milano: Fonda-zione Lombardia per l’Ambiente.

(19)

Presentazione

di Alberto Riccadonna

Secondo il past president degli Stati Uniti, Bara Obama, le trasforma-zioni sociali si fanno sempre annunciare da una trasformazione del lin-guaggio. Circolano parole nuove, slogan e a un certo punto diventano com-portamento collettivo. Se è vero che accade in questo modo, non c’è da sta-re tranquilli di fronte alla trasformazione in corso nel linguaggio utilizzato da milioni, miliardi di persone in tutto il mondo sui social networ : forme di comunicazione sempre più intolleranti e violente, conflittuali, refrattarie alle mediazioni, tutti contro tutti.

Questo volume dedicato alla lettura dei fenomeni di violenza sotto il profilo psicologico e sociologico (perch la violenza si produce? in capo a quali categorie di persone? in quali circostanze?) andrebbe accostato consi-derando che l’epoca nella quale viviamo non ha informazioni su ci che po-trebbe accadere di completamente nuovo se un giorno il linguaggio av-velenato dei social si travasasse nel comportamento delle masse. Il passag-gio dall’aggressività virtuale a quella reale sarebbe un fatto inedito e in-quietante, non più un fenomeno di devianza ma, in qualche modo, di com-portamento generale: se esso si verificherà, vedremo saltare molte nostre tradizionali interpretazioni del conflitto sociale.

Recenti statistiche, basate su questionari somministrati agli studenti del-le scuodel-le superiori, stimano che il 44 dei giovani italiani consideri perfet-tamente normale leggere e ascoltare parole e fatti di violenza sui social, cui vivono connessi a tutte le ore del giorno. Le nuove generazioni danno per scontato il fatto che fiumi di immagini, video, clip musicali somministrino loro contenuti che parlano esplicitamente o addirittura inneggiano alla vio-lenza, anche estrema. Solitamente i giovani dichiarano di disapprovare ci che vedono, di non condividere quanto ascoltano o leggono nelle chat, ma intanto lo assorbono, lo danno per normale, lo commentano, lo accettano come un abito che li avvolge e li accompagna.

Il presente volume compie il grosso sforzo di esaminare con approccio multidisciplinare le dinamiche che più comunemente producono violenza e

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aggressività, individuale e sociale. Esse vengono inquadrate sotto il profilo medico e psicologico, messe a fuoco nelle diverse fasce d’età, approfondite con riferimento ai luoghi della vita (in evidenza il mondo del lavoro), calate nel concreto dei contesti sociali a rischio (l’esempio dei rampi rom), collo-cate nei grandi scenari di attualità socio-politica (guerre, terrorismo, migra-zioni), messe a confronto con percorsi possibili di contrasto e recupero (sport, teatro, animazione culturale ). Trarranno giovamento da un studio cos ampio, non solo gli addetti ai lavori e gli operatori sociali o dell’educazione, ma tutti coloro che si interrogano sulla tenuta del tessuto sociale nel tempo complesso che stiamo vivendo, segnato da molte e artico-late ragioni di conflitto.

Accanto alla devianza che le statistiche sono in grado di misurare, oggi si intravvede l’insondabile potenziale di violenza cui abbiamo fatto cenno. Nessuno pu davvero credere che il linguaggio dilagante del conflitto, inco-raggiato e moltiplicato all’infinito dalla rete, resterà per sempre confinato soltanto nel virtuale. Un passaggio al reale in qualche modo avverrà, non mancano le avvisaglie. Ed è una questione da tenere molto presente sullo sfondo.

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26. Aggressività dell’impresa

e rischi di reputazione

di Anna Claudia Pellicelli

26.1. Comportamenti aggressivi e rischi di reputazione

26.1.1. Perché la reputazione è importante

Per reputazione si intende un insieme di percezioni e convincimenti, sia maturati in passato sia attuali, che sono nella conoscenza degli stakehol-ders: clienti, fornitori, partners, investitori, analisti, comunità sociali, auto-rità di controllo, governi, gruppi di pressione. Rischio di reputazione è ogni azione, evento o circostanza che potrebbe positivamente o negativa-mente avere un impatto sulla reputazione di un’impresa» (Ra ner, 2003: 20). La reputazione è soggetta a forti rischi e ha due caratteristiche: pu es-sere rapidamente acquisita, ma altrettanto rapidamente perduta su di essa agiscono i comportamenti di tutti coloro che operano in un’organizzazione: chi produce, chi distribuisce, chi controlla ecc.

