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Intelligenza emotiva e creatività a scuola

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI VERONA

DIPARTIMENTO DI

SCUOLA DI DOTTORATO DI SCIENZE UMANE

DOTTORATO DI RICERCA IN PSICOLOGIA

CICLO /ANNO (1° anno d’Iscrizione) XXX

TITOLO DELLA TESI DI DOTTORATO

INTELLIGENZA EMOTIVA E CREATIVITA’ A SCUOLA S.S.D. M-PSI/03 M-PSI/04

(indicare il settore scientifico disciplinare di riferimento della tesi dato obbligatorio)*

Coordinatore: Prof./ssa MANUELA LAVELLI Firma __________________________

Tutor: Prof./ssa MARGHERITA PASINI Firma __________________________

Dottorando: Dott./ssa Camilla Brandao De Souza Firma ________________________

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Sommario

Abstract………4

CAPITOLO 1. L’INTELLIGENZA EMOTIVA………8

Introduzione: Intelligenza emotiva a scuola………...8

Breve excursus storico del concetto di Intelligenza Emotiva (EI)………...18

Intelligenza emotiva e misurazione……… ………29

CAPITOLO 2. INTELLIGENZA EMOTIVA E CREATIVITA’……...40

Creatività………...40

Misurare la Creatività: Il Torrance Test of Creative Thinking………...43

Creatività e Intelligenza emotiva………...50

Obiettivo dello studio………..52

Metodo………...52 Partecipanti………...52 Strumenti di Misura………52 Analisi Dati………...54 Risultati………...54 Discussione e Conclusioni………..55

Limiti della ricerca e prospettive future………..58

Bibliografia………...60

CAPITOLO 3. IL CLIMA DI CREATIVITA’ COME MEDIATORE Il clima di creatività……….………...65

Intelligenza emotiva e clima di Creatività………...67

Obiettivo dello studio………...71

Metodo………...71 Partecipanti………...72 Strumenti di Misura………...72 Analisi Dati………...83 Risultati………..……….84 Discussione e Conclusioni………...92

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Limiti della ricerca e prospettive future………...94

Bibliografia………...96

CAPITOLO 4. INTELLIGENZA EMOTIVA E CLIMA DI CREATIVITA’. Empatia e neuroni specchio………...99

La figura dell’Insegnante nel XXI secolo………...107

Il ruolo dell’IE degli insegnanti sulla creatività degli studenti…………...114

Il clima di creatività a supporto della creatività dei singoli studenti……...115

Obiettivo dello studio……….…...115

Metodo………...116 Partecipanti………...……...116 Strumenti di Misura………...116 Analisi Dati………...…...117 Risultati………...118 Discussione e Conclusioni………...121

Limiti della ricerca e prospettive future………...…...123

Bibliografia………....…...124

CAPITOLO 5. CONCLUSIONI GENERALI……….…...129

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4 Abstract

Dottorato di Ricerca in Scienze Umane Coordinatore: Prof.ssa Manuela Lavelli

Ciclo: XXX

Emotional Intelligence and Creativity at school.

Camilla Brandao De Souza

[email protected]

There has been an increasing interest in the construct of emotional intelligence within a school context. Although some studies in the field of education have been focused on the emotional intelligence of students and on the role that this plays with respect to academic achievement, demonstrating that students with higher emotional intelligence had more success at school (Di Fabio, Giorgi, & Palazzeschi, 2005; Parker et al., 2004; Parker, Summerfeldt, Hogan, & Majeski, 2002), other studies have demonstrated that teachers who promote emotional intelligence skills emphasize the value of individual differences, enhance group work and problem-solving ability, and channel students to develop adequate social competences (Kaufhold & Johnson, 2005).

These social competences increase the relationship among pupils, their reciprocal respect and involvement in class activities (Obiakor, 2001).

Moreover, in their study, Reyes, Brackett and Rivers (2012), attribute student engagement and academic performance at least in part, to how teachers promote classroom interactions.

Some research indicates that the scarcity of utilising emotional intelligence in the classroom may lead to serious diminishment in the significance not only of the knowledge of the subject but also learning and teaching techniques applied by the teachers. For this reason, emotional intelligence is of great importance.

In addition, creativity is now seen as a multidimensional and psychosocial phenomenon (Alencar, Fleith & Bruno-Faria, 2010), comprising the combination of cognitive aspects, affective and personality characteristics, in addition to the variables contextual (family, educational and social). Moreover, emotions play a crucial role in creativity.

Hence, the aim of this study is to investigate the relationship between emotional intelligence, according to the model of Trait Emotional Intelligence, and creativity.

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Particularly, creativity is considered globally and also divided into its factors (fluidity, flexibility, originality and elaboration). The study focuses on children that attend primary school aged between 6 and 8 years old.

The second objective of this analysis aims to verify if children’ IE predicts creativity and if the creativity climate acts as a mediator.

The third objective of this study is to deepen the relationship between teachers’ EI and pupils’EI. The intention is to observe the role that the creativity climate generated in the classroom and the creativity of students, particularly verifying if the creativity climate perceived by children moderates the relationship between teachers’ IE and children’ creativity.

Creativity is considered both globally and and also divided into factors such as: fluidity (ability to produce many ideas), flexibility (different ideas), originality (ideas different from the common sense) and elaboration (ideas full of details).

The sample is comprised by 339 students, aged between 8-10 years old, attending public schools, and teachers of Italian and mathematic for each class.

In order to measure teachers’ EI it has been used the TEIQue-Short Form, a 30-item questionnaire designed to measure global trait emotional intelligence and the TEIQue Children form for students (36-item questionnaire).

To measure creativity was instead used the Torrance Test of Creative Thinking-Figural (TTCT. Torrance Test Creative Thinking, 1998) which comprises figural and verbal parts for students. For the creativity climate it was used the Person-Environment Fit Scale for Creativity (PEFSC) for simultaneous assessment of person- and environment-related aspects of creativity and their fit.

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Abstract, Traduzione Italiana Dottorato di Ricerca in Scienze Umane Coordinatore: Prof.ssa Manuela Lavelli

Ciclo: XXX

Intelligenza emotiva e creatività a scuola

Camilla Brandao De Souza

[email protected]

C'è stato un crescente interesse nei confronti dell'intelligenza emotiva ed in particolar modo all'interno dei contesti scolastici. Sebbene alcuni studi nel campo dell'istruzione si siano concentrati in particolar modo sull'intelligenza emotiva degli studenti e sul ruolo che questa svolge nei confronti dei risultati accademici, dimostrando che gli studenti con maggiore intelligenza emotiva hanno più successo a scuola (Di Fabio, Giorgi, & Palazzeschi , 2005; Parker et al., 2004; Parker, Summerfeldt, Hogan, & Majeski, 2002), altri studi si sono invece concentrati sugli insegnanti dimostrando che i docenti capaci di promuovere l’intelligenza emotiva, enfatizzando il valore delle differenze individuali, migliorano il lavoro di gruppo, la capacità di risolvere i problemi, permettendo agli studenti di sviluppare un canale per far emergere adeguate competenze sociali (Kaufhold & Johnson, 2005). Queste competenze sociali incrementano il rapporto tra gli alunni, il loro rispetto reciproco e il coinvolgimento nelle attività di classe (Obiakor, 2001).

Inoltre, nel loro studio, Reyes, Brackett e Rivers (2012), attribuiscono il coinvolgimento degli studenti e le prestazioni accademiche, almeno in parte, al modo in cui gli insegnanti promuovono le interazioni scolastiche. Alcune ricerche indicano che la scarsità di utilizzare l'intelligenza emotiva in classe può portare inoltre ad una grave diminuzione del significato non solo della conoscenza della disciplina, ma anche delle tecniche di apprendimento ed insegnamento applicate dagli insegnanti. Per questo motivo, l'intelligenza emotiva è di grande importanza.

Inoltre, la creatività è ora vista come un fenomeno multidimensionale e psicosociale (Alencar, Fleith e Bruno-Faria, 2010), comprendente la combinazione di aspetti cognitivi, caratteristiche affettive e di personalità, oltre alle variabili contestuali (familiari, educative e sociali). Inoltre le emozioni giocano un ruolo cruciale nello sviluppo della creatività.

