UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
IL CONTROVERSO RAPPORTO FRA LA MERA
RIPROPOSIZIONE DI QUESTIONI IN APPELLO EX
ARTICOLO 346 C.P.C. E L’APPELLO INCIDENTALE
EX ARTICOLO 343 C.P.C.: QUALE ONERE INCOMBE
SULL’APPELLATO SOCCOMBENTE TEORICO?
Relatore:
Chiar.mo Prof. Menchini Sergio
Candidato:
Bonanini Edoardo
SOMMARIO
I.II LA NOZIONE DI EFFETTO DEVOLUTIVO DELL’APPELLO E LA SUA EVOLUZIONE
STORICA ... 9
I. III LA PROGRESSIVA SCOMPARSA DELL’EFFETTO DEVOLUTIVO ANCHE ALLA LUCE DEI NUOVI ORIENTAMENTI IN TEMA DI QUESTIONI RILEVABILI EX OFFICIO: IL PARTICOLARE CASO DELLA QUESTIONE DI GIURISDIZIONE ... 21
I. IV LA RIFORMA DELL’ARTICOLO 342 C.P.C.: LA DEFINITIVA CONFIGURAZIONE DELL’APPELLO COME REVISIO PRIORIS INSTANTIAE ... 35
I. V CONCLUSIONE ... 42
II. IL CONCETTO DI «PARTE» DELLA SENTENZA ... 45
II.I INTRODUZIONE ... 45
II.II «PARTE» DI SENTENZA COME CAPO DI DOMANDA ... 50
II.III «PARTE» DI SENTENZA COME SOLUZIONE DI OGNI QUESTIONE CONTROVERSA ... 67
II.IV CONCLUSIONE ... 74
III. L’ONERE DI APPELLO INCIDENTALE E LA MERA RIPROPOSIZIONE: INDIVIDUAZIONE DI UN CRITERIO DI DISCERNIMENTO E ANALISI DI ALCUNE FATTISPECIE ... 77
III.I L’EQUIVOCA ESEGESI DELL’ART. 346 C.P.C. ... 77
III.II LE ISTANZE ISTRUTTORIE NON ACCOLTE ... 92
III.III FORME E TERMINI DELLA MERA RIPROPOSIZIONE ... 99
III.IV L’ONERE DELLA MERA RIPROPOSIZIONE CHE SI APPLICA ANCHE ALLA PARTE CHE SIA RIMASTA CONTUMACE ... 104
III.V FORMULAZIONE DI UN CRITERIO ORIENTATIVO NELLA SCELTA FRA MERA RIPROPOSIZIONE E APPELLO INCIDENTALE: IL RUOLO DECISIVO GIOCATO DAL NUOVO TESTO DELL’ART. 342C.P.C. ... 107
III.VI OGGETTO DELL’ONERE DI MERA RIPROPOSIZIONE EX ART. 346: LE DOMANDE E LE ECCEZIONI NON ACCOLTE ... 118
III.VII L’APPELLO INCIDENTALE: LINEE GENERALI E APPLICAZIONE ... 122
III.VIII SFAVOREVOLE SOLUZIONE DI QUESTIONI DI MERITO ED APPELLO INCIDENTALE CONDIZIONATO ... 129
III.IX TERMINI E MODALITÀ DELL’APPELLO INCIDENTALE (ANCHE EVENTUALMENTE IN FORMA CONZIONATA) ... 136
III.X ESAME DI ALCUNE FATTISPECIE: A) IL CUMULO DI DOMANDE ... 141
b) (segue) il Capo dipendente e l’effetto espansivo interno di cui all’art. 336, comma 1, c.p.c. ... 152
c) (segue) L’omissione di pronuncia ... 160
d) (segue) La chiamata in garanzia: corte di cassazione, sezioni unite – sentenza 19 aprile 2016, n.7700 ... 167
e) (segue) Le domande a petitum divisibile e i rapporti tra an e quantum debeatur ... 180
f) (segue) La riproposizione delle eccezioni ... 185
III.XI I RAPPORTI FRA I VARI ELEMENTI DELLE SINGOLE FATTISPECIE COSTITUTIVE, IMPEDITIVE, MODIFICATIVE ED ESTINTIVE ... 187
III.XII ORDINANZA INTERLOCUTORIA N. 4058: ALLE SEZIONI UNITE IL REGIME DI DEVOLUZIONE IN APPELLO DELLE ECCEZIONI RIGETTATE A SFAVORE DELLA PARTE VITTORIOSA NEL MERITO ... 190
