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UTE 3 - Sant'Agostino e la scoperta della libert: la virt, la felicit e la libert in Aristotele

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(1)

Sant’Agostino e la scoperta della

libertà

Aristotele, la virtù, la felicità e la

libertà

(2)

Le scienze pratiche

• Se le scienze teoriche, come la metafisica e la fisica, studiano ciò che esiste indipendentemente

dall’uomo, quelle produttive e pratiche riguardano ciò che dipende dall’agire umano.

• Questo può essere produttivo, nel caso sia finalizzato a fabbricare oggetti (le arti e le tecniche) o pratico se rivolto a conseguire un bene. Nel primo caso si ha una poìesis, nel secondo una pràxis, con le relative discipline.

(3)

Il bene dell’uomo

• Tra le scienze pratiche che si concentrano sulla pràxis, si distingue l’etica, che riguarda il conseguimento di un bene individuale, e la politica che è rivolta a studiare il bene che riguarda la comunità (la pòlis).

• In generale ogni attività umana è per Aristotele finalizzata a raggiungere un bene ritenuto tale da chi la compie.

• Tra i beni vi sono quelli ricercati in funzione di altri beni e quello che si trova al vertice di tutti i beni. Quest’ultimo è ricercato non in funzione di altro ma per se stesso.

(4)

La felicità

• Ma che cos’è la felicità? Aristotele è perfettamente consapevole che del concetto esistono le più diverse interpretazioni. Egli allora propone di sottolineare che l’attività che rende felici deve essere un’attività che

raggiunge il massimo bene per l’uomo e il massimo bene è ciò che meglio realizza la qualità più propria e alta della persona. Dunque la felicità deve avere una relazione con l’esercizio della ragione che è ciò che ci eleva al di sopra degli altri viventi. La ragione si esercita al suo grado più alto laddove ricerca il suo oggetto specifico, la sapienza.

• Dunque la felicità consisterà nell’ottenere il bene della sapienza, bene che soddisfa in sé, non è cercato in vista di altro e che si consegue tramite

l’attività intellettuale.

• Ovviamente ciò comporta la necessità di aver già soddisfatto alcune esigenze materiali della vita quotidiana, che altrimenti premerebbero e distoglierebbero l’uomo dal suo fine (quindi bisogna avere dalla propria anche una certa fortuna – eutychìa, buon fato, lo chiama Aristotele).

(5)

La virtù suprema

• Dunque ciò che ci permette di conseguire la felicità è l’esercizio di una facoltà, la ragione.

• Virtù in generale per Aristotele è un habitus, cioè un comportamento abituale ottenuto con un esercizio costante di un nostro “talento”.

• La virtù suprema è la sapienza, ottenuta con l’esercizio abituale del logos. A tale virtù vanno ordinate tutte le altre.

• La sapienza porta con sé, quale sua conseguenza,

anche il piacere, un diletto che non è ciò che va cercato direttamente, ma ciò che arriva dopo la virtù (diremmo il fiore che sboccia sulla virtù).

(6)

Virtù etiche

• Nella complessità dell’animo umano esistono diverse tendenze che vanno ordinate al conseguimento della virtù. Vi sono quindi virtù intermedie, l’esercizio delle quali aiuta a tenere a freno gli impulsi sensibili che continuano a influenzare la vita delle persone, anche una volta che si siano soddisfatti i bisogni primari.

Questi desideri sensibili, se lasciati a se stessi,

disperderebbero l’agire umano nei mille rivoli delle voglie momentanee ed effimere legate alla pura

corporeità. Le virtù che le moderano sono chiamate da Aristotele virtù etiche.

(7)

Esempi di virtù etiche

• Coraggio, liberalità, temperanza, giustizia sono da collocarsi tra le virtù etiche. Esse individuano un agire umano che rifugge da ogni eccesso ed è

caratterizzato dall’abitudine riflessiva a porre nei confronti di ogni tendenza il freno del logos. Così, per raggiungere questo atteggiamento virtuoso, è

necessario scegliere costantemente il giusto mezzo tra due estremi che ci si propongono quali opzioni su cui regolare il nostro agire.

• Per esempio di fronte ad un ostacolo arduo da superare, si potrebbe fuggire con paura o aggredire con temerarietà: la paura ci riporta indietro ad una condizione in cui l’ostacolo mai potrà essere superato, la temerarietà ci fa sottovalutare l’entità del pericolo che comporta la nostra azione, facendoci rischiare in modo inutile e non calcolato.

