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Ricostituzione immunologica dopo trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche.

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Academic year: 2021

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"L'analisi quantitativa, così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un'opera seria e concreta. Serviva: era inquadrata in un piano, una tessera di un mosaico. Il metodo analitico che seguivo non era più un dogma libresco, veniva ricollaudato ogni giorno, poteva essere affinato, reso conforme ai nostri scopi, con un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto."

Primo Levi, Il Sistema Periodico, Nichel.

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Indice

1 Introduzione.

1.1 Il trapianto di cellule staminali.

1.1.1 Le cellule staminali.

1.1.2 Fonte delle cellule staminali.

1.1.3 Il sistema HLA e la compatibilità

ricevente/donatore.

1.1.4 Il condizionamento.

1.1.5 Reazione del trapianto contro l'ospite.

1.2 La ricostituzione immunologica.

1.2.1 Fasi della ricostituzione.

1.2.2 Immunità innata.

1.2.3 Immunita adattativa.

1.2.3.1 Immunità B.

1.2.3.2Immunità T.

1.3 La timopoiesi

1.3.1 Il Timo.

1.3.2 Il riarrangiamento VDJ nei timociti.

1.3.3 Fasi iniziali della maturazione T.

1.3.4 L'acquisizione delle proprietà immunologiche.

1.3.5 La differenziazione in cellule T effettrici e

della memoria

1.3.6 I linfociti T regolatori.

1.3.7 I linfociti T γδ

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2 Scopo della Tesi

3 Materiali e Metodi.

3.1 Caratteristiche dei Pazienti.

3.2 Dosaggio plasmatico delle Immunoglobuline.

3.3 Citofluorimetria di flusso.

3.4 Test di immunostimolazione in vitro.

3.5 Dosaggio plasmatico dello Zinco.

3.6 Separazione cellule mononucleate con gradiente di

densità Ficoll-Hypaque.

3.7 Estrazione DNA genomico.

3.8 PCR multiplex per l’analisi dei micro satelliti.

3.9 T deplezione in vitro.

4 Risultati.

4.1 Risultati clinici.

4.2 Analisi della ricostituzione:

4.2.1. La produzione di immunoglobuline.

4.2.2. La zinchemia.

4.2.3. Le popolazioni individuate dalla

citofluorimetria.

4.2.4. La produzione di citochine sotto

stimolazione.

5 Discussione.

6 Conclusioni.

Bibliografia.

Ringraziamenti.

(4)

Indice delle

Abbreviazioni.

APC: antigen presenting cell

CMV: Citomegalovirus

DMSO: dimetilsulfossido

DN: double-negative

DP: double-positive

FBS: fetal bovine serum

G-CSF: granulocytes colony stimulating factor

GvD: graft versus disease

GvHD: graft versus host disease

 aGvHD: acute graft versus host disease

 cGvHD: chronic graft versus host disease

GvT: graft versus tumor

HLA: human leukocytes antigen

IFN-γ: interferone γ

Ig: immunoglobulina

IL: interleuchina

LMA: leucemia mieloide acuta

LLA: leucemia linfoblastica acuta

MHC: major histocompatibility complex

MM: mieloma multiplo

MMUD: mismatched unrelated donor

MUD: matched unrelated donor

NK: natural killer

PBG: peptide binding groove

PBS: phophate buffered saline

RIC: reduced intensity conditioning

RTE: recent thymic emigrants

SNP: single nucleotide polymorphism

TCR: T-cells receptor

TEC: thymic epitelial cell

TNF: tumor necrosis factor

TRECs: T-cell receptor rearrangement excision circles

Treg: regulatory T cells

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1. Introduzione

1.1 Il Trapianto di Cellule Staminali Ematopoietiche.

Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è un'importante opzione terapeutica per la cura di numerose patologie ematologiche sia acquisite che congenite. L'obiettivo del trapianto è quello di sostituire il compartimento ematopoietico deficitario del paziente con un patrimonio di cellule staminali in grado di ricostruire e sostenere la normale attività ematopoietica ed immunitaria a lungo termine.

I primi trapianti sperimentali di cellule staminali, prelevate da milza e midollo osseo, risalgono alla metà del secolo scorso. Queste esperienze furono fondamentali per comprendere che le cellule vive trapiantate sono in grado di ricostituire un sistema ematopoietico funzionante e in questo modo allungare la sopravvivenza di topi sottoposti a irradiazioni letali [Barnes e Loutit 1954].

Risale al 1956 il primo impiego sperimentale del trapianto di cellule staminali emopoietiche per il trattamento della leucemia: il gruppo di Barnes trattò infatti una leucemia murina tramite irradiazione letale e trapianto di cellule staminali midollari, ponendo così le basi per l'applicazione del trattamento sull'uomo. [Barnes et al.1956]. Vero punto di svolta nella storia del trapianto di midollo osseo, e della trapiantologia in generale, fu, negli anni '60, la scoperta del sistema di istocompatibilità (Human Leukocyte Antigen HLA), che dimostrò di essere cardinale nella determinazione della prognosi dei soggetti trapiantati.

Ad oggi nella pratica clinica trovano impiego due tipologie di trapianto: quello autologo, che prevede l'impiego di cellule staminali prelevate dal paziente in momenti clinicamente favorevoli, e quello allogenico, nel quale le cellule staminali vengono isolate da un donatore sano, compatibile.

1.1.1 Le cellule staminali ematopoietiche.

Le cellule staminali sono definite come cellule non differenziate in grado di replicarsi per periodi indefiniti, rinnovandosi autonomamente e generando una progenie funzionale di cellule altamente specializzate. Nell'adulto si possono trovare cellule staminali multipotenti in tutti i tessuti, la cui funzione fisiologica è mantenere l'omeostasi nei tessuti dell'organismo bilanciando la perdita di cellule specializzate e permettendo la ripopolazione dei tessuti danneggiati.

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Le cellule staminali ematopoietiche, cioè quelle cellule che nell'adulto, replicandosi e differenziandosi, mantengono e, al bisogno, incrementano le popolazioni cellulari ematiche e del sistema immunitario, restano per la maggior parte in una fase di quiescenza G0 ed entrano nel ciclo cellulare in piccola quantità [Arai F Suda T. 2007]. Questa “politica” consente a queste cellule di mantenere attiva l'ematopoiesi per tutta la vita e al tempo stesso di proteggersi da eventuali stimoli mielotossici in cui potrebbe incorrere l'organismo.

Qualora ci fosse bisogno di rigenerare rapidamente una o più popolazioni differenziate, le cellule staminali ematopoietiche sono in grado di abbandonare lo stato di quiescenza in massa, come accade in caso di infezione, sanguinamento massivo o pacitopenia indotta da chemioterapia.

Le cellule staminali sono identificate sulla base dell'espressione sulla membrana cellulare del marker denominato CD34.

1.1.2 Fonte delle cellule staminali.

Nella pratica odierna, le cellule CD34+ possono essere isolate da tre diverse fonti cellulari:

 sangue del cordone ombelicale;  sangue midollare;

 sangue periferico dopo mobilizzazione con chemioterapia/citochimica (G-CSF) Le tre fonti hanno caratteristiche differenti che incidono sui risultati del trapianto. Delle tre il sangue di cordone ombelicale permette di isolare cellule meno differenziate. Questo riduce l’incidenza di fenomeni avversi come la malattia del trapianto contro l’ospite (graft versus host disease - GvHD) ma rallenta l’attecchimento del trapianto prolungando il periodo di neutropenia ed esponendo il paziente ad un aumentato rischio di contrarre infezioni opportunistiche [Hamza NS et al, 2004]. Inoltre la possibilità di isolare un numero di cellule sufficiente per rendere la procedura applicabile anche in pazienti non pediatrici rimangono limitate. Negli ultimi anni tuttavia si stanno sviluppando approcci di manipolazione cellulare per espandere in vitro sia le cellule staminali che le cellule mature in modo da rendere il trapianto possibile anche in pazienti adulti senza esporli ad un periodo eccessivamente prolungato di neutropenia. Le altre due fonti cellulari sembrano essere paragonabili in quanto ad efficienza di isolamento e proprietà cellulari (efficacia di attecchimento duraturo, vitalità cellulare). L’isolamento di cellule staminali ematopoietiche da sangue periferico, dopo mobilizzazione, risulta tuttavia tecnicamente più semplice, ed è generalmente tollerato molto meglio da parte del donatore consentendo contestualmente di isolare un numero maggiore di cellule. Ne consegue una migliore efficacia nelle strategie di “purging”, ovvero nelle metodiche atte a “ripulire” il trapianto dalle frazioni cellulari indesiderate, nonché un aumento nella velocità di attecchimento [JJ Auletta et HM Lazarus, 2005].

