• Non ci sono risultati.

EFFETTI DELLA RACCOLTA DI MASSE MACROALGALI IN UNA LAGUNA EUTROFICA

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "EFFETTI DELLA RACCOLTA DI MASSE MACROALGALI IN UNA LAGUNA EUTROFICA"

Copied!
115
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN BIOLOGIA MARINA

Effetti della raccolta di masse macroalgali in una laguna

Relatori:

Dott. Carlo Sorce Dott. Mauro Lenzi

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN BIOLOGIA MARINA

Tesi di laurea

Effetti della raccolta di masse macroalgali in una laguna

eutrofica

Candidata

Giulia Salvaterra

Anno Accademico 2012/2013

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN BIOLOGIA MARINA

Effetti della raccolta di masse macroalgali in una laguna

Candidata:

(2)

INDICE

1. INTRODUZIONE 1

1.1. Ambienti lagunari 1

1.1.1. Lagune e stagni costieri 1

1.1.2. Caratteristiche chimico-fisiche degli ambienti lagunari 3 1.1.3. Aspetti biologici degli ambienti lagunari 7

1.1.4. Vegetazione sommersa 10

1.2. Eutrofizzazione 14

1.2.1. Il fenomeno dell’eutrofizzazione e le sue conseguenze 14

1.2.2. Bloom macroalgali 18

1.2.3. Possibili soluzioni di risanamento degli ecosistemi lagunari e

gestione dell’eutrofizzazione 25

2. INQUADRAMENTO E OBIETTIVI DELLA TESI 31

3. MATERIALI E METODI 33

3.1. Area di studio 33

3.2. Piano di campionamento 36

3.3. Attività in campo e in laboratorio 43

3.3.1. Acqua 43

3.3.1.1. Determinazione dell’azoto nitroso (N-NO2) 3.3.1.2. Determinazione dell’azoto nitrico (N-NO3) 3.3.1.3. Determinazione dell’azoto ammoniacale (N-NH4) 3.3.1.4. Determinazione del fosforo reattivo solubile (SRP) 3.3.1.5. Determinazione dell’azoto totale disciolto (TDN) 3.3.1.6. Determinazione del fosforo totale disciolto (TDP)

3.3.1.7. Calcolo delle concentrazioni del fosforo e dell’azoto organici

(3)

3.3.2. Sedimento 48 3.3.2.1. Determinazione del carbonio totale e azoto totale (TC e TN)

3.3.2.2. Determinazione del carbonio organico totale (TOC)

3.3.2.3. Determinazione del fosforo totale (TP)

3.3.2.4. Determinazione del fosforo inorganico totale (TIP)

3.3.2.5. Calcolo della concentrazione di fosforo organico totale (TOP) 3.3.2.6. Determinazione della materia organica

3.3.3. Alghe 54 3.4. Analisi statistica 55 4. RISULTATI 57 4.1. Acqua 57 4.1.1. Parametri chimico-fisici 57 4.1.2. Variabili nutrizionali 59

4.1.2.1. Azoto nitroso e nitrico (N-NOx) 4.1.2.2. Azoto ammoniacale (N-NH4+) 4.1.2.3. Fosforo reattivo solubile (SRP) 4.1.2.4. Azoto organico disciolto (DON) 4.1.2.5. Fosforo organico disciolto (DOP) 4.1.2.6. Rapporto molare DIN:SRP

4.2. Sedimento 64

4.2.1. Potenziale ossido-riduttivo (Eh) 64

4.2.2. Variabili nutrizionali 65

4.2.2.1. Carbonio totale (TC) e carbonio organico totale (TOC) 4.2.2.2. Azoto totale (TN) 4.2.2.3. Fosforo totale (TP) 4.2.2.4. Rapporti molari C:N, C:P, N:P 4.2.3. Materia organica 69 4.3. Alghe 72 4.3.1. Biomassa macroalgale 72

(4)

5. DISCUSSIONE 76 5.1. Acqua 76 5.2. Sedimento 79 5.3. Alghe 81 6. CONCLUSIONI 87 7. BIBLIOGRAFIA 89

(5)

1.

INTRODUZIONE

1.1. Ambienti lagunari

1.1.1. Lagune e stagni costieri

Lagune e stagni costieri sono bacini d’acqua salmastra o salata, parzialmente separati dal mare adiacente da una barriera sabbiosa (Barnes, 1995). Sono ambienti di transizione tra il dominio marino e quello continentale, in cui le acque dolci terrestri e quelle salate marine si mescolano. Per il loro carattere di transizione, questi ambienti sono considerati ecosistemi unici, ad elevato valore naturalistico, riconosciuto a livello internazionale (Convenzione di Ramsar, 1971).

Lagune e stagni costieri si formano in seguito al progressivo avanzamento verso terra della linea di costa, fenomeno detto trasgressione, che può verificarsi o per innalzamento del livello marino (eustatismo positivo), o per abbassamento delle terre emerse (epirogenesi), e scompaiono in regime regressivo, quando si verifica un abbassamento del livello marino (eustatismo negativo). Per la loro formazione sono necessari cospicui apporti terrigeni sabbiosi (fluviale o derivato dall’erosione costiera) e un significativo trasporto litoraneo (correnti costiere) (Brambati, 1988). Nonostante questa genesi comune, lagune e stagni costieri si differenziano essenzialmente per la forza di marea (Brambati 1988, Orme 1990, Barnes 1994).

La presenza o meno di importanti escursioni mareali influenza i parametri morfologici, idrologici e ambientali responsabili delle caratteristiche chimico-fisiche, sedimentologiche e floro-faunistiche proprie dei due ambienti (Brambati, 1988).

(6)

Per laguna si intende un bacino costiero dominato dalle maree, separato dal mare da un cordone litorale (insieme di lidi), ma comunicante con esso attraverso bocche (foci). Per stagno costiero, invece, s’intende un bacino costiero non dominato dalle maree, separato dal mare da un cordone litorale (freccia litorale, tombolo, ecc.) e comunicante con esso mediante varchi (Brambati,1988).

Nel Mediterraneo, per la scarsa forza delle maree, si sono formati prevalentemente stagni costieri e l’Italia ne è particolarmente ricca: in Puglia (Laghi di Lesina e Varano), in Toscana (Laguna di Orbetello, Daccia Botrona, Lago di Burano), nel Lazio (Laghi costieri del Circeo, Lago di Fondi), in Sicilia (Laghi di Capo Peloro, Lagune di Oliveri-Tindari), in Sardegna, regione con il maggior numero di stagni costieri (Stagno di Cabras, di Mistras, di Santa Giusta, di Pauli Maiori, di Molentargius ecc.).

Le lagune italiane si trovano solo nell’Alto Adriatico (Lagune di Venezia, Grado, Marano, Valli di Comacchio) che è l’unico bacino del Mediterraneo interessato da escursioni di marea che possono superare il metro (110-120 cm).

La morfologia di una laguna è diretta conseguenza dell’azione della marea e consente di distinguere una zona al di sopra del livello medio delle alte maree (barene, cordoni litorali e costa interna della laguna), una zona compresa tra il livello medio delle alte maree e il livello medio delle basse maree (piane di marea) e una zona al di sotto del livello medio delle basse maree (canali principali e foci lagunari) (Brambati, 1969; Marocco, 1989). Le escursioni di marea sono responsabili del flusso e riflusso delle masse d’acqua attraverso le foci, garantendo così il ricambio idrico. Il modello idrodinamico produce una distribuzione granulometrica dei sedimenti per la quale si ha la deposizione di sedimenti sempre più fini, dalle sabbie più grossolane alle argille, procedendo dalle foci verso le regioni più interne (Brambati, 1988).

(7)

Gli stagni costieri presentano caratteristiche morfologiche completamente differenti dalle lagune, difatti mancando l'effetto delle maree, sono assenti i canali, le piane di marea e le barene (Brambati, 1988; Orme, 1990; Barnes, 1994). I loro fondali hanno una maggiore profondità verso il centro e sono privi di qualsiasi morfologia significativa. Venendo a mancare le maree, la circolazione è legata soprattutto all’azione dei venti, i quali contribuiscono all’ossigenazione delle acque e, talvolta, al disturbo dei sedimenti. Lo scambio idrico può comunque, in assenza di varchi efficienti, avvenire anche attraverso le infiltrazioni freatiche (marine o continentali). Le acque di uno stagno costiero privo di varchi variano da salmastre a iperaline, in relazione all’influsso di infiltrazioni freatiche dal mare e dal continente, agli affluenti dal suo bacino idrografico, agli apporti meteorici e alla evaporazione. I sedimenti si distribuiscono secondo fasce concentriche a granulometria sempre più fine, procedendo verso il centro, seguendo l’andamento concentrico della batimetria. Del detrito terroso, proveniente per lo più dal continente, sedimenta prima quello più grossolano, mentre i sedimenti più fini si allontanano dalla fascia costiera e sedimentano in seguito nelle aree centrali. Mancando una dinamica dei sedimenti tale da impedire il loro accumulo internamente al bacino e favorire la loro esportazione verso l’esterno, come nel caso delle lagune, gli stagni costieri tendono inesorabilmente ad interrarsi (Brambati, 1988).