Con l’inizio del terzo millennio e con il diffondersi dei mercati in ecces-so di offerta, le aziende devono confrontarsi con la dimensione globale dell’economia d’impresa (Brondoni, 2005), per cui: l’organizzazione si struttura in networ , la performance dei risultati si valuta con indicatori multipli, dove gli immateriali corporate e gli immateriali di prodotto affian-cano (e spesso condizionano) le componenti tangibili di impresa e offerta la unitarietà di governance deve armonizzare e valorizzare la varietà e la specificità di management, etnia e cultura ed infine, la responsabilità d’impresa registra un’importante evoluzione, che compone i risultati dell’organizzazione su base locale e globale in una visione di sviluppo compatibile (Brondoni, 2005).

Quattro sviluppi hanno esteso e modificato l’ambiente in cui opera l’impresa, esponendone la reputazione a nuovi rischi:

il crescente potere degli stakeholders. Gli stakeholders hanno acqui-sito potere crescente sull’impresa attraverso un sistema di relazioni dirette e indirette che toccano vari campi. Questo sistema di rapporti,

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se adeguatamente gestito, pu diventare un’opportunità per costruire un vantaggio competitivo. La reputazione, osserva Ra ner (2003), pu giocare un ruolo cruciale nel determinare come i principali sta-keholders agiscano nei confronti dell’impresa. In un circolo virtuoso le loro azioni nei confronti dell’impresa contribuiscono a costruire la reputazione futura dell’impresa stessa. La decisione degli investitori di acquisire e tenere in portafoglio azioni la propensione dei consu-matori ad acquistare prodotti dell’impresa l’interesse dei fornitori a stringere i rapporti la decisione di nuovi potenziali concorrenti ad entrare o non entrare nel mercato la posizione dei media e dei gruppi di pressione le decisioni delle autorità di controllo il costo del capi-tale la motivazione dei manager migliori a far parte dell’impresa e a restarvi la propensione degli stakeholder a dare all’impresa il bene-ficio del dubbio se emerge un problema o esplode una crisi» (Ra ner, 2003). Quest’ultimo punto è molto importante. Vi sono molti esempi di come l’aver accumulato reputational capital con gli stakeholder possa aiutare l’impresa a superare tempeste improvvise e occasionali. L’oscuramento improvviso della reputazione di un’impresa pu essere considerato o come un errore da riconoscere e da correggere (chi deci-de prima o poi sbaglia), oppure come un ulteriore segno deci-della scarsa affidabilità di un’impresa. Se la reputazione è forte è più probabile che gli stakeholder optino per il primo orientamento (Saraceno, 1978) la globalizzazione. Se l’impresa opera in più aree e geografiche è

sot-toposta allo scrutinio di più stakeholders, in particolare dei media e dei gruppi di pressione. Crescono le attese dell’opinione pubblica e dei clienti nei confronti delle imprese multinazionali, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. chiesto loro, ad esempio, a volte di sosti-tuirsi ai governi nel fronteggiare la povertà, le malattie, lo sfrutta-mento dei minori. Mercati e imprese divengono quindi sempre più internazionali e vasti, sebbene i quartieri generali delle case madri restino in realtà localizzati nei paesi d’origine, mentre si afferma una nuova concezione di responsabilità sociale d’impresa (corporate so-cial responsabilit ) che, pur mantenendo una valenza prevalentemen-te nazionale nelle legislazioni e nei principi di governo pubblico, esprime il contemperamento dei risultati economici d’impresa con ta-luni valori sociali quali il soddisfacimento delle attese dei consuma-tori o maggiore attenzione alla tutela dei lavoraconsuma-tori (Brondoni, 2006) lo sviluppo della tecnologia. La straordinaria disponibilità e

accessi-bilità di informazioni via Internet e attraverso la rete globale di tele-comunicazioni hanno esposto la reputazione delle imprese a nuove minacce ed opportunità. Una notizia, specie se negativa e contraria ai

