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Fac(e)ing reality. Quando sguardo umano e non-umano si incontrano: visioni artistiche e macchiniche a confronto.

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Corso di Laurea magistrale

in

Economia e Gestione delle Arti e delle attività culturali (EGArt)

Tesi di Laurea

Fac(e)ing reality

Quando sguardo umano e non umano si incontrano:

visioni artistiche e macchiniche a confronto

Relatrice

Ch.ma Prof.ssa Cristina Baldacci

Correlatore

Ch. Prof. Antonio Somaini Laureanda

Federica Porta

Matricola 871953

Anno Accademico 2018 / 2019


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Indice

Introduzione………..…1

Capitolo 1 Machine vision: un nuovo regime visuale ………8

1.1. Dallo sguardo umano allo sguardo non umano. Per un’archeologia della visione macchinica.………8

1.2. «Your pictures are looking at you». Immagini operative e visione artificiale……….………..……23

1.3. Behind the screen: oltre l’orizzonte del visibile ……….…….34

Capitolo 2 Riconoscimento facciale………39

2.1. Spettatori artificiali: face recognition ………..…39

2.2. ‘Crisi’ d’identità: dalla fisiognomica all’identificazione biometrica…………48

2.3. Arti visi(ve): centralità del volto nell’arte………56

Capitolo 3 Artisti e macchine vis-à-vis……….…..…62

La doppia faccia della face recognition: minaccia o promessa? ……….…..… 62

3.1. «A game of predator and prey»: Adam Harvey ………66

3.2. This Person Does Not Exist: Mitra Azar ………..71

3.3. «A cage of informations»: Zach Blas ..……….76

3.4. «Ci ho messo la faccia»: Irene Fenara ………..80

3.5. Sometimes Your Eyes Does Not See: Carloalberto Treccani……….…84

Elenco delle illustrazioni ..………..88

Bibliografia, videografia e sitografia..……….92

(3)

Introduzione

L’obiettivo di questa tesi è indagare come i nuovi sistemi di machine vision (visione macchinica o artificiale), che riguardano l’insieme delle tecnologie e delle operazioni finalizzate all’estrazione automatica di dati ed informazioni da immagini e fotografie, abbiano non solo contribuito a ridefinire il modo in cui percepiamo la realtà, ma anche le nostre abitudini quotidiane, con importanti implicazioni di stampo politico, legale, economico e culturale.

Molte delle conseguenze e delle problematiche legate alla machine vision sono state individuate e affrontate da alcuni artisti fortemente impegnati anche sul fronte teorico, a cui questa ricerca fa riferimento approfondendo in particolare il lavoro di cinque casi studio: Mitra Azar, Zach Blas, Irene Fenara, Adam Harvey, Carloalberto Treccani.

Tra i sistemi di visione macchinica, in grado di simulare la vista umana nell’acquisizione di una scena, ma soprattutto nella sua successiva interpretazione e comprensione, negli ultimi anni ha assunto considerevole rilevanza la tecnica del riconoscimento facciale (facial recognition). Il suo utilizzo sempre più pervasivo, e non ancora adeguatamente regolato, ha condotto infatti, in maniera impercettibile, ad una condizione di progressiva e costante sorveglianza delle persone.

In questo momento storico senza precedenti, in cui sembrerebbe che le macchine analizzino e cerchino di capire ciò che le circonda molto di più degli esseri umani, è necessaria una consapevolezza critica che aiuti a comprendere a fondo come queste nuove visioni algoritmiche siano in grado di scandagliare ogni aspetto della nostra cultura ed influenzare profondamente la nostra vita.

Il mio interesse verso questa tematica è cominciato quando, leggendo alcuni saggi di cultura visuale e teoria dei media, tra cui quelli di due artisti molto influenti, Hito Steyerl e Trevor Paglen, ho realizzato quanto profondamente le diverse forme contemporanee di visualizzazione delle fotografie, oggi apparentemente ‘immateriali’ poiché digitali, stiano contribuendo a rendere incontrollabile ed impercettibile il passaggio delle informazioni in esse contenute.