1.1.2. Caratteristiche chimico-fisiche degli ambienti lagunari

Sia le lagune che gli stagni costieri (denominati d’ora in poi anch’essi lagune) sono caratterizzati da bassa profondità e ridotto idrodinamismo; vengono perciò definiti, insieme agli ambienti estuarini, alle baie a circolazione

(8)

ristretta e alle aree portuali, “acque costiere laminari a scarso ricambio”, per distinguerli dalle acque costiere profonde a buon ricambio, rappresentate dalle acque marine in senso stretto (Carrada e Fresi, 1988). Mentre queste ultime presentano variazioni modeste dei parametri ambientali, di ordine soprattutto stagionale, le acque costiere laminari, per loro natura, manifestano ampie variazioni dei parametri chimico-fisici, quali la salinità, la temperatura, la penetrazione della luce, il contenuto di ossigeno disciolto e la presenza di nutrienti, sia di ordine stagionale che nictemerale. Data la bassa profondità, l’intera colonna d’acqua tende a riscaldarsi per irraggiamento, ma può altrettanto rapidamente disperdere il calore durante la notte. L’evaporazione, molto accentuata durante l’estate, provoca innalzamenti della salinità rispetto al mare, mentre le precipitazioni autunnali provocano l’effetto opposto (McLusky e Elliott, 2007).

Le variazioni termiche e aline determinano a loro volta variazioni importanti dell’ossigeno disciolto (DO). L’incremento della temperatura e della salinità riducono la solubilità dell’ossigeno in acqua.

La quantità di DO nell'acqua è regolata dalle interazioni dei processi fisici, chimici e biologici.

L’attività fotosintetica della vegetazione sommersa o sospesa aumenta la concentrazione di DO, talvolta superando il valore di saturazione, mentre l’attività respiratoria ossigenica degli organismi vegetali e animali, sottrae ossigeno alle acque e, quando cessa l’attività fotosintetica, può produrre una flessione del DO a valori di ipossia.

La disponibilità di ossigeno disciolto è ridotta inoltre dal materiale organico (foglie, alghe, ecc.) che, a causa del ridotto ricambio d’acqua, si deposita nel bacino aumentando così il quantitativo di particolato organico sospeso e di materia organica nel sedimento. Il particolato sospeso costituisce uno schermo

(9)

alle radiazioni luminose lungo la colonna d’acqua, riducendo l’attività fotosintetica, e assorbe calore, contribuendo al riscaldamento del corpo idrico. Anche la materia organica depositata nei sedimenti riduce DO per i medesimi processi e, quando è particolarmente abbondante, coinvolge nei processi anossigenici l’intera colonna d’acqua.

In mare il pH varia da 8 a 8.3 in seguito all’azione di una serie di effetti tampone, tra i quali gli equilibri chimici del bicarbonato sono i più importanti (I). In ambienti laminari, a causa della ridotta massa d’acqua disponibile, dell’influenza alle interfacce area continentale/colonna d’acqua e sedimento/colonna d’acqua, anche le oscillazioni di pH possono essere più ampie, in casi estremi da un minimo di 6 a un massimo di 10. L’attività fotosintetica, ad esempio, sottraendo CO2 alle acque, modifica gli equilibri tra le specie chimiche disciolte e tende perciò a ridurre il pool dei bicarbonati e, di conseguenza, ad innalzare il pH, producendo 2 moli di ione ossidrile per ogni mole di CO2 sottratta (II).

(I) CO2 + H2O ↔↔↔↔ H2CO3↔↔↔↔ H + + HCO3 - ↔↔ 2H+ + CO3

(II) ← CO2 + H2O + 2OH- ← H2CO3 + 2OH- ← H2O + OH- + HCO3 -← 2H2O+ CO3- -

L’elevata concentrazione di nutrienti, quali azoto (N) e fosforo (P), negli ambienti laminari è in gran parte dovuta al ridotto idrodinamismo. I nutrienti, provenienti dalla mineralizzazione delle masse organiche e quelli che provengono da sorgenti esterne (apporti fluviali e meteorici, deiezioni dell’avifauna, apporti antropici, scambi aria/acqua, ecc.), rimangono per lo più all’interno del bacino, che funziona da “trappola di nutrienti”, e si

(10)

accumulano nelle varie componenti vegetali, che ne costituiscono un polmone (Ryther et al., 1981) e che poi restituiscono attraverso la loro decomposizione (Hanisak, 1993).

Nella fase di degradazione, i processi di mineralizzazione ossigenici e anossigenici che decompongono le masse organiche accumulate sul fondo determinano una diminuzione del potenziale redox (Eh) delle acque, che in casi estremi può diventare negativo. Nei sedimenti il potenziale redox diviene più negativo poiché l’ossigeno presente si esaurisce rapidamente.

I processi batterici demolitori della materia organica del sedimento avvengono inizialmente per via ossigenica, procedendo fino alla produzione di anidride carbonica, acqua e sali minerali (Stanier et al., 1988).

Successivamente, quando lo strato sedimentario va in anossia, tali processi continuano per via anossigenica. Inizialmente intervengono i batteri che utilizzano lo ione nitrato quale ossidante; in seguito, quando il nitrato è esaurito e persistono ancora masse organiche da degradare, subentrano batteri che utilizzano altri agenti ossidanti, ad esempio ferro (Fe+3), manganese (Mn+4), solfato (SO4-2) (Fenchel e Blackburn, 1979; Canavan et al., 2006). Nei sedimenti anossici delle lagune costiere, la solfato-riduzione è risultata la via dominante di decomposizione della materia organica (Howarth, 1984). Quando si innesca un’intensa attività solfato-riducente si può raggiungere il fenomeno distrofico, con produzione di idrogeno solforato (H2S), composto gassoso molto tossico. L’idrogeno solforato prodotto può essere rimosso per precipitazione con ioni metallici, ad esempio il ferro ferroso (Fe+2) (Jørgensen, 1977). Quando le quantità liberate sono più cospicue, superando la disponibilità del ferro reattivo, H2S viene rilasciato dal sedimento e raggiunge la colonna d’acqua (Giordani et al., 1996). L’idrogeno solforato, nel suo percorso lungo la colonna d’acqua, può subire un’ossidazione chimica a zolfo elementare. È questa la genesi delle acque bianche (Valiela, 1984),

(11)

chiamate dai pescatori delle lagune “solfaie” (per i francesi “malaȉgue”). L’idrogeno solforato può essere anche utilizzato direttamente da batteri fotosintetici anaerobi, come Chromatium, causando uno sviluppo di “acque rosse” (Caumette, 1986).

1.1.3. Aspetti biologici degli ambienti lagunari

L’elevata variabilità spazio-temporale dei parametri chimico-fisici, cui sono soggetti gli ambienti lagunari, li rende fortemente selettivi e solo poche specie sono in grado di stabilirsi in essi. Queste specie hanno un’alta valenza ecologica, sono caratterizzate da un ampio margine di risposta alle alterazioni ambientali (Petit, 1953, 1962; Sacchi, 1973) e sono definite euriecie. La loro capacità di adattamento è dovuta alla presenza di meccanismi biochimici e fisiologici vantaggiosi e a polimorfismi a base genetica (Battaglia e Fava, 1988), che, per la transitorietà di questi ambienti e la loro relativa recente formazione presentano, tuttavia, una scarsa tendenza alla speciazione (D’Ancona e Battaglia, 1962).

Gli ambienti lagunari sono quindi caratterizzati da una diversità biologica nettamente minore di quella che si riscontra in mare aperto. Tuttavia, le poche specie presenti riescono a svilupparsi a densità talvolta considerevoli, in virtù della grande disponibilità trofica e della ridotta competizione.

I popolamenti lagunari, poveri in specie e ricchi in individui, sono stati per lungo tempo considerati il risultato della selezione operata dalla salinità sui popolamenti che penetravano nel bacino dal mare antistante o dalle acque dolci continentali e sono stati definiti “eurialini”. Al popolamento che ne risultava non veniva in genere attribuita alcuna originalità cenotica, in quanto era considerato una condizione residuale di popolamenti prevalentemente

(12)

marini sottoposti a uno stress ambientale sempre più intenso (Carrada e Fresi, 1988).

