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Academic year: 2021

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Fo rm az io ne & I ns eg na m en to X V II I 1 20 20 C od ic e IS SN 2 27 9-75 05 ( on li ne ) © P en sa M ul ti M ed ia E di to re C od ic e do i: 10 .7 34 6/ -f ei -X V II I-01 -2 0_ 41

Lo sviluppo di paradigmi trasformativi nell’incontro

tra le università e le persone private della libertà

The development of transformative paradigms

in the meeting between universities and people held

ABSTRACT

Education and high education in prison are one of the most important ele-ments of emancipation and distancing from the logic of these systems. The university in prison, involved at multiple levels, can guaranteeing access to a right and contribute to developing paradigms capable of overcoming the limits of the current penitentiary approach, restoring dignity, choice and a perspective on the future also to people held.

L’istruzione e la formazione in carcere rappresentano uno degli elementi più importanti di emancipazione e possibile allontanamento dalle logiche peni-tenziarie. L’università in carcere, coinvolta a più livelli, oltre a garantire l’ac-cesso a un diritto, può contribuire a sviluppare paradigmi in grado di superare i limiti dell’attuale approccio penitenziario, restituendo dignità, possibilità di scelta e una prospettiva sul futuro anche a coloro che sono stati privati della libertà.

KEYWORDS

Carcere, Didattica, Educazione Non Formale, Diritti, Emancipazione. Prison, Teaching, Non-Formal Education, Rights, Emancipation.

Luca Decembrotto

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1. Introduzione

L’istruzione e la formazione culturale e professionale sono incluse all’interno degli elementi fondamentali (art. 15 O.P.) delle proposte progettuali rivolte persone pri-vate delle libertà in carcere. Tali proposte progettuali sono espressione del «trat-tamento rieducativo» previsto dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 (Legge n. 354/1975), “attuato secondo un criterio di individualizzazione in rap-porto alle specifiche condizioni dei soggetti” (art. 1, comma 6 O.P.) e formulato in risposta ai “particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto” (art. 13, comma 1 O.P.), in una cornice formalmente priva del ricorso alla forza e alla coer-cizione per il raggiungimento degli obiettivi trattamentali, dovendo “assicurare il rispetto della dignità della persona” (art. 1, comma 1 O.P.); una prospettiva lontana da quella indicata dal precedente regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena (R.D. n. 787/1931), nel quale i tre elementi riconosciuti dalla norme (il lavoro, l’istruzione civile e le funzioni del culto cattolico) erano caratterizzati da obbliga-torietà, a garanzia dell’esercizio di una pena afflittiva e repressiva, quest’ultima ri-pristinata dopo una breve parentesi durante la quale i postulati della Scuola positiva avevano orientato la pena verso finalità rieducative e di cura. In quella prospettiva l’istruzione era permessa in quanto risposta coercitiva ai (presunti) bisogni formativi dei detenuti analfabeti o, per tutti gli altri detenuti scolarizzati, in quanto subordinata alla diffusione dei precetti morali e dei principi di vita so-ciale dominanti. L’istruzione fu, in tali termini, funzionale al potere e imposta come strumento di indottrinamento, per l’adattamento (o il riadattamento) del detenuto alle norme e ai valori morali dominanti dello Stato, mentre oggi si pre-senta in una diversa veste, come “una scelta libera laddove libertà è utopia” (Be-nelli, 2008, p. 114).

Rimane tuttora aperto il dibattito sulla presenza dell’istruzione, della forma-zione e dell’educaforma-zione più ampiamente intesa nelle carceri, declinate all’interno di questo articolo come una riflessione sulle loro capacità trasformative all’interno dei contesti detentivi. Sebbene sia evidente la necessità di considerare il carcere come parte del sistema sociale più ampio (Migliori, 2007), a partire dalla sua im-postazione educativa, sociale e culturale, in opposizione alla sua funzione segre-gativa, l’educazione penitenziaria stenta ad aprirsi al confronto con la riflessione critica e problematizzante, che richiederebbe il superamento di molte delle sue pratiche normalizzanti, rimanendo ancora vincolata nelle pratiche a logiche di-sciplinanti e correzionali. Nonostante ciò, continuano a presentarsi spazi di spe-rimentazione e di riflessione che possono essere colti per aprire più ampie analisi e mettere in moto cambiamenti mirati. Quali potenzialità sono racchiuse in un’istruzione penitenziaria (elemento del trattamento) e quanto questa si riferisce a modelli educativi capaci di problematizzare il presente e ampliare gli scenari fu-turi di ogni detenuto?