Una questione che appare ancor più delicata se si pensa alla moltiplicazione esponenziale avvenuta negli ultimi anni del numero di immagini che vengono prodotte

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quotidianamente. La diffusione capillare di dispositivi dotati di schermi e sistemi ottici, come ad esempio i telefoni cellulari, ha condotto infatti ad una condizione di ‘iperproduzione visuale’, in cui il numero delle immagini generate ogni giorno supera di gran lunga la nostra effettiva capacità di ricezione e consumo. Se ai tempi dell’analogico l’ingombro fisico delle fotografie poteva darci una misura dell’inquinamento visuale e contemporaneamente farci mantenere il controllo sulla loro diffusione, oggi il problema si è fatto invisibile: nell’era digitale le immagini si sono smaterializzate, nascondendosi nei meandri di Internet e negli immensi server dei grandi social network, che fagocitano le nuove immagini al ritmo di dieci milioni l’ora (Facebook) o sessanta al secondo (Instagram) . 1

Il passaggio da un supporto di tipo materiale (analogico) ad uno di tipo immateriale (digitale) ha rappresentato nella storia della cultura visiva una svolta epocale. La visibilità delle immagini digitali risulta infatti quasi secondaria rispetto alle operazioni a cui le stesse sono sottoposte nella fase precedente e successiva alla loro visualizzazione, durante le quali vengono ridotte a mere stringhe di dati. In questo modo le fotografie, già di per sé portatrici, in quanto strumento primario di comunicazione, di una serie di informazioni solitamente estrapolabili dall’uomo grazie alla loro osservazione ed interpretazione, compiono un passo ulteriore. Diventano veri e propri pacchetti di dati, raccolti anche grazie alle attività che svolgiamo quotidianamente su internet, intellegibili ed elaborabili direttamente dalle macchine.

È proprio per questo motivo che Paglen, uno dei primi artisti e ricercatori ad interessarsi da vicino a questo tema, parla di «immagini invisibili »: immagini dalla 2

forma immateriale che sono in grado di sottrarsi alla supervisione dello sguardo umano in favore di uno sguardo ormai quasi esclusivamente macchinico.

La tendenza crescente a delegare alle macchine la produzione, il trasporto e la visualizzazione delle fotografie ha dunque contribuito alla dispersione progressiva delle tracce di questi movimenti, che, risultando invisibili all’occhio umano, sfuggono facilmente al controllo dei soggetti. L’apparente smaterializzazione delle immagini può

M. Smargiassi, L’inciviltà delle immagini, «La Repubblica», 12 dicembre 2012,

<https://smargiassi-1

michele.blogautore.repubblica.it/2012/12/12/lincivilta-delle-immagini/> [ultimo accesso 3 febbraio 2020].

T. Paglen, Invisible Images (Your Pictures Are Looking at You), «The New Inquiry», 8 dicembre 2016,

2

p. 1.

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tuttavia apparire fuorviante: pur posizionandosi in una dimensione altra, quella virtuale, le immagini invisibili risultano tutt’altro che sganciate dalla realtà. Esse, al contrario, guardandoci attivamente, hanno iniziato a intervenire nella vita di tutti i giorni, cambiando le proprie funzioni dalla semplice rappresentazione e mediazione, all’attivazione ed esecuzione di vere e proprie operazioni, possibili grazie alla manipolazione dei nostri stessi dati da parte delle macchine, tanto da essere per questo definite «immagini operative ». 3

L’incessante ricerca di una maggiore automazione si è dunque spinta fino al punto di voler trasformare le macchine stesse da semplici strumenti di trasmissione e riproduzione in acuti ed attivi osservatori: sempre più spesso oggi esse vengono allenate, in analogia con i sistemi visivi naturali, non solo alla semplice visualizzazione, ma ad una reale interpretazione dei dati di cui dispongono. In questo modo le macchine diventano in grado di comprendere a tutti gli effetti ciò che vedono, svolgendo in maniera quasi del tutto indipendente funzioni in origine esclusivamente umane: il riconoscimento di forme, linee ed oggetti, l’individuazione di luoghi, la comprensione di scene, l’intercettazione di movimenti.