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L’obiettivo principale di questo studio è quello di approfondire la relazione tra intelligenza emotiva, definita secondo il modello dell’Intelligenza Emotiva di Tratto, e la creatività. In particolare, rispetto alla creatività, si vuole esplorare la relazione dell’IE con i fattori di fluidità, flessibilità, originalità ed elaborazione. Lo studio prende in esame nello specifico i bambini in età scolare, frequentanti la scuola primaria.

Il secondo obiettivo della ricerca è quello di verificare se l’IE dei bambini predice la creatività e se il clima di creatività funge da mediatore.

Il terzo obiettivo di questa analisi è quello invece di approfondire la relazione esistente tra le abilità emotive degli insegnanti e quelle dei propri studenti. Si intende osservare il ruolo del clima di creatività che si genera nella classe, e la creatività dei suoi componenti, in particolar modo verificando se il clima di creatività percepito dai bambini in età scolare (quarta e quinta elementare) modera la relazione tra l’intelligenza emotiva dell’insegnante (intesa secondo il costrutto dell’IE di Tratto) e la creatività dei bambini stessi.

La creatività viene considerata sia globalmente sia suddivisa nei fattori di creatività quali: fluidità (capacità di produrre tante idee), flessibilità (idee diverse tra loro), originalità (idee diverse dal comune) ed elaborazione (idee ricche di dettagli ed elementi).

Il campione è composto da 339 studenti di età compresa tra 8-10 anni, frequentanti scuole pubbliche e insegnanti di italiano e matematica per ogni classe. Per misurare l'EI degli insegnanti è stato utilizzato il TEIQue-Short Form, un questionario di 30 item progettato per misurare l'intelligenza emotiva dei tratti globali e il modulo TEIQue Children per gli studenti (questionario di 36 item). Per misurare la creatività è stato invece utilizzato il Torrance Test of Creative Thinking-Figural (TTCT. Torrance Test Creative Thinking, 1998) che comprende parti figurali e verbali per gli studenti. Per misurare il clima di creatività è stata utilizzata la scala PESFC nelle sue dimensioni, Persona ed Ambiente.

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CAPITOLO 1. L’INTELLIGENZA EMOTIVA SCUOLA.

Introduzione: Intelligenza emotiva a scuola

“Di che cosa hanno bisogno i bambini per sviluppare pienamente le proprie potenzialità e per poter far “fiorire” i propri talenti? Come le scuole li influenzano in questo processo?”

“Le competenze emotive che ruolo hanno nel riconoscimento, da parte dei docenti, delle abilità e dei talenti di ciascuno studente? Ne implementano la creatività?”

Da queste domande, che costituiscono le fondamenta di questo studio, è iniziata la mia ricerca. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sin dal 1993 ha inserito la gestione delle emozioni e l’essere consapevoli di come le emozioni influenzano il comportamento tra le life skills indispensabili per vivere, soprattutto rispetto ad una realtà sempre più globalizzata e complessa come quella attuale.

L’OMS nel documento “life skills education in schools” (1993) pubblica, infatti, l’elenco contenente le cosiddette abilità personali e relazionali utili alla gestione preventiva di disagi e che permetterebbero di gestire ed affrontare al meglio le diverse situazioni sociali.

Il fulcro principale di queste life skills ruota attorno, in particolare, a dieci abilità: la capacità di prendere decisioni (decision making); la capacità di risolvere problemi (problem solving); la capacità di pensare creativamente e di saper quindi esplorare in modo sinergico le alternative possibili e le conseguenze che derivano dal prendere certe decisioni; la capacità di pensare criticamente e di analizzare informazioni ed esperienze riconoscendo i fattori capaci di influenzare atteggiamenti e comportamenti; la capacità di sapere comunicare in modo efficace; la capacità di intessere relazioni interpersonali interagendo positivamente; la capacità di essere autocoscienti e di riconoscere le proprie forze e le proprie debolezze; la capacità di essere empatici e di mettersi nei cosiddetti “panni altrui”; la capacità di gestire le emozioni e quindi di riconoscerle in sé e negli altri; la capacità di gestire lo stress.

L’OMS, avviando e promuovendo all’interno degli ambiti scolastici questo tipo di abilità, di fatto attua una strategia preventiva che ha come principali obiettivi il miglioramento del benessere e della salute di bambini ed adolescenti tramite l’apprendimento e lo sviluppo di competenze utili a fronteggiare ogni tipologia di situazione fonte di stress emotivo tramite anche la formazione e la preparazione della comunità scolastica.

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e gestire le proprie emozioni, al saper costruire relazioni interpersonali positive e al saper pensare creativamente.

La linea “preventiva” adottata dall’OMS sembra la direzione da seguire anche secondo Robinson (2012) per il quale la priorità del sistema educativo dovrebbe essere quella di creare ambienti di apprendimento funzionali allo sviluppo personale e non solo l’acquisizione da parte degli studenti, di informazioni e contenuti.

Di tale avviso è Andreas Schleicher, capo della Direzione “Education and Skills” dell’OCSE, secondo cui il futuro dell’istruzione risiede anche nella possibilità da parte dei docenti, di poter lavorare con ciascun studente in un modo personalizzato e non, come invece spesso accade, utilizzando le stesse modalità di insegnamento con una classe composta però da soggetti che posseggono modalità di apprendimento e stili cognitivi differenti (2018).

Per trasformare il mondo della scuola in larga scala è necessario, sostiene Schleicher, non solo una radicale e alternativa visione di che cosa è effettivamente possibile, ma anche di strategie intelligenti oltre che di istituzioni efficienti.

Il nostro attuale sistema scolastico è stato, infatti, inventato durante la rivoluzione industriale, quando la standardizzazione e la conformità erano modalità efficaci ed efficienti per poter istruire gli studenti e formare gli insegnanti durante l’intero corso della loro vita lavorativa. I curricula, che descrivono ciò che gli studenti dovrebbero apprendere, sono stati progettati (spesso da governi differenti), poi tradotti in materiale didattico, formazione per gli insegnanti e ambienti di apprendimento per arrivare poi ad essere implementati dai singoli insegnanti in aula. Anche le materie scolastiche attualmente al vertice della piramide (matematica, scienze, lingue, lingua nazionale) riflettono questo tipo di struttura. La maggior parte dei sistemi educativi di massa sono infatti nati nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo quando le esigenze economiche del tempo confluivano su questo tipo di materie considerate essenziali per poter trovare un lavoro.

Questa struttura, ereditata dal modello industriale del lavoro, sembra rendere però attualmente troppo lento il cambiamento, necessario ed insito in un mondo prettamente globalizzato ed in movimento quale è il nostro.

Le sfide sociali che ci troviamo quotidianamente ad affrontare superano, infatti, la capacità strutturale da parte dei nostri attuali sistemi educativi di fornire adeguate risposte.

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di adattarvisi, ad apprendere non solo contenuti (che possono essere acquisiti velocemente anche tramite il web) ma anche a sviluppare la capacità di fornire risposte inedite, di pensare in modo autonomo e critico, di far fronte a tipologie di lavoro che devono ancora essere inventate, a fronteggiare problemi che non possiamo nemmeno immaginare e ad utilizzare tecnologie che non sono ancora state inventate.

E’ necessaria una pratica riflessiva per poter prendere una posizione critica nel momento di compiere una scelta e, nel mondo odierno, dove è possibile accedere ai contenuti disciplinari attraverso i motori di ricerca, l’attenzione della formazione deve focalizzarsi soprattutto sulle modalità di apprendimento.

Apprendere comporta, infatti, processi di continua riflessione, anticipazione ed azione. L’anticipazione mobilita le capacità cognitive, come il pensiero analitico o critico, per prevedere ciò che potrebbe essere necessario compiere in futuro e, assieme alla pratica riflessiva, contribuisce alla possibilità di intraprendere azioni responsabili, quindi le scuole moderne hanno bisogno di aiutare gli studenti ad evolversi e a crescere costantemente, adattandosi ad un mondo che cambia quotidianamente (Schleicher, 2018).