1.1.3 Il sistema HLA e la compatibilità ricevente-donatore.

L'omologia genetica tra il donatore e il ricevente per il locus MHC (Major Histocompatibility Complex) dove mappano i geni HLA (Human Leukocytes Antigens) è un fattore determinante per l'esito di un trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.

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Questo sistema di identificazione è basato su più di duecento geni e occupa 4.2Mbp in posizione 6p21.3, questo spazio è diviso in tre regioni: I (contenente i geni HLA-A, HLA-B e HLA-C), HLA-II (contenente HLA-DR, HLA-DQ e HLA-DP), HLA-III, che si trova tra le altre due e contiene molti geni tra cui fattori del complemento e il recettore per il tumor necrosis factor TNF.

Il ruolo principale delle molecole HLA, prodotto della trascrizione dei geni suddetti, è di presentare i peptidi ai linfociti preposti, permettendo il riconoscimento e l'eliminazione di elementi “estranei” presenti nell'organismo.

Si tratta di glicoproteine transmembrana che contengono un dominio detto peptide binding groove (PBG), nel contesto del quale vengono inseriti peptidi frutto del metabolismo proteico cellulare, sia fisiologico che patologico. La maggior parte dei polimorfismi si localizza proprio nella sequenza condificante il PBG e i linfociti possono riconoscere peptidi solo se presentati da molecole HLA che includono un PBG uguale a quello incontrato durante la timopoiesi. Ne consegue che a seguito del trapianto allogenico il sistema immunitario del ricevente, che si sta ricostituendo a partire dalle cellule reinfuse del donatore, è costantemente a rischio di riconoscere molecole HLA proprie come non self, dando origine ad una reazione immune del trapianto contro l'ospite. Questo rischio è proporzionale alla disomogeneità genetica tra i sistemi HLA del donatore e del ricevente, aumentando per ogni mismatch (differenza di antigeni HLA) presente. Il peso di ogni antigene HLA non è tuttavia sempre identico, presentando alcuni antigeni una maggior immunogenicità rispetto ad altri e pertanto un maggior rischio di GvHD.

Le proteine HLA di classe I mediano il riconoscimento antigenico da parte dei linfociti T citotossici nonché da parte dei linfociti Natural Killer (NK) e sono sintetizzate da tutte le cellule nucleate di un individuo. Diversamente, le molecole HLA di classe II sono espresse solo da particolari tipi di cellule (o in particolari condizioni) che prendono il nome di APC professionali (cellule presentanti l’antigene o antigen presenting cells). La funzione di queste ultime è quella di stimolare i linfociti T helper attraverso l’esposizione di antigeni non-self con conseguente attivazione della risposta immunitaria adattativa.

Nonostante l'immenso polimorfismo mostrato dal sistema HLA il suo meccanismo di trasmissione ereditaria resta quello mendeliano perché questi geni sono raggruppati in regioni cromosomiche ristrette. La probabilità che avvengano fenomeni di ricombinazione omologa durante la meiosi è quindi estremamente bassa. Ciò implica che gli alleli vengano ereditati insieme come aplotipi. Gli alleli del sistema HLA sono codominanti e pertanto vengono sempre espressi entrambi. Per determinare i differenti polimorfismi del sistema HLA sono disponibili diverse tecniche di tipizzazione. La prima metodica sviluppata è stata la determinazione sierologica, o a bassa risoluzione, mediante l’impiego di specifici sieri antilinfocitari. Successivamente sono state sviluppate metodiche di biologia molecolare in grado di fornire tipizzazioni sempre più precise, definite a risoluzione intermedia e alta. Sulla base di queste metodiche possiamo definire ogni allele HLA con un numero composto da quattro cifre separate da “:”. Le due cifre prima di “:” indicano il gruppo sierologico della proteina, ma questa informazione da sola non è sufficiente a identificare l'allele in maniera univoca e con la sicurezza necessaria per procedere al trapianto, sebbene possa risultare utile per un primo screening dei donatori. All'interno di uno stesso gruppo sierologico sono presenti molti sottogruppi, frutto di polimorfismi della zona presentante l'antigene. Per assicurarsi che due alleli appartenenti allo stesso gruppo sieorlogico siano effettivamente uguali e quindi compatibili, sono dunque necessarie indagini a risoluzione intermedia e alta, che vengono indicate con due o più cifre poste dopo “:”.

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Le metodiche di identificazione a risoluzione intermedia identificano differenze nella sequenza amminoacidica delle proteine HLA. Con queste tecniche non individuiamo uno, ma una serie di alleli che presentano polimorfismi diversi pur avendo il medesimo prodotto proteico. L'alta risoluzione è ancora più dirimente perché si basa sulla sequenza genetica dell'allele ed identifica in maniera univoca e precisa ogni polimorfismo.

Sulla base del grado di omologia genetica del sistema di istocompatibilità tra paziente e donatore e del grado di parentela è possibile quindi identificare:

I. Trapianto singenico (da gemello monocoriale) II. Trapianto da donatore familiare HLA compatibile;

III.Trapianto da donatore familiare HLA parzialmente compatibile (HLA mismatch

e aploidentico, ovvero uguale al 50%);

IV. Trapianto da donatore non familiare HLA compatibile (donatore da banca match unrelated donor MUD);

V. Trapianto da donatore non familiare HLA non compatibile (donatore da banca

non compatibile mismatch unrelated donor MMUD);

VI. Trapianto da cordone ombelicale.

Maggiore è il grado di divergenza genetica fra donatore e ricevente maggiore è il rischio di sviluppare reazioni avverse quali rigetto e GVHD. Per ridurre questo rischio potenziale i pazienti sottoposti a trapianto con elevato grado di disparità genetica (aploidentici o MUD/MMUD) possono essere sottoposti a un trapianto di cellule staminali manipolato, come ad esempio in caso di deplezione della frazione T linfocitaria (in vivo o in vitro prima del trapianto).

1.1.4 Il condizionamento.

Prima dell'infusione di cellule staminali, il paziente va incontro ad una fase preparatoria radio-chemioterapica al trapianto che prende il nome di condizionamento. Lo scopo del condizionamento è triplice:

1. creare spazio nel microambiente midollare per permettere l’attecchimento delle cellule staminali somministrate.

2. immunosopprimere il ricevente in modo da evitare i fenomeni di rigetto. 3. Eradicazione la malattia oncologica di base.

In base grado di aplasia midollare causato dal regime di condizionamento questi possono essere classificati in:

i) Regimi di condizionameto mieloablativi; ii) Regimi di condizionamento a ridotta intensità;

iii) Regimi di condizionamento minimamente mieloablativi e immunosoppressivi;

I regimi mieloablativi sono associati ad una profonda aplasia midollare che si traduce in una aumentata esposizione a infezioni opportunistiche nonché ad un incremento nella tempistica del recupero emopoietico. Inoltre l’elevata tossicità tissutale, soprattutto a livello delle mucose, a livello epatico ed a livello renale, rappresenta un’ulteriore limitazione a questo approccio soprattutto in pazienti anziani o con comorbidità significative.

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I condizionamenti non mieloablativi si basano su evidenze cliniche che hanno dimostrato come le cellule immunitarie mature infuse contemporaneamente alle cellule staminali siano in grado di generare un potente effetto antitumorale (graft versus tumor -GvT) [Copeland et al, 2006]. Grazie a questo effetto immunoterapeutico è possibile evitare di esporre il paziente a trattamenti altamente tossicici diminuendo così le complicanze trapiantologiche ed aumentando il numero di soggetti trapiantabili efficacemente. Nei condizionamenti a ridotta intensità si utilizzano chemioterapici in grado di contrastare efficacemente la neoplasia di base. Generalmente questo approccio è adottato per malattie progressive (linfomi ad alto grado, linfomi di Hodgkin) che necessitano di un periodo di riduzione del carico tumorale prima che si sviluppi l’effetto GvT. I regimi minimamente mieloablativi invece si basano sulla somministrazione di soli farmaci immunosoppressori al fine di evitare il rigetto delle cellule staminali somministrate. In questo contesto non vi è alcuna aplasia midollare e l’effetto terapeutico contro le cellule tumorali è mediato esclusivamente dai linfociti del donatore. Questo regime è indicato primariamente per malattie stabili o a progressione molto lenta (mieloma multiplo, linfomi a basso grado).