Pérès e Picard (1964) hanno attribuito dignità di biocenosi ai popolamenti lagunari, definendo la Biocenosi Lagunare Eurialina e Euriterma (LEE). La biocenosi LEE rappresenta il termine ultimo di una serie di biocenosi infralitorali di substrato mobile, che partendo da intenso idrodinamismo ed alto ricambio, giunge a condizioni di una loro forte riduzione. Questo popolamento resta sostanzialmente lo stesso, sia quando l’acqua è costantemente meno salata del mare vicino (ipoalina), sia quando è uguale al mare (eualina), sia quando è costantemente più salata (iperalina), sia quando presenti delle variazioni di salinità molto importanti durante l’anno, che la fanno oscillare tra le tre condizioni sopra descritte.

Pur manifestando differenze tra le varie zone lagunari, la biocenosi LEE può quindi essere considerata come un’entità omogenea che conserva la sua individualità rispetto alle comunità di ambienti costieri non confinati (Amanieu et al., 1981).

La biocenosi LEE presenta una notevole capacità di recupero in seguito ad eventi distruttivi, da cui si può desumere che l’ecosistema lagunare deve considerarsi stabile, proprio perché questa “resilienza” è uno degli attributi della stabilità (Elliott e Quintino, 2007). La resilienza è la capacità del sistema di ritornare allo stato originario dopo una perturbazione, come una crisi distrofica (Carrada e Fresi, 1988; Izzo e Hull, 1991). I meccanismi coinvolti nella resilienza sono da ricercarsi soprattutto negli adattamenti fisio-etologici delle diverse specie.

Nonostante le differenze nei fattori morfologici, geologici e idrologici, peculiari di ciascun bacino, gli ambienti salmastri (le acque di transizione) sono caratterizzati da strutture e dinamiche biologiche simili, tanto da poter essere compresi in un sistema denominato da Guelorget e Perthuisot (1983)

(13)

“dominio paralico”. Pur essendo collocato al confine tra dominio marino e dominio continentale, esso rappresenta un’entità ecologica a sé stante, dotata di organizzazione autonoma. I popolamenti non sono quindi residuali (insiemi di specie marine o d’acqua dolce tolleranti ampie variazioni di salinità), ma sono caratterizzati da popolamenti esclusivi. Tali popolamenti sono organizzati zonalmente in modo relativamente stabile ed indipendente dalla salinità. Il parametro che sembra guidare la distribuzione degli organismi viene chiamato “confinamento” e corrisponde al tempo di rinnovo degli elementi biogeni di origine marina in un determinato punto del bacino (Carrada e Fresi, 1988; Guelorget e Perthuisot, 1992). Il grado di confinamento dipende dal tempo che occorre alle acque marine per rinnovare una data massa di acque interne al bacino. Il confinamento, dunque, è una nozione essenzialmente idrodinamica.

La salinità non può essere considerata, come lo era in passato, il fattore ecologico predominante sugli ambienti paralici, poiché essa stessa è funzione del confinamento.

Procedendo dalle bocche di comunicazione con il mare verso le aree più interne, vengono distinte 6 zone caratteristiche. Queste vanno dalla zona I, quasi una continuazione del dominio marino, con biocenosi delle Sabbie Fini Ben Calibrate (SFBC) (Pérès e Picard, 1964), a zone a carattere sempre più lagunare, in cui man mano si riducono le specie marine meno tolleranti (zone II, III) e rimangono le specie tipiche del dominio paralico (zona IV), per arrivare alle aree eutrofiche più interne, con maggiori accumuli di materia organica nel sedimento (zona V) e terminare con il paralico lontano, dulciacquicolo o evaporitico, in rapporto alla presenza o meno di corsi di acque superficiali (zone VI), dove le condizioni sono ancor più selettive. La biomassa vegetale aumenta regolarmente dalle bocche a mare fino alla zona V, dove ha il suo massimo valore, per poi decrescere.

(14)

Anche la biomassa della macrofauna bentonica mostra un andamento simile: il massimo valore si trova nella zona III.

La zonazione, tuttavia, deve essere intesa come una caratteristica di natura essenzialmente pratica, poiché i limiti tra le varie zone non sono netti: si deve immaginare l’esistenza di caratteri di transizione; inoltre non è detto che la tipica zonazione sia tutta rappresentata o addirittura sia evidente (Boudouresque e Fresi, 1976).

La teoria del dominio paralico, sebbene molto interessante, si limita a considerare il solo rapporto dell’ecosistema lagunare con il mare, trascurando gli ambienti terrestre e dulciacquicolo con i quali esso si interfaccia ampiamente.

1.1.4. Vegetazione sommersa

La vegetazione delle acque lagunari presenta una distribuzione differenziata tra la parte prossima al mare e quella più interna. Allontanandosi dalle zone in comunicazione con il mare, la vegetazione sommersa si semplifica, poiché oltre a mutare la tipologia dei sedimenti, che da prevalentemente sabbiosi diventano limosi, si modificano anche le caratteristiche chimico-fisiche delle acque, rendendo questi ambienti particolarmente selettivi, in accordo con quanto stabilito dalla teoria del confinamento.

Nei fondali lagunari possono essere presenti le fanerogame marine. I principali fattori che regolano la presenza e lo schema di distribuzione delle fanerogame marine sui fondali delle lagune costiere sono: la distribuzione granulometrica dei sedimenti, il tasso di sedimentazione, la torbidità del battente idrico, l’andamento termico, l’idrodinamismo locale e il conseguente ricambio delle acque, l’eutrofizzazione (Orth et al., 2006). Quest’ultima

(15)

incide sulla produzione del detrito organico, sullo sviluppo di epifite e macroalghe opportuniste, rilascio di cataboliti tossici, ecc. (Raffaelli et al., 1998). Le fanerogame che possono riscontrarsi nelle lagune mediterranee sono: Cymodocea nodosa (Ucria) Ascherson, Zostera noltii Hornemann, Ruppia cirrhosa (Petagna) Grande, Zostera marina L.

Cymodocea nodosa è dotata di un robusto e fitto apparato radicale, si rinviene nelle aree in prossimità del mare o che risentono di un sufficiente influsso di acque marine, anche freatico, dove la componente sabbiosa del sedimento è predominante, e le condizioni di idrodinamismo medio ed elevato impediscono accumuli di detrito organico sedimentario. C. nodosa è una specie euriecia che tollera ampie variazioni della salinità, dell’ossigeno disciolto e della temperatura (Den Hartog, l970), della tessitura sedimentaria (Pérès e Picard, 1964) e della ricchezza nutrizionale del substrato (Orth, 1977), anche se sono stati riscontrati effetti di limitazione alla crescita per variazioni di temperatura, irraggiamento e quantità di nutrienti (Duarte, 1990). Zostera noltii predilige aree più interne e confinate, con acque lente, con accumuli organici nei sedimenti superficiali.

Negli ambienti più tipicamente lagunari (zona IV del modello del confinamento del dominio paralico), con scarso ricambio idrico e spesso con forti escursioni di salinità tra l’estate arida e l’inverno piovoso, si osservano popolamenti di Ruppia (Verhoeven, 1979). Questi, pur essendo tendenzialmente monospecifici, costituiti da Ruppia cirrhosa, frequentemente ospitano macroalghe appartenenti per lo più ai generi Ulva e Chaetomorpha, formando così un’associazione denominata Chaetomorpho-Ruppietum cirrhosae (incl. spiralis, drepanensis) Brullo et Furnari 1976 (Verhoeven, 1980).

Un’altra fanerogama particolarmente diffusa nelle zone lagunari adriatiche è Zostera marina. Questa specie, nelle lagune di Venezia e Grado-Marano,

(16)

partecipa a costituire estesi letti vegetali che si estendono da posizioni vivificate ad altre a medio confinamento (Curiel et al., 1995; Falace et al. 2009).

Le fanerogame marine creano microhabitat particolari che, fornendo cibo e riparo, favoriscono l’insediarsi di numerosi organismi. Le praterie sommerse fungono da nursery per gli stadi giovanili di molte specie ittiche, trovando le condizioni più favorevoli per lo svolgimento delle fasi cruciali del loro ciclo biologico (Heck et al., 2003).

In generale, le fanerogame sono considerate indicatrici di una buona qualità del bacino lagunare (Sfriso et al., 2007). Esse, infatti, sono particolarmente sensibili agli eccessi eutrofici. In particolar modo soffrono le conseguenze degli sviluppi microfitici che riducono la trasparenza dell’acqua, e degli sviluppi macroalgali pleustofitici ed epifitici (Raffaelli et al., 1998; Duarte, 1995). I primi accumulano masse macroalgali nelle praterie, soffocandole, quelli epifitici ne ricoprono le fronde, riducendo la fotosintesi e facilitando lo sviluppo di batteri.

Quando nell’ecosistema lagunare si verificano condizioni distrofiche di durata stagionale, le variazioni dei popolamenti vegetali sono limitate e si assiste a un ripristino delle condizioni tipiche in tempi relativamente brevi, poiché le fanerogame degli ambienti lagunari hanno tempi di crescita e di copertura del substrato abbastanza veloci. Quando le conseguenze dei bloom algali si producono con elevata frequenza, la vegetazione sommersa allora si modifica sostanzialmente, con penalizzazione delle fanerogame (Duarte, 1995).