BIBLIOGRAFIA ... 195
I. L’EFFETTO DEVOLUTIVO DELL’APPELLO E IL C.D.
«DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS»: LA LORO
RILEVANZA NELL’INTERPRETAZIONE
DELL’ARTICOLO 346 C.P.P
Sommario: I. I Introduzione; I. II La nozione di effetto devolutivo dell’appello e la sua evoluzione storica; I. III La progressiva scomparsa dell’effetto devolutivo anche alla luce dei nuovi orientamenti in tema di questioni rilevabili ex officio: il particolare caso della questione di giurisdizione; I. IV La riforma dell’articolo 342 c.p.c.: la definitiva configurazione dell’appello come revisio prioris instantiae; I. V Conclusione
I.I Introduzione
Non si può assolvere il compito di analizzare la portata e il significato dell’istituto previsto dall’articolo 346 c.p.c e delle sue connessioni con l’istituto dell’impugnazione incidentale, senza aver prima esteso, almeno in parte, l’indagine ad un campo più vasto rispetto a quello che sarà lo specifico oggetto di questa trattazione: più precisamente, occorre preventivamente sottoporre ad analisi le concezioni generali sulla natura, la struttura e la funzione del giudizio d’appello, e ciò in quanto ai diversi punti di vista adottati in proposito si sono da sempre accompagnati in dottrina ed in giurisprudenza soluzioni divergenti dei problemi relativi alle condizioni di applicabilità dell’istituto ex articolo 346; soleva dirsi, in particolare, non più di cinque o sei lustri addietro, che l’appello si configurasse non già quale mero strumento di controllo della sentenza di primo grado secondo il paradigma latino della revisio prioris instantiae, bensì come mezzo per sottoporre nuovamente al secondo giudice, in tutto o in parte,
l’oggetto della lite svoltasi in prime cure, sotto forma di novum iudicium: il giudice del gravame (così veniva chiamato l’appello, al fine di distinguerlo dai mezzi di impugnazione in senso stretto, secondo categorie classicamente adoprate da Calamandrei) aveva il potere di formulare un nuovo giudizio di fatto e di diritto, anche mutando completamente la ricostruzione storica e/o la qualificazione giuridica della fattispecie. Questo era, in un certo senso, il carattere tipico dell’appello, la cifra tradizionale che consentiva di distinguerlo dagli altri mezzi di impugnazione e, segnatamente, dal ricorso per cassazione: libertà di critica, in fatto come in diritto, effetto devolutivo del thema decidendum, sia pure entro i limiti del quantum appellatum, ed efficacia sostitutiva della sentenza, con anche (da noi addirittura senza limitazioni fino alla riforma del 1995) la possibilità di ampliare il materiale cognitorio attraverso nuove deduzioni in fatto e nuove prove, documentali o finanche costituende, onde meglio assicurare la giustizia del caso singolo, ponendo rimedio non sono agli eventuali errori del primo giudice, ma anche alle omissioni ed alle insufficienze delle difese, nella consapevolezza che non tutto sulla singola fattispecie riesce chiaro e lampante ad un semplice ed unico sguardo, ma che la ricerca della verità relazionale del processo, con metodo dialettico e isonomico, è un percorso lungo e complesso; ma, tuttavia, se tutto questo valeva e si sosteneva in un passato non poi così remoto, oggi la situazione risulta essere decisamente cambiata, dal momento che tale non è più, e sempre meno diviene progressivamente (o regressivamente, a seconda dei punti di vista), l’appello nel nostro ordinamento.
A ben vedere, tra l’altro, ancor prima delle più recenti riforme, che indubbiamente hanno giocato un ruolo fondamentale in tale direzione, vi erano già i presupposti teorici per configurare diversamente il giudizio di appello: a tal riguardo, conviene
prendere le mosse da una convinzione in passato molto radicata in dottrina circa l’essenza dell’appello, la quale veniva comunemente espressa con l’asserire che tale gravame attuerebbe il principio del doppio grado di giurisdizione, grazie al quale (salvo eccezioni tassativamente prestabilite) ogni controversia già decisa da un giudice deve poter venir esaminata in tutti i suoi aspetti, sia di fatto sia di diritto, da un altro giudice sovraordinato. Sennonché, al di là dell’apparente chiarezza, la formulazione risulta essere sostanzialmente ambigua, in quanto sono attribuibili due significati diversi alla «possibilità di riesame» ivi accennata: a) o essa sta semplicemente a significare che l’appello della sentenza di primo grado è rimesso alla libera scelta della parte interessata, ragion per cui, ogniqualvolta il gravame venga validamente proposto, si devolve al giudice superiore la cognizione piena e illimitata sul merito del rapporto di diritto sostanziale controverso; b) oppure sta a significare che, essendogli lecito far valere qualunque motivo di ingiustizia o di illegalità della sentenza, l’appellante «può» ottenere un riesame completo dal giudice ad quem sol che ne esprima la volontà nelle forme prescritte dalla legge, potendosi però, al contrario, anche accontentarsi di un riesame parziale, e cioè limitato solo ad alcune delle questioni risolte a suo sfavore dal giudice a quo. Ora, nessuna tra le due alternative sopra enunciate appare di per sè privilegiata ex littera rispetto all’altra, dal momento che, non essendo legato ad una tipologia conchiusa e tassativa di vizi, l’appello deve essere considerato sotto questo profilo come un’impugnazione illimitata, dal che si dovrebbe, almeno teoricamente, dedurre che le esigenze poste alla base del principio del doppio grado di giurisdizione possano essere soddisfatte indipendentemente dalla circostanza che la «possibilità» di riesame vada intesa nel senso indicato sub a) ovvero nel senso indicato sub b), cioè, detto altrimenti,
indipendentemente dall’esistenza o meno di un certo tipo di correlazione fra l’iniziativa delle parti e i poteri cognitori attribuiti al giudice del gravame.