1.1.5 La Reazione del Trapiato contro l'Ospite.

Una delle principali complicazioni nei trapianti allogenici è rappresentata dall’attivazio-ne del sistema immunitario trapiantato oltre che contro le cellule dall’attivazio-neoplastiche (GvT) an-che nei confronti dei tessuti sani dell’ospite (GvHD). Questa reazione, mediata princi-palmente dai linfociti T citotossici, nel caso dei trapianti HLA-identici, si sviluppa nel 30-50% dei pazienti [Tabbara et al, 2002] ed è diretta contro specifici antigeni detti anti-geni minori di istocompatibilità [Falkenburg et al, 2003]. La loro presenza è dovuta principalmente a polimorfismi di singolo nucleotide (SNPs) che causano l’esposizione di epitopi differenti tra donatore e ricevente. Questi possono indurre un’attivazione del nuovo sistema immunitario con conseguente infiammazione e distruzione dei tessuti del paziente. Nel contesto aploidentico e nei trapianti non perfettamente compatibili queste differenze sono ancora più marcate in quanto oltre agli antigeni minori di istocompatibi-lità vi è anche una differenza a livello degli antigeni maggiori di istocompatibiistocompatibi-lità che vengono riconosciuti come non-self dal nuovo sistema immunitario.

Nel trapianto aploidentico inoltre va considerata l’alloreattività mediata dalle cellule na-tural killer (NK) che attraverso i loro recettori di membrana interagiscono con le mole-cole HLA di classe I [Ruggeri et al, 2007] e possono quindi mediare una reazione cito-tossica contro i tessuti dell’ospite.

Tradizionalmente si riconoscono due forme di GvHD: acuta (aGvHD) e cronica (cGvHD). La distinzione classica, basata sull'insorgenza prima o dopo il centesimo giorno dall'infusione delle cellule staminali, è resa più sfumata dalla rilevazione clinica di sindromi simil-aGvHD oltre il centesimo giorno dall'infusione dopo condizionamento a ridotta intensità (RIC).

La GvHD acuta costituisce, direttamente o indirettamente, la maggior causa di mortalità a breve termine (entro il giorno +100) nei pazienti sottoposti a trapianti di cellule staminali ematopoietiche. La patogenesi della aGvHD è stata attribuita ad un processo trifasico che inizia con il danno tissutale iniziale dovuto al regime di condizionamento, prosegue con l'attivazione delle cellule presentanti l'antigene dell'ospite (host APC) che inducono l'attivazione e la replicazione delle cellule T del donatore e termina con la necrosi tissutale indotta dalle citochine infiammatorie rilasciate nel processo.

Questo processo è parzialmente modulato nella aGvHD dalla presenza di cellule capaci di inibire la risposta immune, principalmente le cellule T regolatorie (T-regs).

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Clinicamente, la GvHD si manifesta con uno o più dei seguenti segni: reazione eritematosa della cute, malattia epatica colestatica e disfunzione gastrointestinale. Il quadro clinico è estremamente polimorfo e di intensità variabile, da una forma lieve e autolimitante fino ad una forma grave e potenzialmente fatale.

La GvHD cronica è un disordine dell'immunoregolazione che compare dopo trapianto di cellule staminali ematopoietiche e condivide aspetti delle patologie autoimmuni e delle immunodeficienze. Anche la cGvHD si considera indotta dalle cellule immunitarie del donatore ma la patogenesi è meno chiara di quella della aGvHD. I linfociti T reattivi contro l'ospite giocano sicuramente un ruolo chiave, sebbene studi recenti hanno individuato un ruolo importante anche delle cellule B [Shimabukuro-Vornhagen et al. 2009].

1.2 La ricostituzione immunologica

1.2.1 Fasi della ricostituzione immunologica.

La ricostituzione immunologica è il lento e processo di recupero di un sistema immune efficace dopo trapianto di cellule staminali ematopoietiche.

L'aumento dei granulociti oltre le cinquecento unità per millimetro cubo che duri almeno tre giorni consecutivi è definito attecchimento e rappresenta il primo segno clinico della replicazione delle cellule staminali trapiantate. Il tempo dell'attecchimento varia in base al regime di condizionamento utilizzato, nei regimi mieloablativi compare mediamente al 16 giorno. La cinetica del recupero immunitario può essere suddivisa in tre fasi in base alla suscettibilità ad agenti infettivi ed alla tipologie di cellule immunitarie presenti nel sangue periferico [Mackall et al, 2009]:

Fase pre-attecchimento: Fase di aplasia midollare la cui durata è variabile in base all’intensità del regime di condizionamento. Questa fase è prolungata nei pazienti sottoposti a regimi mieloablativi rispetto a pazienti sottoposti a regimi a ridotta intensità mentre pazienti sottoposti a regimi esclusivamente immunosoppressivi non ne sono soggetti. La caratteristica neutropenia è associata in particolare ad un incremento nella suscettibilità a infezioni fungine (aspergillosi) e batteriche (gram positivi, negativi e streptococchi);

Fase precoce post-attecchimento: Fase successiva all’attecchimento e quindi associata ad un recupero della conta dei neutrofili. Perdura peri i primi tre/quattro mesi dall’attecchimento ed è caratterizzata da un difetto dell’immunità cellulo-mediata associata ad una ridotta conta T linfocitaria. La complicanza principale di questo periodo è la riattivazione del Citomegalovirus (CMV) specialmente in pazienti con infezione latente che ricevono cellule da un donatore non immunizzato. Il deficit linfocitario inoltre si traduce in un generale incremento nella suscettibilità ad infezioni virali ed opportunistiche di varia natura. L’insorgenza di GvHD può prolungare questa fase rallentando il recupero immunitario ed incrementando ulteriormente il rischio infettivo;

Fase inoltrata post-attecchimento: Fase in cui si ha un generale recupero delle conte linfocitarie anche se spesso perdurano deficit immunoglobulinici. Questo espone i pazienti ad una riduzione nella risposta verso batteri capsulati quali S. Pneumoniae. La ricostituzione immunitaria in questa fase è comunque fortemente influenzata dall’insorgenza di GvHD cronica che può prolungare lo stato di immunodeficienza in modo indefinito.

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1.2.2 La ricostituzione dell'immunità innata.

L'immunità innata garantisce la protezione dell'organismo contro le infezioni basata su meccanismi preesistenti all'infezione stessa, capaci di risposta rapida ai microorganismi e che reagiscono essenzialmente in maniera simile in caso di infezioni ripetute. Il compartimento innato del sistema immunitario comprende le barriere epiteliali, il sistema del complemento e le citochine, i fagociti (neutrofili, macrofagi) e le cellule NK.

L'integrità delle barriere epiteliali può venire compromessa dalla chemioterapia e dalla radioterapia ma viene generalmente recuperata in alcune settimane, a meno che la riparazione non venga ostacolata dalla GvHD. La GvHD può anche compromettere la funzionalità delle ghiandole salivari aumentando il rischio di infezioni del cavo orale. I fattori solubili dell'immunità innata quali le proteine della cascata complementare non sono generalmente deficienti in pazienti allotrapiantati in quanto sintetizzati principalmente a livello epatico. Tuttavia deficienze congenite asintomatiche nel paziente sano possono diventare clinicamente manifeste nel post-trapianto. [Geddes M. e Storek J. 2007].

Dopo l'attecchimento i granulociti neutrofili, che normalmente sono la popolazione leucocitaria circolante più rappresentata e che costituiscono la principale popolazione cellulare coinvolta nella fasi iniziali delle risposte infiammatorie alle infezioni batteriche, raggiungono rapidamente livelli pari a quelli del soggetto sano ma la loro ricostituzione può venire rallentata dalla comparsa di GvHD e infezioni.

Il compartimento macrofagico/monocitario ricostituisce in tempi estremamente brevi (30 giorni) anche se la fonte di cellule staminali e lo sviluppo di reazioni avverse come la GVHD ne possono prolungarne il tempo di recupero.

Le cellule presentanti l’antigene raggiungono conte paragonabili a quelle prima del trapianto in un tempo variabile a seconda della loro sede tissutale, del regime di condizionamento e del tipo di trapianto (manipolato o non). Le cellule del Langerhans (APC epiteliali) recuperano in un tempo medio compreso fra i 3 ed i 6 mesi, anche se lo sviluppo di GVHD ne può prolungare l’assenza. Le cellule dendritiche mieloidi raggiungono i normali livelli di conta nel sangue periferico a 3 mesi dal trapianto mentre il numero di cellule dendritiche plasmocitoidi può rimanere basso fino ad 1 anno ed oltre dal trapianto. Infine le cellule dendritche follicolari, importanti per il processo di maturazione dei linfociti B a livello dei centri germinativi, rimangono al di sotto di valori normali fino ad 1 anno dal trapianto. Tendenzialmente pazienti che subiscono trapianto di staminali da donatore HLA identico con condizionamento a ridotta intensità hanno un di recupero del compartimento dendritico migliore.