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valori chiave dell’opinione pubblica, si propaga rapidamente. Se in un dato paese l’impresa infrange dei codici morali o legali, la notizia rimbalza rapidamente in molti altri paesi. La conseguenza è che l’impresa deve mantenersi costantemente vigile ed essere pronta a municare tempestivamente e in modo corretto. La reputazione si co-struisce anche attraverso il modo di comunicare (Aa er, 1996 e 2004) il peso crescente degli intangibili nei bilanci delle imprese. Fino agli

scandali finanziari dei primi anni 2000 gli indicatori finanziari come EBITDA sono stati considerati lo specchio della salute dell’impresa e sono stati usati per comunicare con gli stakeholder. Nonostante i moniti sulla manipolabilità di questi indicatori e sul peso delle attivi-tà intangibili (proprieattivi-tà intellettuale, reputazione dell’impresa, pro-dotti in fase di studio, marca, relazioni con gli stakeholders) nella knowledge economy, i principi contabili considerano soltanto ci che è acquisito dall’esterno e per cui sia stato pagato un prezzo. Mancan-do un riferimento preciso per valutare gli intangibili1, gli analisti

fi-nanziari, i mercati azionari e le agenzie di rating tendono a sottovalu-tare il capitale rappresentato dagli intangibili e, con essi, anche la re-putazione dell’impresa ( eller, 2013).

26.1.2. Misura e valutazione della reputazione

Il tema della reputazione oggi interessa un po’ tutti i tipi di impresa. al-Mart e Ni e, ad esempio, hanno dovuto affrontare gravi crisi di repu-tazione. al-Mart, prima impresa nel mondo del grande dettaglio e primo datore di lavoro negli Stati Uniti, nel 2004 è stata al centro di attacchi ripe-tuti e combinati da parte di sindacati, comunità locali e attivisti (corporate activist), che l’accusavano di discriminare nei salari e nelle assunzioni le donne e le minoranze etniche. Ne seguirono decine di cause e l’apertura di un’indagine circa il ricorso a fornitori che impiegavano immigrati illegal-mente. Si decise allora che le remunerazioni dei dirigenti, inclusa quella del presidente e fondatore Sam alton, sarebbero state ridotte del 7,5 nel 2004 e del 15,0 l’anno successivo nel caso in cui la quota di neoassunti di sesso femminile o appartenenti a minoranze non fosse stata la stessa delle domande di assunzione. Se il 50 delle richieste sono di donne, dobbia-mo fare in dobbia-modo che il 50 dei nuovi assunti siano donne». Ni e, dal can-to, suo ha subito una grave crisi di reputazione quando un gruppo di

1 Sulle relazioni tra CSR e Corporate Financial Performance con riguardo a studi che presentano connessioni positive, si vedano: orrel, Davidson e Sharma (1991).

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sti l’ha accusata di “swatshops” in Asia. Dopo anni era ancora alla ricerca di un miglioramento della propria immagine e ha dovuto spendere forti somme di denaro per migliorare le condizioni del lavoro negli stabilimenti della propria supply chain.

In termini generali, la reputazione dell’impresa è la differenza tra quello che l’impresa fa e le attese da parte di chi la valuta, ossia come si ritiene che l’impresa dovrebbe comportarsi in certe situazioni. Un primo metodo per misurare la reputazione di un’impresa consiste in sondaggi di opinione. La rivista Fortune ogni anno intervista 10mila dirigenti chiedendo loro di classificare le imprese rispetto a nove attributi: qualità del management, qualità dei prodotti e dei servizi, innovazione, valore degli investimenti di lungo termine, solidità finanziaria, professionalità dei dipendenti, responsa-bilità sociale, utilizzazione delle risorse, presenza nei mercati globali. Son-daggi con criteri analoghi sono stati fatti da Financial Times e Management Today. Dal 2001 Financial Times intervista circa mille CEO chiedendo lo-ro di indicare le imprese che, a lolo-ro parere, più di altre creano valore in tre aree: valore per gli azionisti valore per i clienti miglior management delle risorse ambientali.

Un altro metodo per misurare la reputazione è il Harris-Fombrum Repu-tation Quotient. Il quoziente è basato su sei categorie di attributi: appello alle emozioni, prodotti e servizi, performance finanziarie, vision e leader-ship, ambiente di lavoro, responsabilità sociale.