2. Lo studio in carcere

L’istruzione e la formazione culturale e professionale in carcere sono considerate un tassello basilare delle attuali proposte garantite alle persone private delle li-bertà (vedi le Regole Penitenziarie Europee e l’Ordinamento penitenziario

ita-liano), al fine di soddisfarne i bisogni formativi e prendere in considerazione le

loro aspirazioni, come strumento di emancipazione per una più ampia promo-zione umana e per la (ri)scoperta della propria identità. Attraverso l’accesso al

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di-ritto allo studio, la persona privata della libertà (come chiunque altro) ha la pos-sibilità di colmare proprie lacune conoscitive, acquisendo competenze potenzial-mente utili nel presente, quanto nel futuro (si pensi alla scarcerazione e alla ricerca di un impiego lavorativo). Nondimeno l’istruzione incide sullo sviluppo della personalità umana e, in tal senso, deve essere indirizzata al suo pieno svi-luppo, anche per il rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fon-damentali (art. 26, comma 2 DUDU), come ricorda la Dichiarazione universale dei

diritti umani (Nazioni Unite, 1948).

Sebbene il diritto allo studio (o il diritto a essere istruiti) e il suo accesso sia garantiti costituzionalmente come diritti fondamentali (art. 34 Cost.), in carcere questi si inseriscono all’interno di radicate dinamiche di potere legate alla dialet-tica sulle funzioni della pena detentiva, le quali possono avere l’effetto di mitigare il potenziale di queste occasioni di emancipazione, rendendole più delle “«op-portunità condizionate», dipendenti da un insieme di condizioni che possono es-servi o meno o comunque possono essere connotate in modo diverso nel tempo (per esempio, sulla base delle risorse economiche disponibili per lo Stato o degli orientamenti politici dei governi che si susseguono) e nello spazio” (Prina, 2018, p. 94), che dei veri e propri diritti, specie nei più alti gradi di istruzione (secondaria di secondo grado e universitaria). I processi di scolarizzazione della popolazione detenuta devono costantemente confrontarsi con questi limiti, con la volontà po-litica e con l’esercizio del potere interno, i quali possono essere ancorati a modelli di carcere con obiettivi in contraddizione a una istruzione orientata allo sviluppo umano e all’emancipazione.

Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, in Italia nel 2019, su una presenza totale di 60.769 detenuti e detenute, 1.054 persone erano analfabete, 882 erano prive di titolo di studio, 6.393 erano in possesso di una licenza di scuola ele-mentare (o hanno terminato tali scuole), 19.485 di licenza di scuola media infe-riore, 714 di diploma di scuola professionale, 4.868 di diploma di scuola media superiore e, infine, 705 erano laureate (in costante aumento negli ultimi anni). Di 26.668 persone, corrispondente al 43,9% del totale, non si conosce nemmeno il titolo di studio: il dato non viene rilevato. Di contro, in riferimento all’anno sco-lastico 2017/2018, l’ultimo di cui sono stati resi noti i dati dal Ministero della Giu-stizia, i percorsi d’istruzione per adulti attivati dai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA) sono stati:

• 947 corsi di istruzione di primo livello (primo e secondo periodo didattico) e di alfabetizzazione (per lo più destinati a detenuti non italiani), per un totale di 12.677 studenti (con il 39,1% dei promossi), di cui 396 corsi di alfabetizza-zione e apprendimento italiano (perlopiù destinati a detenuti non italiani), con 5.452 partecipanti (con il 40,6% dei promossi);

• 687 corsi di istruzione di secondo livello (primo, secondo e terzo periodo di-dattico), per un totale di 7.680 studenti (con il 52,0% dei promossi).