Le cellule NK sono cellule di origine linfoide CD56+ e CD16+ che agiscono nelle risposte immunitarie innate per uccidere le cellule infettate da microbi e attivare i fagociti mediante la secrezione dell'interferone-γ. Nei primi trenta giorni dal trapianto queste cellule raggiungono livelli normali e in questo periodo rappresentano la maggioranza della popolazione linfoide circolante [Geddes M. e Storek J. 2007].

1.2.3 La ricostituzione dell'immunità adattativa.

L'immunità adattativa è una forma di immunità mediata da linfociti e stimolata dall'esposizione ad agenti infettivi. Contrariamente all'immunità innata, l'immunità adattativa è caratterizzata da una straordinaria specificità di riconoscimento delle macromolecole e dalla capacità di rispondere più vigorosamente a esposizioni successive allo stesso microbo, detta “memoria”.

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Queste popolazioni cellulari cooperano sinergicamente con le cellule ed i fattori dell’immunità innata per mantenere l’omeostasi dell’organismo.

1.2.3.1 I linfociti B

I linfociti B sono i linfociti deputati alla produzione di anticorpi e pertanto la componente cellulare centrale della risposta immunitaria umorale. I linfociti B si sviluppano nel midollo osseo e le cellule B mature si ritrovano principalmente nei follicoli linfoidi dei tessuti linfatici secondari, nel midollo osseo e, in quantità ridotte, anche nel sangue periferico.

La conta plasmatica dei linfociti B inizia a normalizzarsi a tre mesi dal trapianto, la sua ripresa è per questo considerata più precoce rispetto a quella dei linfociti T. Nel periodo successivo al trapianto, la ricostituzione dei linfociti B ripercorre l'ontogenesi di queste cellule e, a differenza della timopoiesi, non è influenzata dall'età e dall'involuzione timica, così come non è influenzata dalla quantità e dalla fonte delle cellule staminali trapiantate, sebbene possa essere rallentata dalla GvHD [Storek J, Wells D, Dawson MA et al. 2001]. Nonostante la loro conta possa essere normale a tre mesi dal trapianto, la loro funzionalità viene recuperata più lentamente per la mancanza della funzione T helper dei linfociti T CD4+, di un pattern citochinico adeguato e la mancanza di cellule dendritiche follicolari fondamentali per il processo di maturazione dell’affinità e per la produzione di cellule B memoria.

La ricostituzione del patrimonio B cellulare ripercorre l'ontogenesi secondo uno schema che ricorda lo sviluppo nel neonato: le IgM ricompaiono per prime, a 2-6 mesi, seguite dalle IgG che si avvicinano a livelli normali tra i 3 e i 18 mesi dal trapianto, infine avviene la ricostituzione IgA, che può richiedere fino a 3 anni.[Hajdu 2003]. Questo dato è importante perchè la quantità delle immunoglobuline è un buon indicatore della funzionalità delle cellule B e una componente fondamentale della risposta anticorpale ottimale, già inficiata nel paziente in ricostituzione dalla bassa quota di linfociti T CD4+.

1.2.3.2 I linfociti T

Il linfocita T è la cellula chiave che media le risposte immunitarie cellulo-mediate nell'ambito dell'immunità adattativa, sia agendo da mediatore cellulare (linfocita T helper) che come effettore diretto (linfocita T citotossico). I linfociti T maturano nel timo, circolano nel sangue, popolano i tessuti linfoidi secondari e sono reclutati nei focolai periferici di esposizione all’antigene.

Da tre a sei mesi dopo trapianto, la quantità di linfociti T CD8+ (citotossici) circolanti supera il 60% del valore normale. Questa precoce ripresa è dovuta all’espansione dei singoli cloni linfocitari maturi inoculati nel paziente insieme al trapianto e dei linfociti T periferici, sia naive che della memoria. Questa espansione è scatenata da elevati livelli di IL-15 e IL-7 e dall'incontro con l'antigene. Questa via da origine ad un compartimento linfocitario limitato sia dal punto di vista funzionale che da un punto di vista immunofenotipico. I linfociti che si espandono mediante questo meccanismo sono generalmente linfociti CD8+ e proliferano in seguito all’esposizione ad opportuni stimoli antigenici quali antigeni virali ed antigeni minori o maggiori di istocompatibilità. Per questo motivo la conta dei linfociti CD8+ raggiunge livelli normali a tre/quattro mesi dal trapianto e diverse evidenze sperimentali sembrano attribuire a questo tipo cellulare lo sviluppo della reazione GVH [Douek et al. 2000; Peggs et al. 2004].

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La seconda via attraverso cui si realizza la ricostituzione T linfocitaria ricalca la normale ontogenesi e prende il nome di via timica. Essa prevede il passaggio delle cellule staminali dal midollo al timo dove, migrando attraverso l’epitelio timico, vengono indotte a differenziarsi in linfociti T CD4+ (helper) o CD8+ con singola specificità antigenica. Questo processo è fortemente influenzato dalla funzionalità timica che diminuisce all’aumentare dell’età per via della fisiologica involuzione timica [Auletta JJ and Lazarus HM, 2005]. Inoltre l’epitelio timico è estremamente sensibile ai trattamenti chemioterapici.

A causa di questi due processi, nei primi 3 mesi dal trapianto si ha un’inversione nel normale rapporto fra il numero di linfociti CD8+ e di CD4+. Il tempo di normalizzazione della conta dei linfociti T helper nonché del rapporto fra le due popolazioni T è di solito superiore ai 6 mesi. Tuttavia studi funzionali e di complessità del repertorio recettoriale hanno dimostrato che, nonostante il recupero nelle conte cellulari avvenga in tempi relativamente brevi, la funzionalità e la capacità di riconoscere diversi antigeni può essere compromessa fino a 2 anni dal trapianto [Auletta JJ and Lazarus HM, 2005].

Nei trapianti in cui si effettua una T deplezione la via extratimica non si instaura in maniera efficiente e pertanto il recupero T linfocitario è ulteriormente rallentato in quanto pressoché integralmente dipendente dalla via timica [Williams e Gress 2009].

1.3 La Timopoiesi.

La maturazione dei linfociti T a partire dai progenitori specifici avviene attraverso fasi successive che consistono nel riarrangiamento e nell'espressione dei geni per il recettore T (TCR), nella proliferazione cellulare, nella selezione indotta dall'antigene e nell'acquisizione di capacità funzionali.

1.3.1 Il timo.

Il Timo è un organo impari mediano che deriva dall'accostamento di due formazioni pari e simmetriche, i lobi timici. Alla nascita si presenta come una massa piuttosto voluminosa, di colore variabile dal rosa al bianco grigiastro; successivamente presenta un variabile grado di infiltrazione adiposa e di involuzione. Le cellule epiteliali timiche (TEC) si organizzano in un reticolo tridimensionale. Le cellule epiteliali sono grandi, con nuclei voluminosi e un citoplasma espanso che contiene diversi inclusi, alcuni dei quali suggeriscono la possibilità di una loro funzione secretoria.

All'interno del timo si svolgono attivi processi di proliferazione linfocitaria e le tappe di una sequenza maturativa che si svolge secondo un gradiente diretto dalla zona corticale alla midollare dei lobuli in cui l'organo è suddiviso.

L'involuzione timica è un processo di atrofia con deplezione linfocitaria che ha inizio dopo la pubertà. Essa comporta principalmente una diminuzione del peso dell'organo e una cospicua perdita di timociti corticali, che esprimono più recettori per gli ormoni steroidei, che vengono rimpiazzati da tessuto adiposo.

Un interessante studio sui topi ha rivelato che, se da una parte una deplezione di cellule TEC corticali (c TEC) comporta una drastica riduzione di timociti immaturi, queste cellule mantengono una capacità rigenerativa in risposta al danno acuto che, alla sospenzione dello stimolo dannoso, porta ad un recupero significativo dello sviluppo T-cellulare [Rode e Bohem 2012].

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1.3.2 Il riarrangiamento VDJ nei timociti.

I geni per i diversi recettori per l'antigene sono generati nei singoli linfociti dal riarrangiamento di diversi segmenti della regione variabile (V) con segmenti della regione della diversità (D) e/o quelli della ricongiunzione (J dall'inglese joining). Esiste anche una regione costante (C) che contiene le parti del gene che non sono coinvolte nel riarrangiamento.