Alcuni generi di Chlorophyceae, quali Ulva, Cladophora e Chaetomorpha, e di Rhodophyceae come Gracilaria, Gracilariopsis e Spyridia, caratterizzati da elevati tassi di crescita e capaci di crescere in ambienti eutrofico-ipertrofico, rapidamente sostituiscono le popolazioni naturali di macroalghe e

(17)

fanerogame, determinando forti alterazioni ambientali (Valiela et al., 1997; Raffaelli et al., 1998).

Questo tipo di vegetazione è definita opportunista poiché caratterizzata da elevati tassi di accrescimento e un breve ciclo vitale.

(18)

1.2. Eutrofizzazione

1.2.1. Il fenomeno dell’eutrofizzazione e le sue conseguenze

Negli ultimi trent’anni, le aree costiere sono state soggette a fenomeni di crescente eutrofizzazione (Hauxwell and Valiela, 2004), le cui conseguenze, nelle lagune, sono state accentuate dalla conformazione geomorfologica e dallo scarso idrodinamismo dei bacini.

L’eutrofizzazione, secondo una delle prime definizioni coniata negli anni ’70 ad opera dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), “è un arricchimento delle acque di sali nutritivi che provoca cambiamenti tipici quali l’incremento della produzione di alghe e piante acquatiche, l’impoverimento delle risorse ittiche, la generale degradazione della qualità dell’acqua ed altri effetti che ne riducono e precludono l’uso”. Una definizione più adeguata, in quanto pone in evidenza il processo indipendentemente dalla sue cause e conseguenze è quella proposta da Nixon (1995): “l’eutrofizzazione è un aumento del tasso di fornitura della sostanza organica ad un ecosistema”. Il limite di questa formulazione, però, è la mancanza di un concetto di soglia intesa come limite di ricettività dell’ecosistema. Questa definizione può essere riformulata come segue: “l’eutrofizzazione è un fenomeno di instabilità ecologica causata da un eccesso nel tasso di fornitura di sostanza organica ad un ecosistema”, nella quale sono implicitamente introdotti i concetti di perturbazione e di soglia (Izzo et al., 1998).

L’aumento del carico dei nutrienti può avere origine naturale, ma molto più di frequente è imputabile ad attività antropiche (ad esempio: immissione di reflui urbani, scarichi di attività produttive).

(19)

L’eccesso di nutrienti, in particolare azoto e fosforo, induce un considerevole incremento della produzione primaria, con dominanze delle componenti opportuniste macro- e microalgali.

Grandi produzioni di biomassa vegetale determinano ampie escursioni del DO e del pH delle acque: l’elevata attività fotosintetica ne innalza i valori durante il giorno, mentre il dominare della respirazione nel corso della notte li abbassa.

L’incremento della produzione primaria è seguito da un aumento della biomassa dei consumatori (che non sono comunque mai in grado di controllarne lo sviluppo) e dei saprofiti, che contribuiscono in maniera forte alla respirazione abbattendo ulteriormente DO e pH, soprattutto nel corso della notte.

Gli strati superiori della vegetazione in crescita schermano le radiazioni luminose, che non possono penetrare negli strati sottostanti (self-shading) (Peckol e Rivers, 1996), mentre l’aumento del particolato organico sospeso, determina un’ulteriore diminuzione della trasparenza. Intorno ai talli macroalgali sofferenti si sviluppano specie microfitiche, soprattutto batteri e dinoflagellati, la cui presenza contribuisce ulteriormente ad aumentare l’attività respiratoria. La vegetazione prossima al fondo incomincia a morire, nell’impossibilità di effettuare fotosintesi e attaccata dai microrganismi e ne comincia la decomposizione. La materia organica si stratifica sul fondo, insieme alle spoglie dei consumatori e saprofiti che hanno concluso il ciclo biologico o che le condizioni ambientali conducono a morte (Raffaelli et al., 1998). La fotosintesi si riduce e il bilancio tra produzione e consumo di ossigeno, nell’arco nictemerale, diventa negativo. A ridurre il DO contribuisce fortemente la degradazione batterica del detrito accumulato sul fondo. Il fenomeno è annunciato dal rilevamento di condizioni di ipossia in

(20)

fase notturna, che si estende in seguito alla fase diurna, quando la fotosintesi non riesce più a contrastare i consumi respiratori.

La degradazione della sostanza organica continua a questo punto per via anossigenica. In un primo momento intervengono gruppi batterici che utilizzano lo ione nitrato come accettore di elettroni riducendolo ad azoto molecolare (denitrificazione). Altri batteri possono utilizzare il nitrato trasformandolo in ammoniaca (respirazione del nitrato). Quando il pool del nitrato è esaurito, subentrano altri batteri che utilizzano nuovi agenti ossidanti: prima il ferro, poi il manganese. Quando il ferro e il manganese disponibili sono stati ridotti, la decomposizione della materia organica avviene utilizzando lo ione solfato come ossidante, attraverso l’azione dei batteri solfato-riducenti (Stanier et al., 1988). La riduzione del solfato porta alla formazione di idrogeno solforato (H2S).

Questo composto tossico può essere rimosso attraverso meccanismi tampone, quali ad esempio le reazioni con il ferro (Heijs e van Gemerden, 2000; De Wit et al., 2001; Rozan et al., 2002). Il ferro ferrico (Fe3+) agisce direttamente sull’idrogeno solforato ossidandolo a zolfo elementare (III), e il ferro ferroso (Fe2+) blocca l’acido in un sale insolubile, il solfuro ferroso o monosofuro di ferro (FeS) (Fenchel e Jorgensen, 1977), sostanza che conferisce la tipica colorazione nera dei fanghi anossici (IV).

(III) 2Fe3+ + H2S↑ = 2Fe2+ + 2H+ + S↓

(IV) Fe2+ + H2S↑ = 2H +

+ FeS

Il solfuro ferroso può ulteriormente reagire con lo zolfo e formare pirite (FeS2) (Berner, 1984), composto ancor più insolubile (V).

(21)

(V) FeS + S = FeS2

Quando la quantità degli ioni ferrico e ferroso non è più sufficiente a tamponare l’idrogeno solforato, quest’ultimo viene rilasciato dal sedimento alla colonna d’acqua (Giordani et al., 1996).

Quando le condizioni anossiche arrivano a coinvolgere l’intera colonna d’acqua, il sistema è ormai giunto al collasso e avvengono morie diffuse. Questo fenomeno, definito distrofico, in quanto preceduto da una totale sottrazione dei nutrienti da parte dei produttori primari, che producono paradossalmente condizioni oligotrofiche delle acque, avviene soprattutto in estate, quando sussistono particolari condizioni meteoclimatiche, i cui effetti sono accentuati dal ridotto idrodinamismo dei bacini.

La crisi distrofica, per quanto disastrosa negli effetti che produce sulla fauna e sulla flora, è un processo dissipatorio, un meccanismo di recupero dell’ecosistema, che è giunto ad una situazione insostenibile dal punto di vista energetico. L’ecosistema si libera dell’eccesso di energia che si è accumulata (Lenzi et al., 2011, 2012).

Un ecosistema in piena crisi distrofica è totalmente dominato da poche specie di batteri, in quanto le condizioni ambientali sono proibitive per la vita di altri organismi e viene a crearsi un habitat estremo e transitorio denominato sulfuretum (Stanier et al., 1988).

Quando tutta la vegetazione è ormai morta e decaduta sul fondo, e le acque, libere dagli ammassi vegetali, ricominciano a circolare per azione del vento, si tende a tornare a condizioni di ipossia, processo facilitato da un abbassamento della temperatura in fase notturna, al termine dell’estate. L’ossigeno torna ad aumentare nella colonna d’acqua e si sviluppano nuovamente i batteri ossigenici.

(22)

Allo sviluppo batterico ossigenico può affiancarsi di nuovo quello di dinoflagellati, che possono produrre ossigeno mediante fotosintesi. Alcuni di questi organismi sviluppano tossine che possono causare intossicazioni più o meno serie (Ade et al., 2003).

Con i bloom dei dinoflagellati, il DO subisce nuovamente ampie escursioni: soprassaturazione diurna, per attività fotosintetica, e ipossia notturna, per intensa attività respiratoria.

La situazione può mutare in seguito ad un evento meteorico, quale un abbassamento termico o un’abbondante pioggia. Allora può subentrare lo sviluppo di altri organismi, come le diatomee. Infine, tutto quanto è sospeso in colonna d’acqua si deposita sul fondo e le acque tornano trasparenti. In seguito può riprendere la crescita macrofitica, condizioni climatiche e nutrizionali permettendo.