Tra queste, assume particolare importanza la capacità di riconoscere i volti, motivo per cui ho scelto di concentrarmi sulla tecnica del riconoscimento facciale. Le implicazioni ad essa collegate appaiono complesse e delicate. Essendo profondamente intrecciato al concetto di identità, il viso si dimostra da sempre il più efficace ed eloquente segno di riconoscimento del singolo, ragione per cui è stato fin dalle origini un motivo centrale della rappresentazione artistica. Come prima ‘interfaccia’ dell’uomo nel mondo, il volto ricopre infatti un ruolo chiave nella percezione di una persona, configurandosi come centro nevralgico dell’espressione e della comunicazione, nonché come elemento in cui si catalizzano e manifestano le caratteristiche peculiari di un individuo. Per questo motivo fin dalle sue origini in età aristotelica la fisiognomica ha preteso di dedurre la psicologia e moralità di una persona dallo studio pseudo-scientifico del volto, gettando le basi per i moderni metodi di identificazione, che dall’ottocento, con l’antropologia criminale di Cesare Lombroso e il riconoscimento

T. Paglen, Operational Images, «e-flux journal», 59, 24 Novembre 2014, <https://www.e-flux.com/

3

journal/59/61130/operational-images/> [ultimo accesso 10 gennaio 2020].

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biometrico di Alphonse Bertillon, arrivano fino ai giorni nostri, con gli studi sulle micro-espressioni di Paul Ekman.

L’automazione della visione su larga scala, nel momento in cui è in grado di riconoscere ed individuare i volti delle persone a cui corrispondono le informazioni raccolte, può assumere però risvolti pericolosi, in grado di infrangere i confini dell’etica e i limiti della privacy personale. Tramite il riconoscimento individuale è possibile infatti attuare un’attenta differenziazione e categorizzazione della popolazione; tappa preliminare per la successiva capitalizzazione delle informazioni ad essa collegate. Questo permette a sua volta, in maniera impercettibile, un conseguente esercizio di potere su scale drammaticamente più larghe di quanto sia mai stato possibile immaginare. L’effetto complessivo della diffusione sistematica di queste tecniche è stata infatti l’instaurazione progressiva di un regime di «data-veillance »4 globale: una

costante e latente sorveglianza perpetrata tramite la diffusione ed il controllo dei dati. Le problematiche legate al riconoscimento facciale sono molteplici, a partire dalla discriminazione di genere, razza o età causata da un apprendimento delle macchine errato o deviato, fino ad arrivare alla misera condizione dei clickworkers, lavoratori ‘fantasma’ che manualmente generano senza sosta proprio quei dati o input che alimentano l’intelligenza artificiale.

È di fronte all'utilizzo dilagante di questo particolare algoritmo che gli artisti scelti come casi studio in questa tesi hanno sviluppato le proprie ricerche sui diversi aspetti ed effetti della machine vision. Attraverso il loro lavoro, ho voluto mettere in luce la duplice natura del riconoscimento facciale, che da un lato può mostrarsi come un’incombente minaccia, dall’altro può diventare un importante strumento di evoluzione e progresso. Nel primo caso, si pensi ad esempio a Zach Blas, che denuncia gli inevitabili errori in cui possono incorrere le macchine nella differenziazione di genere, dovendo etichettare le persone secondo categorie in natura non realmente definite; nel secondo, ad Adam Harvey e al suo VFRAME, un kit di strumenti per la visione che modifica e sfrutta l’intelligenza artificiale per il riconoscimento di bombe illegali in paesi di conflitto.

Cfr. M. Azar, From Panopticon to POV-opticon. Drive to Visibility and Games of Truth. After

Post-4

Truth, 2nd International Conference of Interface Politics, Barcellona, 2018, p. 3.

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Le informazioni sulle varie opere sono state raccolte per la maggior parte tramite interviste dirette , quando possibile incontrando gli artisti di persona, come Mitra Azar e 5

Irene Fenara, altrimenti contattandoli per via telematica, come nel caso di Carloalberto Treccani, che vive a Hong Kong.

La tesi si articola in tre capitoli. Il primo intende dare un panorama teorico sul regime visuale contemporaneo, ripercorrendo brevemente la storia dello sguardo, che da umano è progressivamente diventato (anche) artificiale. Si è dunque voluto illustrare il processo di emancipazione dello sguardo che ha portato ai concetti di visione artificiale e di immagini operative, ma che è iniziato con l’invenzione della fotografia e il conseguente dislocamento del punto di vista, si è intensificato con l’invenzione del cinema e delle telecamere a circuito chiuso ed è giunto all’apice con l’avvento di Internet e dell’era digitale.