Ciò nondimeno, però, per molto tempo non è stata questa l’impostazione usualmente adottata in dottrina; anzi, al contrario, esisteva una forte tendenza a ravvisare una sorta di implicazione necessaria tra il principio del doppio grado di giurisdizione e la «possibilità di riesame» intesa nel primo dei due sensi sopra delineati, e, conseguentemente, ad esibire definizioni del giudizio di appello in linea con una simile tendenza, così da pregiudicare in partenza l’esito dell’indagine sulla struttura del gravame quale risulterebbe da una semplice analisi della disciplina positiva capace di prescindere da posizioni teoretiche precostituite. Per questa via, si è così asserito, per l’appunto, che la configurazione dell’appello come prosecuzione del procedimento di primo grado ripreso nelle condizioni in cui si trovava prima della chiusura della discussione, discenderebbe logicamente proprio dal principio del doppio grado di giurisdizione1; ancora, si è altresì asserito che la
devoluzione, intesa come riemersione automatica davanti al giudice ad quem del materiale di cognizione già introdotto dalle parti nella prima fase di giudizio, costituisce «l’espressione massima o unica» di quel principio2, e si è dedotto il potere del
giudice di appello di spaziare nell’intero ambito della controversia dalla illimitata libertà di critica dell’appellante3; così, ancora e
soprattutto, si è ritenuto che l’oggetto dell’appello non debba consistere nei vizi denunciati dalle parti, in quanto il gravame in questione non sarebbe rivolto al controllo della decisione di primo grado, bensì sarebbe volto ad assicurare il «riesame immediato
1 In tal senso si sono espressi DELITALA, Il divieto della reformatio in peius
2 NIGRO, L’appello nel processo amministrativo, Milano, 1960
della causa»4, con la conseguenza che in tale riesame il giudice non
incontrerebbe limiti «potendo porsi nell’ambito delle domande riproposte – ma al di là del motivo addotto, cioè della censura, e alla stregua del primo giudice – tutte le questioni di fatto e di diritto relative alla situazione di diritto sostanziale dedotta in lite»5.
Tutte queste affermazioni potrebbero sembrare il risultato di un procedimento per cui, partendo da una premessa indiscutibile, e cioè dalla constatazione di un’astratta mancanza di limiti nei confronti della parte legittimata ad appellare, nel senso che la domanda di appello non è vincolata dall’allegazione di vizi tassativamente determinati, si perviene ad asserire una simmetrica mancanza di limiti nei confronti del giudice investito dell’appello, nel senso che i suoi poteri di cognizione non sarebbero vincolati dalle censure concretamente proposte nei singoli giudizi dalle parti interessate, e in tal senso giocherebbe un ruolo primario proprio il c.d. «effetto devolutivo» dell’appello, la cui essenza, almeno in parte, risulta concretizzarsi nelle affermazioni sopra riportate. Sennonché, però, appare chiaro che queste affermazioni discendono tutte da un’aprioristica qualificazione del giudizio di appello come novum iudicium, ossia come mezzo di gravame atto a portare alla cognizione del giudice di seconde cure direttamente il medesimo oggetto del giudizio di primo grado, qualificazione, questa, che, però, risulta oggi superata, insieme con l’effetto devolutivo, alla luce dell’evoluzione normativa che si è registrata nel corso degli ultimi anni. Si rende pertanto necessario, a questo punto, approfondire l’analisi relativa all’effetto devolutivo, al fine di verificare se e in che modo tale istituto possa effettivamente essere condizionato dalla concezione
4 ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it., 1961, IV. 5 Così FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960.
generale che si attribuisca al giudizio di appello e dall’interpretazione che si deve compiere sull’articolo 346.
I.II La nozione di effetto devolutivo dell’appello e la sua evoluzione storica
Vigeva un tempo l’effetto devolutivo dell’appello, che operava in illo tempore persino a favore del contumace; prevalse poi, invece, con il passare degli anni e il susseguirsi delle riforme, il sistema francese su quello di derivazione romanistica e l’appello passò da impugnazione ad efficacia reale, con devoluzione piena ed automatica in seconde cure dell’intera controversia, da rivisitare funditus e senza limitazioni, ad impugnazione ad effetto personale, cioè relativa al solo appellante, con annesso divieto di reformatio in pejus in mancanza di apposita iniziativa della parte appellata. Ma cosa debba intendersi per effetto devolutivo o, in altre parole, cosa significhi riconoscere all’appello (o ad un gravame in genere) tale effetto non risulta sempre con chiarezza dalla dottrina e dalla giurisprudenza: ora, oggetto di un processo possono essere una o più domande volte ciascuna all’accertamento di una concreta volontà di legge e, correlativamente, si potrà parlare da un lato di uno o più capi di domande e, dall’altro lato, rispetto alla decisione, di uno o più capi di sentenza6. Ebbene, nell’ipotesi in cui
effettivamente più siano le domande, si potrebbe in astratto pensare che la legge o ricolleghi senz’altro all’impugnazione (da parte del soccombente) di un capo di sentenza l’automatico riesame di tutti gli altri o che, al contrario, esiga che l’esame da parte del giudice del gravame sia limitato alle domande rispetto alle quali esso sia stato richiesto dalla parte soccombente; detto
