METABOLICA E FUNZIONALE
DEL SISTEMA NERVOSO ED ORGANI DI SENSO
Marcatori biochimici nelle malattie neurodegenerative:
risultati preliminari del progetto Train The Brain 2.0
Relatore: Chiar.mo Prof .Pietro Pietrini
Alla mia famiglia
Indice
Indice ... I
1. Introduzione ... 1
2. La Malattia di Alzheimer ... 2
2.1 Definizione e quadro clinico ... 2
2.2 Epidemiologia ... 5
2.3. Anatomia Patologica ... 6
3. Marcatori biochimici nella Malattia di Alzheimer ... 9
3.1 APP -‐ Proteina Precursore dell’Amiloide ... 9
3.2 Aβ-‐amiloide ... 10
3.3 Tau e p-‐tau ... 10
3.4 Marcatori immunologici ... 12
3.5 L’Omocisteina come marker e fattore di rischio ... 14
3.6 Lo stress ossidativo nella malattia di Alzheimer ... 15
3.6.1 L’ossidazione dei lipidi ... 17
3.6.2 L’ossidazione del DNA ... 18
3.6.3 Ossidazione dei glucidi ... 18
3.6.4 Anomalie Mitocondriali ... 20
4. Il protocollo “Train The Brain 2.0” ... 22
4.1 Il costrutto di Mild Cognitive Impairment ... 22
4.2 Scopi e prospettive del progetto ... 23
4.3 Risultati preliminari: attività neurale e riserva cognitiva ... 30
5. Metodi ... 35
5.1 I partecipanti ... 35
5.1 Valutazione Neuropsicologica e Analisi Biochimica ... 37
6. Risultati ... 46
7. Discussione ... 58
Bibliografia ... 65
1. Introduzione
In generale, l’eziologia delle malattie neurodegenerative, quale la Malattia di Alzheimer, è polifattoriale, rendendo ancora oggi sconosciuto il vero meccanismo patogenetico che le contraddistingue e non consentendo di adottare una terapia volta all’eliminazione della causa della malattia stessa, ma solamente in grado di contrastarne la sintomatologia. In una condizione teorica ideale, più che un concorso di fattori eziologici, sarebbe auspicabile avere una causa primaria che agisca su un meccanismo molecolare, biochimico o funzionale ben definito così da favorire un approccio terapeutico unitario alla patologia. La definizione eziologica permetterebbe una rapida caratterizzazione patogenetica, la quale a sua volta garantirebbe l’individuazione di biomarcatori, utili alla diagnosi e al monitoraggio dell’evoluzione della malattia. Purtroppo, nell’ambito delle patologie neurodegenerative siamo ben lontani da questa condizione ideale.
Tra i vari biomarcatori di patologia, quelli biochimico-‐clinici rivestono da sempre un significativo interesse, sia perché di più facile acquisizione e valutazione, ma soprattutto perché strettamente dipendenti dal meccanismo ezio-‐patogenetico che sta alla base della malattia. Quando l’eziologia e la patogenesi sono sconosciute, come nelle patologie neurodegenerative, il ruolo dei marcatori biochimico-‐clinici non può che essere limitato.
In questa tesi prenderemo in considerazione in particolare i possibile fattori biochimici che concorrono all’eziopatogenesi della demenza di Alzheimer. In particolare, basandoci sui protocolli del progetto “Train the Brain 2.0”, verranno analizzate le correlazioni intercorrenti tra fattori biochimici e metabolici e deficit neuropsicologici. Sarà presa in considerazione la fase di declino cognitivo definita
Mild Cognitive Impairment, considerata precedente allo sviluppo della Malattia di
Alzheimer. Scopo della Tesi è rilevare la correlazione e il ruolo di alcuni fattori biochimici nelle fasi precoci della demenza e in particolare dell’omocisteina.
2. La Malattia di Alzheimer
2.1 Definizione e quadro clinico
La Malattia di Alzheimer (Alzheimer’s disease – AD) è una malattia neurodegenerativa, caratterizzata istopatologicamente da placche senili e ammassi neuro-‐fibrillari e sul piano clinico da un’insufficienza cognitiva progressivamente ingravescente, che comporta deficit nel ragionamento deduttivo ed induttivo, deficit di memoria e gravi alterazioni comportamentali.