1.2.2. Bloom macroalgali

Gli sviluppi delle macroalghe opportuniste con banchi molto estesi e densi, costituiscono una facies della biocenosi LEE, che è la risposta alle condizioni di eutrofizzazione che si vengono a determinare nell’ambiente lagunare (Pérès e Picard, 1964); condizioni che possono essere di origine naturale, ma, molto più spesso, di origine antropica. La maggior parte delle aree costiere infatti è sede di innumerevoli attività umane e riceve perciò varie tipologie di reflui: scarichi di origine industriale (idrocarburi, tensioattivi, metalli pesanti), agricola (pesticidi, fertilizzanti), domestica (fosfati, ammoniaca), nonché reflui della depurazione civile e delle attività di acquicoltura. Questi costituiscono un disturbo chimico e il surplus di nutrienti favorisce lo sviluppo delle macroalghe e/o delle microalghe, in accordo al grado di

(23)

eutrofizzazione, alla qualità dei nutrienti e alla profondità del bacino (Duarte, 1995). In molte aree lagunari e in aree marino-costiere a ridotto idrodinamismo, negli ultimi trent’anni, si sono frequentemente prodotte proliferazioni abnormi delle macroalghe, in particolare cloroficee appartenenti ai generi Ulva, Chaetomorpha e Cladophora, e rodoficee dei generi Gracilaria, Gracilariopsis, Spyridia. Questi taxa sono ampiamente riconosciuti tra i più resistenti agli stress, ma a differenza delle piante terrestri stress-tolleranti descritte da Grime, sono capaci di crescita rapida e grosso sforzo riproduttivo, coincidendo con le specie 'opportuniste o ruderali' (sensu Grime, 1979), “ r-strateghe” (sensu Pianka) (Littler e Littler 1980).

Le forme opportuniste presentano un’organizzazione del tallo relativamente semplice (indifferenziato), con un alto rapporto area superficie/volume (SA/V) (Littler e Littler, 1980) che incrementa la capacità fotosintetica e l’assorbimento dei nutrienti (Rosenberg e Ramus, 1984).

L’elevato rapporto Vmax/Kmax (Vmax=tasso di cattura max; Kmax=costante di

saturazione dei nutrienti) che caratterizza tutte le alghe opportuniste, conferisce loro un notevole vantaggio nella competizione per la cattura dei nutrienti (Wallentinus, 1984), non solo nei confronti delle altre macroalghe e delle fanerogame, ma anche nella competizione con il fitoplancton. Studi condotti in mesocosmi dimostrano che Ulva si sviluppa come specie esclusiva a discapito del fitoplancton (Smith e Horne, 1988), mentre Cladophora esclude totalmente il fitoplancton dalla competizione per i nutrienti nelle baie danesi (Thybo-Christensen et al., 1993). Questo è il motivo principale per cui il fenomeno dell’eutrofizzazione spesso si risolve in bloom di macroalghe, piuttosto che indirizzarsi verso il fitoplancton.

Eccessive proliferazioni macroalgali, spesso denominate “maree verdi”, sono state segnalate in molte aree costiere di tutto il mondo (Fletcher, 1996; Morand e Briand, 1996; Hiraoka et al., 2004; Morand e Merceron, 2005;

(24)

Merceron et al., 2007) e attualmente se ne osserva un incremento a livello globale, sia in intensità sia in frequenza. Morand e Briand (1996) individuano 37 nazioni interessate da tale fenomeno, ma negli ultimi anni il numero è aumentato sostanzialmente. La “marea verde” più estesa mai segnalata prima si è verificata nel 2008 nelle coste del Mar Giallo, nella zona orientale di Qingdao, ad opera principalmente di Ulva prolifera (Liu et. al, 2013) Immagini satellitari hanno rilevato che la straordinaria fioritura algale interessava una superficie di circa 6.550 km2 (Ye et al., 2011).

Il continente europeo è particolarmente colpito da bloom algali, soprattutto l’Adriatico settentrionale, le coste della Bretagna e il Mar Baltico.

Lo sviluppo di masse algali probabilmente non è il semplice risultato di un aumento di nutrienti, ma deve essere attribuito a complesse interazioni fra diversi fattori (Schramm, 1999), quali luce, temperatura, idrodinamismo, ecc. Nelle lagune eutrofiche il fenomeno di proliferazione algale, nel periodo primaverile-estivo, può essere notevolmente marcato. La conformazione geomorfologica e idrologica delle lagune, infatti, facilita l’accumulo di sali nutritivi, consente un rapido riscaldamento dell’acqua e una significativa penetrazione della luce sul fondo. Possono così formarsi densi banchi algali che, talvolta, in ambienti poco profondi (1-1,5 m) possono occupare l’intera colonna d’acqua (Bombelli e Lenzi, 1996; Pavoni et al., 1999).

In un primo momento le macroalghe opportuniste e tolleranti svolgono un importante ruolo di purificazione dell’ambiente, riducendo il carico dei nutrienti e assorbendo alcune tossine (Brault, 1983). Le proliferazioni algali, in base alla quantità sviluppatasi e al tipo di specie, assumono quindi carattere di indicatori della qualità ambientale, non solo relativamente allo stato trofico, ma anche in rapporto al tipo di inquinanti presenti. Ulva, ad esempio, oltre a rappresentare un indicatore delle condizioni di eutrofizzazione, è in grado di

(25)

assorbire ioni metallici dall’acqua e può essere utilizzata per valutare il livello di questo tipo di inquinanti (Malea e Haritonidis, 2000).

Un ulteriore effetto positivo dello sviluppo di biomassa algale è quello di fornire una supplementare fonte di cibo e favorire così lo sviluppo degli erbivori, influenzando i successivi livelli della catena trofica, fino ad un incremento della produttività ittica. Lenanton et al. (1985) hanno osservato un aumento delle catture di pesce in seguito a un aumento della biomassa di Cladophora e Chaetomorpha. Le masse algali incrementano la complessità dell’habitat e forniscono rifugio dai predatori a piccoli pesci, crostacei e molluschi gasteropodi. All’interno dei banchi di Gracilaria sono state registrate densità molto elevate di questi piccoli animali (Virnstein e Carbonara, 1985).

L’aumento degli ammassi algali può portare invece alla diminuzione di alcune specie di uccelli, a causa della loro incapacità di catturare le prede attraverso la fitta coltre di alghe (Tubbs e Tubbs, 1983).

La proliferazione di alghe opportuniste ha effetti negativi sulle altre specie vegetali. La competizione per il substrato e l’effetto schermo alle radiazioni luminose esercitato dai banchi algali impediscono lo sviluppo di altre specie meno tolleranti e pertanto riducono la diversità fito-benthonica (Lobban et al., 1985). La riduzione nella penetrazione della luce causata da estesi e persistenti tappeti macroalgali è una importante causa che determina la scomparsa delle fanerogame marine (Hauxwell et al., 2001). Nella Laguna di Venezia, l’aumento della biomassa di Ulva rigida ha provocato la regressione delle praterie di Cymodocea nodosa e Zostera noltii (Sfriso, 1987); nella Laguna di Orbetello, le praterie di C. nodosa, Z. noltii e Ruppia cirrhosa iniziarono a regredire nel 1976, per sparire quasi completamente nei primi anni ’90, in favore delle specie opportuniste Chaetomorpha linum,

(26)

Cladophora vagabunda e Gracilaria verrucosa (Bombelli e Lenzi, 1995, 1996).

La scomparsa delle fanerogame marine è accompagnata dalla perdita di invertebrati e pesci ad esse associate, con conseguente riduzione della biodiversità. Vengono inoltre a mancare importanti aree di nursery per gli stadi giovanili dei pesci, con conseguente impoverimento degli stock ittici. Con l’incremento della biomassa algale si viene a determinare una stratificazione dei parametri fisico-chimici e dei nutrienti lungo la colonna d’acqua (Krause-Jensen et al., 1996; McGlathery et al., 1997). Le alghe degli strati superiori creano una pronunciata ombreggiatura sulle alghe che si trovano in prossimità del fondo, riducendo così la disponibilità della luce (Gordon e McComb, 1989; Lavery et al. 1991) a discapito dell’attività fotosintetica. L’attenuazione della luce è ulteriormente accentuata dall’elevata quantità di particolato sospeso e dalle eventuali fioriture microfitiche, quando le masse macroalgali degenerano nella stagione calda.

Il tasso di fotosintesi, tuttavia, può essere limitato negli strati superiori da un’eccessiva intensità luminosa. Levavasseur (1986) ha dimostrato che lunghi periodi di luce forte causano il danneggiamento delle molecole di clorofilla in Ulva.