Ogni apprendimento, inoltre, inteso come un processo complesso e multi determinato, deve tener conto delle esperienze relazionali del bambino all’interno non solo del proprio nucleo famigliare, ma anche del gruppo di pari, all’interno della realtà scolastica.

Emozioni ed apprendimento sono due concetti che, secondo molti studiosi (Goleman, 1999; Mayer, 1983) vanno collegati. Il legame tra queste due dimensioni è evidente nel momento in cui si valuta come ci si sente quando si apprende. Molti studi confermano l’ipotesi secondo cui lo stato d’animo è influenzato dal modo di pensare, di percepire gli eventi, da ciò che viene ricordato e dalle decisioni che vengono prese (Brackett, 2006).

Le emozioni provate non sono visibili, ma possono essere riscontrate valutando il comportamento adottato dal singolo individuo.

Ansia, depressione, rabbia o frustrazione possono quindi interferire con l’apprendimento, creando disadattamento. Come dimostrano numerose ricerche, infatti, l’intelligenza emotiva è in grado di predire il successo scolastico e accademico (Chamorro-Premuzic, Furnham, 2008), di incidere sulle perfomance lavorative e sulle relazioni sociali (Bar-On, Handley, Fund, 2005; Brackett, Warner, Bosco, 2005), sulle capacità di risolvere conflitti (Salami, 2010) e sulla abilità di affrontare situazioni difficili (Krivoy, Weyl Ben-Arush, Bar-On

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2000). Alcune ricerche condotte a livello internazionale hanno dimostrato che più del 54,79% delle perfomance lavorative sono frutto di una EI e, nonostante incidano profondamente sul lavoro, le capacità tecniche da sole possono comunque condurre al fallimento (Freedman, 2009).

L’OCSE promuove la passione per l’apprendimento, la stimolazione dell’immaginazione e lo sviluppo di decision maker indipendenti in grado di plasmare il futuro anche attraverso l’ideazione e la somministrazione del test PISA. In questo test, infatti, gli studenti devono essere in grado di estrapolare le risposte dai contenuti che conoscono e pensare oltre ai confini disciplinari, applicando la conoscenza creativamente in situazioni nuove.

Le scuole devono saper preparare quindi gli studenti anche ad un mondo interconnesso, dove questi possano apprezzare e comprendere differenti visioni e prospettive, interagendo rispettosamente con l’alterità ed intraprendendo azioni responsabili verso il benessere collettivo.

La prossima generazione di giovani cittadini, sostiene Schleicher, creerà posti di lavoro, non li cercherà, e collaborerà per un progresso sempre maggiore dell’umanità (2018).

Tutto questo richiederà dunque apertura, curiosità, immaginazione, empatia, imprenditorialità, capacità di resilienza e di imparare dai propri errori. Caratteristiche e competenze che la scuola deve poter promuovere. Attualmente, invece, gli attuali sistemi scolastici sembrano dare una visione limitata dell’intelligenza e delle abilità, prediligendone alcune rispetto ad altre. In questo modo, non solo la maggior parte degli studenti non arriva mai ad esplorare l’intera gamma delle proprie capacità e dei propri interessi, ma vengono emarginati quanti non sono naturalmente portati ad apprendere seguendo un approccio stratificato e uguale per tutti dell’apprendimento.

In molti credono, sostiene Robinson (2012) che questa direzione favorisca la crescita economica e che renda più facile trovare un lavoro. Ma nel ventunesimo secolo il lavoro dipende da qualità di cui i sistemi scolastici non sembrano favorire lo sviluppo. Le aziende ricercano infatti persone creative e che sappiano pensare, e soprattutto pensare in modo autonomo. Ma questo non vale solo per le aziende. Riguarda anche la possibilità di vivere una vita che abbia un significato oltre al lavoro che si svolge.

Appare pertanto necessario lavorare molto sull’educazione e sul suo ruolo preventivo per poter favorire la creazione di ambienti di apprendimento funzionali allo sviluppo personale.

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Alla luce di queste riflessioni, è nato questo lavoro, che si propone in primo luogo di indagare una possibile correlazione esistente tra l’intelligenza emotiva e la creatività degli studenti. Se l’intelligenza emotiva predice la creatività potrebbe essere possibile anche adottare delle strategie educative finalizzate ad accrescerla e a preparare pertanto gli studenti a pensare in modo critico ed inedito, caratteristiche fondamentali nel mondo contemporaneo.

In secondo luogo ho voluto indagare il clima di creatività presente all’interno delle classi dove è stata condotta la ricerca per poter comprendere se questo potesse fungere da mediatore e se possa quindi incidere o meno in misura preponderante nello sviluppo di comportamenti e capacità creative.

Una terza attenzione che ha guidato questo lavoro si riferisce al ruolo che gli insegnanti hanno all’interno di questo modello per poterne rilevare l’intelligenza emotiva, analizzare in che modo potrebbe eventualmente essere implementata e valutarne la correlazione con l’intelligenza emotiva e la creatività dei propri studenti.

Questi obiettivi vengono portati avanti utilizzando una metodologia di tipo quantitativo, tramite la somministrazione di test e questionari coinvolgendo nel complesso tre scuole primarie del Veneto, scelte casualmente, in base alla disponibilità fornita nei confronti dell’indagine.

Partendo da questi presupposti mi sono interrogata quindi sul concetto stesso di intelligenza, ampiamente studiato ed analizzato da molti ricercatori, focalizzandomi in particolare su quello di intelligenza emotiva, costrutto a cui negli ultimi anni si è dato molta rilevanza, tanto da portare anche l’OCSE a sviluppare per la prima volta una ricerca comparata a livello internazionale su questo tema.

L’educazione socio emotiva viene, infatti, considerata una vera e propria sfida dell’era contemporanea.

D’altronde sono le emozioni, da un lato a dire come stiamo nel mondo e, dall’altro, a fare, come scriveva Nietzsche, da collante delle nostre rappresentazioni sul mondo. Egli, infatti, individuava nelle emozioni le radici profonde del nostro agire (Marzano, 2006).

Le emozioni, afferma Brackett influenzano profondamente la vita quotidiana comprese la capacità di concentrazione e la capacità di ricordare; la capacità di compiere delle scelte e di prendere decisioni; la qualità delle relazioni; la salute fisica e mentale; la capacità di apprendere. Le emozioni, secondo il direttore dello Yale Center for Emotional Intelligence,

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sono segnali che ci indicano su che tipo di strada stiamo guidando e che forniscono quindi una fonte precisa di informazioni (2011).

Le emozioni, sostiene Peter Salovey, attuale Rettore dell’Università di Yale, sono razionali ed intelligenti. Ci aiutano infatti ad adattarci alla situazione contingente (Salovey, 2011) Ad esempio se si manifesta un pericolo proviamo paura, ovvero un’emozione che ci consente di salvaguardarci e di proteggerci, fornendoci di conseguenza un’informazione utile a quel preciso contesto.

Le emozioni, inoltre, non solo preparano all’azione, (quando abbiamo paura la bocca si apre perché forse dovremo chiedere aiuto) ma dettano anche la priorità rispetto a ciò che stiamo facendo. Ad esempio, se mentre stiamo scrivendo improvvisamente qualcuno battesse con forza la mano sul tavolo probabilmente smetteremmo di scrivere e alzeremmo la testa per comprendere che cosa sta accadendo, quindi, alzeremmo la testa per cercare nuove informazioni.

Brackett sostiene inoltre che la maggioranza delle persone che perdono il proprio lavoro non lo perdano perché prive di talento, ma proprio perché incapaci di gestire le proprie emozioni. “Emotions drive behaviours”, ovvero le emozioni guidano i comportamenti, afferma (2011).

L’importanza quindi di saperle riconoscere, comprendere, definire, esprimere e gestire è certamente di grande rilevanza, specialmente all’interno di un contesto scolastico.

Ogni scuola, inoltre, così come ogni organizzazione e famiglia, possiede inoltre un differente clima emotivo.

La questione del clima di classe ad esempio, ovvero dell’atmosfera socio-emotiva che si viene a creare in aula, è particolarmente rilevante nella realtà scolastica italiana fondata sull’esistenza di classi che, talvolta per anni, occupano lo stesso spazio fisico, in cui invece si spostano i docenti, diversamente rispetto ad alcune realtà estere in cui gli studenti si spostano da un laboratorio all’altro, ad esempio in relazione al livello di apprendimento raggiunto in quella specifica disciplina, relazionandosi a compagni diversi ed in differenti contesti.