I geni che codificano per le catene α, β, e γ del TCR sono localizzati in tre loci distinti posti su tre diversi cromosomi; mentre il locus per la catena δ è contenuto all'interno di quello per la catena α. Nella configurazione germinativa, cioè quella presente prima del riarrangiamento, ciascun locus contiene segmenti V e J. Inoltre i loci per le catene β e δ possiedono anche segmenti D. I geni codificanti per le regioni C sono posizionati all'estremità 3' del segmento J.

Durante il processo di riarrangiamento, mediato da specifiche ricombinasi prodotte soltanto in determinati momenti della maturazione linfoide, i segmenti V-(D)-J vengono accostati fra di loro a livello di DNA ma solo a livello di mRNA vengono uniti al segmento costante. Il processo di riarrangiamento somatico avviene in modo casuale ed impreciso. A livello delle giunzioni fra i diversi segmenti genici si può avere la delezione di alcuni nucleotidi (processo che viene definito come giunzione imprecisa) oppure l’aggiunta di altri per via dell’enzima TdT (deossi terminal transferasi). Complessivamente questi processi causano la formazione di sequenze uniche ad ogni riarrangiamento specialmente a livello delle giunzioni fra i vari frammenti.

Una fase precoce del processo di commissionamento nella neogenesi delle cellule T è l’excisione del locus δ, una porzione interna al locus TCR α, che genera un frammento episomale di DNA.

Altri due fenomeni generano frammenti di DNA liberi:

l'escissione e l'unione dei segmenti VJ della catena α

l'escissione delle sequenze spaziatrici tra V e DJ nella catena β

Questi frammenti liberi di DNA assumono struttura anulare, similmente ai plasmidi batterici, e vengono identificati con il nome di T-Cell Receptor Excision Circles (TRECs). Tale processo si verifica esclusivamente nelle cellule che esprimeranno il recettore TCR αβ, durante la maturazione timica. Il TREC intracellulare non è sottoposto a degradazione, pertanto rappresenta un marcatore stabile delle cellule naive derivanti dallo sviluppo timico (recent thymic emigrants – RTE).

1.3.3 Fasi iniziali della maturazione T.

I timociti più immaturi, appena giunti dal midollo osseo, contengono i geni per il TCR nella loro configurazione germinativa e non esprimono il recettore T, la CD3, la catena ζ, CD4 o CD8; queste cellule sono definite timociti doppio-negativi perché non esprimono né CD4, né CD8. Sulla base dell'espressione di CD44 e CD25, questa fase doppio negativa viene suddivisa in varie sottofasi specifiche: DN1, DN2a, DN2b, DN3a, DN3b, DN4.

Nei linfociti doppio-negativi inizia la ricombinazione VDJ, se il riarrangiamento porta alla produzione di una catena β funzionante, questa viene espressa sulla superficie del linfocita T in associazione ad una proteina invariante (definita pre-Tα), a CD3 e alla catena ζ per formare il recettore pre-T (pre-TCR).

I segnali provenienti dal pre-TCR mediano la sopravvivenza dei linfociti, che in questo momento sono detti pre-T, e contribuiscono alla grandissima espansione proliferativa che avviene durante lo sviluppo T.

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Questo processo è detto β-selezione e ha lo scopo di selezionare i riarrangiamenti della catena β che non abbiano mutazioni out of frame, cioè coinvolgenti le giunzioni di riarrangiamento. I segnali trasmessi dal pre-TCR inibiscono ulteriori riarrangiamenti della catena β e conducono i linfociti alla fase doppo-positiva (DP) inducendo l'espressione di CD4 e CD8. I linfociti DP riarrangiano il gene della catena α e ne esprimono il prodotto, ricoprendosi di TCR eterodimerici αβ uguali a quelli della cellula matura.

1.3.4 L'acquisizione delle proprietà immunologiche dei linfociti T.

Lo sviluppo delle cellule doppio positive (DP) che sopravvivono alla β-selezione è condizionato ad altre due selezioni, la selezione positiva e la selezione negativa.

La selezione positiva è dovuta alla necessità di un legame del TCR -αβ con complessi peptidici MHC self espressi dalle cellule dell'epitelio timico (pMHC) per la prosecuzione dello sviluppo. La cellula DP che non lega un pMHC va incontro a morte cellulare programmata.

L'avidità con cui le cellule T legano i peptidi self integrati nell'MHC presentati sulla superficie delle cellule epiteliali timiche è direttamente proporzionale alla loro reattività ad antigeni esogeni. Questo processo garantisce la selezione di linfociti T efficaci nell’instaurare così una reazione immunitaria nel contesto della presentazione MHC. La selezione negativa invece è effettuata tramite l'invio di segnali apoptotici ai linfociti più avidi verso l'MHC self. La selezione negativa è alla base della tolleranza centrale, che previene l'attivazione del sistema immunitario contro l'organismo cui appartiene. In altre parole i linfociti che sopravvivono a questa doppia selezione sono in grado di riconoscere e legare il complesso MHC in maniera efficace ma non legano i complessi MHC presentanti antigeni self con avidità sufficiente a trasmettere segnali intracellulari di attivazione. Si tratta cioè di linfociti che si attiveranno quando incontreranno recettori MHC presentanti antigeni non self.

Proprio il legame con i recettori MHC è fondamentale per l'acquisizione delle proprietà immunologiche da parte dei timociti: un timocita che leghi il complesso MHC di classe I andrà incontro a differenziazione CD8+ mentre un timocita che leghi MHC di classe II smetterà di esprimere CD8 e diverrà un linfocita CD4+.

1.3.5 La differenziazione in cellule T effettrici e della memoria.

I linfociti T che hanno superato la selezione positiva e negativa operata a livello timico sono definiti näive e si identificano immunofenotipicamente dalla presenza del marcatore CD45RA (isoforma da 200kD di CD45 codificata dall'esone A). L’incontro con l’antigene nel contesto delle molecole MHC determina l’attivazione dei cloni specifici ristretti e la loro successiva espansione e differenziazione in linfociti effettori e di memoria. Il complesso recettoriale del TCR media il segnale intracellulare responsabile dell’attivazione ed espansione dello specifico clone.

Il fine ultimo dell'attivazione dei linfociti T è ottenere un numero elevato di cellule effettrici a partire da pochi linfociti näive specifici per un determinato antigene. Questo processo garantisce non solo la veloce eliminazione dell'antigene, ma anche la sopravvivenza a lungo termine di una popolazione di linfociti T memoria pronta a reagire rapidamente contro lo stesso antigene nel caso di un successivo incontro. Ciò spiega i tempi e le modalità differenti tra la cosiddetta risposta immunitaria primaria, che si verifica nel momento in cui un clone näive incontra per la prima voltal’antigene specifico, e la risposta secondaria, che si verifica ogni volta che lo stesso antigene viene

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successivamente riconosciuto da cellule memoria.

L'attivazione dei linfociti T näive avviene negli organi linfoidi secondari, grazie alla presentazione antigenica delle cellule dendritiche mature, qui presenti che svolgono il ruolo di APC, mediante il legame del TCR con molecole MHC e di corecettori presenti. L’attivazione e l’espansione sono mediate da cascate chinasiche intracellulari che conducono alla mitosi cellulare e dalla secrezione di citochine con effetto autocrino e paracrino.

I linfociti T effettori riconoscono l'antigene negli organi linfoidi o nei tessuti periferici non linfoidi e vengono attivati a svolgere funzioni che portano all'eliminazione del microbo o, in condizioni patologiche, a infiammazione e danno tissutale.

I linfociti T della memoria sono cellule in grado di sopravvivere a lungo e sono dotate di una spiccata capacità di reagire nei confronti dell'antigene. Queste cellule sono in grado di ricircolare nei tessuti e sono abbondanti nelle mucose, nella cute e negli organi linfoidi. Sono suddivise in sottopopolazioni a seconda della loro funzione e della loro capacità di raggiungere tessuti diversi: i linfociti T della memoria centrale si localizzano preferenzialmente a livello linfonodale, possiedono limitate capacità effettrici ma proliferano attivamente in seguito alla stimolazione antigenica. I linfociti T della memoria effettrice si localizzano nelle sedi periferiche, specialmente nelle mucose, e, in presenza del loro antigene, producono citochine (soprattutto IFN-γ) ma sono in grado, sotto specifici stimoli, di assumere proprietà citotossiche.