altrimenti, affermare il primo polo dell’alternativa, significherebbe riconoscere alla domanda di appello l’idoneità ad introdurre un giudizio riguardante (non unicamente o preliminarmente la sentenza impugnata, bensì) nuovamente e direttamente il medesimo oggetto già sottoposto al giudice a quo. Proprio un principio devolutivo così concepito caratterizzava le prime codificazioni dell’età moderna, prima delle quali il Code Napoleon del 1806, che introdusse l’appel incident derivandolo dalla pratica giudiziaria anteriore e destinandolo specificamente all’impugnazione dei capi diversi da quello gravato dall’appello principale; nel Code francese (ma lo stesso accadeva con la ZPO tedesca per l’ Anschluberufung) la libertà di forme e di termini accordata per l’appello incidentale palesava il trattamento di favore fatto all’appellato, nei cui confronti l’effetto devolutivo operava nella sua massima estensione; fortissimo, pertanto, era in quei sistemi il legame tra appello incidentale e devoluzione del materiale cognitorio al secondo giudice, sì che in essi non esisteva il problema di distinguere tra gravame incidentale e mera riproposizione: ambedue, infatti, potevano avvenire «jusqu’à la clòture des debats», senza la necessità di forme particolari. Questa, di fatto, era la situazione prefigurata anche dal nostro codice di rito del 1865, nel cui vigore, infatti, si sosteneva la pienezza della devoluzione a favore dell’appellato: in seconde cure si rinnovava la cognitio causae, per effetto automatico del solo appello principale, «su tutti gli elementi della controversia che avevano relazione con la soccombenza dell’appellante, cioè su tutti quelli che avevano servito di base a questa parte della pronuncia impugnata ed altresì su tutti gli altri che appartenevano in prima istanza al rapporto processuale e che avrebbero potuto servire del pari a determinare
la di lui soccombenza nella stessa misura ovvero in più ristrette proporzioni»7. Questa soluzione si poneva in linea di continuità
storica con quelli che erano stati gli sviluppi della Lex Ampliorem giustinianea presso i giuristi dell’età intermedia8: in origine la
devoluzione della lite consentiva al giudice superiore di conoscere anche dei capi di sentenza diversi da quelli espressamente impugnati dall’appellante e gli conferiva addirittura il potere di riformare la sentenza a favore dell’appellato contumace; successivamente, invece, si affermò il principio in base al quale, se l’atto di appello investiva uno solo o alcuni fra i più capi di una sentenza, gli altri restavano fuori dalla cognizione del secondo giudice, salvo che non fossero connessi con quelli espressamente impugnati9. In questo modo l’effetto devolutivo, inteso in questa
prima accezione di cui si sta ora trattando, aveva la possibilità di spiegarsi nella sua pienezza nell’ambito del capo o dei capi di sentenza dai quali fosse derivata la soccombenza dell’appellante e che fossero stati da lui espressamente impugnati, nonché in relazione ai capi connessi o che comunque costituivano il necessario presupposto logico della soccombenza sofferta;
7 Così Mortara, Commentario delle leggi e del codice di procedura civile,
IV, Milano, 1918, 396, che, però, già all’epoca riteneva che l’effetto devolutivo non operasse automaticamente
8 Non è inopportuno riportare il testo della Lex Ampliorem : “Sancimus
itaque, si appellator semel in iudicium venerit et causas appellationis suae proposuerit, habere licentiam et adversarium eius, si quid iudicatis opponere maluerit,, si praesto fuerit, hoc facere et iudiciale mereri praesidium: sin autem absens fuerit, nihilominus iudicem per suum vigorem eius partes adimplere” (Cost, 39, De appellationibus et consultationibus, VII, 62). Sulla Lex Ampliorem v. già MORTARA, voce “Appello civile”, estratto dal Digesto it. , Torino, 1898, 959, e, più di recente, PERGAMI, L’appello nella legislazione del tardo Impero, Milano, 2000, 228 e seg.
9 Si veda BONSIGNORI, Premesse allo studio dell’effetto devolutivo
dell’appello, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1971, 731; PADOA SCHIOPPA, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, II, Milano, 1967, 225 e seg
riemergeva automaticamente il materiale cognitorio che avrebbe potuto conservare intatta per l’appellato la vittoria conseguita in prime cure o che sarebbe potuta servire per circoscrivere la riforma invocata dall’appellante principale. Soltanto per gli elementi idonei a determinare una diversa soccombenza dell’appellante (diversa in qualità o in quantità, ma comunque maggiore di quella sopportata in primo grado, per cui da qui derivava il divieto di reformatio in in peius in mancanza di un’apposita iniziativa della parte appellata) la devoluzione automatica non operava e aveva bisogno di essere integrata mediante un’apposita iniziativa impugnatoria dell’appellato, con cui egli insorgeva contro il dictum giudiziale per rimuovere la parziale soccombenza e per l’interesse che questa gli forniva. Questa soluzione vigente nel codice di rito del 1865, però, potendo comportare che l’impugnazione da parte del soccombente del capo a lui sfavorevole sottoponesse al giudice dell’impugnazione il riesame anche di tutti gli altri capi (e, dunque, anche di quelli eventualmente risolti in senso a lui favorevole), finiva per implicare una deroga o al principio della soccombenza (in quanto si veda nell’impugnazione di un capo da parte del soccombente un’impugnazione degli altri capi anche se favorevoli, e cioè della sentenza in toto) oppure al principio per cui il giudice del gravame, non d’ufficio, ma su impugnazione di una parte può procedere al riesame dei capi di una sentenza emessa da un giudice di grado inferiore10. Il secondo polo dell’alternativa sopra richiamata, il
ritenere cioè che la legge in astratto imponga che l’esame del giudice di secondo grado sia limitato esclusivamente alle domande rispetto alle quali il gravame sia stato richiesto dalla parte soccombente, opera invece nel pieno rispetto di tali due principi