Un totale di 1.634 corsi che hanno coinvolto 20.357 studenti privati della libertà, su una popolazione complessiva di circa 58.000 persone in quell’anno scolastico (in crescita del 11,5% rispetto l’anno precedente); una scuola che ha raggiunto un terzo dei potenziali beneficiari. Una scuola in grado di coinvolgere una percen-tuale di stranieri (50,4%) ben superiore a quella della popolazione detenuta (circa il 30% del totale), con una presenza particolarmente significativa nei corsi di alfa-betizzazione e di primo livello (8.581 persone, di cui oltre il 50% coinvolto nell’al-fabetizzazione) ed estremamente contenuta nell’istruzione di secondo livello (1.675 persone).

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La carenza di risorse economiche, l’orientamento delle scelte politiche e di quelle amministrative, nonché una certa cultura del carcere orientata a passiviz-zare e deresponsabilizpassiviz-zare le persone ristrette, hanno contribuito a limitare il po-tenziale dell’istruzione, per ricondurre l’accesso all’istruzione a un percorso asservito alle logiche del trattamento penitenziario, caratterizzate dall’adesione incondizionata alle proposte trattamentali, dal ravvedimento, dall’atteggiamento collaborativo e dalla regolare condotta da parte della persona detenuta, pena l’esclusione da questo «privilegio». Il documento Basic education in prisons del-l’UNESCO (1995) individua e descrive diversi motivi che contribuiscono a pro-durre questa situazione:

• l’incompatibilità tra educazione e punizione, in quanto risulterebbe impossi-bile conciliare lo scopo retributivo della pena, che in ultima analisi coincide con l’inflizione di una sofferenza, con gli obiettivi di promozione dello svi-luppo umano, che richiamano crescita ed emancipazione;

• l’incompatibilità tra educazione e regime detentivo, per cui le carceri sono isti-tuzioni burocratiche e autoritarie propense a designare come prioritario lo scopo punitivo e a preoccuparsi delle considerazioni securitarie, con il risul-tato di mettere in secondo piano gli obiettivi dell’istruzione, sui quali avviene un disinvestimento tale da far diventare l’istruzione un’attività marginale e me-diocre;

• l’incompatibilità tra educazione e cultura detentiva, attraverso cui viene gene-rato o intensificato il senso di rifiuto da parte dei detenuti a essere membri di una società;

• l’incompatibilità complessiva rispetto alla filosofia educativa, in quanto l’edu-cazione è considerata uno strumento di tecnologia della carcerazione, svilup-pando una certa confusione sul ruolo dell’educazione in carcere.

L’educazione e l’istruzione in carcere sono spesso intese come mezzi per oc-cupare i detenuti, facendo loro passare del tempo («killing time»), esercitando più facilmente il controllo e il mantenimento della quiete. Al contrario non sono riconosciute le istanze di sviluppo umano della persona privata della libertà (art. 26, comma 2 DUDU), né il prendere parte liberamente alla vita culturale della co-munità (art. 27, comma 1 DUDU); tutt’al più viene presa in considerazione la ne-cessità di una preparazione al lavoro. L’istruzione viene ricondotta a una questione di formazione di determinate competenze lavorative e di preparazione all’occu-pazione, un apprendimento di abilità e competenze generalmente privo di uno sguardo verso l’emancipazione personale.

Chi insegna in carcere, promuovendo un’esperienza educativa e formativa tesa a promuovere processi di crescita personale, opera in un contesto non del tutto compatibile con quei propositi, un contesto al contempo difficile e refrattario, in cui “è chiamato a confrontarsi con un’accezione situata di emancipazione” (Sbrac-cia, & Vianello, 2018, p. 117), a partire dall’uso acritico di termini come rieduca-zione, riabilitarieduca-zione, risocializzarieduca-zione, reintegrazione o recupero, spesso utilizzati senza prenderne in considerazione i significati più profondi implicati nelle prati-che educative penitenziarie.