I linfociti T memoria esprimono il CD4 o il CD8, e CD45RO (isoforma da 180kD di CD45, che subisce un taglio e un accorciamento della catene peptidica proprio a seguito della maturazione in cellule memoria); i linfociti T della memoria centrale presentano anche CCR7 e L-selectina mentre i linfociti T della memoria effettrice non presentano questi marcatori.

1.3.6 I linfociti T regolatori.

Non sempre un linfocita T che reagisce con avidità elevata ad un antigene self va incontro a morte cellulare programmata. Con un meccanismo non noto, ipotizzabile mediato da una specifica forza di legame con la molecola MHC o mediante l’attivazione di peculiari vie di trasduzione del segnale, alcuni linfociti invece di andare incontro ad apoptosi vengono convertiti in linfociti T regolatori (T-reg). I linfociti T regolatori sono una sottopopolazione dei linfociti T CD4+ e hanno funzione di sopprimere le risposte immunitarie e mantenere la tolleranza al self. I linfociti T regolatori sono fenotipicamente distinti dalle altre popolazioni linfocitarie e caratterizzati dall’espressione degli antigeni CD4+ FoxP3+ CD25 high.

I linfociti T reg oltre ad essere generati a livello timico durante la timopoiesi, i così detti linfociti T regolatori naturali, possono essere originati anche negli organi linfoidi periferici a partire da linfociti T naive che riconoscono l'antigene in assenza di una forte co-attivazione dell'immunità innata. Questi linfociti T regolatori sono definiti adattativi o inducibili.

Esperimenti sui topi hanno dimostrato che i T-regs possono prevenire la GvHD [Taylor PA, Lees CJ, Blazar BR 2002] e prove cliniche hanno dimostrato che la quantità di Treg nel sangue del donatore è inversamente proporzionale alla probabilità di sviluppare GvHD [Rezvani K, Mielke S, Ahmadzadeh M, et al.2006].

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1.3.7 I linfociti gammadelta.

I linfociti γδ appartengono ad un sistema di immunosorveglianza che risponde precocemente allo stress tissutale, sia di origine microbica che non microbica, contribuendo all'attivazione immediata dell’immunità innata (sostenuta da cellule effettrici mieloidi) e a quella ritardata dell'immunità specifica. Sono linfociti in grado di riconosce anche cambiamenti tissutali indotti dalla trasformazione neoplastica e contribuiscono alla immunosorveglianza neoplastica sia inducendo citolisi diretta, sia aumentando l’attività immunitaria contro il tumore mediante la secrezione di INF- [Hayday 2009].

La percentuale delle cellule γδ varia molto a seconda dei tessuti e della specie, ma in generale rappresenta meno del 5% di tutti i linfociti. Nel corso dell'ontogenesi si possono sviluppare diverse sottopopolazioni di linfociti γδ dotate di diverse regioni V che si localizzano prevalentemente a livello tissutale, rimanendo in minima percentuale circolanti (1-2%). I linfociti T γδ non sono ristretti per MHC e non riconoscono antigeni di natura proteica.

Durante la fase doppio-negativa (nello specifico la fase DN3) il percorso delle cellule γδ diverge da quello degli altri linfociti T. Queste cellule superano la selezione esprimendo "da subito" un recettore γδ completo. Per anni l'ipotesi dominante è stata che il recettore T γδ istruisse le cellule doppio-negative nel successivo sviluppo, e che quindi diventassero cellule γδ le cellule che avessero espresso il recettore T γδ prima del preTCR, ma questa prospettiva è messa in discussione dalla constatazione che linfociti αβ possono, in condizioni particolari, divenire γδ [Bruno 1996, Mombaerts 1992]. Inoltre, la necessità di un ligando intra-timico, di difficile individuazione, per lo sviluppo delle cellule γδ [Boyden eta al. 2008] e la forte dipendenza del processo dall'IL-7 [Krangel 2009] sono due prerogative che non riguardano le cellule T αβ e che sono suggestive di una pesante influenza estrinseca al microcosmo cellulare.

Esiste una varietà molto vasta di sottopopolazioni γδ [Kreslavsky 2010] ed è stato ipotizzato che non seguano tutte lo stesso processo di selezione a livello timico.

La stimolazione dei linfociti T γδ con IL-2 e pamidronato/zoledronato si è rivelata un'immunoterapia efficace nel trattamento di tumori maligni linfoidi quali linfoma non hodgkin a cellule B e mieloma [Wilhelm 2003] e tumori solidi [Dieli 2007]. A conferma di questa ipotesi, la ricostituzione di cellule γδ è uno dei fattori che correla più chiaramente con l'effetto del trapianto contro la malattia (GvL) nei pazienti trapiantati con preparati di cellule ematopoietiche T-depleti [Godder et al. 2007]. I linfociti T γδ proteggono inoltre dalla GvHD, rivelandosi capaci di separare l’effetto GvL da quello GvHD.

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2. Scopo della Tesi

Al fine di aumentare il numero di pazienti trattabili con trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche negli ultimi anni diversi gruppi hanno sviluppato procedure trapiantologiche alternative. Tali procedure in particolar modo sono state volte a:

1) diminuire la tossicità associata ai regimi di condizionamento pre trapianto con l’introduzione di regimi di condizionamento a ridotta intensità/immunosoppressivi tollerabili anche da pazienti più anziani o affetti da altre comorbidità;

2) aumentare il numero di donatori reperibili diminuendo il grado di compatibilità donatore/ricevente (fino ad una compatibilità del 50% - donatori aploidentici).

Il recupero del sistema immunitario dopo trapianto allogenico rappresenta un fattore cruciale per la buona riuscita di tale procedura. Nel contesto onco-ematologico infatti le principali complicanze trapiantologiche quali la ricaduta neoplastica, lo sviluppo di infezioni opportunistiche e lo sviluppo di una reazione infiammatoria contro i tessuti sani dell’ospite (graft versus host disease GVHD), possono in ultima istanza essere ricondotte ad alterazioni nei normali processi immunitari. Nonostante ciò la maggior parte degli studi ha focalizzato la propria attenzione sullo studio della ricostituzione immunitaria nel primo anno post trapianto senza indagare la ricostituzione immunitaria a lungo termine.

Obbiettivo primario di questo studio è stato quello di analizzare la ricostituzione immunologica in pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali allogeniche dopo regime di condizionamento mieloablativo. L’analisi effettuata tiene conto delle differenti popolazioni linfocitarie che si ricostituiscono nel tempo e ne analizza la funzionalità, mediante l’analisi della funzione timica per la componente T e l’analisi delle popolazioni immunoglobuliniche prodotte per la funzione B linfocitaria.

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Nello studio sono stati considerati tre gruppi di pazienti sottoposti a procedure trapiantologiche differenti. Il primo gruppo di soggetti analizzato è stato sottoposto a trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore familiare aploidentico associato a αβ-T deplezione in vitro (immunoselezione) e T deplezione in vivo (siero anti-linfocitario – Thymglobulin), mentre il secondo gruppo di pazienti è stato sottoposto a trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore HLA (human leucocyte antigens) identico non familiare (match unrelated donor – MUD) associato unicamente a T deplezione in vivo (siero anti-linfocitario – Thymglobulin). Il terzo gruppo di pazienti include soggetti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche da donatore familiare HLA identico, in assenza di alcuna T deplezione. L’analisi del sistema immunitario è stata condotta attraverso:

• Valutazione clinica dei pazienti per valutare segni e sintomi di GvHD o ripresa di malattia.

• Dosaggio dei livelli plasmatici di zinco, identificato come cofattore per la timopoiesi;

• Dosaggio delle immunoglobuline circolanti e loro sottopopolazioni;

• Valutazione del chimerismo post-trapianto mediante analisi delle regioni microsatelliti polimorfiche al fine di correlare la ricostituzione immunitaria con il ripristino di un’emopoiesi completa da parte delle cellule staminali del donatore;

• Caratterizzazione immunofenotipica delle popolazioni linfocitarie circolanti con particolare riguardo alle fasi maturative dei linfociti B e T;

• Test funzionali di stimolazione linfocitaria in vitro mediante esposizione a superantigene con dosaggio delle citochine secrete;

Oltre alle analisi effettuate saranno soggetto di indagine:

• Analisi della funzionalità timica dei pazienti mediante stima dei livelli dei linfociti T naive derivanti dal timo (emigranti timici recenti - RTE) attraverso quantificazione del numero assoluto di sjTRECs (T-cell receptor rearrangement excision circles);

• Dosaggio della timoglobulina sierica mediante tecnica RIA;

Il presente studio si pone il fine di valutare se pazienti sottoposti a trapianto allogenico da donatore alternativo sono in grado, in assenza di altre complicazioni quali la GvHD o ricadute neoplastiche, di recuperare un’immunità completa e quanto questo processo può essere influenzato dallo schema trapiantologico (tipo di donatore, tipo di deplezione linfocitaria, terapia immunosoppressiva).