10 Si veda CALAMANDREI, Appunti sulla “reformatio in pejus”, in Riv. dir.
ed esprime la necessità che ciascuna parte soccombente debba riproporre le domande non accolte affinché il giudice di gravame possa portare il suo esame su di esse. Nell’ambito, poi, di un capo di sentenza più sono normalmente o, comunque, possono essere, le ragioni, le difese, le eccezioni svolte dalle parti al fine di ottenere una pronuncia favorevole e che il giudice ha esaminato (o avrebbe dovuto esaminare); anche qui, dunque, sempre in astratto, due sono le possibili soluzioni, e cioè che, da un lato, l’impugnazione da parte del soccombente automaticamente sottoponga le questioni sollevate dinanzi al primo giudice al riesame del giudice d’appello, ovvero che, dall’altro lato, il riesame di tali questioni non sia automatico, ma sia al contrario limitato a quelle della cui soluzione sfavorevole la parte interessata siasi doluta. Chiaramente, il problema di capire se un gravame automaticamente comporti o meno il riesame, da parte del giudice di seconde cure, delle questioni sottoposte all’esame del giudice di primo grado (anche di quelle, in ipotesi, risolte sfavorevolmente per il vincitore-‐ appellato) nell’ambito del capo di sentenza impugnato, è diverso dal problema di capire se l’impugnazione di un capo di sentenza faccia o meno sorgere il dovere del giudice da essa investito dell’esame anche dei residui capi. Ebbene, non potendosi più accogliere, a seguito del passaggio dal codice di rito del 1865 a quello del 1942, la possibilità di un effetto devolutivo dell’appello riferito ai capi di sentenza, in un passato, non poi così remoto, si sosteneva, da parte di autorevole dottrina11, che, parlandosi di
effetto devolutivo dell’appello, si dovesse far riferimento al primo e non al secondo problema, cioè, detto altrimenti, si sosteneva che
11 ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it., 1961, IV, 153 ss.; ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 146 ss.; BONSIGNORI, L’effetto devolutivo dell’appello, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1988, I, 477 ss.; BIANCHI, I limiti oggettivi dell’appello civile, Padova, 2000, 84 ss., 94 ss., 101 ss. e 130 ss.
l’efficacia (assunta come piena ed automatica) dell’appello comportasse la devoluzione al giudice del gravame di tutte le questioni insite nel capo di sentenza impugnato; in particolare, Attardi12, nel sostenere che per effetto devolutivo si dovesse
intendere l’effetto di devolvere automaticamente (cioè senza specifica doglianza della parte interessata) all’esame del giudice d’ appello tutte le questioni sollevatesi in primo grado nell’ambito del capo di sentenza impugnato, affermava altresì che, parlandosi dell’effetto devolutivo dell’appello, non ci si dovesse domandare se il gravame in parola devolvesse o meno al giudice superiore la cognizione dello stesso rapporto sostanziale controverso, conosciuto dal primo giudice, e che, dunque, non si dovesse intendere per effetto devolutivo l’effetto di devolvere al giudice d’appello il riesame sulla domanda originaria del processo; infatti, continuava Attardi, se in questo senso dovesse intendersi l’effetto devolutivo dell’appello, allora tale effetto sarebbe connaturato all’appello stesso, «che è un gravame avente come funzione il riesame immediato della causa e sarebbe allora un non senso discuterne»13. Più in particolare, una simile ricostruzione era il
frutto di un’indagine con cui vennero individuate tre classi di questioni oggetto di (presunto) automatico riesame, senza che alcun rilievo avesse a tal fine il fatto che per la loro sfavorevole soluzione fosse stata sollevata un’apposita censura, vuoi dal soccombente tramite la motivazione dell’atto di appello, vuoi dal vincitore tramite la riproposizione ex articolo 346, vuoi dal soccombente teorico tramite l’impugnazione incidentale; si trattava: 1) delle questioni rilevabili d’ufficio e rilevate dal giudice a quo; 2) delle questioni «la cui soluzione rappresenta un momento essenziale perché il giudice di appello pronunci
12 Vedi ATTARDI, op. ult. cit. 13 Sempre ATTARDI, op. ult .cit.
nuovamente sulla domanda originaria del processo e sul diritto che con tale domanda sia stato fatto valere»14, e cioè, in altre
parole, delle questioni che interessano la fattispecie costitutiva del diritto controverso; 3) delle questioni risolte a favore della parte che ha sollevato la relativa domanda o eccezione.