26.2. I drivers e l’impatto sulla reputazione

I criteri usati dalle riviste specializzate e dalle organizzazioni che offro-no servizi di rating sooffro-no una guida utile per individuare i drivers della re-putazione. Ra ner (2003) individua sette drivers della reputazione, che a loro volta individuano sette tipi di rischio.

a) Performance finanziarie e valore degli investimenti nel lungo termine. L’impresa da buoni risultati finanziari negli ultimi anni? Quali sono le prospettive future? Nel lungo termine gli investimenti daranno buoni risultati? Per rispondere si guarda all’impresa e in particolare a: - solide performance finanziarie, buona redditività e sicurezza

dell’investimento, assieme alla capacità di creare valore per gli azionisti nel lungo termine, sono il primo driver della reputazione - creazione di valore nel lungo termine. ermes2 cos definisce le

attese degli investitori: il primo obiettivo di un’impresa dovrebbe

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essere la creazione di valore per gli azionisti nel lungo termine. Ci dovrebbe essere basato su corretti principi di gestione finanziaria e sui vantaggi competitivi, il tutto in una struttura che sia economi-camente, eticamente e socialmente responsabile e sostenibile» - bilanci trasparenti, accurati e veritieri. Gli investitori devono

ave-re fiducia nelle comunicazioni fatte dall’impave-resa attraverso i bi-lanci di esercizio e le situazioni periodiche. Non chiedono soltan-to il rispetsoltan-to delle leggi e dei principi contabili. Chiedono onestà, integrità degli amministratori. Sono molti gli esempi di comuni-cazioni false o non esaurienti che hanno impresso ai mercati azio-nari spinte verso l’alto poi destinare ad esaurirsi ed a tramutarsi in crolli ( orldCom, T co, Enron negli Stati Uniti, Ahold in Euro-pa, Parmalat in Italia ecc.) e movimenti di rivalsa degli azionisti (GlaxoSmith line, Vodafone, Shell ecc.)

- Responsabilità e comparabilità. Per correre ai ripari dopo gli scandali finanziari dei primi anni 2000, le autorità di governo in vari paesi hanno accresciuto la responsabilità dei consigli di am-ministrazione dei dirigenti di vertice. Negli Stati Uniti il Serba-nes-Oxle Act rende i top executives direttamente responsabili della veridicità dei bilanci.

Negative sulla reputazione sono anche le dispute tra gli azionisti e i CEO che chiedono per se stessi sontuose remunerazioni o liquidazioni (a volte mentre la società licenzia o chiede sacrifici a fornitori o dipendenti). Dopo essere rimasta in testa alle classifiche delle imprese most admired» per anni, General Electric è precipitata nel 2003 al quinto posto. Il motivo principale fu la notizia che il CEO precedente ac elch (prima di lascia-re) si era assegnato una pensione annua di 2,5 milioni di dollari, oltre ad una serie di altri benefici (palco allo stadio del baseball, uso dell’aereo della società, appartamento a Manhattan).

b) Corporate governance e leadership. Una ricerca di Mc inse (2002) ha rivelato che nel mondo la maggior parte degli investitori è pronta a riconoscere un premio» alle imprese che dimostrano standard elevati di corporate governance (clima appropriato inter-no all’organizzazione, leaders moralmente integri, solida vision circa il futuro ecc.) e che gli investitori pensano che la corporate gover-nance sia importante quanto gli indicatori finanziari o addirittura più importante. Secondo Ra ner (2003) una solida corporate governance e una solida leadership devono avere una serie di caratteristiche tra le quali un board con professionalità ampie e bilanciate un sistema

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di incentivi adeguato un’efficiente gestione dei rischi, comunicazio-ni verso l’esterno veritiere.

c) Rispetto delle regole. Non rispettare le leggi o i regolamenti pu cau-sare contenziosi, indagini delle autorità di controllo, censure, revoca di autorizzazioni e altre conseguenze che possono dare origine a pubblicità negativa, calo del prezzo delle azioni e disimpegno degli stakeholders. Ro al Dutch/Shell è una delle più grandi e più apprez-zate imprese petrolifere del mondo. Nel gennaio del 2004 ha comu-nicato di dover ridurre del 20 le riserve “proved”. La notizia che serve di petrolio per circa 4 miliardi di dollari dovevano essere ri-classificate (ridotte) per rispettare le norme della US Securities and Exchange Commission ha determinato in un solo giorno il crollo del 7 del titolo azionario e una perdita di valore complessiva in borsa intorno a 4,3 miliardi di dollari. Nel 2015, per lo scandalo dei test truccati sulle emissioni, il gruppo automobilistico Vol swagen ha re-gistrato nel solo mese di ottobre un calo del 5,3 delle consegne alla clientela e, con un effetto domino, la crisi di reputazione si è estesa anche al valore del titolo in borsa e al resto del Made in Germany. d) Mantenere le promesse fatte ai clienti. Attrarre i clienti è difficile.