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3. Materiali e Metodi.

3.1 Caratteristiche dei Pazienti.

In questo studio sono stati inclusi 6 pazienti, dopo regime di condizionamento mieloa-blativo, trattati nel primo semestre 2014 presso la Unità Operativa di Ematologia del-l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Università degli Studi di Pisa. Di questi, 2 hanno ricevuto cellule staminali emopoietiche periferiche da un familiare aploidentico previa deplezione in vitro della frazione αβ dei linfociti T (T deplezione in vitro), 3 pa-zienti cellule staminali emopoietiche periferiche da un donatore volontario non consan-guineo (MUD), 1 paziente cellule staminali emopoietiche periferiche da donatore fami-liare. Dei pazienti inclusi nello studio 5/6 presentavano uno stato di remissione comple-ta (RC) della malattia di base al momento del trapianto, mentre 1 paziente, sottoposto a trapianto da donatore familiare, presentava una remissione parziale (RP), secondo i cri-teri vigenti al momento della procedura trapiantologica.

Tutti i pazienti hanno ricevuto il medesimo regime di condizionamento pretrapianto secondo schema TBF (Tiotepa 5 mg/kg i giorni -6 e -5, Busulfano 3,2 mg/kg e Fludarabina 50 mg/mq in i giorni -4, -3 e -2), ricevendo il giorno 0 cellule staminali emopoietiche di origine periferica. I pazienti sottoposti a trapianto da donatore MUD e aploidentico hanno ricevuto siero antilinfocitario (T deplezione in vivo) nei giorni -3, -2 e -1 alla dose di 2 mg/kg.

La mediana di CD34+ infuse con il trapianto è stata di 5.72 x 10^6/Kg del ricevente (range 4.40- 7.25 x 10^6 CD34+/Kg) con una mediana di linfociti T-αβ nei trapianti αβ-T depleti di 6,22 x 10^3 αβ-TCR αβ/kg del ricevente (5,14 X106 αβ-TCR /kg). I pazienti sottoposti a trapianto HLA identico da donor familiare HLA identico (1 paziente) o MUD (3 pazienti) hanno ricevuto terapia con metotrexate post-trapianto 15 mg/mq al giorno +1 e 10 mg/mq nei giorni +3, +6, +11, e hanno effettuato terapia immunosoppressiva con ciclosporina a partire dal giorno -2, sino a circa 100 giorni post trapianto e, in assenza di segni o sintomi di GVHD, successivamente la terapia immunosoppressiva è stata progressivamente ridotta sino a sospensione.

Per ogni paziente è stato ottenuto relativo consenso informato scritto per la procedura di trapianto allogenico e per le successive eventuali raccolte, stoccaggio ed analisi di campioni ematici a scopo di ricerca. Ad ogni paziente sono stati prelevati dei campioni di sangue periferico per scopo di ricerca ad intervalli temporali qui di seguito riferiti: prima del trapianto, giorno +15, giorno +30, giorno +60, giorno +100. I pazienti sono stati quindi seguiti ambulatorialmente per il consueto follow-up post trapianto in base alle necessità del singolo caso.

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Le caratteristiche dei pazienti sono riassunte nelle tabella di seguito riportata:

Diagnosi: LMA (3), SMD (1), LLA (1), MM

(1)

Età mediana al trapianto 49 (range 20-57)

Linee chemioterapie precedenti 2 (range 0-3)

Trapianti autologhi 1 si; 5 no

Radioterapia precedente no (6)

Stato di malattia al trapianto 4 RC, 1 RP, 1 frontline

Regime di condizionamento TBF

Immunosoppressione 2 αβ T deplezione; 5 ATG, 4 CSA, 3

MTX post

aGvHD (grado III-IV) 1

Riattivazione EBV 1

CMV status D/R 3 neg/pos; 1 pos/neg; 2 pos/pos

Riattivazione da CMV 100 %

Ripresa di malattia (a 100 giorni) 0

Caratteristiche dei pazienti:

Età Sesso Diagnosi Donatore Attecchime

nto

P01 29 F LMA MUD 16°giorno

P02

20

M ALL-T Aploidentico

αβ-depleto 16° giorno

P03 49 F LMA MUD 14° giorno

P04 57 F MM Sibling 14° giorno

P05 55 M LMA MUD 17°giorno

P06

36 M SMD Aploidenticoαβ-depleto 13° giorno

Su questi campioni sono state eseguite le seguenti analisi:

3.2 Dosaggio plasmatico delle Immunoglobuline.

Le IgG, le IgM e le IgA sono presenti nel siero in concentrazioni sufficientemente ele-vate da poter essere misurate con diverse tecniche che rilevano la presenza di qualsiasi Ag. Per determinare le concentrazioni specifiche di numerose proteine sieriche, compre-se le Ig, si impiega la nefelometria, una metodica rapida ed altamente riproducibile ba-sata sul principio della dispersione della luce da parte delle molecole per effetto Tyndall. L'effetto Tyndall consiste essenzialmente nella diffusione di un'onda elettromagnetica a seguito di fenomeni di riflessione e rifrazione generati per interazione con sistemi col-loidali costituiti da particelle aventi dimensione dell'ordine della lunghezza d'onda del raggio incidente. La diffusione di radiazione avviene lungo tutte le possibili direzioni spaziali, ma con differente livello di intensità. I principali fattori che influenzano l'effet-to Tyndall sono la lunghezza d'onda del raggio di luce incidente, la dimensione media delle particelle disperse, la differenza fra gli indici di rifrazione della fase dispersa e di quella disperdente, la stabilità temporale del sistema colloidale.

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Le misure nefelometriche necessitano che il raggio luminoso in uscita dalla soluzione in esame sia convogliato su un rivelatore posto ad angolo retto rispetto alla direzione del raggio incidente, in modo da raccogliere il massimo livello di energia. Gli strumenti co-munemente utilizzati sono gli spettrofotometri equipaggiati anche per misure nefelome-triche o appositi nefelometri.

3.3 Citofluorimetria di flusso.

La citometria a flusso è una tecnologia che permette la rapida analisi di particelle microscopiche sospese in un liquido. Mediante questa tecnologia è possibile analizzare particelle aventi dimensioni estremamente variabili quali cromosomi, batteri, cellule eucariote e piccoli aggregati cellulari. Queste, attraverso un sistema di pressione differenziale, vengono convogliate ed un punto di interrogazione dove l’esposizione a raggi luminosi aventi lunghezze d’onda variabili permette la valutazione di diverse caratteristiche chimico/fisiche del campione. Inoltre, grazie all'utilizzo di anticorpi monoclonali coniugati a sostanze fluorescenti, è possibile valutare la presenza di specifiche molecole sulle particelle in analisi.

Il citometro a flusso è composto da tre sistemi principali: 1) Sistema Fluidico; 2) Sistema Ottico; 3) Sistema Elettronico.

Il sistema fluidico è responsabile del trasporto del campione dal punto di raccolta al punto di interrogazione. Esso genera una differenza di pressione fra il liquido in qui è sospeso il campione ed il liquido che circonda il campione (sheat fluid) permettendo l'instaurarsi di un fenomeno noto come focalizzazione idrodinamica. Questo consente di allineare le particelle all'interno della camera di flusso in modo che passino singolarmente dinanzi al punto di interrogazione. Tale processo risulta fondamentale per la corretta funzionalità del citometro in quanto permette l'analisi di una singola particella per volta.

Il sistema ottico è costituito da un sistema di eccitazione e da un sistema di raccolta della luce. Il primo è costituito da una o più fonti luminose e da una serie di specchi e filtri che permettono di convogliare la luce incidente al punto di interrogazione. Il sistema di raccolta invece è costituito da una serie di filtri e specchi in grado di convogliare diverse lunghezze d'onda emesse dal campione ai rispettivi rivelatori. Nei citometri moderni le principali fonti luminose sono costituite da laser in grado emettere luce ad elevata energia e a specifiche lunghezze d'onda. Al punto di interrogazione la luce colpisce le particelle in analisi e da origine a 2 parametri fisici ed ad un numero variabile di segnali di fluorescenza in base al sistema utilizzato. I due parametri fisici rappresentano rispettivamente la luce che è in grado di attraversare la particella (forward scatter) e la luce che viene invece deviata a 90° (side scatter). Il primo parametro è grossolanamente associato alle dimensioni della particella mentre il side scatter è associato alla granulosità ed alla rugosità della superficie cellulare. Analizzando un campione di sangue periferico o midollare mediante questi due parametri è possibile distinguere diverse popolazioni cellulari discriminate in base alle dimensioni e alla morfologia.