3. Margini di progettualità educative in carcere

Mutuando la prospettiva pedagogica di Piero Bertolini, l’azione educativa rivolta a chi è privato della libertà può essere finalizzata alla metodica «dilatazione del

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campo di esperienza», per far vivere alla persona situazione nuove, di «segno» di-verso da quelle fino a quel momento sperimentate, in grado di sollecitare l’inte-resse per nuove prospettive esistenziali, fino a quel momento sconosciute (Bertolini & Caronia, 1993). In altri termini, per Bertolini l’azione educativa inten-zionale dovrebbe essere orientata a formulare proposte potenzialmente in grado di attivare processi funzionali alla costruzione di un nuovo punto di vista su di sé e sul mondo (Cavana, 2010), cioè in grado di ampliare le possibilità di scelta e per-mettere un cambiamento.

La più recente rassegna critica delle esperienze di formazione rivolte a persone ristrette (Carmignani, 2012), strutturata a partire dall’analisi di circa 120 progetti sviluppati in Italia, ha contribuito a rappresentare l’intreccio esistente fra carcere e formazione, catalogando i diversi interventi formativi principalmente in progetti di educazione formale, progetti di avviamento professionale e progetti culturali in senso ampio. Non si tratta di una rassegna ragionata rigorosamente strutturata, quanto più di un excursus di iniziative e di buone pratiche svolte il più delle volte nell’ambito del volontariato, promosse localmente in maniera frammentaria e ac-cessibili dalla rete. In quella sede viene evidenziata l’assenza della ricerca univer-sitaria, che dovrebbe assumere “il compito scientifico di decostruire una serie di stereotipi sui detenuti diffusi dai messaggi mediatici che allarmano la popolazione rispetto alla dilagante criminalità e di rendere meno opaco il rapporto tra chi sta dentro e chi sta fuori” (Carmignani, 2012, p. 400); una carenza certamente non ge-neralizzabile (si pensi solo agli studi della Criminologia critica o della Sociologia giuridica), ma riscontrabile in alcuni ambiti scientifici, come quello educativo, quantomeno sotto il profilo dell’analisi critica. L’esperienza educativa incardinata all’interno dell’esperienza detentiva rimane ancorata alle teorie retributive e della difesa sociale (Vianello, 2017), anziché analizzare la logica del proprio intervento attraverso le categorie pedagogiche (attingendo a tutte le scienze dell’educazione) e così orientare i processi e le prassi. Manca, in questo senso, un’autonomia dei processi educativi rispetto a quelle istanze e, ancor prima, un’autonomia della ri-flessione educativa sulla propria azione in carcere, il più delle volte aderente alle necessità burocratiche e securitarie. Diversi autori lo evidenziano.

«L’educazione per adulti in carcere non può che ritrovarsi in un territorio ostile e paradossale, al di là delle retoriche trattamentali, poiché l’istituzione da un lato continua a legittimarsi sul piano della capacità educativa, dall’altro si ritrova ad essere un ricovero di tutte le forme di marginalità sociale che vengono strumen-talizzate sul piano della produzione simbolica negativa per giustificare l’allarme sociale artificialmente amplificato» (Lorenzi, Serbati, & Vianello, 2018, pp. 52-53).

«Se il trattamento educativo rimanda alle responsabilità personali dei soggetti reclusi, allo sguardo pedagogico non sfugge una sfocatura in merito alle respon-sabilità istituzionali sottese, in particolare, alla sua scarsa capacità di smarcarsi dalle logiche retributive e repressive, tanto quanto di adempiere al compito di in-dividualizzazione delle pene» (Oggionni, 2019, p. 394).

Eppure, sebbene il carcere come contesto educativo complesso, al suo interno sono riscontrabili importanti territori pedagogici (Bustelo & Molina, 2016), anche intesi come territori politico-pedagogici, poco approfonditi dalla riflessione teorica in ambito educativo. Territori in grado di realizzare ri-configurazioni soggettive e collettive, in cui la reclusione dei corpi, in cui si manifesta il confine separatore, può essere valicata per accedere a un altro livello esperienziale; territori di intro, di scambio e di negoziazione tra mondi diversi, in cui persone ristrette in con-testi passivizzanti diventano produttrici attive di conoscenza. In carcere è, infatti, possibile promuovere la produzione di conoscenza su un contenuto specifico,

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ma anche a riguardo dello spazio di reclusione e su se stessi, attraverso la ridefi-nizione della propria identità di detenute e di detenuti, così come di soggetti po-litici, di diritto, di conoscenza e di formazione, soggetti consapevoli della propria situazione.