Il secondo capitolo si concentra invece sulla tecnica macchinica del riconoscimento facciale, indagando come le sue radici affondino in realtà sul terreno ben più antico della fisiognomica, i cui principi sono stati tramandati attraverso la forma d’espressione originaria dell’uomo, l’arte, che per questo motivo ha sempre mostrato un particolare interesse per la riproduzione del volto.

Infine, nel terzo capitolo vengono presentati i cinque artisti scelti come casi studio, Mitra Azar, Zach Blas, Irene Fenara, Adam Harvey, Carloalberto Treccani, insieme a una serie di loro lavori particolarmente significativi per l’indagine teorica e tecnica sui sistemi di riconoscimento facciale.

Un aspetto interessante di questo progetto è stato a mio parere il fatto di ritrovare un punto di incontro così solido tra le due discipline coinvolte: la tecnologia e l’arte. Spesso si pensa erroneamente alla scienza e al progresso come antitetiche rispetto alla pratica artistica, che ingenuamente appare come un’entità astratta ed inconsistente, quasi dissociata dalla realtà. Ma la singolare sensibilità che ha da sempre contraddistinto gli artisti ha permesso loro, al contrario, di farsi interpreti primari dell’uomo nel corso della storia e della sua evoluzione, rendendoli in grado di cogliere concetti, eventi e fenomeni spesso in maniera precoce e secondo un punto di vista inedito, capace di attribuire nuovi significati alle cose.

Ad eccezione di Adam Harvey (cfr. § 3.1.) e di Zach Blas (cfr. § 3.3.), da cui dopo diversi tentativi non

5

ho ricevuto risposta.

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Lo stesso sta accadendo con gli artisti della contemporaneità: in un’epoca segnata dal rapido ed incontrollabile progresso tecnologico, essi si sono dimostrati capaci di intuire questioni che sono così agli albori da non avere ancora una precisa definizione, legislazione né una reale consapevolezza da parte di chi ne è soggetto. Grazie alle loro ricerche, si sono presi carico dell’impegno di svegliare una popolazione ancora ignara, per renderla consapevole di ciò che sta accadendo quotidianamente nella realtà che la circonda, rivelandosi inoltre in grado di proporre potenziali soluzioni ed eventuali espedienti.

L’avanzamento incessante delle nuove tecnologie di visione e di riconoscimento artificiale sembra dunque aprire un orizzonte spaventoso. Il fatto che le loro stesse operazioni si svolgano ad un livello invisibile e in maniera sempre più indipendente da un soggetto vedente umano, rende ancor più difficile comprendere in cosa esse possano trasformarsi, se non gestite o disciplinate in maniera adeguata: leve immensamente potenti di controllo e regolazione sociale.

L’apparente immaterialità del supporto, che rende i dati caricati in rete impalpabili, facendoli sembrare effimeri, inganna l’importanza che invece può assumere la traccia del nostro stile di vita, che si compone attraverso i dati personali che, più o meno volontariamente, mettiamo in circolazione.

Ogni singola scelta o azione personale, ben registrata, analizzata, e poi ricollegata grazie al riconoscimento facciale ad uno specifico individuo, contribuisce a quel processo di identificazione del singolo che sta alla base della successiva capitalizzazione delle informazioni da parte di compagnie e poteri superiori, che mina nel profondo principi fondamentali quali la privacy o la libertà. Oltre a ciò, la tendenza crescente a delegare le nostre operazioni a sistemi di intelligenza artificiale con la convinzione che le elaborazioni macchiniche siano più precise, meticolose ed oggettive di quelle umane, può rivelarsi oltremodo pericoloso. Le stesse infatti hanno spesso dimostrato di incorrere, nel corso delle loro elaborazioni, in numerosi errori e distorsioni. Basandosi su un apprendimento di tipo empirico e agendo per standardizzazioni e categorizzazioni inevitabilmente generalizzate, questi sistemi spesso falliscono di fronte a immagini non normative che fuoriescono dai dati a loro immessi in input, rivelando così il più delle volte le posizioni storiche, geografiche, razziali e

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socio-economiche dei loro programmatori. L’effetto è quello dunque di generare risultati deviati, pur mantenendo la pretesa di essere oggettivi.