La questione del clima di classe è importante anche tenendo conto di un approccio etnometodologico, secondo cui nessuna affermazione può avere un significato indipendente dal suo contesto ed il senso di ogni affermazione contiene qualcosa in più rispetto al

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significato letterale poiché la sua comprensione avrà modalità diverse in contesti diversi. Ciascuna affermazione è cioè riferibile solo a sé stessa e non fa riferimento a nessuna realtà diversa da sé stessa: non esiste cioè una realtà oggettiva e quindi modi oggettivi di osservarla per descriverla. Le persone attraverso le pratiche creano e ricreano un ordine sociale in qualche modo riconoscibile, dando un senso alle attività ordinarie.

Localizzare il pensiero umano in un contesto ecologico multivariato per dimensioni e tipologia di relazioni, ha condotto recenti sviluppi della psicologia cognitivista all’elaborazione del concetto di “cognizione situata” (situated cognition)- e, in modo analogo, a quello di situated-knowledge. In questa prospettiva di ricerca non solo si dà enfasi al ruolo delle dimensioni sociali e comunicative nelle dinamiche di pensiero, ma si concepiscono tali dimensioni come elementi costitutivi del processo cognitivo stesso. Rogoff sostiene che l’attività stessa del pensiero sia connessa in modo complesso con la globalità del contesto in cui i problemi da affrontare sono inseriti, contesto che determina l’attribuzione di significati e la scelta di strategie e di procedure (1984).

Il modello di attività cognitiva che emerge da quanto finora evidenziato vede pertanto strettamente connessi e reciprocamente definiti costruzione, contenuti e contesti situazionali di conoscenza. E’ a questo proposito che Resnick parla di situated-knowledge, di una conoscenza cioè che si situa sempre in un ambiente cognitivo, disciplinare e storico-sociale (1989).

La questione del contesto di significatività dell’attività di pensiero e di apprendimento, è un punto delicato e di estrema importanza, soprattutto per le sue implicazioni educative. Secondo tale prospettiva l’insegnante deve, infatti, poter creare un ambiente in cui sia valorizzato e ottimizzato il potenziale cognitivo dell’interazione sociale, poiché essa fornisce il contesto per guidare il bambino nel processo di apprendimento.

Una questione a mio parere importante è rappresentata pertanto anche dalle rappresentazioni che l’insegnante si costruisce della classe ed alle spiegazioni che si dà del comportamento dei suoi componenti. Si formano “tipizzazioni reciproche” (La Mendola, 2007) in cui si stabiliscono reciproche negoziazioni di significato.

A tal proposito, il professor Robert Rosenthal (Birkenbihil, 2002 ), professore di psicologia sociale all’Università di Harvard sviluppò degli esperimenti a mio avviso interessanti in cui gli insegnanti non avevano alcun sospetto di essere sottoposti ad un test, tramite cui analizzò il

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cosiddetto effetto pigmalione1, secondo cui un insegnante si farebbe un’idea ben precisa del suo allievo e lo plasmerebbe in base ad essa.

“Le forza delle aspettative che nutriamo nei confronti di un altro è tale da poter già di per sé sola influenzare il suo comportamento. E’ un fenomeno che definiamo “avverarsi della profezia”: l’idea che ci facciamo circa le capacità di un individuo talvolta è decisivo per il suo divenire futuro”. ( Birkenbihl, 2002)

In una scuola elementare di ceto sociale piuttosto basso all’inizio dell’anno scolastico venne fatto un test di Q.I non verbale. Il professor Rosenthal disse che con questo test era possibile prevedere il “rendimento intellettuale” di un soggetto.

La scuola aveva complessivamente 18 classi, tre per ognuno dei sei anni di corso. A ciascuna delle tre classi erano stati assegnati soggetti “al di sopra della media”, soggetti “medi” e soggetti “al di sotto della media”.

In un primo momento il prof. Rosenthal non prese affatto visione dei risultati del test, ma scelse a caso dai registri di ogni classe il 20% degli allievi e stabilì che quelli erano allievi “promettenti”. Ciò fatto ne indicò il nome agli insegnanti e spiegò loro che, in base al test effettuato, da questi studenti c’era ragione di aspettarsi notevoli progressi in fatto di apprendimento nel corso dell’anno scolastico.

In realtà, una siffatta differenza fra il gruppo d’esperimento e il gruppo di controllo però non c’era, l’unica cosa che cambiava era il parere dei loro insegnanti, influenzati dai risultati del finto test.

Otto mesi dopo lo stesso test venne eseguito di nuovo con tutti i bambini. Ne risultò che i bambini del gruppo sottoposto all’esperimento (ossia quelli descritti agli insegnanti come molto promettenti) avevano migliorato in media il loro Q.I di 4 punti in più rispetto ai bambini del gruppo di controllo.

Inoltre, ai fini del risultato si rivelò irrilevante il fatto che un bambino appartenesse ad una classe di allievi “al di sopra della media” o di “allievi” al di sotto della media. Chi era stato classificato

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Nelle Metamorfosi di Ovidio si raccontava che lo scultore Pigmalione aveva modellato una figura di donna (una scultura) cui aveva dato il nome di Galatea e di cui si era poi perdutamente innamorato. Alla fine Afrodite, la dea dell’amore, mossa a compassione per Pigmalione dette vita alla sua Galatea. Pigmalione aveva quindi un’idea ben definita della donna ideale e proprio in base a questa sua idea ne aveva creato il ritratto in marmo.

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come “molto promettente”, fece anche più progressi in confronto alla classe, indipendentemente dal livello di rendimento della classe stessa a cui apparteneva.

Il professor Rosenthal, in base ai suoi risultati, delineò una teoria di quattro fattori, secondo cui le persone che hanno aspettative positive nei confronti dei loro allievi, figli, clienti (o chiunque sia):

- sembrano creare un clima socio-emotivo più caldo attorno a loro;

- sembrano dare loro maggiore retroazione (feedback) circa la qualità delle loro prestazioni; - sembrano accordare loro più informazioni (input) e aspettarsi maggiori risultati;

- sembrano accordare a loro più opportunità di domande e risposte (output).

Tra i risultati più importanti degli esperimenti di Rosenthal è possibile inoltre riscontrare che:

1. Gli insegnanti che credono di aver a che fare con un buon allievo, gli sorridono più facilmente, fanno movimenti di approvazione con il capo, si chinano su di lui e lo guardano più a lungo negli occhi;

2. i buoni allievi ottengono sempre più feedback, a prescindere dal fatto che le loro risposte siano giuste o sbagliate;

3. nei confronti degli studenti da cui gli insegnanti si attendono di più, le reazioni sono più intense e chiare;

4. i bambini dotati ottengono più lodi e meno biasimo;

5. agli allievi da cui si aspettano di più, gli insegnanti insegnano di più nel vero senso della parola;

6. gli insegnanti stimolano anche maggiormente a dare risposte gli studenti da cui si aspettano di più. Li interrogano più spesso, concedono più tempo per la risposta e li aiutano fino a che non trovano la soluzione giusta.

Concludendo, se gli insegnanti credono che un bambino sia quindi meno dotato lo tratteranno, anche inconsciamente, diversamente rispetto agli altri. Il bambino, di conseguenza, interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza, portando pertanto all’instaurarsi di un circolo vizioso secondo cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva immaginato.

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effetto. La specifica forma mentis del docente inclusivo non è, afferma Lascioli (2014), un sapere strumentale, ma una postura interiore, ovvero un atteggiamento dell’interiorità del docente, inerente alle modalità (affettive, cognitive, relazionali, etiche) tramite cui la sua soggettività entra in contatto con la soggettività dei propri studenti. Le modalità tramite cui l’insegnante si pone d’innanzi ai propri studenti rivelano, sottolinea Lascioli (2014), la sua intenzionalità educativa, da cui trae ispirazione e forza l’azione didattica. Quando quindi la postura interiore dell’insegnante si fa inclusiva, è in grado di trasmettere ad ogni alunno- indipendentemente dalle difficoltà presenti- il valore unico ed irripetibile della sua persona. In quest’ottica, sono interessata ad osservare quindi non solo la relazione esistente tra le abilità emotive degli insegnanti e quelle dei propri studenti, ma anche il tipo di relazione esistente tra il clima di creatività esistente all’interno di ciascuna classe e l’intelligenza emotiva e la creatività dei suoi componenti.