Ebbene, per quanto concerne la classe di questioni sub 1), si deve mettere in rilievo la differenza che sussiste tra la «rilevabilità» e la «riesaminabilità» d’ufficio, posto che solo la prima (eventualmente) e non certamente la seconda può rientrare tra i poteri del giudice di appello, nel senso che non vi è alcun riesame automatico, ma, al contrario, la necessità di una specifica doglianza ogniqualvolta alla questione rilevabile d’ufficio sollevata in primo grado si sia sovrapposta la pronuncia che l’ha risolta; anzi, ad ulteriore conferma di quanto detto, si deve registrare come, ad oggi, per la parte soccombente nella questione pregiudiziale di rito ma vittoriosa nel merito, non sia neppure più sufficiente la mera riproposizione per evitare la preclusione della questione risolta in senso a lui sfavorevole, ma, al contrario, si rende necessario ricorrere alle forme e ai termini dell’appello incidentale15.
Per quanto riguarda, invece, la classe di questioni sopra ricordata sub 2), si è addirittura asserito che il riconoscimento al giudice di appello del potere di conoscerne ex officio sta a monte della problematica concernente l’effetto devolutivo, cosicché l’eventuale negazione di quest’ultimo non avrebbe alcun rilievo in proposito; tale conclusione, secondo l’autore, sarebbe necessariamente implicata nella circostanza che le questioni in discorso «vertono su punti che il giudice non può omettere di esaminare affinché l’appello raggiunga il suo risultato che è...(assunta la sua
14 ATTARDI, op. ult. cit, pagina 154
15 Ma per un esame più approfondito sul punto si rimanda al prosieguo
qualificazione come novum iudicium e come gravame sostitutivo) un nuovo giudizio sull’ammissibilità e sulla fondatezza della domanda introduttiva del processo»16. Questa impostazione, però,
è stata giustamente criticata da Chiarloni17, il quale ha ritenuto di
non dover condividere un’impostazione del genere, in quanto, anche a voler ammettere che in ogni caso, ivi compreso il caso di c.d. conferma, la sentenza appellata venga sostituita dalla sentenza emessa dal giudice di secondo grado (salvi i casi, chiaramente, di rinvio al giudice di primo grado ai sensi degli articoli 353 e 354 c.p.c.), questo non sarebbe però sufficiente per affermare che certe categorie di questioni, ad esempio quelle che «interessano la fattispecie costitutiva del diritto controverso», debbano essere sottoposte ad un regime diverso da quelle che interessano fattispecie impeditive o estintive del diritto medesimo.
Per quanto riguarda, infine, la classe di questioni sub 3), ossia le questioni risolte a favore della parte che ha sollevato la relativa domanda o eccezione, la tesi secondo cui esse sarebbero senz’altro devolute al giudice di appello fa perno essenzialmente sul rilievo che l’articolo 346 c.p.c esige l’espressa riproposizione con esclusivo riferimento alle domande o alle eccezioni non accolte, traendone così la conseguenza che il giudice ad quem debba portare comunque il suo esame su quelle che siano state, invece, ritenute fondate dal giudice a quo; tuttavia sorge spontanea l’impressione che l’uso della tecnica interpretativa a contrario su cui si sorregge la tesi enunciata sia per lo meno discutibile, non apparendo soddisfatti i presupposti richiesti affinché chi voglia cogliere il trattamento in appello delle domande e delle eccezioni accolte nella sentenza di primo grado si trovi realmente di fronte
16 ATTARDI, op. ult. cit., pag. 159.
17 CHIARLONI, L’impugnazione incidentale nel processo civile, Milano,
ad un’alternativa tra l’applicazione all’articolo 346 dell’argomento a contrario sensu e l’applicazione dell’argomento a simili18. Ciò
perché non sembra lecito individuare come due specie di un medesimo genere le domande e le eccezioni non accolte, da un lato, e le domande e le eccezioni accolte, dall’altro lato, così da far pervenire l’interprete a concepire la norma dettata per le prime o come esempio di una regola che concerne il genere intero o come deroga ad una regola contraria e implicita concernente il genere19;
dal punto di vista della dottrina delle impugnazioni, infatti, l’accoglimento, da un lato, e il mancato accoglimento, dall’altro lato, di una domanda o di un’eccezione nel provvedimento impugnato, determinano l’insorgere di problematiche diverse e non comparabili e l’esigenza di discipline distinte, senza alcuna possibilità di dedurre, usando questo o quel canone ermeneutico, la disciplina non espressamente prevista dalla disciplina che invece lo sia. Inoltre, la stessa configurazione della decadenza prevista dall’articolo 346 come l’effetto di un’astratta presunzione di rinuncia costituisce un sintomo significativo della volontà di regolare esclusivamente la sorte delle domande e delle eccezioni che in primo grado non abbiano avuto successo; andando in contrario avviso si finirebbe, infatti, con l’accogliere l’idea che sia configurabile la rinuncia ad un mezzo che ha già conseguito lo scopo al quale esso risulta preordinato20.
18 Per il rilievo che intanto è lecito argomentare a contrario dal
contenuto di una norma, in quanto ne sia concepibile in astratto l’estensione analogica, si veda BOVENSIEPEN, Analogie und per argumentum a contrario, voce in Handworterbuch der Rechtswissenschaft, Band., I, Berlin und Leipzig, 1926
19 Così è descritta in PERELMAN, OLBRECHTS-‐TYTECA, Traitè de
l’argumentation, 1958, l’alternativa cui si trova di fronte chi deve operare una scelta tra le due opposte tecniche interpretative.