Fare in modo che restino ed eventualmente comprino di più è una sfida ancora più difficile perch oggi sono sempre più informati, più esigenti e hanno più esperienza nell’acquisto. Se abbandonano e pre-feriscono un altro fornitore la reputazione ne soffre. Qualità, prezzi ragionevoli, prodotti che rispettano l’ambiente, prodotti sicuri, rispo-ste rapide alle nuove esigenze sono soltanto alcune delle tante attese dei clienti. Daimler Chr sler nel maggio del 2004 ha comunicato a 140 mila proprietari americani di auto di sua produzione che il siste-ma elettroidraulico dei freni poteva cedere e che le auto dovevano essere riportate ai centri di assistenza. Le lettere, parte di una campa-gna mondiale di richiamo di 680 mila vetture E-class e SL tutte con rischio di cedimento del sistema frenante, sono state lo spunto per i severi giudizi del all Street ournal: Il richiamo dimostra ci che è diventato un problema persistente per Mercedes Cercando di mantenere la reputazione di leader nelle tecnologie d’avanguardia, Mercedes non è stata sempre in grado di fare le innovazioni che ave-va promesso».

e) Personale preparato e cultura organizzativa. I sondaggi su quali sia-no le migliori imprese in cui lavorare sosia-no un veicolo molto efficace circa questo aspetto della reputazione. Quali sono i fattori che più di altri incidono? Anzitutto sono le condizioni di lavoro e il livello delle remunerazioni poi i metodi di reclutamento, inserimento,

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formazio-ne e progressi di carriera. In sintesi sono i fattori che creano condi-zioni di lavoro tali da consentire ai collaboratori di dare il meglio delle proprie capacità. I collaboratori» scrive Ra ner (2003) sono la prima linea di difesa nella gestione dei rischi e in particolare dei rischi di reputazione». La cultura dell’organizzazione è determinante per il comportamento dei collaboratori. l’insieme dei valori, tradi-zioni e principi consolidati che maturano con l’impresa (C ert-March, 1963).

f) Responsabilità sociale dell’impresa. Anche questo è un concetto dif-ficile da definire. Ancora più difdif-ficile è stabilire fino a che punto e in che modo l’impresa debba assumere e gestire responsabilità nei con-fronti della società. Quello che oggi esiste è un consenso diffuso sul-le aree principali di responsabilità: l’ambiente, il mercato, il posto di lavoro e la sede per discuterne. Su di queste sono costruiti gli scenari per individuare minacce e opportunità connesse con i rischi di repu-tazione. Rischi, che dovrebbero essere integrati nel sistema di repor-ting (Velo, 2003).

g) Comunicazioni verso l’esterno. Una volta individuati gli interessi e la domanda di informazione proveniente dagli sta eholders, l’impresa dovrebbe rispondere a queste esigenze fornendo loro dati e notizie aggiornati (Fiocca, 1990). La riluttanza a dare informazioni pu seriamente minacciare la reputazione, soprattutto se vengono al-la luce fatti che il management ha colpevolmente tenuto nascosti. Il caso del “Paxil suicide pill” è esemplare. Le indagini di Spitzer han-no infatti rivelato che GS aveva riscontrato han-non solo una scarsa ef-ficacia del Paxil sui giovani, ma addirittura una propensione al suici-dio doppia rispetto alla media. Ci nondimeno, queste informazioni erano state volutamente nascoste dai medici che avevano continuato a prescriverlo anche ai bambini. Come risultato, in un solo giorno il titolo ha perso il 7 .

26.3. Disaster recovery e contingency plan

Come afferma Sadgrove (1997), nonostante le maggiori precauzioni, le cose possono andare male. Un disastro pu colpire in qualsiasi momento e l’impresa dovrebbe avere un “contingenc plan” per ciascuno dei principali fattori di crisi, tipici del proprio settore. Nella distribuzione al dettaglio, ad esempio, i potenziali problemi sono prodotti difettosi, incendi, estorsioni, rapine, furti da parte di clienti o del personale.