I criteri diagnostici clinici correnti per la diagnosi di AD sono stati stabiliti più di 25 anni fa dal National Institute of Neurological and Communicative Disorders
and Stroke e dall’ Alzheimer Disease and Related Disorders (NINCDS – ADRDA) Work Group organizzandoli in base ad una gerarchia di elementi che accertassero i gradi
di probabilità della malattia nel paziente. I criteri nucleari sono così definiti:
1. Demenza verificata ad un esame clinico
2. Deficit in almeno due aree cognitive, o unico severo deficit gradualmente progressivo
3. Perdita progressiva della memoria e di altre funzioni cognitive 4. Assenza di alterazioni dello stato di coscienza
5. Esordio tra i 40 e 60 anni
6. Assenza di malattie sistemiche o encefaliche che potrebbero giustificare il declino cognitivo
Se si prende in esame il quadro clinico che caratterizza la AD, si può notare maggiormente l’eterogeneità e la difficoltà nell’individuazione di questa sindrome, caratteristiche che impongono oggi una ricerca mirata riguardo alla progressione ed ai fattori scatenanti nelle prime fasi in cui essa si sviluppa che esponiamo di seguito. L’esordio della AD, come si è detto, presenta sintomi aspecifici connessi con un lieve decadimento cognitivo-‐mnesico nelle situazioni di vita quotidiana, i cui
effetti più evidenti sono dovuti alle percezioni che il paziente stesso ha delle difficoltà incontrate nei compiti usuali. Il paziente può manifestare uno stato depressivo reattivo rispetto ai fallimenti incontrati nelle prestazioni abituali ed è il progredire di questo deficit isolato che conduce il paziente (spesso su richiesta dei familiari) alla visita medica e specialistica (Terry et al., 1994; Heston et al., 1981). In tale occasione si evidenzia spesso un difetto della memoria a carattere anterogrado ed episodico: il soggetto cioè apprende e ricorda con difficoltà nuove informazioni, come la collocazione degli oggetti, il luogo dove è parcheggiata l’auto o la composizione del pasto consumato recentemente. L’aspetto strettamente funzionale e contestuale della compromissione di questo tipo di memoria le ha valso la coniazione del termine ongoing memory (Papagno, 2007; Spearling et al., 2010). Possono verificarsi anche insuccessi rispetto al ricordo di eventi non comuni accaduti durante la giornata, come la visita di un amico o la visione di uno spettacolo, fino al ricordo della stessa visita specialistica effettuata. Un altro difetto di questa fase iniziale riguarda la memoria prospettica, quella capacità cioè che presiede il ricordo di avvenimenti futuri (pagamento di bollette, appuntamenti) e la programmazione per rievocarli al momento opportuno. Le prove neuropsicologiche permettono, inoltre, di stabilire come, in questa fase, vi sia invece un relativo mantenimento della memoria a breve termine (span di elementi), di quella semantica e retrograda, mentre la capacità allocativa della memoria a breve termine stessa risulta maggiormente deficitaria (Spearling et al., 2010). Con tale meccanismo si intende un processo complesso di stoccaggio delle risorse e di pianificazione del pensiero (riconducibili al central executive dei modelli di memoria recenti) che richiede anche una componente attentiva, probabilmente indebolita dalla malattia (McGuiness et al., 2010).
È importante verificare se, in questo periodo, sono presenti altri disturbi oltre a quelli amnestici, in modo da poter monitorare con accuratezza le caratteristiche individuali della malattia; tra quelli più riportati si sottolinea una lieve difficoltà a livello linguistico, in cui la fluenza della conversazione può essere soggetta a blocchi, soprattutto a causa delle anomie, ma che solo successivamente
apparirà evidente. In questa fase della malattia, infatti, spesso i sintomi possono rimanere latenti rispetto a quelli descritti e svilupparsi in modo subdolo. Se il paziente conduce una vita routinaria in cui è costretto ad affrontare esclusivamente situazioni stereotipate, le sue difficoltà possono non emergere significativamente: è il cosiddetto ‘fenomeno di facciata’. La percezione effettiva del peggioramento delle proprie abilità può quindi avvenire secondariamente e portare di conseguenza ad un peggioramento delle condizioni psichiche generali, aggravando precocemente il quadro della demenza e rendendo necessaria la diagnosi differenziale con la pseudodemenza (Terry et al., 1994).
Nei successivi 6-‐12 mesi si verifica un’evoluzione della malattia con l’insorgenza di disturbi conclamati in altre aree cognitive: le abilità linguistiche, quelle visuo-‐percettive e topografiche sono le più frequentemente colpite. Le difficoltà incontrate inizialmente dal paziente a livello linguistico riguardano la sua capacità di nominare parole di uso infrequente (ad esempio i nomi dei farmaci) e una tipica inerzia per la conversazione spontanea, ma solo negli stadi tardivi sfociano in un’afasia vera e propria per poi cedere il passo ad uno stato di mutismo. In questa fase intermedia si presenta invece un impoverimento del contenuto informativo della frase, che diviene spesso a carattere pronominale, con una riduzione del vocabolario e l’utilizzo di parole-‐passepartout (usare il termine “cosa” per molteplici oggetti) (Papagno, 2007; Bayles et al., 1992).
In uno stadio progredito, il paziente presenta inoltre sintomi di agnosia, ossia difficoltà nel riconoscere oggetti comuni, in particolare attraverso il canale visivo, che si associa spesso, nelle fasi iniziali alla prosopoagnosia, ossia l’incapacità di riconoscere volti familiari, probabilmente anche in conseguenza di una rievocazione peggiore attraverso la memoria (attraverso il canale mnesico-‐ affettivo). In una fase avanzata e successiva si presentano, in aggiunta al deterioramento delle funzioni già trattate, deficit delle capacità esecutive come l’attenzione o il ragionamento logico-‐deduttivo, il cui esordio tardivo permette la discriminazione dell’AD rispetto alle demenze fronto-‐temporali in cui queste abilità subiscono un declino precoce (Papagno, 2007; Bozeat et al., 2000). L’attenzione del
paziente subisce un declino maggiore nelle prestazioni in cui egli deve svolgere due compiti contemporaneamente e nell’inibizione di stimoli erronei o distrattori. Si riscontrano, inoltre, difficoltà nel mantenimento della concentrazione prolungata e della focalizzazione sul compito (rispettivamente attenzione sostenuta e selettiva). Ulteriori difficoltà si riscontrano nel ragionamento (le capacità di astrazione del soggetto subiscono un sensibile danneggiamento), accompagnato alla crescente incapacità di far fronte a situazioni nuove in cui il soggetto deve adottare strategie opportune di problem-‐solving innovativo (Barba et al., 1995; Baudic et al., 2006).
La memoria e il linguaggio, mostrano, in questa fase avanzata, i segni di maggiore cedimento. La progressiva perdita di iniziativa verbale porta il soggetto all’utilizzo di frasi cliché non sempre appropriate e dallo scarso contenuto informativo che può peggiorare fino ad una forma di mutismo conclamata; mentre la memoria subisce un costante impoverimento e vengono intaccate anche le capacità procedurali, che risultavano relativamente indenni nelle fasi precedenti (es. preparare un piatto o il ricordare le regole di uno gioco). I disturbi psichiatrici rappresentano una parte marginale, sebbene costanti della AD presente soprattutto nelle fasi tardive. Le manifestazioni più frequenti riguardano l’ansia e la distimia che connotano periodi iniziali della malattia, ma che raramente si evolvono in un quadro di Depressione Maggiore (Lopez et al., 1999).