Oggi, a differenza degli anni ottanta e novanta, dominati dal mito del quoziente intellettivo (Q.I) si insiste molto sul quoziente emotivo (EQ). Basti pensare al saggio, La civiltà dell’empatia, dove Rifkin spiega come a governare i settori decisivi della nostra vita non sia più l’intelligenza astratta, ma una complessa miscela fatta di empatia, perseveranza e attenzione agli altri (Rifkin, cit).

Questa empatia, oggi alla moda, però rischia di essere un guscio vuoto, afferma Marzano, che invece di spingerci ad aprirci agli altri e ad accettarne l’alterità, può portare a compiacersi dell’immagine che costruiamo di noi davanti all’altro se non includiamo la capacità di “compatire” (Marzano, 2010). Secondo la filosofa, infatti, lo scopo della compassione non è quello di cancellare “l’in-tra” e quindi ogni distanza tra “io” e “tu”, ma al contrario quello di proteggere lo spazio di libertà altrui.

Solo prendendo sul serio l’esistenza altrui- in quanto sensibili alla loro presenza, a quello che sentono, a quello che soffrono o sperano- che si permette loro di essere liberi di essere se stessi, indipendentemente dalle nostre aspettative e dai nostri desideri.

L’empatia, ovvero la capacità di vivere l’esperienza dell’altro dentro di sé, potrebbe essere una chiave di volta, tramite cui, anche mancando un accesso diretto, è possibile avere conoscenza del vissuto estraneo al nostro, quando la mente attiva la dimensione emotiva. “L’empatia realizza, dunque, l’apertura della mente all’altro costituendosi come fondamentale gesto dell’epistemologia dell’accoglienza” (Mortari, 2014).

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Breve excursus storico del concetto di Intelligenza Emotiva (EI)

Per poter comprendere appieno il concetto di intelligenza emotiva (d’ora in poi EI, acronimo di Emotional Intelligence, comunemente utilizzato nella letteratura internazionale) è necessario esplorare il significato dei due termini di cui è esso è composto.

L’etimologia della parola intelligenza viene fatta risalire all’avverbio latino intus, con il significato di dentro, ed al verbo latino legere con il significato di comprendere, raccogliere idee, informazioni. Secondo questa interpretazione l’intelligenza rappresenterebbe quindi la capacità di comprendere la realtà in modo profondo, cogliendone gli aspetti nascosti e non immediatamente visibili. Secondo un’altra interpretazione etimologica anziché all’avverbio intus ci si dovrebbe riferire alla preposizione inter, con il significato di tra. In quest’ottica quindi l’intelligenza rappresenterebbe la capacità di saper leggere tra le righe, scoprendo relazioni ed interconnessioni tra i vari aspetti della realtà, giungendone ad una comprensione più ampia e completa.

L’etimologia della parola emozione viene invece ricondotta al verbo latino moveo, cioè muovere, indicando quindi che tutte le emozioni sono tendenze all’azione (Morganti, 2012).

Dal diciottesimo secolo gli psicologi hanno riconosciuto un’influente divisione in tre parti della mente: la cognizione (pensiero), l’affetto (inclusa l’emozione) e la motivazione.

La sfera cognitiva include funzioni come la capacità di ricordare, di ragionare, di giudicare e di pensare in termini astratti. L’intelligenza viene quindi tipicamente utilizzata dallo psicologo per ben definire quanto e come funziona la sfera cognitiva. D’altra parte le emozioni appartengono alla sfera che include le emozioni stesse, gli stati d’animo, le valutazioni e gli altri stati emotivi, incluse la fatica e l’energia (Salovey e Sluyter, 1997).

Nel corso del tempo, inoltre, le emozioni sono state definite e studiate facendo riferimento a differenti prospettive.

Secondo la prospettiva evoluzionistico-funzionalista le emozioni sono innate ed ereditate dalla specie ed avendo un ruolo adattivo si attivano in modo indifferenziato in relazione a differenti stimoli (Darwin, 1872; Ekman e Friesen, 1971; Plutchik, 1980).

I primi studiosi cercarono di scoprire l’ordine causale di tre componenti: la sensazione soggettiva di un’emozione, le modificazioni fisiologiche e il comportamento espressivo.

Oggi l’interesse si è concentrato in larga parte sulla connessione causale fra la valutazione cognitiva (i pensieri) e le emozioni soggettive (le sensazioni).

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sulla rivista filosofica “Mind” (Ellsworth, 1994) formulando un’ipotesi alquanto rivoluzionaria, che collegava le emozioni alle reazioni fisiologiche che queste producevano.

Ricorrendo all’esempio divenuto famoso dell’orso, egli negò che un evento (vista dell’orso) potesse originare un’emozione (paura) che si potesse poi esprimere e manifestare a livello fisiologico (battito accelerato, sudorazione etcc). In questo caso è l’emozione a creare una risposta comportamentale: la fuga. James sosteneva, invece, che fosse proprio la comparsa dello stimolo (orso) a creare una risposta di fuga, che poi andava a sconvolgere fisiologicamente il corpo. Secondo la teoria di James veniamo quindi a conoscenza delle nostre emozioni grazie ai cambiamenti fisiologici specifici e che segnalano ogni sensazione. (Figura 1)

Le modificazioni corporee seguono direttamente la percezione di un fatto eccitante la nostra sensazione delle modificazioni che intervengono è l’emozione. Se immaginiamo un’emozione intensa e poi cerchiamo di estrarre dalla consapevolezza che ne abbiamo tutte le sensazioni relative ai suoi sintomi somatici, scopriamo che non abbiamo tralasciato nulla, nessun "contenuto mentale" senza il quale non vi può essere emozione e che tutto ciò che resta è uno stato, freddo e neutrale, di percezione intellettuale (James, 1890).

La teoria di James ha dominato la scena per molto tempo ed ha stimolato diverse ricerche sui processi fisiologici coinvolti negli stati emotivi.

STIMOLO RISPOSTA

RETROAZIONE

SENSORIALE SENTIMENTO

Figura 1. Teoria delle emozioni di James

Successivamente si fecero strade anche critiche relativamente a questo approccio.

Verso la fine degli anni ’50 gli psicologi cognitivisti iniziarono a sostenere che il fattore più importante relativamente all’emozione che sentiamo, sia il modo in cui valutiamo ed interpretiamo le situazioni. In altre parole, non sarebbe l’ambiente in sé ad avere un’ influenza su di noi, ma il modo in cui ci rappresentiamo l’ambiente stesso.

La prospettiva cognitivista definisce, infatti, l’emozione come il risultato di valutazioni cognitive che l’individuo attua di fronte ad uno stimolo interno o esterno a sé (Schacther, Singer, 1962; Lazarus 1982; Scherer, 1984).

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Due psicologi della Columbia University, Schatcher e Singer (1962), sostennero ad esempio in parte l’ipotesi di James ma, diversamente da lui, erano convinti che, sebbene tutte le risposte fisiche all’emozione (battito accelerato, mani sudate ecc) fossero un campanello d’allarme per informare il cervello della presenza di uno stato di eccitazione, essendo comuni a molte diverse emozioni (paura, amore, rabbia ecc) non identificassero esattamente un particolare stato di agitazione. Sono le informazioni raccolte in merito al contesto in cui il soggetto si trova a consentire di apporre un’etichetta ad una emozione piuttosto che ad un’altra.