L'utilizzo di anticorpi monoclonali in grado di riconoscere specifici epitopi inoltre permette di indagare la presenza di determinate molecole di interesse nel campione. Questi anticorpi possono essere rilevati mediante coniugazione diretta con molecole fluorescenti o mediante marcatura indiretta con un anticorpo fluoriscinato. L'introduzione di coloranti fluorescenti nell'analisi citometrica ha permesso di aumentare notevolmente le applicazioni di questa tecnologia.

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Utilizzando fonti luminose in grado di emettere a lunghezze d'onda differenti è possibile eccitare un ampio spettro di molecole che a loro volta emettono a lunghezze d'onda caratteristiche. Attraverso l'utilizzo di specifici filtri in grado di selezionare lunghezze d'onda differenti è possibile discriminare luce emessa da varie sostanze fluorescenti e quindi valutare contemporaneamente la presenza di diverse molecole. Tuttavia gli spettri di emissione di queste sostanze possono sovrapporsi dando origine a dei segnali falsi positivi. Per questo motivo è necessaria un’accurata messa a punto dell’esperimento. Inoltre è possibile togliere la fluorescenza aspecifica dovuta alla sovrapposizione degli spettri di emissione tramite specifici algoritmi in un processo noto come compensazione. Infine il sistema elettronico è costituito da una serie di fotodiodi e fotomoltiplicatori che consentono di convertire i segnali luminosi emessi dalle particelle in analisi in segnali elettronici elaborabili da un computer.

La citometria a flusso ha trovato ampio utilizzo soprattutto nel contesto onco-ematologico e rappresenta ad oggi una tecnologia fondamentale per la diagnosi di patologie ematologiche (oncologiche e non) nonché per il monitoraggio quantitativo e qualitativo del sistema immunitario. Nel nostro studio abbiamo monitorato mediante citometria a flusso diverse sottopopolazioni cellulari in pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche. Lo strumento utilizzato è un FasCanto II BD, dotato di tre laser in grado di emettere luce rispettivamente a 405 nm, 488nm e 635 nm ed è in grado di registrare fino a 8 fluorescenze contemporaneamente oltre ai 2 parametri fisici (FSC e SSC).

Il protocollo di marcatura delle cellule prevede di incubare 100 μl di sangue periferico del paziente con la combinazione di anticorpi specifici per 20 min a 4°C, al buio. Quindi si procede all’aggiunta di 2 ml circa della soluzione di lisi per gli eritrociti (soluzione di ammonio cloruro allo 0,4%, pH 7.4, preparata in Tris buffer 50 mM), che viene lasciata agire per 10 minuti. Terminata la lisi si procede alla centrifuga del campione a 2,1 rpm per 2,5 minuti. Successivamente si elimina il surnatante e si risospendono le cellule in 200 μl di buffer (PBS al 2% di FBS). Le cellule vengono poi analizzate entro 2 ore al citofluorimetro avendo cura di tenerle in ghiaccio ed al buio per evitare fenomeni di decadimento nella fluorescenza dei fluorofori. Per la nostra analisi sono stati utilizzati i seguenti anticorpi monoclinali murini: CD3-PerCP (BD), CD4-FITC (BD), CD4-V500 (BD), CD7-PE (BD), CD8-V450 (BD), CD10-APC (BD), CD19-PECy7 (BD), CD20-PerCP (BD), CD25-PECy7 (BD), CD27-APC (BD), CD28-PE (Miltenyi biotec), CD38-PE (BD), CD44-CD38-PE (Miltenyi biotec), CD45-APCCy7 (BD), CD45RA-CD38-PECy7 (BD), CD45RO-APC (BD), CD56-V450 (BD), CD57-FITC (BD), CD90-FITC (Miltenyi biotec), CD127-PE (BD), CD154-FITC (Miltenyi biotec), sIgM-FITC (BD), sIGD-PE (BD), αβTCR-FITC (BD), γδTCR-PE (BD).

3.4 Test di immunostimolazione in vitro

Il test di immunostimolazione in vitro è stato usato per valutare la produzione di interleuchina-5 (IL-5), interleuchina-12 (IL-12), interferone-γ (IFN-γ) e tumor necrosis factor (TNF).

Il protocollo per la stimolazione prevede di diluire il campione di sangue con D-PBS portandolo a 20ml di volume totale. In seguito 10 ml di sangue diluito vengono stratificati su Hystopaque-1077. Il tutto viene centrifugato a 2000rpm, a 15°C per 30'. A questo punto viene recuperato l'anello di PBMCs (pure blood mononucleated cells) dall'interfase tra plasma diluito e Hystopaque, le PBMCs vengono lavate con abbondante D-PBS e centrifugate a 1300 rpm, RT, per 10'. Le PBMCs vengono risospese in 1ml di D-PBS e contate in camera di Burker.

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3 x 105 PBMC vengono poste in piastre 48 w’s in 400 µl/w di RPMI completo 5% HS.

Nei terreni designati per la stimolazione vengono aggiunti 400μl di fitoemoagglutinina (PHA) diluita a 10μg/ml.

Dopo un giorno e dopo 3 giorni vengono prelevati 150μl da ogni pozzetto e vengono congelati a -20°.

La ricerca delle citochine nel surnatante viene effettuata con test Elisa sandwich prodotti dalla R&D System del tipo DuoSet, basati su un anticorpo monoclonale anti-citochina di cattura ed uno policlonale anti-citochina di rivelazione. Le piastre di polistirene vengono coatate con l'anticorpo di cattura poi saturate con BSA. Quindi il surnatante di coltura è incubato per due ore. Viene lavata la piastra e poi aggiunto l'anticorpo di rivelazione biotinilato. Quindi viene aggiunta neutravidina coniugata a perossidasi, segue lo sviluppo con il substrato dell'enzima e la lettura in spettrofotometro a 450 nm. Per estrapolare le concentrazioni delle citochine viene usata una curva standard cstruita con citochina ricombinante a concentraioni note.

3.5 Dosaggio plasmatico dello Zinco.

L'organismo contiene 2-3 gr di zinco (Zn), concentrati soprattutto nelle ossa, nei denti, nei capelli, nella cute, nel fegato, nei muscoli, nei leucociti e nei testicoli. Un terzo dei 100 ng/dl (15,3 mmol/l) di zinco presenti nel plasma è legato debolmente all'albumina, mentre i 2/3 circa sono strettamente legati alle globuline.

Vi sono più di 100 metalloenzimi di zinco, tra cui le nicotinammide adenina dinucleotide (NADH) deidrogenasi, le RNA e DNA polimerasi, i fattori della trascrizione del DNA, la fosfatasi alcalina, la superossido dismutasi e l'anidrasi carbonica. Anche la sintesi della timulina funzionale richiede zinco, i valori di questo metallo sono stati monitorati nei pazienti sottoposti a trapianto, per assicurarsi che una sua carenza non infici l'azione timica. L'analisi del plasma per la ricerca dei metalli è stata fatta con uno spettrometro ad assorbimento atomico. Uno spettrometro di assorbimento atomico si compone di 5 componenti fondamentali: 1) La sorgente di radiazione elettromagnetica che è data da una lampada a catodo cavo emette con uno spettro molto ristretto e caratteristico dell'elemento di cui è fatto il catodo stesso; 2) Il sistema di atomizzazione, cioè il sistema mediante il quale il campione in analisi, e quindi i metalli da ricercare, viene ridotto allo stato di gas monoatomico, condizione necessaria per la misura in quanto questa avviene misurando la differenza di intensità della radiazione elettromagnetica prima e dopo il passaggio attraverso il campione atomizzato il quale assorbe energia mediante gli elettroni del guscio più esterno; 3) Il sistema ottico e il monocromatore, cioè un sistema di lenti e specchi che serve per collimare, indirizzare e gestire la radiazione proveniente dalla lampada e in uscita dal campione; 4) Il rivelatore, cioè l'organo sensoriale dell'apparecchio, un fotoelettrodo che sfrutta la proprietà particellare della luce per evidenziare una radiazione incidente su un elettrodo mediante una differenza di potenziale; 5) Il sistema di elaborazione, che serve per l'interpretazione, il calcolo e il salvataggio dei dati.

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