2.2 Epidemiologia
Nel 2001, 11 milioni di persone erano affette dalla AD su scala mondiale ed oggi questo numero si è innalzato vertiginosamente (Gadit, 2001). Nei soli Stati Uniti circa 5,2 milioni di persone soffrono di AD, 3,4 milioni sono donne e 1,8 milioni sono uomini (CG, 2007; Association, 2012). La AD rappresenta oggi la sesta maggiore causa di morte (AA, 2012), costituendo il 70% della prevalenza in tutti i casi di demenza. I ricercatori hanno predetto che la prevalenza mondiale di questa malattia di quadruplicherà nel 2050. Secondo altre fonti ogni 71 secondi qualcuno sviluppa l’AD ed il rischio raddoppia approssimativamente ogni 10 anni superati i 65
L’America del Nord e l’Europa occidentale avevano nella fascia di età a partire dai 60 anni la più alta prevalenza di demenza 6,4 e 5,0%, seguite dall’America Latina (4,9%) e dalla Cina. Le frazioni di incidenza annuali (per 1000) di questi paesi vennero stimate in 10,5 per il Nord America, 8,8 per l’Europa Occidentale, 9,2 per L’America Latina e 8,0 per la Cina e i paesi confinanti in via di sviluppo del Pacifico occidentale, aumentando esponenzialmente con l’età in tutti i paesi, specialmente tra la settima e l’ottava decade di vita (Nussbaum et al., 2003).
Le stime della prevalenza della AD tuttavia cambiano in funzione dei criteri diagnostici usati, dell’età della popolazione assistita e da altri fattori incluse la posizione geografica e la razza. Escludendo persone con demenza clinicamente dubbia, l’AD ha una prevalenza approssimativamente dell’1% tra i soggetti di 65-‐69 anni di età e aumenta con l’età fino al 40-‐50% tra le persone di 95 anni di età. Sebbene l’età media dell’esordio della demenza sia circa 60 anni, la malattia può avere un inizio precoce intorno ai 40 ed i 50 anni, essendo questa una forma più rara a specifica base genetica.
In uno studio di medicina di comunità svolto in Francia la prevalenza della malattia ad inizio precoce (definita come malattia ad esordio prima dei 61 anni) era di 41 casi su 100 000 totali; rendono ragione del 6-‐7% di tutti i casi di AD. Circa il 7% dei casi ad inizio precoce sono familiari, con un profilo autosomico dominante, rendendo questa forme familiari rare. La loro importanza però si estende ben oltre la loro frequenza, perché esse hanno permesso ai ricercatori di identificare alcune vie patogenetiche critiche della malattia.
2.3. Anatomia Patologica
Nella AD, le lesioni istopatologiche sono rappresentate principalmente dalle placche senili e dai grovigli o ammassi neurofibrillari. La caratteristica essenziale del cervello di un paziente affetto da AD è la presenza di placche extracellulari costituite da depositi di un peptide amiloideo chiamato Aβ-‐42.
Si possono distinguere diversi tipi di placche: quelle classiche appaiono costituite da un nucleo centrale di sostanza amiloide spesso in vicinanza di un
piccolo vaso. Accanto alle placche classiche vi sono placche primitive che non rivelano il nucleo centrale di sostanza amiloide. Quest’ultimo se presente appare circondato da neuriti in vario stadio di degenerazione, spesso demielinizzati che presentano nel loro lume mitocondri variamente alterati, corpi lamellari densi ed accumuli di “twisted tubules” simili a quelli visibili nei neuroni con degenerazione neurofibrillare.
Gli ammassi neurofibrillari rappresentano organizzazioni anomale degli elementi citoscheletrici nei neuroni. Dal punto di vista ultrastrutturale infatti risultano composti da filamenti elicoidali appaiati (paired helical filaments) insieme ad alcuni filamenti lineari che sembrano di composizione simile. Una componente di base dei filamenti elicoidali appaiati è data da forme anomale iperfosforilate della proteina tau, una proteina assonica associata ai microtubuli che facilita il loro montaggio. L’accumulo dei filamenti elicoidali appaiati è una delle più vistose caratteristiche patologiche neuronali citoscheletriche in questa malattia, già evidenziato nelle prime descrizioni in letteratura (Berchtold, 1998). La scoperta che i filamenti elicoidali appaiati derivano dalla proteina tau, e che questa è altamente fosforilata ed inattiva nell’assemblaggio dei microtubuli suggerì che la formazione dei filamenti elicoidali appaiati potesse sottolineare direttamente le anomalie nel trasporto basato sui microtubuli che si pensa ricorra nel morbo AD. Riguardo alle osservazioni delle aumentate componenti mitocondriali nei lisosomi, le vescicole sinaptiche che non raggiungono le terminazioni e l’accumulo delle vescicole in corpi cellulari, suggerisce che il trasporto di organuli dipendente dai microtubuli è ostacolato nella AD. L’importanza clinica di queste scoperte è che la riduzione dei microtubuli possa determinare la perdita di connettività neuronale suggerita come base della perdita cognitiva della demenza.
A differenza delle placche senili, gli ammassi neurofibrillari non sono associati con mutazioni ma sono dovuti a modulazioni dell’attività delle kinasi e delle fosfatasi. Normalmente c’è un equilibrio tra attività delle kinasi e delle fosfatasi e l’anomala fosforilazione di tau è un riflesso sia dell’anormale attività delle cinasi sia della diminuita attività delle fosfatasi. La normale funzione di tau
dipende dall’addizione di fosfato da parte delle kinasi e dalla rimozione da parte della fosfatasi 2A (PP2A), la principale fosfatasi nel cervello dei mammiferi responsabile per la defosforilazione ai residui di serina e di treonina. La corteccia dell’Alzheimer e l’ippocampo esibiscono bassa attività ed espressione PP2A, deplezione di tau normale ed elevati livelli di tau iperfosforilata con fosfati in più che si accumulano sui residui di serina e di treonina.