20 In altre parole: il legislatore non avrebbe potuto, senza contraddirsi,
L’analisi appena terminata dimostra che non è dato individuare, come caratteristica peculiare del giudizio di appello, un fenomeno di riemersione automatica – vale a dire indipendente da ogni censura al riguardo mossa dalla parte interessata – del materiale cognitorio sottoposto al giudice di primo grado, pur nell’ambito di un medesimo capo di sentenza espressamente impugnato; pertanto, nella misura in cui con l’espressione «effetto devolutivo» si intende far riferimento ad un fenomeno del genere, appare allora lecito concludere che l’appello nel nostro ordinamento processuale civile è privo dell’effetto suddetto, nelle varie possibili accezioni in cui lo stesso può essere inteso, e ciò anche in ragione del fatto che il nostro legislatore ha progressivamente sempre più ridotto l’area cognitoria del giudice nel passaggio da un grado all’altro del giudizio, nell’ambito di un’impostazione ideologica che voleva privilegiare la rapidità nella definizione delle liti21. Infatti,
già nel codice di rito precedente a quello attuale e pur in assenza di un’esplicita disposizione di legge, aveva cominciato a farsi strada l’idea che il soggetto appellato, affinché operasse in suo favore l’effetto devolutivo, dovesse manifestare senza equivoci la volontà di far valere in appello tutte le difese di cui si era avvalso nel processo di primo grado, riproducendole mediante espressi richiami, peraltro sottoposti a modalità e termini assai meno riproposizione in appello delle domande e delle eccezioni già accolte in primo grado; di conseguenza, non appare possibile dedurre, per argomento a contrario, dal mancato richiamo nell’articolo 346 c.p.c. a tali domande ed eccezioni una volontà di regolarle in maniera opposta rispetto alla disciplina ivi esplicitamente dettata per le domande e le eccezioni non accolte.
21 Vedi, infatti, CARNELUTTI, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., I,
1933, 124; Id., Sistema di diritto processuale civile, II, Padova, 1938, pagine 585 e segg.; Id., Diritto e processo, Napoli, 1958, 237, che parla di “restrizione progressiva dell’area della lite” e di “lenta erosione, per cui, quando il processo si svolge attraverso impugnazioni successive, pare che la lite si consumi, anziché spegnersi ad un tratto”.
rigorosi «che non nel caso in cui era necessario produrre appello incidentale»22; pertanto, in sede di gravame, già nel codice
previgente, si imponeva un’indagine sulla concreta volontà dell’appellato, il cui negativo riscontro faceva presumere abbandonate le istanze non riproposte e impediva al giudice di supplire con la propria iniziativa»23.
Non è un caso, pertanto, che i conditores del codice attuale, proprio al fine di strutturare ab origine l’appello come revisio prioris instantiae anziché come novum iudicium, vollero tradurre quest’idea di diritto vivente in una norma di diritto positivo: così, il Progetto preliminare Solmi all’articolo 344 dispose che si sarebbero dovute intendere abbandonate le domande e le eccezioni che non fossero state espressamente riproposte in appello, con l’esclusiva salvezza delle sole questioni rilevabili d’ufficio; la norma fu poi riprodotta nell’articolo 357 del Progetto definitivo, con l’aggiunta di un capoverso sulla posizione dell’appellato contumace, le cui domande ed eccezioni, purché proposte in primo grado ed espressamente esaminate dal giudice a quo, dovevano essere riesaminate automaticamente dal giudice di appello, con possibilità di una rimessione in termini dell’appellato successivamente comparso per proporre le istanze non esaminate dal giudice di primo grado in quanto assorbite dalla decisione favorevole; da qui, infine, trasse la propria origine l’attuale articolo 346 c.p.c., il quale: accosta ai sostantivi «domande» ed «eccezioni» l’attributo (volto al negativo) di «non accolte»; non si occupa espressamente né dell’appellato contumace né delle questioni rilevabili d’ufficio; mantiene, con la locuzione «s’intendono rinunciate» (che è sostanzialmente equipollente al «s’intendono
22 MORTARA, Appello, cit., 970; Id., Commentario, cit., IV, 395 ss.
23 MORTARA, Commentario, cit., 397 e ss., che tuttavia era voce isolata in
abbandonate» del progetto Solmi), il riferimento alla volontà dell’appellato, per quanto nella rubrica della norma vi sia l’espressione «decadenza». É questo, dunque, il contesto in cui si situa l’articolo 346 c.p.c., ultima progenie della millenaria tradizione dell’effetto devolutivo rispetto alla quale, però, esso si pone in esplicita rottura, nonostante che, come si è visto e contestato supra, alcuni autori, dal rilievo (storicamente esatto) che l’articolo 346 trova le sue origini nell’ambito del principio devolutivo dell’appello, ne abbiano tratto l’errata conseguenza che esso lo abbia conservato esistente, contribuendo tutt’al più a limitare in linea di fatto i poteri del giudice del gravame.