Le emozioni dunque, secondo questa prospettiva, rappresentano il risultato di una interpretazione cognitiva di certe situazioni sociali. (Tabella 1)

STIMOLO ECCITAZIONE CEREBRALE VALUTAZIONE COGNITIVA DELLA SITUAZIONE SENTIMENTO

Tabella 1. La teoria dell’eccitazione cognitiva di Schachter e Singer

Un tema, quello della valutazione, molto discusso e fondamentale per la prospettiva cognitivista. Molti furono, infatti, gli scienziati che ne compresero l’importanza (Lazarus, 1966; Smith, Ellsworth, 1985, Turner, 1990, Arnold, 1960) vedi morganti sostenendo che non solo uno stimolo è in grado di produrre una certa reazione emotiva o un sentimento emotivo, ma è prima di tutto il nostro sistema cerebrale a valutarne l’importanza, motivo per cui si verificano tendenze all’azione (avvicinamento) e tendenze all’allontanamento (fuga) dinnanzi a determinate situazioni (Tabella 2)

STIMOLO VALUTAZIONE TENDENZA

ALL’AZIONE

SENTIMENTO

Tabella 2. La teoria della valutazione

Le scienze cognitive, sin dagli anni ’60, cominciarono a consolidare sempre più il legame tra cognizione ed emozione, diventando la prima il presupposto fondamentale della seconda (Morganti, 2012).

In questi anni furono soprattutto le teorie psicologiche dell’appraisal a legare le emozioni alla dimensione cognitiva, secondo cui le emozioni non costituiscono eventi improvvisi e casuali, attivati dall’evento in sé e per sé, ma la conseguenza di un’attività conoscitiva e valutativa della situazione. (Morganti, 2012).

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La prospettiva socio-costruzionista sostiene, invece, che il ruolo comunicativo delle emozioni è quello di stabilire delle relazioni con gli altri (Trevarthen, 1979; Harrè, 1986; Saarni, 1999). Ciò che emerge da questo breve excursus storico sono quindi soprattutto la multifattorialità dell’evento emotivo, non più espressione disarticolata di sé con valenze adattive, o puro evento intrapsichico, quanto piuttosto sintesi tra la valutazione cognitiva di una situazione, attivazione dell’organismo, espressione della risposta emotiva e prontezza all’azione; un evento multidimensionale in cui si intrecciano elementi biologici, psichici e sociali (Morganti, 2012). Recentemente è stato definito multimodale l’approccio secondo cui l’emozione, per essere considerata tale, deve essere suscitata da uno specifico stimolo esterno o interno all’individuo, durare per un periodo di tempo limitato ed essere costituita da varie componenti o modalità di reazione (attivazione fisiologica, valutazione della situazione- stimolo innescante, componente motivazionale, comportamento espressivo e sentimento o vissuto soggettivo). (Schmidt e Tinti, 2002).

Negli ultimi anni l’attenzione si è diretta molto anche verso lo sviluppo della meta emozione, divenuta oggetto di studio della psicologia dello sviluppo rappresentando il paradigma di ricerca con cui si traduce il processo meta cognitivo nello sviluppo delle emozioni (Pellerey, 2003). Riferendosi alle competenze meta-emotive si includono tutti i processi auto-regolativi tramite cui un soggetto, consapevole dell’esistenza di un’emozione, si interroga sulla sua natura, sulle sue cause e sulle modalità di esprimerle e condividerle con l’ambiente (Pons e Doudin, 2000).

Secondo Goleman l’attitudine emozionale rappresenta, infatti, una vera e propria meta-abilità che determina quanto sappiamo utilizzare al meglio le nostre capacità emotive ed intellettuali per fronteggiare gli ostacoli quotidiani (Morganti, 2012).

Un lavoro sistematico sulle cosiddette competenze meta-emotive è stato inoltre svolto da Pons ed Harris (2000, 2004) tramite la costruzione e l’impiego di un test, il Test of Emotion Comprehension (TEC).

Per quanto concerne invece lo studio nell’ambito dell’intelligenza, alcune ricerche si sono concentrate prevalentemente sulle abilità cognitive di base (Binet, 1905; Spearman, 1923), altre hanno indicato un ampliamento del numero dei fattori concorrenti alla definizione del concetto di intelligenza (Thurstone, 1938) rivolgendo anche l’attenzione al contesto dentro cui il soggetto si trova. In questo senso è emblematica la teoria proposta da Sternberg (1984) secondo cui l’intelligenza è il risultato di processi di tipo logico-astratto (intelligenza componenziale), ma

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anche come l’insieme delle abilità di adattarsi all’ambiente (intelligenza contestuale), di far fronte a compiti nuovi e automatizzare l’esecuzione di quelli già noti (intelligenza empirica). Altri contributi teorici hanno evidenziato

In passato una certa letteratura aveva posto in antitesi pensiero ed emozioni, tanto da considerare queste ultime come un ostacolo al pensiero razionale (Young, 1936; Schaffer, Gilmer e Schoen, 1940; Woodworth, 1940). Un riferimento al concetto generale di EI era però già presente in alcuni studiosi, come ad esempio Thorndiken (Mavroveli, Petrides, Rieffe e Bakker, 2007).

Infatti, nel 1920, Thorndike definisce l’intelligenza sociale per identificare e descrivere i comportamenti non rilevabili facendo riferimento al semplice quoziente intellettivo (QI).

In seguito, il termine intelligenza emotiva è stato utilizzato occasionalmente nella letteratura accademica a partire dalla metà degli anni ’60 (Greenspan,1979; Leuner, 1966; Payne, 1986). Successivamente studiosi come Gardner (1983) e Sternberg (1988) hanno suggerito degli approcci più inclusivi per definire, descrivere e comprendere l’intelligenza.

Gardner elaborò la cosiddetta teoria delle intelligenze multiple che rappresenta una sorta di punto di svolta nello studio dell’intelligenza. Prima di questa teoria, infatti, la valutazione del Quoziente Intellettivo (QI) veniva calcolata in base a due tipologie di intelligenza, quella logica e quella linguistica. E’ con Gardner quindi che le emozioni assumono per la prima volta lo status di vere e proprie espressioni dell’intelligenza. Nella sua teoria delle intelligenze multiple egli affianca all’intelligenza linguistico-verbale, logico-matematica, corporeo-cinestetica, spaziale, musicale, naturalistica ed esistenziale anche un’intelligenza intra-personale ed una inter-personale, considerando la prima come la capacità di riconoscere ed avere accesso ai propri sentimenti, rappresentarli ed utilizzarli come chiavi di lettura per il proprio comportamento, e la seconda come la capacità di riconoscere e comprendere quelli altrui, comportandosi di conseguenza.

“La gran parte della gente, quando usa la parola intelligenza pensa che ci sia una singola intelligenza con la quale si nasce e che non si può cambiare molto. Si attribuisce un gran valore a quello che si chiama un IQ test, una serie di domande alle quali si risponde bene o meno bene. Io penso che il test del quoziente intellettivo sia una misura ragionevole del rendimento delle persone a scuola, ma esso offre una visione molto ristretta di come sia l’intelletto umano una volta usciti dalla scuola. (Gardner, 1997).

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La teoria delle intelligenze multiple apre, infatti, la strada anche ad un approccio più individualista della formazione, dove ciascun soggetto deve poter essere messo nelle condizioni di poter imparare focalizzandosi sui suoi punti di forza e sulle sue modalità di apprendimento.

Ognuna delle nove intelligenze presentate da Gardner si caratterizza per modalità proprie di elaborazione dell’informazione, avvicinandosi in parte alla posizione di una mente modulare proposta da Fodor (1983). Ogni persona, quindi, può presentare spiccati talenti, anche se è possibile, tramite l’esperienza e l’apprendimento, sviluppare tutte le diverse intelligenze.

Quella dell’intelligenza misurabile tramite il QI rimane per Gardner quindi una visione riduttiva e parziale, perché ognuno di noi possiede una particolare attitudine e propensione, un talento e, dunque, un’intelligenza.

Secondo questo tipo di approccio è necessario quindi individualizzare il percorso educativo tenendo conto della tipologia di intelligenza maggiormente sviluppata nel discente e fare quindi anche un uso differenti di testi, immagini, animazioni, audio e filmati.