3. Marcatori biochimici nella Malattia di Alzheimer
Nonostante la presenza estesa in letteratura di lavori riguardanti la diagnosi precoce della AD, il rapporto “2012 Alzheimer’s disease facts and figures” suggerisce un’ implementazione dei marcatori biochimici come strumenti necessari per la diagnosi della patologia. Questi stessi marcatori biochimici, relativi al danno neuronale ed alla beta amiloide, sono suggeriti nelle nuove linee guida per la diagnosi precoce della AD (AA, 2012). Le linee guida categorizzano la patologia in tre stadi: la fase preclinica dell’AD, l’MCI (Mild Cognitive Impairment) dovuto all’AD e per ultimo la demenza dovuta all’AD. Nessun biomarcatore è consigliato per la fase precoce dell’AD, richiedendo piuttosto un lavoro maggiore per stabilire quale di essi sia utile come criterio per diagnosi stessa. Sono consigliati invece marcatori per lo stadio definito ”MCI dovuto all’AD”, necessitando però, anche in questo caso, di un maggiore approfondimento nelle future ricerche. Prossimamente questi marcatori biologici diventeranno essenziali per diagnosticare la AD, come suggerito dal National Institute of Aging (NIA) e dalla Alzheimer’s disease Association (AA, 21012).
3.1 APP -‐ Proteina Precursore dell’Amiloide
La diagnosi post–mortem di un cervello con AD si basa sulla presenza di placche senili e ammassi neurofibrillari. Le placche senili sono composte da β-‐ amiloide (Aβ), un frammento proteolitico della proteina precursore dell’Amiloide (APP). Dal momento che il metabolismo dell’APP caratterizza la AD allora la misura di APP o dei suoi frammenti di scissione può servire come marker diagnostico. Nelle normali condizioni fisiologiche, la scissione proteolitica di APP è iniziata da un’α– secretasi seguita da una ϒ–secretasi a dare frammenti non amiloidogenetici. Le mutazioni del gene che codifica per APP causano un’alterata scissione ad opera di una β–secretasi, al posto di una α–secretasi, seguita da una ϒ–secretasi a dare la forma Aβ-‐42 che si aggrega a formare placche insolubili.
Peptidi Aβ aggregati, Aβ42 in particolare, formano la parte principale delle placche amiloidi depositate in sede extracellulare che sono riconosciute essere l’attributo neuropatologico centrale del AD (Glenner e Wong 1984). I peptidi Aβ originano dalla processazione enzimatica della proteina precursore dell’amiloide (APPs) (Kang et al 1987) attraverso la β e la ϒ secretasi (Haass and Selkoe1993). Le placche senili sono dunque costituite da un frammento proteolitico dell’Amyloid
precursor protein chiamato Aβ amiloide. I primi studi effettuati hanno osservato
aumentati livelli di APP o delle sue forme scisse nel fluido cerebrospinale di individui malati di AD. Le evidenze sperimentali riportate in studi successivi però non supportano all’unanimità l’ipotesi legata ai livelli di APP liquorale come biomarker utile per AD.
3.2 Aβ-‐amiloide
La Beta-‐amiloide comprende tra i 36-‐43 amminoacidi derivanti dalla proteina precursore dell’amiloide (Amyloid precursor protein – APP). Questa molecola presenta numerose isoforme, tra cui 1,14,15,16 e 39,40,42. Gli oligomeri della Beta-‐ amiloide sono considerati una causa di neurotossicità attraverso l’effetto dannoso esercitato sull’accoppiamento dei complesso-‐ ligando su specifiche sinapsi (Klein, 2012). I livelli di Aβ-‐42 sono diminuiti nel liquor cerebrospinale dei pazienti con AD, mentre i livelli di Aβ-‐40 risultano inalterati (Frosch et al., 2010). Con l’obiettivo di trovare un biomarcatore che sia più specifico, il rapporto tra Ab42/Ab40 è stato definito e dimostrato essere utile sia nella fase precoce che in quella clinica dell’AD.
3.3 Tau e p-‐tau
L’altra caratteristica patognomonica a livello cerebrale tipica dei pazienti con AD, ossia gli ammassi neuro fibrillari, è dovuta principalmente alla proteina tau, una proteina associata ai microtubuli che è stata studiata estesamente come biomarcatore. Molti studi hanno dimostrato che la proteina tau liquorale è aumentata nei pazienti AD. Per ragioni che rimangono inspiegate , il livello assoluto di tau nel liquor non è correlato con la gravità del danno cognitivo o con la durata
della demenza e rimane sconosciuto il motivo per cui questo reperto può essere rilevato precocemente nel processo patologico. Vi è invece un accordo generale sull’aumento della proteina tau durante lo stadio prodromico del declino cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment).
Nel AD, la proteina tau va incontro ad un’ anomala iperfosforilazione in molti siti e i saggi ELISA sono stati sviluppati per riconoscere vari epitopi fosforilati come la treonina 181 e 231 e la serina 199, 235, 396 e 404 (Blennow e Hampel 2003). Come risultato di questa aberrante fosforilazione tau è probabilmente incapace di legare e stabilizzare i microtubuli, portando alla degenerazione assonale (Mandelkov e Mandelkov,1998). Una possibilità è che l’aumento di tau osservato nel liquor in AD sia dovuto al rilascio da parte dei neuroni che vanno incontro a degenerazione e alla sua successiva diffusione nel liquor. Con il disturbo dell’equilibrio del legame di tau ai microtubuli, c’è un risultante aumento dei livelli citosolici di tau non legati e conseguentemente un’aumentata probabilità di anomalo ripiegamento di proteine e conseguente aggregazione (neuropil threads) in neuriti distrofici e come placche neurofibrillari. Mentre queste osservazioni suggeriscono possibili ragioni per gli aumenti di tau nel liquor in AD, non è ancora chiaro che cosa realmente accada nel processo patogenetico nell’uomo.