La propensione ad affidare il nostro sistema sociale, politico e giuridico a questo tipo di sistemi diventa dunque ancor più allarmante: il rischio risulterebbe non solo quello di servire gli interessi di un potere superiore (governativo o economico) a discapito di una popolazione ignara e impreparata, ma anche di compromettere in questo modo la giustizia, i diritti e i progressi ottenuti dopo secoli grazie ad una sensibilità interamente umana.

In questo panorama, i lavori degli artisti presentati si sono distinti come importanti campanelli d’allarme, nonché, per la maggior parte, come rielaborazioni positive della situazione in cui si trova immerso oggi l’uomo contemporaneo. Che sia denunciando, sfuggendo o sfruttando queste nuove tecnologie, le loro opere sembrano aprire davanti ai nostri occhi nuove ed inesplorate vie, offrendoci dei validi strumenti per non continuare a subire questa odierna condizione, bensì per reagire attivamente.

Desidero innanzitutto ringraziare la professoressa Cristina Baldacci, relatrice di questa tesi di laurea, per il grande supporto fornitomi durante tutto il periodo di stesura. La sua dedizione, la sua conoscenza e la sua guida paziente sono state essenziali per la riuscita di questo lavoro.

Un ringraziamento particolare va inoltre al professor Antonio Somaini, mio correlatore, per avermi dato l’opportunità di venire a conoscenza del tema di ricerca, ma soprattutto per essere stato un sostegno costante durante la mia carriera accademica. I preziosi consigli che mi ha donato in questi anni si sono rivelati un aiuto fondamentale per affrontare ogni grande decisione che ho dovuto intraprendere.

Un ringraziamento speciale va anche agli artisti Mitra Azar, Irene Fenara e Carloalberto Treccani, non solo per essersi dimostrati disponibili ad incontrarmi e a rispondere alle mie domande, ma per averlo fatto accogliendomi con gentilezza ed amicizia.

(10)

Capitolo 1

Machine vision: un nuovo regime visuale

1.1. Dallo sguardo umano allo sguardo non umano. Per un’archeologia

della visione macchinica

Prima di ogni altro organo [gli dei] fabbricarono gli occhi che portano la luce, e ve li collocarono in siffatto modo: di tutto quel fuoco che non può bruciare, ma produce la mite luce propria d’ogni giorno, fecero in modo che esistesse in un corpo . 6

Platone, Timeo.

Da sempre gli occhi hanno ricoperto una posizione privilegiata rispetto al resto del nostro corpo. Incarnazione concreta dell’atto della visione, tra tutti gli organi di senso umani essi sono stati, e sono tutt’oggi, tramiti imprescindibili e strumenti primari di interazione con ciò che ci circonda: la vista gioca infatti un ruolo chiave nell’ordine del conoscere e dell’agire, all’interno di quella dimensione inesplicabile, enigmatica ed avvolgente che chiamiamo realtà.

Di non semplice definizione, e anzi soggetta, nel tempo, a molteplici e controverse interpretazioni, è proprio la realtà ad esser stata eletta oggetto d’indagine primario dell’uomo, che da millenni ha ricondotto ogni suo sforzo intellettuale in questa direzione: verso il fine ultimo di conoscere, rappresentare, capire tutto ciò che lo circonda. Come afferma George H. Mead in La natura dell’esperienza estetica:

l’uomo vive in un universo di significati. Ciò che egli vede e sente dà senso a quello che egli vuole o potrebbe gestire. L’obiettivo prossimo di ogni percezione è ciò che siamo in grado di manipolare: se dopo aver attraversato la distanza che ci separa da quello che vediamo o sentiamo non troviamo nulla su cui esercitare le nostre mani, l’esperienza è un'illusione o un'allucinazione. Il mondo della realtà percettiva, il mondo delle cose fisiche, è il mondo dei nostri contatti e delle nostre manipolazioni; l’esperienza a distanza dell’occhio e dell’orecchio dà in prima istanza un significato a tutti gli oggetti fisici . 7

Con queste parole Mead, pur accostandola all’udito, ben fa comprendere il ruolo della vista: orientarsi all’interno del mondo, per poter cogliere le cose fisiche di cui è composto nella loro essenza e, individuandole, attribuire loro un significato.