Una ridotta attività fotosintetica negli strati inferiori comporta una riduzione dell’assorbimento dei nutrienti bentonici, che possono così risalire nella colonna d’acqua agli strati sovrastanti. In condizioni di intensa crescita nel sovrastrato della massa vegetale e di modesto afflusso di nutrienti bentonici, si ha un forte consumo dei nutrienti nella colonna d’acqua superficiale, con limitazione della crescita microfitica e conseguente limpidezza delle acque (McGlathery et al., 1997).

La biomassa prossima al fondo, in seguito a prolungate condizioni di scarsa illuminazione, incomincia a morire e a decomporsi, divenendo così una fonte

(27)

di nutrienti (Sfriso et al., 1987; Hanisak, 1993), contribuendo al bilancio complessivo degli input di sostanze nutrienti. Studi condotti nella Laguna di Venezia, hanno dimostrato che il rilascio di nutrienti che segue la decomposizione delle macroalghe, rappresentava circa il 60% di N e il 50% di P che erano necessari a sostenere una produzione annuale netta di oltre un milione e mezzo di tonnellate in peso umido di massa algale (Sfriso et al., 1993). Risultati simili sono stati ottenuti da Thybo-Christensen et al. (1993) per il genere Cladophora, la cui produzione è risultata essere sostenuta per il 65% da processi di riciclizzazione dello stesso materiale algale. In un bilancio dei flussi di nutrienti della laguna di Orbetello, Lenzi et al. (2003) stabilirono che le potenzialità nutrizionali dei sedimenti erano tali da sostenere gli enormi bloom della vegetazione macroalgale anche in assenza di apporti nutrizionali esterni.

L’accumulo di materiale organico sul fondale va ad alterare anche la natura del sedimento, trasformando i sedimenti sabbiosi in fanghi organici finissimi, con conseguente impatto sulle comunità dell’infauna. Durante la decomposizione della biomassa algale possono essere rilasciate tossine con importanti conseguenze per la fauna, ma anche per la salute umana. Per esempio, sono stati dimostrati il rilascio di dimetil-solfuro durante il degrado di bloom di Ulva spp. (BassBecking e MacKay, 1956) e il rilascio di acidi grassi volatili nelle decomposizione dei bloom di Ulva pertusa (Fusetani et al., 1976).

La decomposizione delle alghe determina un impoverimento dell’ossigeno disciolto negli strati inferiori, a causa del suo utilizzo da parte degli organismi decompositori. Condizioni riducenti nel sedimento superficiale influenzano i cicli biogeochimici, determinando rilasci di ortofosfati (HPO4-, HPO42-, PO43-) e ammonio (NH3, NH4+) (Lavery e McComb, 1991) e solfuri acido volatili (H2S, HS-, S2-) (Balzer, 1984). La carenza di ossigeno diviene sempre più

(28)

drastica fino all’instaurarsi di condizioni anossiche e produzioni di composti tossici (H2S), provocando la morte degli organismi bentonici. Queste condizioni possono favorire uno sviluppo di Chironomidi. Le larve dei Chironomidi tollerano le condizioni anossiche, inclusi, entro certi limiti, i rilasci di idrogeno solforato, e sono inoltre favorite dalla scomparsa dei predatori, quali crostacei e pesci (Ceretti et al., 1985). Le loro enormi sciamature hanno ripercussioni negative sul turismo.

La decomposizione delle biomasse algali crea anche problemi di inquinamento dell’aria, perché la fermentazione dei polisaccaridi solforati delle alghe libera nell’atmosfera idrogeno solforato e derivati solforati, che sono componenti aggressive per monumenti in marmo e materiali ferrosi. Il cattivo odore che si sprigiona dalle masse algali costituisce un problema per le popolazioni locali soprattutto per il danno che produce alle attività turistiche (Morand e Briand, 1996; Valiela et al., 1997; Hauxwell et al., 1998).

Pertanto, gli sviluppi di masse macroalgali oltre ad avere un forte impatto ecologico sono anche deleteri per l’economia locale.

Le conseguenze delle proliferazioni vegetali in alcuni casi sono state contrastate dalla raccolta della biomassa (Lenzi, 1992; King e Hodgson, 1995; Runca et al., 1996; Lavery et al., 1999; De Leo et al., 2002). Una sistematica raccolta delle alghe risulta particolarmente onerosa per la collettività e spesso come unico criterio gestionale è insufficiente, a meno di un intervento massivo, per il quale si devono affrontare problemi logistici, di smaltimento e normativi.

(29)

1.2.3. Possibili soluzioni di risanamento degli ecosistemi lagunari e gestione dell’eutrofizzazione

L’eutrofizzazione, oltre a determinare rilevanti effetti sulla componente biotica, quali cambiamenti nella composizione qualitativa e quantitativa, riduzione della diversità specifica e possibili morie diffuse, comporta danni alle attività economiche (turismo, pesca, acquacoltura) (Morand e Briand, 1996).

È necessario, quindi, al fine di preservare gli ecosistemi di transizione, la cui estensione è stata fortemente ridotta dopo le opere di bonifica della prima metà del ‘900, intervenire attraverso opere di risanamento e adottare opportune politiche di gestione ambientale.

Il risanamento degli ambienti lagunari a finalità conservativa è un concetto piuttosto recente. In passato questi ambienti, considerati malsani e improduttivi, sono stati protagonisti di bonifiche indiscriminate, che consistevano essenzialmente nella loro colmazione. Attualmente, grazie anche al superamento dei gravi problemi sanitari a cui si trovavano legati (malaria), e al riconoscimento del loro valore ecologico, appaiono invece come luoghi di inestimabile valore, da proteggere e preservare.

Sono proponibili numerosi criteri di risanamento e di gestione per questi ambienti. La soluzione più logica per contrastare gli effetti dell’eutrofizzazione, è di eliminare, o quantomeno ridurre fortemente, gli apporti di nutrienti di origine antropica. Per ridurre il carico eutrofizzante è necessaria la collettazione dei reflui urbani ed il loro conferimento ai depuratori.

Gli impianti di depurazione dei reflui civili normalmente non abbattono i sali nutrienti di azoto e fosforo, a meno che non siano dotati della cosiddetta “terza fase”, normalmente non adottata dalle Amministrazioni Comunali, in

(30)

seguito all’innalzamento dei costi di gestione. Sistemi di fitodepurazione e lagunaggio possono pertanto essere impiegati come trattamento terziario dei reflui provenienti dai depuratori, prima della loro immissione in laguna o, più in generale, del corpo ricettore finale.

La fitodepurazione è un sistema naturale di trattamento delle acque reflue che sfrutta i processi di autodepurazione caratteristici delle zone umide, basati sull’azione combinata di vegetazione, microrganismi e suolo (Cirelli, 2003). Gli impianti di fitodepurazione sono generalmente ambienti umidi riprodotti artificialmente, definiti a livello internazionale con il termine “constructed wetlands”, che offrono un maggior grado di controllo rispetto agli ambienti umidi naturali. Caratteristica distintiva dei sistemi di fitodepurazione è la presenza di specie vegetali tipiche delle zone umide che, oltre a svolgere un importante ruolo nei processi di rimozione degli inquinanti presenti nei reflui, conferiscono al sistema valenze paesaggistiche, facilitando l’inserimento ambientale delle soluzioni impiantistiche (Avolio e Pineschi, 2008). Il potere depurativo dei sistemi di fitodepurazione deriva da una combinazione di processi chimici, fisici e biologici, quali sedimentazione, adsorbimento, assimilazione da parte degli organismi vegetali e attività microbica (Brix, 1993).

Esistono differenti tecniche di fitodepurazione, classificate in funzione delle forme vegetali utilizzate (Brix, 1993) e sulla base del regime di funzionamento idraulico. In sede progettuale, in base alle esigenze depurative specifiche dei singoli casi, viene selezionata la tipologia di impianto più idonea.

I sistemi di fitodepurazione sono stati sviluppati ed utilizzati a partire dagli anni ’80 soprattutto negli USA e in Europa centrale. Oggi in Europa esistono diverse migliaia di impianti di fitodepurazione in esercizio (Vymazal et al., 1998; Vismara et al., 2000), per lo più ubicati in Germania, Danimarca,

(31)

Regno Unito, Austria, Slovenia e Svizzera; solo di recente, anche in Italia, si è sviluppato un certo interesse nei confronti di questa tipologia di trattamento (Masi et al., 2000).

Il lagunaggio è un ulteriore sistema naturale di depurazione che avviene attraverso una lunga fase di permanenza dei reflui all'interno di bacini artificiali, chiamati stagni biologici, nei quali avvengono i naturali meccanismi di sedimentazione, filtrazione, assorbimento e degradazione delle sostanze inquinanti. La depurazione mediante lagunaggio è ampiamente utilizzata negli Stati Uniti, ma anche in vari paesi europei, come Francia e Germania (Masotti e Verlicchi, 2005).