Livelli oltre i limiti normali di tau nel liquido cefalorachidiano (Cerebral spinal fluid – CSF) e di beta proteine, sono osservati negli individui con riconosciuta AD, per questo le due proteine sono indagate per la loro utilità diagnostica. La P-‐tau presente nel CSF mostra una sensibilità diagnostica dell’83%, venendo così utilizzate solitamente per individuare un danneggiamento acuto, la specificità del 75%, riflette la sua significativa associazione con la malattia, mentre la specificità e sensibilità della Aβ-‐42 sono pari al 93%. C’è un’associazione tra i livelli abnormi di Aβ-‐42 e l’aumentare del rischio di declino cognitivo, della sua progressione e del rischio di conversione di questo in AD. Questa associazione non è stata riscontrata per i valori abnormi di tau ne CSF. È interessante notare come i livelli patologici di Aβ-‐42, tau totali e tau fosforilate (phosphoralate tau o P-‐tau), che sono ≥2 nel
marcatori del CSF, predicano la conversione dell’MCI all’AD e discriminino la forma stabile di MCI.
3.4 Marcatori immunologici
Gli studi per esaminare il ruolo svolto dal sistema immunitario nel AD e per evidenziare i marcatori immunologici sono stati effettuati da Ishii mediante l’immunofluorescenza preceduto a sua volta da Stam (1965). La colorazione immunoistochimica venne realizzata su sezioni congelate di 5μm con antisieri diretti contro numerose proteine plasmatiche: albumina, α1-‐antitripsina, proteina C reattiva, componente P (CRP), fattori del complemento C1q, C3, C4 e contro catene pesanti e leggere di immunoglobuline umane. I differenti fattori della via classica del complemento furono dimostrati nelle lesioni amiloidee del cervello di quattro pazienti che avevano avuto il AD. L’intensità di colorazione sembrava dipendere dal tipo di placca senile. C’era una predominanza di colorazione sulle placche aventi un core centrale di amiloide e sulle masse amiloidee intorno ai vasi infiltrati ed una prevalenza di colorazione per il C3 sulle placche neuritiche senza un core denso centrale. C1, C3, C4 erano costantemente dimostrati nelle pareti dei vasi leptomeningei ed intracorticali. In più in un caso furono viste cellule intraluminali colorate ed in un altro caso intensa colorazione di neuroni in fase di degenerazione entrambi evidenziati usando anti C3. Le tre principali classi di immunoglobuline (IgG, IgA, IgM) furono invece trovate nelle pareti dei vasi infiltrati da amiloide.
Da questi reperti si potrebbe ipotizzare che i meccanismi immunologici sono probabilmente importanti nelle lesioni cerebrali del AD e che il bersaglio dell’insulto immunologico è localizzato nella parete dei vasi sanguigni.
Si notavano differenze di colorazione tra i quattro pazienti malati di AD e sembrava correlata con la gravità delle lesioni repertate all’esame istopatologico. Possono pertanto essere distinti almeno tre meccanismi che giocano un ruolo nei processi immunitari nello sviluppo dei sintomi della malattia. Questi sono:
• Anomale reazioni di natura autoimmune dirette contro le componenti del tessuto cerebrale, questo tipo di disturbi viene notato nel 25 % dei casi di AD.
• Reazioni locali immuni causate dal danno del tessuto cerebrale nel processo di degenerazione queste reazioni immuni normali possono essere localmente intensificate nel tessuto cerebrale, aggravate o perfino indurre ulteriore danno alla struttura e alla funzione del sistema nervoso centrale. • Disturbi di secrezione delle immunocitochine, locali (intraventricolari o per
mezzo delle cellule gliali).
Oggi sappiamo che l’attivazione microgliale riveste un ruolo centrale nella patogenesi infiammatoria dell’AD: la microglia è infatti responsabile della produzione di citochine pro-‐infiammatorie, proteine del complemento, enzimi e sostanze neurotossiche in grado di determinare alterazioni neurodegenerative. Studi autoptici e sperimentali hanno rilevato nelle lesioni caratteristiche di malattia citochine prodotte dalla microglia, come l’IL-‐1, l’IL-‐6, il TNF-‐α e l’α1-‐ antichimotripsina, sovra espresse nei tessuti cerebrali dei pazienti. Le citochine sono secrete dalla microglia e dagli astrociti che circondano le placche Aβ neuritiche. TNF-‐α è una citochina pro-‐infiammatoria che partecipa alla regolazione della risposta immunitaria: aumenta l’espressione di molecole d’adesione sulla superficie delle cellule endoteliali favorendo la migrazione leucocitaria e aumenta la produzione di chemochine. La principale fonte di TNF-‐α sono i fagociti mononucleati attivati ma è prodotto anche da linfociti T, cellule NK e mastociti. Esercita inoltre diverse altre funzioni: modula l’espressione genica, il metabolismo energetico, può indurre apoptosi in diversi tipi cellulari ed è un potente inibitore della carcinogenesi e della replicazione virale. La prima indicazione del coinvolgimento del TNF-‐α nella AD si ebbe quando, durante l’analisi autoptica di cervelli affetti, fu riscontrata la presenza di questa citochina nelle placche di amiloide. Studi in vitro hanno successivamente dimostrato che la TNF-‐α aumenta la produzione dei peptidi di Aβ regolando il complesso gamma secretasico; si crea così un meccanismo feed-‐
forward per cui il TNF-‐α aumenta la sintesi di peptidi Aβ che a loro volta inducono infiammazione e produzione di TNF-‐α.