Il coraggio rappresenta il giusto mezzo che fa valutare correttamente l’oggetto del nostro agire, non allontanandoci dall’azione, ma promuovendo la corretta

strategia per ottenere successo.

Così questa virtù ha frenato gli atteggiamenti immediatamente sensibili (paura e aggressività) e ha collocato la nostra azione su un piano più razionale, cioè più pienamente umano.

(8)

La giustizia

• La giustizia è la più importante tra le virtù etiche, essendo

caratterizzata nella sua stessa definizione da quella medietà (non a caso indicata con la locuzione “giusto mezzo”) cui tutte le altre

devono far riferimento. Essa comporta il rispetto delle leggi dello Stato che condizionano positivamente l’intera vita morale.

• In generale la giustizia riguarda due tipi di comportamento: La giustizia distributiva attribuisce a ciascuno ciò che gli spetta

La giustizia commutativa o correttiva, retribuisce con un ricompensa o un premio un dato comportamento. Essa riguarda i contratti di

compravendita, in cui ad un bene corrisponde una data somma di denaro, o anche i cosiddetti contratti fraudolenti (furto, rapina, omicidio) in cui all’agente viene comminata una correzione

consistente in una pena proporzionata che ristabilisce la parità tra chi ha subito il contratto e chi lo ha promosso.

(9)

Le virtù dianoetiche

• Le virtù dianoetiche riguardano la diànoia cioè la conoscenza,

ovvero l’esercizio della razionalità e dunque si collocano sul piano più elevato della gerarchia delle virtù. Esse sono così ordinate in ordine crescente di importanza:

• Arte- buon esercizio della ragione nelle attività produttive

• Saggezza – buon uso della ragione in generale nella scelta dei mezzi per conseguire un fine, cioè nella costruzione di razionali strategie d’azione nelle più mutevoli e varie circostanze.

• Intelletto- saper cogliere intuitivamente e sinteticamente i principi primi di ogni scienza.

• Scienza- capacità deduttiva, dai primi principi, di ciò che ne consegue necessariamente.

(10)

La sapienza

• La sapienza è la capacità di usare in modo

correlato e armonico intelletto e scienza al fine di

conoscere la totalità del reale e le sue cause

prime. Essa individua il fine dell’agire umano, che

tuttavia ha bisogno di mezzi per essere raggiunto,

cioè si serve della saggezza così come la salute si

serve della medicina.

• Il sapiente conduce una vita teoretica (bìos

theoretikòs), cioè il modello di una vita umana

(11)

La libertà (Etica Nicomachea, libro

III)

«Poiché la virtù concerne passioni e azioni, e su quelle volontarie sorgono elogi e biasimi, su quelle involontarie perdòno e talvolta anche compassione, è senz’altro

necessario per coloro che indagano sulla virtù determinare il volontario e l’ involontario…» (III,1, 1009 b).

Il tema etico, cioè la scienza che concerne le azioni, non può prescindere nelle sue valutazioni dalla questione del

volontario e dell’involontario, poiché questa orienta in modo diverso il giudizio morale.

(12)

Le azioni involontarie

Il primo passo nell’indagine sottolinea che le

azioni INVOLONTARIE sono quelle dovute

1)a costrizione,

2)a ignoranza

Si definiscono le azioni costrette quelle «il cui

principio è fuori dal soggetto». Tali azioni non

dipendono in nessun modo dall’individuo, il

(13)

Difficoltà: le azioni compiute per timore di un

male o in vista di un bene

Dal punto di vista della loro classificazione, vi sono azioni che suscitano qualche perplessità. Sono quelle in cui vi è una

motivazione molto forte perché vengano evitate o compiute. Tale motivazione può essere o un male molto grande da evitare o un bene molto grande da ottenere.

Qui Aristotele riconosce che la nostra volontà risulta essere molto influenzata, ma non al punto da risultare “disattivata”. Infatti le azioni dovute al suddetto tipo di motivazione sono comunque il prodotto di un orientamento, che origina nel

soggetto, per quanto influenzato da moventi esterni. A riprova della loro volontarietà sta il fatto che esse sono oggetto di lode o biasimo.