L’università è uno dei soggetti che, in forza del diritto allo studio universitario, è chiamato ad attraversare questi territori, per interrogarsi su di essi e sulle loro potenzialità educative, al fine di promuovere e potenziare ogni possibile processo di formazione umana e di crescita personale, con un impatto significativo sulle traiettorie di vita di soggetti adulti.

4. Coinvolgimento universitario in ambito detentivo

Le comunità universitarie possono contribuire a diversi livelli nella promozione di un cambiamento culturale all’interno dei sistemi detentivi:

• l’impegno diretto nella promozione dell’accesso agli studi universitari da parte di persone private della libertà, trasmettendo il proprio sapere mediante la for-mazione di figure altamente qualificate, come risposta aderente alla sua prima missione, la didattica;

• lo sviluppo di corsi specialistici di formazione continua, attenti alle necessità dei professionisti che andranno ad operare nelle carceri, come gli insegnanti o i funzionari giuridico-pedagogici;

• lo studio dei contesti detentivi, in coerenza ai compiti della sua seconda mis-sione, la ricerca;

• la possibilità di ampliare l’azione universitaria secondo una prospettiva di terza missione, in grado di valorizzare le differenze della società, promuovendo l’ac-cesso al diritto allo studio e lo sviluppo di processi di crescita personale nel-l’incontro con il più alto numero di persone private della libertà, non limitate a quelle in possesso dei requisiti per poter accedere alle attività didattiche cur-riculari.

In particolare l’esperienza dei poli universitari penitenziari e dei centri univer-sitari in carcere rappresenta una specifica forma di intervento che può percorrere e valorizzare quei territori pedagogici richiamati al paragrafo precedente, mo-strando le potenzialità insite nell’adozione di approcci e paradigmi innovativi.

4.1 L’esperienza dei poli universitari penitenziari

In Italia le esperienze di accesso agli studi universitari in carcere sono nate negli anni Sessanta, su iniziative di docenti volontari, e solo successivamente hanno trovato una propria forma istituzionale verso la fine degli anni Novanta, quando sono stati sviluppati i «Poli universitari penitenziari» (Friso, & Decembrotto, 2018; Di Marco, & Venturella, 2016; Benelli, 2012; Benelli, 2008), sistemi eterogenei di servizi e di opportunità rivolti alle persone private della libertà dalle università grazie a protocolli formali siglati con l’Amministrazione penitenziaria, per l’ac-cesso al diritto allo studio universitario; acl’ac-cesso agli studi per altro «agevolato» dallo stesso Ordinamento penitenziario: “è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati” (art. 19, comma 4 O.P.). Accesso agevolato e non garantito, in quanto “opportunità condizionata” (Prina, 2019), un’opzione

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sog-getta alla disponibilità e alle logiche dell’istituzione penitenziaria e non esclusi-vamente alla volontà della persona reclusa.

Il primo «polo» a essere realizzato è stato quello dell’Università di Torino, uf-ficializzato nel 1998, mentre oggi si contano oltre 30 diverse esperienze in rac-cordo all’interno della Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (CNUPP), organo della CRUI, secondo quanto riporta l’at-tuale presidente Franco Prina (2019). Per quanto ancora prive di una forma co-mune, si tratta di esperienze in cui al singolo è garantito l’accesso agli studi e, al contempo, gli sono forniti alcuni strumenti specifici (didattici, informatici, ammi-nistrativi, ecc.) e/o una sezione dedicata a coloro che frequentano i corsi univer-sitari, con spazi organizzati (biblioteche specializzate, aule studio, ecc.) e finalizzati ad agevolare questi percorsi. Nell’anno accademico 2018/19 i Poli uni-versitari diffusi su tutto il territorio nazionale hanno accolto circa 800 studenti pri-vati della libertà iscritti a un corso di laurea, su una popolazione complessiva di 60.439 detenuti (presenti al 30 aprile 2019). Queste realtà spronano la riflessione educativa a interrogarsi su come si possano costruire spazi educativi là dove si vive una reale sottrazione della libertà individuale e, al contempo, sulle strategie educative e didattiche da adottare per ampliare le possibilità di cambiamento.