Numerose proteine rilasciate dai processi infiammatori dovuta alla AD possono essere usati come biomarcatori. Queste proteine sono state individuate negli studi precedenti tramite il metodo ELISA, come con l’approccio proteomico (Frosch et al., 2010). Lo studio delle citochine prodotte durante gli stadi infiammatori dell’AD ha però mostrato anche risultati inconsistenti. Ad esempio i livelli di interleuchina 6 (IL-‐6), sono stati descritti come innalzati, abbassati o non alterati nella AD (Pirttila et al., 1994).
3.5 L’Omocisteina come marker e fattore di rischio
Anche l’omocisteina è un forte fattore di rischio ed un marker biochimico nel corso dello sviluppo di AD, inibendo i geni che codificano proteine mitocondriali e favorendola produzione delle specie reattive dell’ossigeno ROS.
L’ipotesi che l’omocisteina (Hcy) sia un fattore di rischio venne inizialmente proposta in seguito all’osservazione che pazienti AD avevano livelli plasmatici più alti di Hcy, cioè presentavano iperomocisteinemia, rispetto ai controlli della stessa età.
Il metabolismo dell’omocisteina è dipendente dall’intersezione di due principali vie: rimetilazione e transulfurazione. Quando il livello di metionina è basso, l’omocisteina è rimetilata a metionina; un processo che richiede vitamina B12 e acido folico come cofattori (Figura 1). La metionina poi forma la S–adenosil– metionina (SAM), che serve come il principale donatore di gruppi metilici nella cellula. Dopo la demetilazione, SAM genera la S–adenosil–omocisteina (SAH) ed eventualmente è idrolizzato di nuovo a omocisteina per un nuovo ciclo. Una metionina è rappresentata anche come 35° residuo amminoacidico della beta-‐ amiloide. Quando i livelli di metionina sono alti, l’omocisteina attraverso la transulfurazione si condensa con la serina a formare cistationina e conseguentemente a cisteina in una reazione irreversibile.
Studi recenti evidenziano che l’iperomocisteinemia può influenzare direttamente l’Aβ e la fosforilazione di tau. L’iniezione diretta di omocisteina dentro il cervello di topo aumenta il livello di Aβ e la deposizione di amiloide nel cervello di modelli di topo transgenico (Seshadri, et al., 2002)
Figura 1. Metabolismo dell’Omocisteina
3.6 Lo stress ossidativo nella malattia di Alzheimer
È stato anche suggerito che l’accumulo di proteine Aβ nel cervello possa essere una risposta protettiva nei confronti dello stress ossidativo. Numerose evidenze suggeriscono che i tessuti cerebrali nei pazienti con AD siano esposti allo stress ossidativo durante lo sviluppo della malattia. Lo stress ossidativo consistente nell’ossidazione delle proteine, nell’ossidazione dei lipidi e dei prodotti glucidici ed è generalmente caratterizzato da uno sbilanciamento nella produzione di specie reattive dell’ossigeno e meccanismi di difesa antiossidativi che sono responsabili della loro rimozione. Entrambi i sistemi sono considerati avere il ruolo principale nel processo di neurodegenerazione età-‐correlato e del declino cognitivo.
Le specie reattive dell’ossigeno (ROS) e le specie reattive dell’azoto (RNS) includenti il radicale anione superossido 1O2-‐ , il perossido di idrogeno H2O2, il radicale
idrossilico, l’ossigeno singoletto, il radicale alcossilico, i perossiradicali ROO-‐ e i perossonitriti ONOO-‐ contribuiscono alla patogenesi di numerose malattie
neurodegenerative umane. Certi antiossidanti incluso il glutatione, l’ α-‐tocoferolo (vitamina E), i carotenoidi, l’acido ascorbico, gli enzimi antiossidanti come la catalasi e la glutatione perossidasi sono capaci di detossificare da H2O2 convertendola in O2
e H2O in condizioni fisiologiche. Quando i livelli di ROS superano la capacita di
rimozione del sistema antiossidante, in presenza di condizioni patologiche, a causa dei processi fisiologici dell’invecchiamento o per l’elevata domanda metabolica, si verifica un aumento eccessivo lo stress ossidativo che causa disfunzioni biologiche. Le conseguenze possono quindi essere livelli di ossidazione delle proteine dei lipidi, avanzata ossidazione del DNA e prodotti glucidici finali, formazione di sostanze tossiche quali perossidi, alcooli, aldeidi, carbonili liberi, chetoni, colestenone e modificazioni nel DNA nucleare e mitocondriale sono le principali manifestazioni dello stress ossidativo e del danneggiamento che ricorre durante il corso dell’AD.
Elevati livelli dei prodotti ossidati summenzionati sono stati descritti non solo nel cervello, ma nel liquor cerebrospinale sangue ed urine nei pazienti con AD. Un aspetto importante del sistema antiossidante di difesa è il glutatione (GSH) che è responsabile del potenziale ossidoriduttivo endogeno nelle cellule; la sua funzione più importante è di donare elettroni ai ROS e di eliminarli. La concentrazione intracellulare del glutatione diminuisce con l’età in regioni del cervello dei mammiferi includenti l’ippocampo cosa che può portare a situazioni in cui la frazione di produzione dei ROS eccede quella della loro rimozione, inducendo così stress ossidativo. Lo sbilanciamento tra gli enzimi detossificanti dai radicali potrebbe essere una delle cause dello stress ossidativo nell’AD. L’ossidazione delle proteine e l’ossidazione del DNA nucleare e mitocondriale è stata osservata sia nei pazienti con AD sia in pazienti anziani senza AD, ma l’ossidazione del DNA nucleare e mitocondriale sembra essere presente nella corteccia parietale nei pazienti affetti da AD con maggiori alterazioni istopatologiche. In più la perossidazione dei lipidi è
stata osservata nel lobo temporale dove le alterazioni istopatologiche sono più osservabili.