(14)

Le azioni compiute per ignoranza

• Sono quelle che sono compiute senza conoscere le circostanze in cui si svolgono. Un esempio può essere fornito da un uomo che aziona il comando di un meccanismo senza sapere di che cosa si tratti. Questa ignoranza rende l’azione involontaria. C’è però

bisogno di una conferma a posteriori che ne dimostri

l’involontarietà al di là di ogni dubbio: questa è data dal dolore che si prova per l’azione compiuta. In effetti l’atto non sarebbe pienamente involontario se, dopo averlo eseguito, se ne

provasse compiacimento, poiché ciò dimostrerebbe che vi era una sorta di tendenza della volontà a compierlo, anche se essa non era affiorata al livello del concetto o della parola.

(15)

Le azioni compiute per negligenza

• Se io ignoro la regola generale della condotta, cioè il criterio che in una data circostanza dovrebbe guidare la mia azione, ciò non significa che la mia azione non sia voluta. E’ voluta ma io non so che è male. Diremmo oggi: è un’azione negligente. L’ignoranza riguarda il fatto che ciò che sto commettendo è un errore. Il cannibale vuole cibarsi di carne umana, ma non sa che è male. L’ubriaco che ha perso il controllo di sé, fa quello che comunque vuole, ma quello che vuole non è sottoposto al vaglio critico della ragione, e dunque risulta essere male.

(16)

In polemica con Socrate

• Per Socrate nessuno volontariamente commette il

male. Aristotele sottolinea che se l’ignoranza di ciò che si deve o non si deve fare determina la viziosità

dell’azione che si compie, ciò non impedisce che

l’azione risulti lo stesso voluta (io volevo fare proprio quello, anche se non sapevo che quello era male). L’ignoranza del vizioso è dunque motivo non della

possibilità di scusarlo, ma del dovere di condannarlo. Egli infatti agisce pur non sapendo come si deve agire. Qui sta la sua responsabilità e la sua colpa.

(17)

Le azioni volontarie

• Nel paragrafo terzo dell’Etica Nicomachea Aristotele definisce le condizioni dell’atto volontario ex contrario rispetto a quelle

dell’atto involontario:

Se l’atto involontario

• è compiuto per costrizione (cioè ha il proprio principio fuori dal soggetto) e

• se è compiuto nell’ignoranza delle circostanze; QUELLO VOLONTARIO

avrà il proprio principio nel soggetto

(18)

Brama e impulso

Brama, desiderio, impulso e impeto non sono cause dell’involontarietà di un atto.

Altrimenti di direbbe che gli animali e i bambini non agiscono volontariamente (importante notazione che estende la nozione di volontà anche agli animali;

domanda: se le azioni degli animali sono volontarie, esse sono anche libere? Forse l’osservazione di Aristotele indurrebbe a non sovrapporre completamente la

nozione dei volontarietà con quella di libertà).

Le cose belle, pur compiute per dovere, ma desiderando compierle, sono forse involontarie?

Se le cose compiute involontariamente (per ignoranza) implicano dolore, come mai le cose belle compiute per brama implicano piacere? (evidentemente non sono

involontarie…)

E quelle cattive sono tali sia se si commettono per calcolo sia per impulsività, infatti appartengono ad ugual titolo alla natura umana e sono entrambe volontarie.

(19)

La scelta deliberata

“È comunemente ammesso che (la scelta deliberata) è cosa molto affine alla virtù” (Etica nicomachea III, 4, 1111b), infatti un’azione consegue il suo fine se delibera sui mezzi più idonei a farlo. La deliberazione quindi è indispensabile all’azione virtuosa.

DA NOTARE: la prima parte della frase citata riguarda una nozione “comunemente ammessa”. Non si tratta di un discorso metodologicamente pressapochistico: tutto il sapere etico, secondo Aristotele, è fondato su premesse endossali, cioè non su principi di assoluta evidenza, ma sulle opinioni autorevoli della polis e comunemente accolte dai sapienti (éndoxa). Ciò rimarca lo spazio di dubbio, di non necessità, in cui giocano le nozioni etiche o, in modo più ottimistico, la loro flessibilità che non inficia affatto le conclusioni, ma le rende anzi più aderenti alla variegata molteplicità dei caratteri e dei costumi umani.

(20)

Atto volontario e scelta deliberata

• Se la scelta deliberata è sicuramente

volontaria, l’atto volontario non le

completamente sovrapponibile. Infatti il

concetto di atto volontario è più esteso perché

comprende

1) gli atti dei fanciulli e degli animali

(21)

Volontà e scelta deliberata

• Ma la stessa volontà non è assimilabile

completamente alla scelta deliberata infatti

Quest’ultima può volere l’impossibile

Può volere cose che non dipendono dal

soggetto.