In Italia queste due metodiche risultano poco diffuse (Masi, 2001), sebbene i costi di impianto e gestione siano relativamente bassi rispetto ai “tradizionali” impianti di depurazione e al trasporto, in tubazioni a pressione, dei reflui depurati fino al corpo ricettore finale.

Per contrastare l’accumulo di materia organica nei sedimenti e gestire le fasi critiche estive può essere incrementata la circolazione delle acque attraverso la realizzazione e il ripristino di canali sommersi (Lenzi, 1992). Questi sono interventi di ingegneria che, oltre ad essere dispendiosi, possono risultare fortemente impattanti per l’ambiente lagunare e per gli ambienti limitrofi. L’escavazione di canali sommersi comporta l’allontanamento di grandi masse di sedimenti per le quali deve essere trovata una giusta collocazione. I canali sommersi artificiali tendono ad accumulare argille e detrito organico e possono colmarsi in pochi anni, diventando una potenziale fonte di azoto e fosforo. Per questo essi richiedono interventi di manutenzione frequenti, con alti costi di gestione. Queste opere quindi non solo possono risultare dannose, se condotte senza adeguati studi che sappiano inserirli nello specifico contesto ambientale, ma anche effimere, producendo mitigazioni momentanee, se non adeguatamente mantenute.

(32)

Le foci lagunari dei canali di comunicazione con il mare possono essere dotate di idrovore che immettono acque marine nel bacino, assicurando un ricambio forzato delle acque lagunari (Lenzi, 1992). Il flusso idrico che si viene a formare determina un aumento della movimentazione dell’acqua all’interfaccia acqua/sedimento riducendo i ristagni (Caprioli et al., 1988). La circolazione idrica forzata delle acque lagunari determina una netta diminuzione dell’attività solfato-riduttrice nei sedimenti (Izzo et al., 1988). L’attività di pompaggio provoca una riduzione del tempo di rinnovamento degli elementi di origine marina in un dato punto lagunare, cioè del “confinamento”.

Un’altra soluzione possibile per ridurre gli effetti della eutrofizzazione è quella di incrementare i consumatori nei bassi livelli trofici della catena alimentare. I consumatori trasferiscono l’energia accumulata dalla elevata produzione primaria a livelli trofici superiori. Molti consumatori primari possono raggiungere densità elevate in seguito ad un bloom macroalgale e potenzialmente potrebbero ridurne l’intensità o accelerarne il declino. Questo potrebbe essere il caso degli invertebrati che popolano il banco algale, che raggiungono il loro picco di massima densità nella seconda metà dell’estate, dopo il picco di sviluppo macroalgale. Inoltre, alcuni anatidi che giungono in autunno potrebbero incidere sui banchi algali residui dell’estate e ridurre le masse soggette alla ripresa primaverile (Raffaelli et al, 1998). Pertanto, un incremento artificiale di consumatori potrebbe essere preso in esame per determinati ambienti non particolarmente estesi.

Un ulteriore intervento di risanamento e di gestione dell’ambiente lagunare è la raccolta sistematica delle macroalghe. Attraverso questa pratica si intende allontanare la biomassa algale, la cui decomposizione comporta i problematici processi di demolizione anaerobica e di conseguenza, anche di rilascio dei nutrienti che tali masse hanno accumulato (Lavery et al., 1999). Questo

(33)

intervento è stato intrapreso in molte lagune eutrofiche, tra cui, in Italia, le lagune di Venezia, di Goro e quella di Orbetello (Lenzi, 1998; De Leo et al., 2002). La rimozione delle masse algali è una pratica che risulta particolarmente onerosa e spesso viene condotta in tempi e modi inappropriati. Insorge inoltre il problema dello smaltimento del materiale algale raccolto, che oltre ad essere dispendioso, per i vari passaggi e trasporti previsti, viene ulteriormente reso difficile dalle normative vigenti.

Sono stati sperimentati molteplici utilizzi delle masse algali, quali produzione di agar, compost, ammendanti agricoli, pasta di cellulosa, biogas e biodiesel (Lenzi, 1985, 1987; Orlandini, 1994; Cuomo et al., 1995; Bastianoni et al., 2008; Migliore et al., 2012). Tuttavia, per adesso, la gran parte di queste possibili utilizzazioni non trova un riscontro industriale, dal momento che si ottengono prodotti di scarsa qualità e di basso valore commerciale, tale da rendere i processi di manipolazione troppo costosi. Soluzioni di utilizzo sono ancora allo studio (Migliore et al., 2012).

Una recente soluzione proposta quale alternativa a quelle finora adottate per la gestione della eutrofizzazione in ambito lagunare, è la risospensione dei sedimenti soffici superficiali, ad elevato carico organico (Lenzi, 2010). Lo strato sedimentario superficiale accumula la materia organica biodisponibile e interviene, attraverso i processi batterici, nella restituzione delle componenti nutrizionali che sostengono lo sviluppo della vegetazione opportunista.

Vi sono risultati contraddittori e opinioni diverse sugli effetti della risospensione dei sedimenti, poiché i risultati dipendono dalla natura dei sedimenti, dalla qualità della materia organica presente e dalle condizioni ambientali in cui si verifica il disturbo (Arnosti e Holmer, 2003; Tengberg et al., 2003).

Quando la materia organica sedimentata viene risospesa in colonna d’acqua è sottoposta ad una più rapida mineralizzazione ossigenica (Wainright e

(34)

Hopkinson, 1997; Stemborg Larsson, 2005); una frequente risospensione del sedimento può quindi ridurre il carico organico sedimentario (Stahlberg et al., 2006). La risospensione del sedimento può causare l’ossidazione del ferro sedimentario a ossi-idrossidi ferrici. Questi ultimi, insieme a carbonati e argille rimesse in sospensione possono assorbire gli ortofosfati, sottraendoli alla colonna d'acqua (De Jonge e Villerius, 1989; Koski-Vähälä, 2001). In particolare, l’ossidazione da Fe(II) a Fe(III) consente la costituzione di complessi Fe-P che porta all’insolubilizzazione dei due elementi, che le condizioni anaerobiche dissolvono (Mortimer, 1941, 1942; Gomez et al. 1999). Pertanto, l’ossidazione determina una condizione di fosforo limitazione, che incide sullo sviluppo di macroalghe e microalghe opportuniste. Questo porta a un cambiamento qualitativo della vegetazione sommersa, favorendo le fanerogame marine, che, assorbendo i nutrienti dalle radici, possono tornare a colonizzare il substrato (Lenzi et al., 2010).

La risospensione dei sedimenti superficiali si profila come un plausibile strumento di mitigazione degli effetti della eutrofizzazione. Attraverso l’eliminazione della materia organica che si accumula come conseguenza dell’eutrofizzazione e che è alla base delle distrofie, la risospensione è quindi un possibile strumento di gestione degli ambienti lagunari eutrofici, soprattutto per gli ambienti atidali, a scarso ricambio e con fondale relativamente basso, quando risulta difficile o addirittura impossibile intervenire per eliminare le fonti di eutrofizzazione, in considerazione di una forte antropizzazione del territorio. Pur mantenendosi le cause di eutrofizzazione, la metodica consentirebbe di mantenere caratteristiche ambientali che sono tipiche di un ambiente mesotrofico, quali ampie estensioni di fanerogame e ridotto sviluppo di macro- e microfite.

(35)

2. INQUADRAMENTO E OBIETTIVI DELLA TESI

La raccolta delle macroalghe è una pratica adottata in molte aree costiere eutrofiche per contrastare gli effetti negativi del loro accumulo; tuttavia tale attività non ha avuto un sufficiente supporto scientifico. Risulta sufficientemente intuitivo che attraverso la raccolta e l’allontanamento delle biomasse algali venga ridotto l’impatto dei processi batterici degradativi e venga, inoltre, allontanata una quantità di nutrienti da aree che ne sono ricche. Sono pochi gli studi condotti per stabilire l’efficacia dell’attività di raccolta delle masse macroalgali nella gestione degli ambienti eutrofici e per determinare l’impatto che tale attività può esercitare sull’ecosistema interessato. De Leo et al. (2002), ad esempio, hanno valutato, attraverso un modello matematico, costi e vantaggi della raccolta delle alghe in riferimento al danno che lo sviluppo delle macroalghe determinava alla produzione delle vongole nella Sacca di Goro. Lavery et al. (1999) hanno stimato il tempo necessario affinché un’area sottoposta alla raccolta delle alghe ricostituisse il popolamento zoobenthonico originario. Più recentemente, sono stati valutati gli impatti della raccolta in termini di quantità di sedimenti risospesi e di ridistribuzione dei macronutrienti presenti nello strato sedimentario (Lenzi et al., 2013). Tuttavia, ci sono ancora molti aspetti da chiarire relativamente all’attività di raccolta delle macroalghe, come la quantità minima di biomassa vegetale che deve essere asportata per ottenere un miglioramento della qualità ambientale, le modalità di raccolta ed eventuali soluzione alternative. A questo ultimo proposito, si pensi che ad Orbetello, per 6000 tonnellate di macroalghe in peso umido portate a terra in circa sei mesi di attività di raccolta, si produce, nello stesso tempo, una risospensione dei sedimenti di circa 16500 tonnellate (Lenzi et al., 2013). Viene da chiedersi se gli effetti

(36)

ottenuti, nel contrastare le conseguenze dell’eutrofizzazione, non siano dovuti a quest’ultimo fenomeno, piuttosto che all’asportazione della massa algale. Infatti, il semplice passaggio del natante raccoglialghe sul banco algale determina un’intensa movimentazione e rimescolamento delle masse vegetali, nonché una rilevante risospensione del sedimento superficiale, in seguito alla spinta che il mezzo esercita sulla massa d’acqua nel procedere e al moto vorticoso prodotto dalle eliche (Lenzi et al., 2005).