I soggetti con genotipo APOE e quelli con l’allele ε4 sembrano più suscettibili alla per-‐ossidazione di quelli senza questo allele. Come abbiamo già sottolineato, in letteratura sono stati identificati nel cervello di pazienti AD ed in altri tessuti, in risposta a stimoli ossidativi e particolarmente negli ammassi neurofibrillari, prodotti finali della perossidazione, inclusa la malonildialdeide, i perossonitriti, i carbonili prodotti finali di glicosilazione AGEs, superossidodismutasi e eme -‐ ossigenasi (un enzima cellulare che è regolato nel cervello ed in altri tessuti in risposta a stimoli ossidativi).
3.6.1 L’ossidazione dei lipidi
Anche i fenomeni di ossidazione lipidica esercitano influenze importanti sulla patogenesi dell’AD. Aβ causa lipoperossidazione delle membrane e induce la formazione di prodotti di per ossidazione lipidica. I lipidi sono modificati dai ROS e le correlazioni tra perossidi lipidici enzimi antiossidanti placche senili e ammassi neuro fibrillari sono molto forti. È stato dimostrato che la perossidazione lipidica sia la causa principale di deplezione dei fosfolipidi di membrana nel AD. Molti prodotti dello stress ossidativo sono stati individuati nel cervello AD comparato con controlli della stessa età, includenti acroleina, malonildialdeide, F2-‐isoprostani e 4 idrossi-‐ 2,3-‐nonenale (HNE). Tale prodotto neuronale ed ippocampale citotossico di perossidazione lipidica in alte concentrazioni contribuisce al danneggiamento della funzione delle proteine di membrana, come il trasportatore neuronale del glucosio GLUT3, all’inibizione dei trasportatori neuronali del glucosio e del glutammato, all’ inibizione della sodio potassio ATP-‐asi, all’attivazione delle kinasi e alla disregolazione dell’omeostasi dei trasportatori ionici e del calcio. L’aumentata concentrazione di calcio potrebbe essa stessa causare una cascata di eventi intracellulari risultanti in un’ aumentata produzione di ROS e morte cellulare che in ultima analisi induce un meccanismo a cascata apoptotico e porta alla neurodegenerazione in AD.
È degno di nota anche l’elevato livello delle concentrazioni nel liquor di F2 – isoprostano che è prodotto dalla perossidazione catalizzata dai radicali liberi dell’acido arachidonico ed è stata osservata nei pazienti con AD. La scoperta è significativa non solo perché conferma che la perossidazione lipidica è elevata in AD ma perché essa fornisce indicazioni circa il possibile ruolo del F2 -‐ isoprostano nel liquor come biomarcatore per la diagnosi.
3.6.2 L’ossidazione del DNA
Le basi del DNA sono vulnerabili allo stress ossidativo ed è stato osservato che nel cervello con AD la presenza di ROS induce l’influsso di calcio tramite i recettori del glutammato e scatena risposte citotossiche portando alla morte cellulare. L’ossidazione del DNA e dell’RNA è segnata da aumentati livelli di 8-‐ idrossi-‐2-‐deossiguanosina (8OHdG) e 8-‐idrossiguanosina (8OHD) che è localizzata per la maggior parte nelle placche e nei grovigli neurofibrillari. Aumentati livelli di rottura delle eliche del DNA trovate nel cervello con AD furono prima considerate essere conseguenza dell’apoptosi ma l’ipotesi attualmente più accreditata in letteratura è che il danno ossidativo sia responsabile della rottura delle catene del DNA e questo è in linea con l’aumento di carbonili liberi nei nuclei dei neuroni e della glia nell’AD (Braithwaite et al., 2012; Jellinger, 2003).
3.6.3 Ossidazione dei glucidi
I prodotti finali di glicazione (Advanced Glycation End Products, AGEs) sono formati da una reazione non enzimatica tra un gruppo chetonico o aldeidico di uno zucchero con proteine e sono potenti neurotossine e molecole pro-‐infiammatorie. La glicazione delle proteine comincia come un processo non enzimatico con la condensazione spontanea di un gruppo chetonico o aldeidico e amminogruppi liberi di una proteina o amminoacidi specificamente lisina, arginina e possibilmente istidina. L’accumulo di AGEs nel cervello è una caratteristica dell’invecchiamento ed è anche implicata nello sviluppo fisiopatologico di AD.
C’è una crescente evidenza che l’insolubilità delle placche amiloidi sia causata da legame covalente delle proteine ed i prodotti di glicazione avanzata. L’accumulo dei prodotti finali di glicazione è causato da un’accelerata ossidazione di proteine glicate anche chiamata glico-‐ossidazione ed è stata dimostrata nelle placche senili in diverse aree corticali sia nelle placche primitive che in quelle classiche. La proteina tau isolata dal cervello di pazienti AD può essere glicata nella regione che si lega alla tubulina dando origine alla formazione di fibrille con una β – struttura, causando la sua incapacità di legare. Si può concludere che gli AGEs sono coinvolti nella patogenesi dell’AD e anche i radicali liberi sono coinvolti nei processi di glicazione e possono promuovere il legame dei monomeri Aβ. In più è stato riportato che gli AGEs e la β-‐amiloide attivano specifici recettori per l’avanzata glicazione di prodotti finali (RAGE -‐receptor advanced glicosilation end products) e il recettore di classe A scavenger, che promuove la formazione dei ROS e regola la trascrizione dei geni di vari fattori infiammatori attraverso NFkB attivazione.