La scelta invece riguarda i mezzi per ottenere un

fine che è a portata del soggetto che sceglie.

(22)

Opinione e scelta deliberata

• Nell’ultima parte di Etica nicomachea III,4 Aristotele sottolinea il carattere pratico e non teoretico

dell’obiettivo della scelta. Essa non è opinione nel senso che non intende determinare

conoscitivamente un oggetto, ma stabilire come tale oggetto possa essere ottenuto tramite un agire

razionale. C’è quindi proprio una differenza di genere tra le due cose da tutti constatabile quando si

osservano persone che, malgrado abbiano buone opinioni, operano scelte cattive.

(23)

L’atto volontario e la scelta deliberata differenti

come genere e specie

• Se la scelta è atto volontario ma non coincide con

questo, ciò significa che essa è una particolare specie di atti appartenente al genere degli atti volontari.

Qual è la sua differenza specifica?

• L’oggetto della scelta si differenzia da quello della volontà per essere stato vagliato da una precedente riflessione razionale. Questo è, diremmo, il suo tratto distintivo.

(24)

“Electio est appetitus consequens

consultationem”

• Questa frase vergata da un autorevole

commentatore seicentesco di Aristotele (Silvestro

Mauro – cit. in Aristotele, Etica nicomachea, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano, 1994, p. 460) illustra

bene il concetto aristotelico di scelta deliberata. Essa (l’electio) è volontà-desiderio (appetitus)

conseguente ad una riflessione razionale

(consultationem). Laddove ovviamente la consultatio avviene prima dell’electio.

(25)

Su che cosa (non) si delibera

(Etica nic. III,5)

• Dopo aver stabilito che cosa è la scelta deliberata, Aristotele passa all’analisi dell’oggetto proprio della scelta.

• Anzitutto, data la sua intrinseca razionalità, essa riguarda gli uomini voùn échon, cioè dotati di senno.

• Non riguarda poi le cose indipendenti dall’uomo (per esempio il modo in cui è fatto l’universo).

• Nemmeno le cose il cui divenire avviene secondo necessità, per esempio il succedersi delle stagioni o il sorgere degli astri.

• E nemmeno, diremmo oggi, le cose che avvengono secondo casualità naturale (i periodi di siccità o le piogge) o per fortuna umana (la scoperta di un tesoro).

• Infine si delibera su alcune cose umane ma non su tutte (non sulla legislazione di un paese straniero, per esempio).

(26)

Potere e no

• Insomma non si delibera sulle cose

che NON sono in nostro potere

bensì, su quelle che “dipendono da

noi e sono oggetto di azione” (Etica

III, 5).

(27)

Ci deve essere spazio, gioco per

decidere

• Sulle cose oggetto delle scienze rigorose non si

delibera (cioè su come deve essere fatta una casa per stare in piedi secondo le leggi fisiche), bensì su quelle che sono oggetto della nostra azione e, d’altro canto “non sono sempre nello stesso modo”: per esempio su una strategia medica, sull’arte di governare una nave etc. Cioè laddove non vi è un percorso

prestabilito con assoluta esattezza, ma vi possono essere dei dubbi.

• Quindi si delibera sulle cose che avvengono per lo più e di cui “non si sa come finiranno”.

(28)

Non i fini ma i mezzi

• Non si delibera poi sui fini ma sui mezzi.

• Ogni azione ha in fatti un fine cui tende per natura – il bene – che o è compreso o non è compreso, ma non può essere deciso (il medico non può decidere se guarire o no il paziente, né il pilota se guidare

bene o male la nave). Si decidono invece quali siano gli strumenti migliori per raggiungere lo scopo

(29)

Come avviene la deliberazione

Si delibera sui mezzi, una volta che i fini siano

dati. La deliberazione è la ricerca del mezzo

migliore, tra quelli disponibili in vista del fine.

Oppure è la ricerca del mezzo per raggiungere

un altro mezzo, per conseguire il fine. Cioè:

qualora vi sia un mezzo indiscutibilmente da

utilizzare, si vedrà quale sia il mezzo migliore per

ottenerlo, fino ad arrivare al mezzo più a portata

di mano.