Alla luce di quanto si è ora detto, pertanto, già nell’impianto originario del codice del 1942, in realtà, il legislatore, lungi dal riconoscere un effetto devolutivo all’appello in forza del quale si sarebbero dovute ritenere automaticamente devolute al giudice del gravame tutte le questioni insite nel capo di sentenza espressamente impugnato, aveva già richiesto un’apposita iniziativa della parte appellata: in particolare, nell’impianto originario (e tutt’oggi ex littera, salvo quanto si dirà nel prosieguo della trattazione24) si riteneva sufficiente la mera riproposizione
ex articolo 346 c.p.c. di domande ed eccezioni non accolte in primo grado, entro la precisazione delle conclusioni in appello, quando l’appellato non avesse risentito alcun pregiudizio pratico dalla pronuncia di prime cure, esigendosi, invece, l’osservanza di forme e termini dell’appello incidentale ex articolo 343 c.p.c., quando l’appellato intendesse rimuovere un tale pregiudizio, che si fosse tradotto per lui in soccombenza materiale25(di materielle Beschwer
parlano i tedeschi, distinguendola dalla formelle Beschwer, dove la
24 Si rimanda, in particolare, allo studio del capitolo III
25 TEODOLDI, L’onere di appello incidentale nel processo civile, in Giur. it.,
prima è legata agli effetti pregiudizievoli della decisione per un soggetto la cui posizione giuridica riesce aggravata, mentre la seconda è, grosso modo, assimilabile al nostro concetto di soccombenza formale). Ma, se questo è vero, è altrettanto vero che è alla luce delle più recenti modifiche apportate alla disciplina del giudizio di appello, che si può asserire, senza più possibilità di smentita, la natura di mezzo di impugnazione del provvedimento decisorio di primo grado del nostro appello civile.
I. III La progressiva scomparsa dell’effetto devolutivo anche alla luce dei nuovi orientamenti in tema di questioni rilevabili ex officio: il particolare caso della questione di giurisdizione
Tradizionalmente, richiamandosi al principio tantum devolutum quantum appellatum, si applicava già in passato un’assai estesa regola di acquiescenza implicita rispetto a tutte le questioni, processuali o di merito, che non fossero state espressamente sottoposte ad opera delle parti a riesame in seconde cure, e questo, quindi, a prescindere dall’avvenuta impugnazione del capo di sentenza a cui risultassero essere collegate tali questioni26;
passavano indenni da questa preclusione interna le sole questioni rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, ma non rilevate né decise in prime cure27: così, le questioni pregiudiziali di
26 Cass., 9 gennaio 2009, n. 238; Cass., 6 settembre 2007, n. 18691; Cass.,
20 gennaio 2006, n. 1108; Cass., 8 novembre 2005, n. 21659; Cass., 6 ottobre 2005, n. 19424; Cass., 19 luglio 2005, n. 15223; Cass., 26 giugno 1998, n. 6335, in Foro it., 2000, I, 219, con nota di Rascio; Cass., 27 febbraio 1996, n. 1356, in Corr. giur., 1997, 191, con nota di De Cristofaro.
27 CHIARLONI, Op. cit; CHIARLONI, Appello, in Enc. giur. Trecc., II, Roma,
rito che non fossero state fatte oggetto di alcuna decisione nella motivazione della sentenza di prime cure sarebbero rimaste tali, cioè rilevabili d’ufficio anche da parte del giudice di appello, pur in assenza di uno specifico motivo di impugnazione principale o incidentale o di esplicita riproposizione ex articolo 346 c.p.c.
Analoga regola valeva e tuttora vale anche per le questioni preliminari di merito rilevabili d’ufficio e così, giusto per fare un esempio, per la nullità del contratto, allorché su di essa la sentenza non si fosse pronunciata neppure in via incidentale28.
Questo orientamento tradizionale, però, sebbene sia stato anche di recente riaffermato dalle stesse Sezioni Unite in tema di nullità contrattuali29, deve essere necessariamente rivisitato, anzitutto
alla stregua del revirement con cui la stessa Suprema Corte, nella prospettiva di restringere sempre più i poteri ufficiosi del giudice, ha ridotto la possibilità di rilievo in sede di impugnazione delle questioni pregiudiziali di rito e, segnatamente, della questione pregiudiziale di giurisdizione, ancorché non rilevata nel precedente grado di giudizio30.
Napoli, 1994, 488 ss.; LUISO, Appello, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 571; FERRI, Appello nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Appendice, Torino, 1995, 571; sostengono, invece, la necessità del gravame incidentale: GRASSO, Le impugnazioni incidentali, Milano, 1973, 91 e ss.; MONTELEONE, Limiti alla proponibilità di nuove eccezioni in appello, in Riv. dir. civ., 1983, I, 724 e ss.; RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 116 ss. e 227 ss.
28 Vedi CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II: Il processo di
primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2014, 477 ss., il quale, peraltro, ritiene preferibile la tesi per cui, sia nel caso di accertamento esplicito che nel caso di implicito riconoscimento dell’ammissibilità in rito della domanda giudiziale, se si impugna solo sul merito, il giudice di appello ha sempre e comunque il potere di rilevare d’ufficio l’eventuale carenza del presupposto processuale accertato nella decisione di primo grado.
29 Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243