“Non esistono due persone che abbiano esattamente la stessa combinazione di intelligenze. Qualcuno è più forte nell’intelligenza linguistica, qualcuno in quella spaziale. Anche la modalità secondo cui combiniamo le intelligenze o non le combiniamo è diverso e non possiamo quindi trattare tutti come se fossero uguali, possiamo cercare di personalizzare ed individualizzare l’educazione il più possibile. (Gardner, 1997)

Sebbene Gardner non utilizzasse all’epoca il termine intelligenza emotiva, i concetti da lui elaborati di intelligenza intra-personale ed inter-personale fornirono una base per i modelli successivi di intelligenza emotiva.

In seguito, nel 1980, Carolyn Saarni introduce un concetto verso cui la psicologia dello sviluppo sta mostrando un crescente interesse, ovvero quello di competenza emotiva, definita come l’insieme delle capacità che consentono di riconoscere, comprendere, rispondere coerentemente alle emozioni altrui e regolare l’espressione delle proprie (In Albanese, Lafortune, Daniel et. Al. 2006). Saarni descrive l’intelligenza emotiva come il risultato di otto abilità:

1. la consapevolezza dei propri stati emotivi 2. la capacità di percepire le emozioni degli altri

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4. l’empatia

5. la capacità di operare una distinzione tra gli stati emotivi manifestati e quelli provati 6. la capacità di coping adattivo tramite un processo di autoregolazione

7. la consapevolezza dell’importanza della comunicazione nelle relazioni interpersonali 8. l’autoefficacia emotiva.

Il contributo di Saarni è innovativo: offre, infatti, importanza alla connessione relativa ai fattori personali (capacità di base), sociali (comportamenti appresi) e culturali (valori), evidenziando come l’individuo emotivamente competente utilizzi le proprie capacità emotive in contesti culturali specifici per il raggiungimento dei risultati socio-relazionali desiderati.

Saarni, inoltre, focalizza la propria attenzione sulla sfera meta cognitiva, ovvero sulla consapevolezza e la capacità di gestione delle proprie emozioni.

Successivamente, nel 1988, Bar-On, introduce per la prima volta accademicamente il termine Quoziente emozionale (EQ). L’autore descrive l’IE come un’insieme di capacità non cognitive, competenze ed abilità apprese che influenzano le qualità degli individui nel far fronte in modo efficace alle richieste ed alle pressioni ambientali (an array of non cognitive capabilities, competencies, and skills that influence one’s ability to succeed in coping with environmental demands and pressures, Bar-On, 1997b).

Una definizione questa che evidenzia una non ovvia distinzione tra i fattori intellettivi che possono agevolare lo sviluppo delle competenze emotive e le abilità che possiamo aspettarci come competenze emotive già in possesso della persona. L’EI e l’intelligenza cognitiva sono, sostiene Morganti (2012), tasselli indispensabili per contribuire alla costruzione di un’intelligenza generale, offrendo indicazioni del proprio potenziale per avere successo nella vita.

Nel suo modello di Bar-On l’EI viene descritta come un insieme di più dimensioni. Lo studioso condivide con Goleman l’idea che l’EI possa svilupparsi nel tempo e migliorarsi tramite la formazione (Bar-On, 2007).

Nel suo teorizzare Bar-On si chiede come mai esistano persone che nella vita hanno maggiore successo di altre, e quali siano le caratteristiche di personalità che consentano di raggiungere questo tipo di successo. Identifica così cinque aree rilevanti: la dimensione intra-personale, la dimensione inter-personale, la gestione dello stress, l’adattabilità e l’umore.

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Alcune delle dimensioni che concorrono a definire l’EI sono visibilmente sovrapponibili a quelle di personalità. Bar-On definisce, infatti, gli aspetti dell’umore, più che come effettivi componenti dell’EI, come facilitatori di comportamenti emotivamente e socialmente intelligenti (2007). Partendo dalle teorie evoluzionistiche darwiniane, Bar-On sostiene che il suo modello di EI metta in luce l’importanza delle abilità di prosperare e di evolvere come individui. Questo elemento rappresenta il maggiore elemento di interesse di quella che al momento è definita come positive

psychology (Seligman, Csikszentmihalyi, 2000; Gable, Haidt, 2005).

La psicologia positiva è considerata una corrente scientifica di studi vicina alla psicologia di stampo umanista di Maslow (1950) e Jahoda (1958) che include una quantità di campi di indagine che pongono l’accento sulla capacità del soggetto di “fiorire” mettendo in luce i propri punti di forza e di debolezza. I fattori maggiormente indagati sono: l’auto-accettazione, l’autostima, l’autoconsapevolezza, le abilità di intuire e comprendere i sentimenti degli altri, le capacità interpersonali, l’altruismo, la responsabilità, la cooperazione e il lavoro di gruppo, il problem solving e l’autoregolazione (Morganti, 2012).

In un recente studio Bar-On (2010) fa notare come, dopo una serie di ricerche empiriche, individua sei aree di interesse comune tra l’EI e la psicologia positiva:

1. autostima e auto accettazione basate sull’autoconsapevolezza;

2. abilità di comprendere sentimenti e capacità degli altri per poter instaurare relazioni positive;

3. controllo e gestione delle emozioni;

4. capacità di problem solving e decision making; 5. autodeterminazione;

6. ottimismo.

Questi fattori sembrano essere anche predittivi delle performance individuali, della felicità, del benessere e del significato che le persone conferiscono alla loro vita.

Nel 1990 il termine intelligenza emotiva fu formalmente coniato da Peter Salovey, attuale rettore dell’Università di Yale, e da John Mayer (Mayer, Di Paolo e Salovey, 1990; Salovey e Mayer, 1990). Questi, per primi, hanno proposto il costrutto di intelligenza emotiva, definendone il modello teorico e descrivendola come l’abilità di elaborare le informazioni emozionali in modo accurato ed efficiente, di percepire, assimilare, comprendere e gestire le emozioni (Mayer, Salovey e Caruso, 2000).

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In questo modello, quindi, l’EI è definita come un set di abilità cognitive che coinvolge quattro ampie classi di abilità: la percezione, l’assimilazione delle emozioni, la comprensione e la

gestione delle emozioni. I primi due ambiti (percezione ed utilizzo delle emozioni) vengono descritti come componenti esperienziali, mentre gli ultimi due (comprensione e gestione delle emozioni), come componenti strategiche dell’EI (Mayer, Salovey e Caruso, 2002). La percezione

emotiva rappresenta la capacità di essere consapevoli delle emozioni (riconoscendole anche nei volti e nelle immagini) e di esprimere le emozioni e le esigenze emotive con precisione. L’assimilazione emotiva, fa riferimento alla capacità di fare una distinzione tra emozioni diverse e di identificare quelle che influenzano i processi mentali. Il terzo ramo, la comprensione emotiva, costituisce la capacità di comprendere le emozioni complesse e la capacità di riconoscere le transizioni da una all’altra. Infine, il quarto ramo, la gestione delle emozioni, rappresenta la capacità di connettersi o disconnettersi da un’emozione a seconda della sua utilità in una determinata situazione (Mayer & Salovey, 1997).

Una panoramica di questo modello è illustrata nella Figura 2, che riassume i quattro rami e le fasi corrispondenti nell’elaborazione delle emozioni associate a ciascun ramo (Stys and Shelley, 2004). La teoria dell’intelligenza emotiva proposta da Salovey e Mayer si concentra quindi sulle abilità emotive che possono essere sviluppate tramite l’apprendimento e l’esperienza.

Gli autori considerano infatti le emozioni come vere e proprie risposte organizzate che attraversano diversi sottosistemi psicologici e perciò considerano l’utilizzo e l’elaborazione delle informazioni emotive come parte integrante del comportamento intelligente (Salovey e Mayer,1990).

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Figura 2: Mayer and Salovey’s (1997) Four-Branch Model of Emotional Intelligence

Successivamente, nel 1995, Goleman, uno psicologo cognitivista, rese popolare il concetto di EI definendone il ruolo nel successo della vita delle persone come un fattore preponderante tramite la pubblicazione di un libro intitolato Intelligenza emotiva, che in un breve periodo di tempo, è entrato nella lista dei best seller più letti al mondo con più di cinque milioni di copie vendute. La notorietà raggiunta tramite la diffusione di questo testo ha portato alcuni studiosi a ritenere il suo modello come semplice “psicologia popolare” riferendosi a teorie e costrutti psicologici che trovano diffusione nel grande pubblico (Mayer, Roberts, Barsade, 2008).