(30)

Per esempio

• Per esempio se devo andare a scuola, e il mezzo migliore è l’autobus, dovrò trovare il mezzo che mi consente di arrivare all’autobus e di prenderlo (p. es. l’essere vestiti, avere un paio di scarpe e procurarsi il biglietto), e per ottenere questo mezzo, dovrò essere a casa e aprire l’armadio, la scarpiera e avere i soldi per il biglietto e così via fino all’azione che mi è più a portata di mano (p. es. l’alzarmi dal divano dove fino ad adesso sono stato seduto).

(31)

Ordine dell’analisi e della

generazione

• Il mezzo che trovo per ultimo è quello più

vicino a me, e dunque genererà la prima

azione che compio (p. es. alzarmi dal divano).

Mentre l’ultima azione che compio prima di

raggiungere il fine corrisponde al primo mezzo

che nella mia analisi ho trovato (p. es.

prendere l’autobus). Dunque «ciò che è ultimo

nell’analisi è il primo nella generazione» (e

(32)

Il possibile

• Oggetto della deliberazione è il possibile e ciò

che dipende da noi, cioè il cui principio è in

noi: «la deliberazione riguarda ciò che può

essere fatto da colui stesso che delibera»

(ibidem). Il processo della deliberazione, non

va all’infinito, ma inizia con il mezzo che va

trovato in vista del fine e finisce con quello più

prossimo al soggetto deliberante.

(33)

Deliberazione e scelta

• La deliberazione è la riflessione che precede la

scelta, cioè la decisione di agire. La scelta

arriva dopo aver deliberato. Un volta

deliberato, si desidera in vista delle azioni che

sono state deliberate. Una volta che ho

trovato i mezzi per il fine, li desidero e scelgo

di agire.

(34)

La volontà e il suo oggetto

• Nel capitolo successivo Aristotele presenta un

problema circa il fine della volontà. Che cos’è il fine della volontà (che non è oggetto di deliberazione)? • O il bene – ma allora chi non sceglie rettamente non

vuole poiché si vuole solo il bene.

• O ciò che sembra bene a ciascuno - ma allora, visto che a ciascuno possono sembrare bene cose diverse e contrarie, la volontà sceglierebbe cose contrarie e inconciliabili.

(35)

Volontà in senso assoluto e per

ciascuno

• Per uscire dall’impasse, Aristotele dice che la

volontà «in senso assoluto e secondo verità»

vuole il bene, ma poi esso è concepito in

modo diverso a secondo del soggetto che

vuole: colui che vuole rettamente, vorrà il

bene, il «miserabile» vorrà ciò che a lui

sembra bene – per lo più accade che costui

scambi il bene con il piacere – ma non lo è.

(36)

Volontario = libero?

Da quanto ha appena detto Aristotele possiamo

dedurre la risposta alla seguente domanda:

“Volontario e libero coincidono?” Tenuto conto che libero è quel soggetto che

1) autonomamente

2) sceglie fra alternative, Possiamo rispondere

1) Sì, è libero in quanto l’azione volontaria ha il suo principio nel soggetto stesso

2) No, in quanto la volontà ha per sé un oggetto assoluto e naturale, il bene.

(37)

Libera è la proairesis (deliberazione,

scelta)

• Tecnicamente parlando, la volontà dunque, avendo un fine prestabilito, non è libera. La libertà sta invece in quella specie di azioni volontarie che ricercano i mezzi migliori per

raggiungere il fine voluto. Stabilito, quindi, un fine ultimo per la volontà, essa si rivolge alla valutazione degli strumenti che le consentano di ottenerlo. Qui vi è una certa pluralità di

opzioni che sono sottoposte al vaglio del soggetto. Pertanto, nel procurarsi i mezzi, il soggetto è principio dell’agire, perché è in lui la facoltà di guadagnare a sé il mezzo, e inoltre opta tra alternative, ossia i vari mezzi che ha di fronte a sé e tra i quali sceglie il migliore. Di conseguenza la volontà retta, cioè la

volontà che non è distolta dal giusto fine dall’interferenza del piacere, è orientata naturalmente al fine ultimo ed è libera nella scelta dei mezzi.

(38)

Volontarietà della virtù e del vizio

(Etica nic III,7)

• La virtù è quella caratteristica del comportamento umano che ci indica i mezzi per conseguire il fine

supremo dell’uomo, la felicità e il bene, cui la volontà retta per sua natura tende. Quindi “la virtù dipende da noi, e anche il vizio”.

• Così, tirando le conclusioni del suo discorso

precedente, Aristotele sottolinea ancora la differenza tra la sua impostazione e quella socratica riassunta nel detto: “Nessuno è volontariamente perverso né involontariamente infelice”.