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Eventi come la Severe Acute Respirator Sindrome (SARS), che nel 2003 ha sconvolto l’attività di molte imprese a ong ong, Toronto ed an-che in Cina, dimostrano come nessuno possa prevedere da dove verrà la prossima minaccia. Dimostrano per anche come manchi la necessaria pre-parazione ad eventi che possono minacciare la sopravvivenza dell’impresa. Di fronte all’epidemia SARS alcune imprese hanno vietato i viaggi, altre hanno isolato gli uffici impedendo agli estranei di avere contatti con il per-sonale, altre hanno trasferito il personale in nuovi uffici, il tutto senza un piano (Sadgrove, 1997).

Sono infatti una minoranza le imprese che hanno messo a punto piani di risposta a questo tipo di rischi. Una possibile spiegazione è che, nella situa-zione difficile dell’economia mondiale, molte imprese abbiano preferito non investire in piani che non miglioravano gli utili di bilancio. Eppure i rischi che si corrono possono raggiungere dimensioni impensabili.

Munich Re (la maggiore compagnia di assicurazioni del mondo che sin dal 1974 si è data un’unità di ricerca dedicata allo studio dei rischi natura-li3) è convinta che gli attacchi terroristici abbiano creato una nuova

dimen-sione di rischio in quanto hanno mostrato che nemmeno gli scenari “worst-case” possono essere esclusi. “September 11” ha causato perdite per il set-tore delle assicurazioni intorno ai 40 miliardi di dollari. Nessuno poteva pensare che un danno causato dall’uomo potesse raggiungere una tale di-mensione»4. Questa dimensione ha costretto le compagnie di assicurazione

a ripensare dalle fondamenta la scala delle possibili perdite raccogliendo sistematicamente informazioni scientifiche sui danni ed in particolare sulle origini dei disastri naturali e sulle richieste dei sottoscrittori di polizze.

Il catastrophe scenario è un modello che cerca di preparare il manage-ment a prevedere i rischi non immaginabili» per l’impresa ed i suoi clienti. M ers (1999) individua tre principali tipologie di disastro: 1) da eventi na-turali (inondazioni, uragani, terremoti, tornado) 2) da problemi ambientali (contaminazione, incidenti aerei) 3) da azioni dell’uomo (incendio doloso, sabotaggio, vandalismo, terrorismo). M ers individua anche le aree princi-pali di possibile impatto. Oltre ai computer (che hanno un ruolo importante in ogni organizzazione: ordini, logistica in entrata ed in uscita, gestione del-le scorte, contabilità), target sensibili sono del-le comunicazioni remote.

La rete (vitale per il marketing, i servizi ai clienti, le comunicazioni in-terne e i rapporti con i fornitori) è anche un possibile target. Particolare at-tenzione deve essere quindi prestata ai social media, monitorando

3 L’unità (www.munichre.com/touch/naturalhazards/en/about/index.html) è stata fondata a seguito del devastante terremoto nell’area di Managua (Nicaragua) che aveva causato rile-vanti perdite per il settore delle assicurazioni (80 milioni di dollari).

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temente la reazione dei consumatori e rispondendo immediatamente alle critiche. Moncler, colpita sui social media da polemiche in merito alla qua-lità delle piume e attacchi degli animalisti a seguito di un servizio televisivo (Report del novembre 2015) non è intervenuta immediatamente e ha subito gravi perdite. Stabilimenti, uffici, magazzini e centri di distribuzione sono anche di vitale importanza: incendi, contaminazioni chimiche, crolli posso-no mettere fuori uso impianti di importanza determinante. Infine, un disa-stro crea quasi sempre un periodo di scarsa efficienza, non solo per le inter-ruzioni, ma anche perch assorbe tempo ed attenzione del management.

I punti che seguono illustrano i principali elementi di un contingency plan.

Lo scenario: un metodo antico. Gli scenari consistono nel descrivere alcune possibili evoluzioni del futuro. Se il management ha già medi-tato sulle conseguenze di un possibile evento futuro e sulle strategie di risposta, sarà più rapido nel reagire (Grant, 1991).