Platone, Timeo, in Opere, trad. di C. Giarratano, 6 voll., Bari, Laterza, 1966, II, XV 45b – 47c, pp. 498–

6

501.

G. Mead, The Nature of Aesthetic Experience, «International Journal of Ethics», 36/4, 1926, pp. 1-2.

7

(11)

Le cose fisiche, pertanto, risultano centrali, in quanto non solo sono il significato di ciò che vediamo e sentiamo, ma diventano anche il mezzo che utilizziamo per raggiungere i nostri scopi. Come afferma ancora il filosofo, esse:

svolgono così una funzione intermedia, costituendo il significato di tutto ciò che si trova tra noi e i nostri orizzonti più lontani, ed i mezzi e gli strumenti delle nostre fruizioni. Si trovano in questa modalità intermedia tra gli stimoli distanti che avviano i nostri atti e le gioie o le delusioni che li concludono. Sono la meta prossima delle nostre vedute e dei nostri suoni, e sono la materia strumentale in cui incarniamo i nostri fini e scopi; così, da un lato costituiscono la dura realtà fisica della scienza, e dall'altro il materiale su cui costruire il mondo dei desideri del nostro cuore, il materiale di cui sono fatti i sogni . 8

Valicando la distanza tra l’uomo e gli oggetti fisici dunque, rintracciabili e riconoscibili per l’appunto attraverso i sensi, ecco che per il soggetto diventa possibile toccare con mano, e così manipolare, la tanto ricercata realtà.

Se si guarda più in profondità all’etimologia del termine, già appare chiaramente l’idea filosofica alla base: derivata dal latino res, in affinità al sanscrito rāḥ (possesso, bene, ricchezza), la voce indica a tutti gli effetti un oggetto materiale . Da qui, il 9

sostantivo realitas apparirà poi solo nel tardo Medioevo, grazie a Giovanni Duns Scoto, filosofo e teologo scozzese francescano, che lo utilizzerà per la prima volta per indicare non tanto la totalità di ciò che costituisce il ‘fuori’ della coscienza umana, bensì l’individuazione della stessa (la realtà ultima del singolo ente che esiste), in contrapposizione al concetto latino di abstracta (quidquid credat intellectus de rei

veritate = “ciò che l’intelletto creda circa la verità della cosa”) . 10

Dunque si vede come l’etimologia stessa del termine rende subito evidente un altro concetto chiave che risulta essere imprescindibilmente legato all’idea di realtà, nonché parimenti oggetto delle più profonde ricerche in ambito filosofico e non solo: verità. I due termini, realtà e verità, spesso erroneamente utilizzati come sinonimi, acquisiscono già nell’ottica platonica un significato profondamente diverso, e fin da subito ben esplicitato con il famoso ‘mito della caverna’. Se infatti con realtà si intende,

Ibid.

8

Cfr. Res, Enciclopedia Treccani, <http://www.treccani.it/vocabolario/res/> [ultimo accesso 11 novembre

9

2019].

J. Courtine, Realitas, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, 13

10

voll., Basilea, 1971–2007, VIII, pp. 177–188.

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come anticipato, ciò che ci circonda in quanto insieme degli oggetti fisici con cui ci relazioniamo tramite i sensi, ovvero il mondo della percezione sensibile, ecco che la verità si pone invece in quel mondo al di là del cielo (da cui il nome) in cui risiedono le idee: l’Iperuranio. Ed è proprio a questo che deve puntare il filosofo, superare le barriere del contingente ed arrivare all’essenza, per giungere finalmente alla vera conoscenza, che altro non è che uno ‘sguardo’ sulla verità. Da qui, risulta immediato lo strumento privilegiato da Platone per arrivare alla stessa: la visione . 11

Attraverso la vista l’uomo ha potuto osservare, e perciò comprendere, il passare dei giorni e così lo scorrere del tempo, i cambiamenti delle stagioni e così le leggi della natura, i movimenti dei pianeti e così le ragioni dell’universo. E parimenti, attraverso l’osservazione di ciò che stava all’infuori del sé, ha così intuito anche i moti della mente, portando alla nascita stessa della filosofia . Ecco che allora gli occhi 12

risultano il dono più grande e prezioso per la storia dell’uomo, poiché attraverso di essi non solo sarà possibile avere accesso alla realtà delle cose, ma alla loro più profonda verità. Alla luce di tutto ciò, non sorprenderà notare come, dal mondo greco fino ai giorni nostri, il lessico della conoscenza risulti a tutti gli effetti cosparso di riferimenti alla vista; e proprio il termine platonico per eccellenza, ‘idea’, diviene l’esempio più lampante di questa identità quasi sostanziale che si viene a creare fra i termini che designano forme e contenuti del vedere e del conoscere.