Analoghe esperienze di accesso agli studi universitari in carcere si possono ri-scontrare anche all’estero (Friso, & Decembrotto, 2018): nella prospettiva della

Convict Criminology del Regno Unito (Darke & Aresti, 2018; Darke & Aresti, 2016),

nelle esperienze sviluppate in Francia (Pacini Volpe, 2019), in Argentina (Chiponi, Manchado, 2018; Parchuc, 2018; Umpierrez, 2016; Parchuc, 2015), in Uruguay e in Cile.

4.2 L’educazione non formale universitaria nell’esperienza argentina

L’esperienza qui presa in esame è quella del Centro Universitario Devoto (CUD) della Universidad de Buenos Aires (UBA) in Argentina (Decembrotto 2020, Par-chuc, 2018; ParPar-chuc, 2015; ParPar-chuc, 2014). Il CUD, situato all’interno del Complejo

Penitenciario Federal de Devoto, un carcere maschile in cui sono recluse circa

1.205 persone, nacque nel 1985, quando un gruppo di detenuti organizzò una pro-testa per ottenere l’accesso agli studi universitari, propro-testa durata fino alla firma dell’accordo tra l’Amministrazione penitenziaria e l’Università, avvenuta in quello stesso anno. Venne così aperto il centro universitario e fu istituito il Programa

UBAXXII Educación en Cárceles. Il CUD si presenta come uno spazio

indipen-dente e con una conduzione interna autonoma rispetto all’amministrazione pe-nitenziaria, priva di polizia e diretto esclusivamente dagli studenti, docenti e tutor universitari. La destinazione, l’uso degli ambienti, le pulizie, tutto è autogestito, caratterizzando così il centro universitario come luogo di libertà intellettuale, cul-turale e fisica, sebbene all’interno di un istituto penitenziario. Al suo interno sono presenti sei diverse facoltà (Diritto, Scienze sociali, Economia, Scienze esatte e na-turali, Psicologia, Filosofia e Lettere), che garantiscono l’accesso ai propri corsi di laurea. A questi corsi si aggiungono gli insegnamenti interdisciplinari obbligatori del ciclo base comune (Ciclo Básico Común) (Parchuc, 2018) e un laboratorio di informatica dedicato. Gli insegnamenti sono offerti in maniera analoga a quelli accessibili altri studenti universitari e vi partecipano circa 400 studenti, a cui si ag-giungono circa 500 iscritti ai laboratori extracurriculari (Parchuc, 2018). La scelta della Universidad de Buenos Aires, attraverso il Programa de Extensión en Cárceles

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formativa a una serie di laboratori e seminari extracurriculari di formazione e ca-pacitazione, sviluppati nell’ambito della terza missione (Extensión Universitaria) e dedicati a tutte le persone recluse, non solo quelle in possesso dei requisiti per accedere a una carriera universitaria: laboratori di lettura e di scrittura critica e creativa, laboratori collettivi di pubblicazione (riguardanti le riviste La Resistencia per il CUD e Los Monstruos tienen miedo per il CUE, nel carcere femminile

Com-plejo Penitenciario Federal I de Ezeiza), laboratori di filosofia politica e di storia

delle lotte sociali, laboratori sull’inclusione e le politiche sulla disabilità con il