Piano di emergenza. a due obiettivi principali: azioni preventive miranti a ridurre la probabilità del disastro e azioni nel caso in cui avvenga l’evento temuto. Il piano deve anche assegnare ruoli e re-sponsabilità di gestione di uno stato di crisi. Sadgrove (1997) sugge-risce che vi faccia parte anche un sistema di relazioni di lungo perio-do con i media. In caso di crisi è importante che non siano date al pubblico notizie allarmistiche, come avviene quando i giornalisti non hanno informazioni dirette.

Prevenire. Per ridurre la probabilità che un disastro si manifesti e per ridurne l’impatto la politica più efficace è prevenire. Revisioni perio-diche, sistemi informativi e fonti alternative di energia possono esse-re la forma più efficace per pesse-reveniesse-re un disastro.

Le fasi di una crisi. In genere una crisi passa attraverso fasi prevedi-bili. Secondo Sadgrove (1997), all’origine di una crisi vi è spesso un errore di previsione che avrebbe potuto essere evitato ma spesso il management non reagisce ai primi segnali, perch rifiuta di credere che esista un problema, e quando lo accetta, tende a pensare che la crisi non sia reale e che le conseguenze siano modeste (Sciarelli, 2002). Questo comportamento, insieme all’emergere di differenti ve-dute circa le soluzioni e la comunicazione verso l’esterno (chi vor-rebbe tenere il più possibile nascoste le conseguenze della crisi e chi invece vorrebbe dare il massimo di informazioni), determina un pe-riodo di inattività che, se si protrae a lungo, pu creare una crisi irre-versibile. Ad esempio, la reazione di Vol swagen in seguito al Diesel gate (2015) non è stata immediata, lasciando spazio alle versioni dei media.

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Contenere l’impatto negativo. Nel caso in cui la crisi si manifesti, un effetto immediato è quasi sempre il calo dei prezzi delle azioni. Nel 1984 ohnson ohnson perse un miliardo di dollari di capitalizza-zione (-14 ) in pochi giorni quando un criminale contamin con cianuro alcuni flaconi di T lenol. Nel 1989 la fuoriuscita di petrolio dalla petroliera Valdez che devast le coste dell’Alas a fece perdere a Exxon 3 miliardi di di capitalizzazione (-5 ) in una settimana. Nel 1995 Motorola perse 6 miliardi di (-16 ) quando un gruppo di scienziati dichiar di aver riscontrato un legame tra il cancro al cer-vello e l’uso di cellulari.

Risolvere la crisi. Le azioni dipendono dal tipo di crisi e dalla sensi-bilità del management nella preparazione del piano (unità di crisi, procedure scritte, responsabilità definite). Ad esempio, con l’evolversi della sensibilità ai rischi, le imprese si chiedono quanto costerebbe l’interruzione della loro attività o di parte di essa nel caso di un collasso del sistema informativo. Dato che dipendono sempre più dalla tecnologia, è soprattutto alla protezione di questa che dedi-cano la maggiore attenzione5.

Comunicare con i media e con i clienti. dimostrato che limitare i danni e il recupero dalla crisi dipendono dalla gestione del periodo immediatamente successivo. Comunicare, ammettere l’errore e met-tere in atto azioni al fine di recuperare la fiducia dei consumatori è la strategia vincente. Negare l’evidenza è spesso all’origine del peggio-ramento della crisi. Quando nel 1982 nell’area di Chicago alcune persone morirono dopo aver ingerito delle capsule dell’antidolorifico T lenol, la reazione della Johnson & Johnson fu immediata e impor-tante: divulg al massimo la notizia del pericolo ritir tutte le confe-zioni dal commercio allest un numero verde e acquist intere pagi-ne di quotidiani per dare informazioni ai consumatori invi a più di 500.000 medici delle circolari per illustrare i rischi della contamina-zione da cianuro rinvenuta nel farmaco. Sub perdite rilevanti, ma dopo due anni torn in utile grazie anche alla maggiore fiducia che aveva trasmesso ai clienti con la sua azione (per esempio ridisegn il pac aging contro le manomissioni esterne) e oggi la reputazione di produttore di qualità attento alla salute del consumatore si è addirittu-ra addirittu-rafforzata (Lambin, 2012).

La reputazione, infatti, si forma con il tempo: è un processo lungo e len-to, che deriva dalla cura delle relazioni con tutti gli sta eholders.

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Riferimenti bibliografici

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