Occorre tuttavia, per completezza, sottolineare una apparente contraddizione che già compare nel

11

pensiero Platonico, e che è possibile rintracciare proprio nel ‘mito della caverna’, con cui il filosofo apre il settimo libro de La Repubblica: incatenati all’interno di una grotta, con il sole splendente alle spalle, ma costretti a guardare fissi davanti il muro a loro, i prigionieri sono così obbligati a creare una propria verità e comprensione del mondo basandosi solamente sulle immagini proiettate davanti ai propri occhi, che altro non sono, però, che le ombre delle cose vere, che si trovano al di fuori della caverna. Il filosofo, liberatosi, sarebbe l’unico a poter, una volta uscito, riportare ai compagni la verità: la difficoltà sarebbe però riabituare gli occhi al buio, dopo aver visto la luce accecante del sole, e convincerli a liberarsi con lui. Chiaramente, dunque, Platone vuole sottolineare come gli occhi, basandosi sulla propria percezione del reale, risultino in questo senso ingannati e, a loro volta, ingannevoli. Non per questo, tuttavia, smettono di essere strumento imprescindibile di conoscenza, essendo essi stessi il mezzo con cui, una volta uscito dalla grotta, esso ha potuto guardare la verità.

«La vista, a mio parere, è divenuta per noi causa di grandissima utilità, perché nessuno di questi

12

discorsi, che diciamo intorno all’universo, sarebbe stato detto, se non avessimo veduto né gli astri, né il sole, né il cielo. Ora l’osservazione del giorno e della notte, dei mesi e dei periodi degli anni hanno fornito il numero e procurato la nozione del tempo e la ricerca intorno alla natura dell’universo. Di qui abbiamo acquistato il genere della filosofia, della quale non venne nessun bene maggiore, né mai verrà, al genere mortale, come dono largito dagli dèi. Io dico che questo è il più grande benefizio degli occhi […] Ma noi di questo affermiamo questa cagione, che dio ha trovato e ci ha donato la vista, affinché, contemplando nel cielo i giri dell’intelligenza, ce ne giovassimo per i giri della nostra mente, che sono affini a quelli, sebbene essi siano disordinati e quelli ordinati, e così ammaestrati e fatti partecipi dei ragionamenti veri secondo natura, imitando i giri della divinità che sono regolari, potessimo correggere l’irregolarità dei nostri» Platone, cit., pp. 498–501.

(13)

Dal greco éidos, il termine è infatti traducibile come “ciò che si dà alla vista”, “ciò che si rende visibile” (da idéin, “vedere”) cosicché la verità stessa tende a coincidere con la capacità di assurgere a quella forma di superiore visione, in cui propriamente consiste la conoscenza.

Sarebbero troppe da elencare tutte le parole ed espressioni ancora in auge in cui il forte legame tra le due sfere semantiche appare in maniera evidente: da ‘teoria’ (dal gr. theōría, der. di theōréō “osservo”) a ‘intuizione’ (dal lat. tardo intuitio -onis, der. di

intuēri “veder dentro”), fino ad arrivare a termini come ‘osservare’ (dal lat. observare),

tutt’oggi utilizzato indistintamente sia per l’azione di vedere sia per quella di esprimere un pensiero, o ancora ‘perspicuità’ (dal lat. perspicuĭtas -atis, der. di perspicŭus “perspicuo” ) o ‘chiarezza’ (dal lat. clarum), ove il comprendere qualcosa nella sua completezza equivale propriamente a “fare luce sullo stesso” (che altro non è che la condizione fondamentale per potere esercitare la vista) . 13

Tra questi, altri due termini emergono in maniera particolare: ‘prospettiva’ (dal lat. tardo prospectivus, “che assicura la vista”) e ‘punto di vista’. Seppur di significato 14

leggermente differente, a volte sovrapponibile, entrambi possono essere utilizzati sia in senso proprio, nell’accezione più attinente al campo della visione, ovvero come il punto dal quale viene osservato l’oggetto, sia in senso figurato, nell’accezione invece più vicina al campo della conoscenza, alludendo in questo caso ad un particolare modo di intendere e di valutare la realtà . 15

Cfr. U. Curi, La forza dello sguardo (2004), Torino, Bollati Boringhieri, 2015, passim.