Cen-tro de Producción de Accesibilidad, laboratori sui diritti e le politiche relative al

genere e alla diversità sessuale, laboratori di diritto sull’educazione, il lavoro e la salute in carcere, progetti di cooperazione e sviluppo d’impresa nel non-profit, laboratori di lingua spagnola per stranieri e altri. Questo ampliamento delle attività universitarie a esperienze di educazione non formale trova corrispondenza anche nelle attività di altre università argentine, coinvolte nella realizzazione di laboratori di radio, di teatro o seminari di comunicazione e giornalismo (Chiponi, Man-chado, 2018; Umpierrez, 2016). La scelta di implementare attività accessibili a chiunque, mantenendo tuttavia una metodologia didattica universitaria, sebbene all’interno di una cornice di educazione non formale, oltre a riconoscere i diritti umani e sociali delle persone private della libertà e garantirne il più ampio eser-cizio, invita a problematizzare le modalità d’intervento e di produzione della co-noscenza universitaria (Chiponi, Manchado, 2018).

4.3 Il contributo universitario allo sviluppo di paradigmi trasformativi

Attualmente la CNUPP, oltre a mappare quanto presente in territorio nazionale, all’interno di specifici tavoli tematici sta sviluppando linee di ricerca come quella riguardante l’esplorazione qualitativa della didattica in carcere, andando a co-struire non solo una rassegna critica delle esperienze di formazione universitaria in carcere, ma anche una riflessione multidisciplinare sulle politiche educative e formative universitarie in carcere. L’università che entra in carcere deve affrontare una serie di sfide, tra le quali la principale è il mantenimento della propria auto-nomia didattica. L’indipendenza di questi interventi non è, infatti, scontata, poiché continuamente si presentano istanze che li vorrebbero ricondotti alle finalità trat-tamentali dell’esecuzione pena e, in questo senso, a logiche premiali contrarie all’accesso alla conoscenza. Tale accesso è, inoltre, una delle possibili strade per la promozione dell’emancipazione personale e della democratizzazione della so-cietà (oltre che di costruzione e ricostruzione della comunità). Ciò pone anche delle domande interne all’università stessa, nonché la problematizzazione dei suoi modelli didattici: gli studenti privati della libertà sono una élite tra la popo-lazione marginale? Quanto l’università è chiamata a incontrare un sempre mag-gior numero di persone private della libertà, promuovendo l’accesso allo studio a tutti i livelli? Che distanza intercorre fra modelli individualistici di apprendi-mento, basati sull’incontro fra studente privato della libertà e docente/tutor, e mo-delli collettivi di apprendimento, basati sulla condivisione, il confronto in aula e la co-costruzione della conoscenza in contesti di co-apprendimento? In che modo conciliare la necessità di una didattica a distanza e la centralità dello scambio in-terpersonale all’interno di percorsi di esclusione sociale?

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5. Conclusioni e prospettive future di ricerca

Tenendo presente che la detenzione tuttora produce molteplici effetti disuma-nizzanti, le attuali esperienze di università in carcere possono svolgere un impor-tante ruolo ampliando l’accesso alle conoscenze, promuovendo tutti i gradi dell’istruzione scolastica, permettendo l’acquisizione di alte competenze, soste-nendo lo sviluppo umano della persona, della sua identità e di una diversa con-cezione di emancipazione (sebbene anch’essa situata), che potrà incidere sul livello di democratizzazione della società. Attraverso competenze e conoscenze altamente specializzate, le comunità universitarie possono contribuire allo svi-luppo di quelle “capacità di reagire e di contrapporsi alle situazioni esistenti e ap-parentemente immutabili al di là dei vincoli istituzionali, delle logiche di gestione, delle strategie operative, dei codici non scritti, della violenza schermata, tutt’oggi esistente nelle prigioni” (Pacini Volpe, 2019, p. 73), potenziale strumento di facili-tazione del reinserimento post detentivo e di dissociazione identitaria dal crimine commesso e dal conseguente stato di reclusione.

La ricerca educativa può partire da questi presupposti per sviluppare un’inda-gine che, all’interno di una cornice teorica orientata al metodo critico e secondo un modello investigativo di tipo qualitativo, analizzi alcune pratiche universitarie esistenti, per acquisire un’adeguata comprensione del fenomeno, soffermandosi tanto sull’attività didattica curriculare, basata su un approccio formale, quanto su quella extracurricolare, basata su un approccio orientato all’educazione non for-male.

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Riferimenti

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