(39)

Volontariamente siamo felici,

volontariamente siamo perversi

• Sarebbe assurdo ricondurre le azioni virtuose, provenienti da una deliberazione volontaria che

consente di raggiungere il nostro fine, all’uomo che agisce, ma non farlo quando si tratta di azioni viziose che ce ne allontanano. Se dunque la felicità ha da

essere volontaria perché frutto di scelte consapevoli e corrette, la perversione e l’errore sono parimenti volontari perché frutto di scelte ugualmente

(40)

Legislatori e cittadini

• Legislatori e cittadini infatti lodano la virtù e biasimano il vizio in maniera perfettamente speculare, ritenendoli entrambi

frutto di scelta volontaria. Ciò non sarebbe giustificabile se le azioni virtuose o viziose non fossero volontarie.

• Ciò vale anche per quelle disposizioni (qualità del carattere nate dalla reiterazione di molteplici atti dello stesso tipo e dall’acquisizione di un’abitudine a mantenere in determinate circostanze sempre gli stessi comportamenti) virtuose e/o viziose che sono comunque frutto di una scelta iniziale, che è in potere di chi sceglie, anche se una volta nata la disposizione è molto difficile tornare indietro (soprattutto nel caso dei vizi consolidati).

(41)

Nobiltà e pusillanimità

• Certo quando si è dotati per natura è più facile diventare virtuosi, tuttavia in ogni caso, dice

Aristotele, la natura orienta ma non stabilisce in modo definitivo le qualità dei soggetti. Dunque il virtuoso sarà colui che efficacemente e

volontariamente ha realizzato dei doni naturali, o efficacemente e volontariamente ha sopperito alla loro mancanza, mentre il vizioso sarà colui che non ha coltivato i propri talenti naturali o non ha cercato costruire con uno sforzo abitudine positive, pur non avendo una grande dotazione naturale.

(42)

Libertà in Aristotele

• In conclusione possiamo dire che Aristotele, rispetto a Platone, sottolinea in modo molto più marcato la

responsabilità che ciascuno ha nelle proprie azioni, poiché delle proprie azioni un soggetto può essere considerato il

principio. Tale principio risiede nella loro volontarietà. Tuttavia essa si manifesta non in ogni frangente della vita etica, poiché noi non siamo liberi di orientare la nostra volontà

indifferentemente al bene o al male. Infatti essa è già rivolta per natura a ciò che è bene. Il fine ultimo della nostra vita non è liberamente autodeterminato, ma lo sono soltanto le azioni che scelgono i mezzi per conseguirlo.

(43)

Una libertà limitata

Si tratta pertanto di una libertà limitata, circoscritta ad alcune scelte, ma non alle

supreme, per le quali rimane l’alternativa platonica, e greca nel suo più ampio significato antropologico-culturale, tra il giusto razionale e l’errore irrazionale.

Si potrebbe domandare a questo punto: “Che cosa fa in noi prevalere la ragione o

si arrende all’irrazionalità?”

Ancora un volta la volontà che però non può mettersi in moto se non ha a sua volta

un criterio secondo cui agire, e tale criterio è dato in modo circolare dalla ragione o dal piacere irrazionale.

In questo circolo si gioca la possibilità di definire la libertà, in un concetto che

oscilla tra il tradizionale intellettualismo greco e una visione più ampia dell’anima umana laddove sono compresenti una facoltà intellettiva e razionale accanto ad una appetitiva e volitiva in un rapporto simbiotico e difficilmente dipanabile.

Detto rapporto in ultima istanza è risolto da Aristotele in modo intellettualistico,

postulando un tendenza NATURALE della volontà verso un fine buono, cioè verso una spontanea sottomissione alla parte più alta e razionale dell’interiorità umana.

(44)

La volontà che non si sottomette

• La volontà che non si sottomette alla ragione, e che viceversa segue il piacere, si arrenderebbe quindi ad un impulso contro natura, cioè ad un’inclinazione a non rispettare l’ordine delle cose, potendo farlo, cioè in ultima analisi essendo libera di

farlo. Ma tale libertà non può essere considerata un elemento positivo perché comporta il passaggio dalla sottomissione

della volontà ad un’istanza più alta (la ragione) alla sottomissione ad un’istanza più bassa (il piacere). Tale scadimento evidentemente non ha nulla di libero, ma

comporta una maggiore schiavitù. Ma qui siamo già bene oltre Aristotele…

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