Qui sorge un altro aspetto di questa attività che sarebbe opportuno chiarire. Che cosa succede all’ammasso vegetale che ha subito il passaggio di un battello raccoglialghe? Sono possibili due scenari e situazioni tra loro intermedie. La conseguente esposizione alla luce della vegetazione del sotto-strato del banco, dovuta al rimescolamento dell’ammasso prodotto dal passaggio del natante, potrebbe consentire una sua rapida ripresa fisiologica, riacquistando la capacità di fotosintesi e di assorbimento dei nutrienti, come riscontrato da Peckol e Rivers (1995) per Cladophora vagabunda. In questo modo, il banco macroalgale non solo potrebbe non collassare, non verificandosi così una crisi distrofica, ma addirittura crescere ulteriormente. Tuttavia, la risospensione del sedimento anossico che si trova immediatamente al di sotto del sotto-strato algale potrebbe avere effetti negativi sulle alghe stesse, attraverso l’aumento della torbidità nella colonna d’acqua e la rideposizione del materiale sedimentario sui talli.

La risospensione dei sedimenti superficiali, inoltre, come detto in precedenza, altera i cicli biogeochimici dei nutrienti, e potrebbe modificare anche le variabili fisico-chimiche nella colonna d’acqua e dei sedimenti.

Questa tesi sperimentale si propone di verificare l’impatto direttamente esercitato sui banchi macroalgali dai battelli raccoglitori, fatta esclusione dell’allontanamento della massa vegetale, e gli effetti sulle principali variabili della colonna d’acqua e del sedimento che tale azione esercita.

(37)

3. MATERIALI E METODI

3.1. Area di studio

Questo studio è stato condotto nella Laguna di Orbetello, stagno costiero localizzato lungo la costa meridionale della Toscana (42°.41’ – 42°.48’ N, 11°.17’ – 11°.28’ E) (Figura 1).

La Laguna di Orbetello rappresenta uno dei più importanti bacini salmastri Italiani (Sito Natura 2000: cod. IT51A0026). Definita come zona p-SIC (Sito di importanza comunitaria) e ZPS (Zona di protezione speciale EUAP0127) è classificata area umida di interesse nazionale (cod. IT008) ai sensi della Convenzione di Ramsar (1971).

La laguna ha un’estensione totale di 25.25 Km2 ed è separata dal mare da due tomboli sabbiosi, della Giannella (a Nord-Est) e della Feniglia (a Sud-Ovest) che, partendo dalla costa continentale, raggiungono il promontorio dell’Argentario. Un istmo centrale, sul quale sorge il centro abitato di Orbetello, prolungato artificialmente fino al Monte Argentario mediante una diga, divide la laguna in due bacini, denominati di Ponente (ad ovest) e di Levante (ad est), con una superficie di 15.25 e 10.00 km2 rispettivamente (Travaglia e Lorenzini, 1985) e con una profondità media di circa 1 m.

I due bacini sono collegati fra loro dal canale Glacis (che divide il centro storico di Orbetello dal resto dell’istmo) e da otto ponti della diga.

Il bacino di Ponente comunica con il mare attraverso il canale di Fibbia, nei pressi della foce del fiume Albegna, e il canale di Nassa, in località Santa Liberata; la comunicazione tra il mare e il bacino di Levante avviene mediante il canale di Ansedonia. Si verificano inoltre scambi attraverso le falde freatiche presenti nei tomboli sabbiosi.

(38)

Figura 1. Laguna di Orbetello, lungo la costa meridionale della Toscana.

In questa laguna, ogni anno si verifica un intenso bloom macroalgale, sia pur con l’alternarsi delle specie dominanti (Lenzi et al., 2011), che culmina in crisi distrofiche, talvolta accompagnate da morie diffuse degli organismi aerobi della fauna bentonica e soprattutto della fauna ittica (Lenzi e Salvatori, 1986), creando disagi alla pesca e al turismo.

Eutrofizzazione e conseguenti episodi di distrofia sono documentati in questo sito già nel XVIII sec. Fino all’inizio degli anni ’70 l’eutrofizzazione era quasi esclusivamente dovuto all’autopolluzione e allo scarso ricambio idrico (Cognetti et al., 1978). Dalla metà degli anni ’70 in poi il fenomeno è principalmente imputabile all'aumento del carico di nutrienti di origine antropica, dovuto all'immissione in laguna di reflui urbani depurati e non (scarichi ora allontanati in mare, ma di cui resta accumulo storico nei sedimenti), agli scarichi di attività produttive, quali impianti di acquacoltura intensiva, e al carico diffuso proveniente dall'attività agricola condotta nel bacino idrografico del fiume Albegna (Lenzi, 1992).

(39)

Dagli anni ’70 ai ’90 si sono verificate crisi distrofiche con frequenza e entità sempre crescenti (Lenzi, 1992; Innamorati, 1998).

Tentativi per approdare a processi di risanamento sono stati avviati più volte dalle autorità locali, sulla spinta degli episodi di morie della fauna ittica, tuttavia, solo in seguito alla grave e prolungata crisi degli anni 1992-1993, la laguna di Orbetello è stata dichiarata "area ad elevato rischio di crisi ambientale" (delibera del Consiglio dei Ministri del 2 aprile 1993) ed è stata istituita una gestione commissariale per attuare una strategia migliorativa atta a trovare soluzione alla crisi ambientale.

L’ordinanza del Ministero dell'Ambiente che nominava il Commissario Delegato al Risanamento della Laguna di Orbetello, e quelle che sono seguite fino ad oggi, prevedevano interventi su precisi obiettivi: raccolta delle masse algali; miglioramenti delle comunicazioni di foce, dei canali mare-laguna, e dell’interscambio tra i due bacini, di levante e di ponente; potenziamento del sistema idrovoro, per il ricambio forzato con acqua marina; opere per la immediata limitazione degli apporti inquinanti civili e produttivi; realizzazione di un sistema di monitoraggio.

Le macroalghe sono raccolte sistematicamente per circa 6 mesi l’anno mediante l’uso di 4 battelli a basso pescaggio (13 m x 4,5 m; 13 tonnellate di stazza), provvisti di un dispositivo dotato di un nastro grigliato rotante orientabile verso il fondo, in grado di trasportare a bordo le masse algali pleustofitiche.

In seguito alle attività di risanamento ambientale messe in opera dal 1994 al 2012, a termine del mandato commissariale, le crisi si sono attenuate, ma la tendenza all’elevata produzione di macroalghe opportuniste rimane e le crisi ambientali sono a frequenza annuale, anche se raramente si verificano morie di specie ittiche. Resta tuttavia una condizione di disagio ambientale per gli organismi lagunari, in particolare gli stock ittici sono sottoposti a prolungati

Riferimenti

Documenti correlati

Si è visto come arrivare ad un costo di riproduzione più plausibile possibile, il valore ottenuto va confrontato con il valore dato alla società dal mercato

The focus is on a concrete set of issues considered crucial to the emergence of monetary thought and of the quantity theory of money: the nature of money; what (and

Il lavoro è condotto dall’Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree (IVALSA) di San Michele all’Adige e consiste in un piano articolato di prove

Aristeomorpha foliacea) 23 Muriceides lepida 24 Viminella flagellum 3 Zoanthid assemblages 1 Parazoanthus, Epizoanthus 4 Antipatharian assemblages 1 Anthipatella

Nel primo paragrafo si sono analizzate le caratteristiche principali delle varie tipologie di macchine impiegate nelle diverse fasi della raccolta e della prima trasformazione,

Il contributo analizza il passaggio della lex da un inquadramento essenzialmente teologico e orientato al confronto con la Rivelazione e il diritto divino nella cultura e

The 2007 National Academy of Laboratory Medicine Guideline has suggested the perioperative assay of troponins to detect silent ongoing heart damage or for post-operative

In presenza di una percentuale di fallanze di circa il 10- 12%, dal taglio e dalla cippatura delle piante di questi quat- tro filari di pioppo si sono