Certamente il merito di Goleman è stato quello di aver diffuso il concetto ed avviato un possibile dibattito, soprattutto in ambito educativo sul valore della dimensione emotiva negli apprendimenti.

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Gardner, rispetto a Goleman, si è ispirato, nei propri studi sulle emozioni, ad un modello della mente proprio delle scienze cognitive, concentrandosi in modo esclusivo sulla cognizione relativa a queste (meta-cognizione e meta-emozione).

Goleman, contrariamente a Gardner, considera l’EI non un talento innato, ma un insieme di competenze ed abilità emotive. Per Goleman quindi l’EI è un costrutto che racchiude cinque domini principali:

Autoconsapevolezza. Per lo studioso la conoscenza delle proprie emozioni rappresenta la vera chiave di volta dell’EI. La consapevolezza di sé e del proprio stato emotivo rappresenta la capacità di guardarsi dentro, di essere consci dei propri valori, obiettivi, regole, comportamenti, motivazioni ed emozioni;

Autocontrollo. Goleman ritiene che saper gestire e controllare le proprie emozioni renda le persone in grado di indirizzarle nel modo più appropriato alle diverse situazioni, riuscendo meglio a tollerare condizioni di stress;

Auto-motivazione. Per Goleman è la capacità di dare un ordine ad azioni, emozioni e pensieri con lo scopo di raggiungere un obiettivo, in altre parole canalizzare le proprie forze emotive interiori in vista del raggiungimento di specifici traguardi;

Consapevolezza sociale o empatia. Il riconoscere le emozioni degli altri fa riferimento alla capacità di “mettersi nei panni altrui” ed entrare in profondità in compartecipazione nei pensieri e nei sentimenti delle persone con cui entriamo in relazione. La teoria della mente (Wimmer, Perner, 1993; Hadwin, 1999) definisce tale abilità mentalizzazione, la quale si struttura attorno al 4 anno di vita intuendo intenzioni, desideri, volontà;

Gestione delle relazioni sociali. Goleman ritiene, infatti, che chi possiede buone abilità sociali sia maggiormente in grado di gestire le relazioni interpersonali, risolvere i conflitti e negoziare soluzioni.

Secondo Goleman tutti e cinque i domini di cui si compone l’EI possono essere insegnati ai bambini, in modo tale da permettere a loro di far fiorire qualsiasi tipo di talento ed intelligenza abbiano. Lo studioso considera, infatti, l’EI come un’abilità intellettuale e non un tratto di personalità, qualcosa quindi che può essere sviluppato tramite l’apprendimento e le esperienze.

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Intelligenza emotiva e misurazione

Orientarsi tra i vari modelli esistenti di EI, con le loro profonde differenze, non è semplice.

Un modo efficace per organizzarli è quello proposto da Mayer, Salovey e Caruso (2000), nella loro distinzione tra mixed models ed ability models.

Alla prima categoria apparterrebbero tutti i modelli che considerano l’EI come un misto di tendenze comportamentali, motivazionali e affettive come nel caso di Bar-On (1997) o di Goleman (1995). Alla seconda categoria invece apparterrebbe il quadro di riferimento teorico proposto da Mayer e Salovey (1997) in cui sono ritenute componenti costitutive dell’EI soltanto variabili di tipo cognitivo e abilità mentali, mentre dimensioni di altro genere, riguardanti le differenze tra gli individui, vengono scartate proprio poiché non possono incontrare i criteri classicamente predefiniti per l’intelligenza (Mayer, Caruso e Salovey, 1992).

Petrides e Furnham (2000, 2001, 2003) hanno proposto uno schema leggermente diverso per inquadrare i modelli di EI esistenti, distinguendo tra trait EI o ability EI.

Il primo tipo considera anche tratti di personalità come rilevanti per le differenze individuali nei processi emotivi, come nel caso di Bar-On (1997) mentre l’ability EI corrisponde a modelli come quello di Mayer e Salovey (1997), i quali considerano le abilità cognitive come cruciali per l’EI. Questi due costrutti si differenziano in base al metodo di misura utilizzato per la loro operazionalizzazione.

Nel modello del trait EI, l’intelligenza emotiva viene misurata tramite dei test di auto-valutazione. Nel modello ability EI, invece, l’intelligenza emotiva viene misurata attraverso un test di misurazione della perfomance dei soggetti coinvolti in compiti che implicano le abilità target individuate in quanto componenti dell’EI. Gli autori che sostengono tale modello, infatti, sostengono che non è utile né attendibile misurare l’EI tramite test di auto-valutazione. (…) Per altri studiosi (Mavroveli, Petrides, Rieffe e Bakker, 2007), al contrario, l’EI intesa come abilità risulta problematica da misurare poiché la soggettività dell’esperienza emozionale rappresenta una sfida notevole per chiunque voglia creare un test che misuri questo costrutto creando item che possano cogliere in modo completo ed oggettivo l’ambito dell’abilità cognitivo-emotivo.

Con l’obiettivo di facilitare la ricerca in questo settore, Salovey e Mayer hanno sviluppato dei test per poter misurare questa abilità. Il primo test è stato chiamato MEIS (Multifactor Emotional

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Intelligence Test; Mayer, Caruso & Salovey, 1998). Questo strumento è stato successivamente migliorato, portando poi all’elaborazione di un test più breve, più affidabile e meglio regolato chiamato MSCEIT (Mayer, Salovey e Caruso, Emotional Intelligence Test, 2001), elaborandone anche una versione per bambini nel 2005, il MSCEIT-YV (Mayer, Salovey, Caruso, Emotional Intelligence Test Youth Version).

Il MSCEIT misura l’EI partendo dal presupposto teorico che l’EI sia un’abilità cognitiva a tutti gli effetti e considerandola come un tipo di intelligenza valutabile, così come si usa per i test QI e punta a misurare le quattro abilità (percepire le emozioni, utilizzarle, comprenderle e gestirle) delineate nel modello di EI di Salovey e Mayer per individuare in che modo queste sono di supporto alla dimensione razionale, in modo tale da promuovere una crescita sia sul piano emotivo che intellettuale. Il test, oggi disponibile sia in forma cartacea che on-line, è costituito da 141 item, suddivisi in otto compiti (due per ogni ambito) da cui si ottengono quattro punteggi: uno totale, uno per ciascuno dei quattro ambiti, e due di area (experiential EI che comprende gli ambiti relativi alla percezione e all’uso delle emozioni; e lo strategic EI, che comprende gli ambiti relativi alla comprensione e alla gestione delle emozioni). I compiti che vengono presentati ai soggetti sono di diverso tipo e non sono solamente verbali. La percezione delle emozioni viene ad esempio misurata tramite item che richiedono di identificare le espressioni facciali delle emozioni o di indicare il grado in cui figure geometriche o paesaggi suscitano un particolare stato emotivo. L’applicabilità di questo strumento si è rivelato utile in ambito educativo, aziendale, clinico, medico e di ricerca. In particolare in ambito scolastico è stato utilizzato per identificare e gestire problematiche comportamentali e condotte violente e devianti (Morganti, 2012).

In particolare, nel caso della trait EI si ricorre invece a strumenti di tipo soggettivo (self-reports) oppure a strumenti che affiancano scale di auto-valutazione a scale di etero-valutazione.

Nel modello dell’EI di tratto sono quattro le dimensioni che vengono in particolar modo studiate: il benessere (tratti relativi all’umore); l’autocontrollo (tratti relativi alla regolazione di emozione ed impulsi); l’emotività (tratti relativi alla percezione ed alla espressione delle emozioni); la

socievolezza (tratti relativi all’utilizzazione e alla gestione interpersonale delle emozioni).

(Petrides, Pita e Kokkinaki, 2007).

Per quanto concerne i test relativi alla Trait EI, i più conosciuti sono: l’Emotional Quotient

Inventory (EQ-i) di Bar-On (1997a, 1997b), l’Emotional Competence Inventory (ECI) di Sala (2002) basato sul modello di Goleman, lo Schutte Self-Report Index (SSRI) di Schutte, Malouff,

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