RAGE è un recettore che appartiene alla superfamiglia delle immunoglobuline ed è capace di interagire con un ampio spettro di ligandi, tra i quali gli AGEs, le S100 calgranuline, le anfoterine e i peptidi di β-‐amiloide. La rilevanza di RAGE nell’AD è stata suggerita dalla scoperta autoptica di aumentati livelli di questo recettore nel cervello di pazienti rispetto ai controlli. L’elevata espressione di RAGE è stata riscontrata in diversi tipi cellulari presenti all’interno del SNC: neuroni, microglia, astrociti, cellule endoteliali e muscolari lisce della RAGE sembra intervenire nella patogenesi della malattia ad almeno tre livelli:
- l’interazione tra RAGE e i peptidi di Aβ attiva la microglia, aumenta l’espressione di citochine pro-‐infiammatorie, la produzione di fattori neurotossici e di specie reattive dell’ossigeno, amplificando quindi il danno neuronale;
- a livello della barriera emato-‐encefalica RAGE, invece, agisce come trasportatore di peptidi di Aβ: una sua aumentata espressione ed aumenta la concentrazione di Aβ a livello liquorale e quindi encefalico;
- alterando la plasticità sinaptica inibisce i processi di comprensione e di consolidamento della memoria ed accelerando quindi il processo di deterioramento cognitivo.
3.6.4 Anomalie Mitocondriali
È stato dimostrato che i mitocondri sono al centro della produzione di ROS. Sono state osservate alterazioni della funzione mitocondriale e mitocondri danneggiati nel corso dell’invecchiamento fisiologico e patologico. I difetti sono presenti nella catena di trasporto degli elettroni, che sono i principali fattori che contribuiscono alla formazione di radicali liberi e alle carenze di molti enzimi chiave responsabili del metabolismo ossidativo, includenti il complesso dell’ α-‐ chetoglutarico deidrogenasi (KGDHC) e della piruvico deidrogenasi (PDHC). Questi due sono importanti enzimi coinvolti nella tappa detta rate limiting del ciclo degli acidi tricarbossilici. Anche la citocromo ossidasi -‐ COX, che è l’enzima terminale nella catena di trasporto mitocondriale responsabile della riduzione dell’ossigeno molecolare, subisce gli effetti del danneggiamento della catena di trasporto degli elettroni. Sappiamo che esistono due isoenzimi della citocromo ossidasi: COX1 e COX2 che sono entrambi rappresentati nel cervello ma le loro funzioni non sono ben comprese. COX1 è responsabile dell’omeostasi nella produzione dei prostanoidi. È stato riportato che l’attività della citocromo-‐c-‐ossidasi era più bassa del normale nella corteccia cerebrale (frontale, parietale, temporale e occipitale), nel giro dentato e nelle zone del giro dentato dell’ippocampo CA4 CA3 e CA1 e nelle piastrine del cervello di pazienti AD.
Le anomalie funzionali di mitocondri promuovono l’attivazione dei ROS; i neuroni nel cervello AD mostrano una percentuale evidente più bassa di mitocondri normali ed una significativa percentuale di mitocondri completamente danneggiati più alta rispetto ai controlli della stessa età. L’APOE4 è un fattore di rischio che è stato associato con una disfunzione mitocondriale. Studi precedenti hanno dimostrato la presenza di un numero maggiore di frammenti di APOE4 nel cervello AD che nei controlli, il che comporta tossicità e danneggiamento della funzione e
dell’integrità mitocondriale. Ulteriormente anche l’omocisteina è un forte fattore di rischio ed un marker biochimico nel corso dello sviluppo di AD ed essa inibisce molti geni codificanti proteine mitocondriali e favorisce la produzione delle specie reattive dell’ossigeno ROS.
4. Il protocollo “Train The Brain 2.0”
4.1 Il costrutto di Mild Cognitive Impairment
Data la fondamentale importanza che riveste nella ricerca attuale la diagnosi precoce della AD, in vista dell’efficacia dei trattamenti a cui sono sottoposti i pazienti, si è sviluppato in letteratura un interesse crescente verso il costrutto di
Mild Cognitive Impairment (MCI), definito come sua fase prodromica (Petersen,
1999). Tale costrutto verrà preso in esame anche nella classificazione dei soggetti presi in esame per questo lavoro di Tesi, poiché migliore quadro clinico in grado di approssimare una sintomatologia progressiva verso l’AD.
Negli anni passati molti metodi di classificazione sono stati sviluppati per l’AD e l’MCI basati su differenti modalità di individuazione di biomarcatori, come la stima dell’atrofia cerebrale mediante la risonanza magnetica (MRI), le alterazioni metaboliche cerebrali, mediante la Tomografia ad Emissione di Positroni con fluorodeossiglucosio (FDG-‐PET) o Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), e la stima dei depositi di amiloide cerebrale tramite il liquido cerebrospinale.
Recentemente, data l’importanza diagnostica del MCI per la diagnosi precoce di AD, vi è un crescente interesse nel predire i futuri cambiamenti clinici stessi dei soggetti con MCI dai dati di diagnostica per immagini e biochimici. Generalmente ci sono due tipi di cambiamenti clinici per i soggetti MCI in momenti diversi del loro futuro. Alcuni soggetti MCI tempo svilupperanno successivamente una forma di demenza diagnosticabile (MCI converters MCI-‐C), mentre altri manterranno prestazioni e sintomi stabili (MCI no converters, MCI-‐NC). Risulta quindi importante predire se un certo soggetto con MCI subirà una progressione del deficit cognitivo in uno specifico quadro fisiopatologico, stabilendo inoltre quali siano i tempi in cui si verifica questo passaggio.
L’AD è una malattia progressiva con continui cambiamenti rilevati nei punteggi di MMSE e di altre scale atte a misurare i deficit cognitivi come la ADAS – Cog (cognitive) con tempi diversi nei follow – up individuali. L’MCI viene considerato però oggi come una fase di transizione presente in tutte le maggiori forme di