13

Cfr. s.v. Prospettiva, G. Devoto, G.C. Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano,

14

Selezione Reader's Digest, 2 voll., 1988, II.

Cfr. Prospettiva, Enciclopedia Treccani <http://www.treccani.it/enciclopedia/prospettiva/> [ultimo

15

accesso 11 novembre 2019].

(14)

Molto prima di assumere l’accezione e l’importanza che poi acquisì in epoca rinascimentale , ecco che semplicemente, sia in senso proprio che in senso figurato, il 16

punto di vista (il nostro punto di vista e, di conseguenza, la prospettiva) è prima di tutto questo: l’angolatura dalla quale guardiamo il mondo.

In questo senso possiamo dire che il punto di vista di ognuno (POV ) si viene a 17

definire così come una sorta di produzione fenomenologica di un ‘orientamento’ (che ancora una volta in primo luogo significa rivolgersi verso oriente, dove sorge il sole, e dunque la luce, per ‘vederci’, e, così, ritrovarsi).

Ma come sottolinea l’artista e ricercatore Mitra Azar , il POV, inteso dunque 18

come orientamento fenomenologico, non è qualcosa che nasce con l’uomo, ma avrebbe addirittura origini cosmologiche. Infatti, già dal momento in cui si formarono i primi nuclei di protoni e neutroni qualche milionesimo di secondo dopo il Big Bang, e specialmente quando i primi elettroni iniziarono a girare attorno a questi nuclei (formando così i primi atomi 380.000 anni dopo ) i blocchi fondamentali della materia 19

si organizzano proprio producendo ‘orientamenti’, tecnicamente indicati come spins. La materia risulta così sempre orientata, nonostante la sua divisione in organica e inorganica.

Quest’ultima poi, sviluppandosi ed evolvendosi in forme organiche che a loro volta si orientano nello spazio secondo differenti criteri evolutivi di sopravvivenza, Occorre tuttavia fare una precisazione: al di là della mera ricerca di regole per la codificazione

16

geometrica e la corretta riproduzione dello spazio circostante, di profondo interesse per la storia delle arti figurative, anche nel Rinascimento un interessamento così vivo ed intenso da parte degli artisti verso la questione della prospettiva non era suscitato solamente dal desiderio di giungere ad una rappresentazione mimetica del reale. Oltre a donare all'arte supporti di carattere scientifico, infatti, la ricerca era finalizzata a dare evidenza a una concezione filosofica del mondo, basata su un ordine razionale distribuito su tutto il creato. Tale funzione giunse alle sue massime espressioni nel periodo compreso tra l’inizio del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, prima che il Manierismo si insinuasse a rompere l'equilibrio della precedente visione. Nei due secoli d'oro del Rinascimento al problema della prospettiva furono dunque dedicati quasi esclusivamente gli artisti. Figure poliedriche come Raffaello, Piero della Francesca, Albrecht Dürer e Leon Battista Alberti si innalzarono come veri cultori della materia, intendendo prima di tutto l’intuizione prospettica dello spazio come il momento in cui l’intero quadro si trasforma in una ‘finestra’:attraverso la stessa non si vedono, secondo questa concezione, semplicemente delle cose posizionate in uno spazio, ma il tutto si trasferisce in un piano figurativo in cui si proietta uno spazio unitario, dove le cose stesse sono in rapporto tra loro. Si parla quindi di una ‘messa in inquadratura’, che comunica un senso del mondo e lo comunica attraverso i rapporti che si instaurano tra i soggetti rappresentati. La camera con le sue ottiche ci permette dunque non solo di indagare il mondo ma anche, contemporaneamente, di indagare la mente umana che in quel mondo si specchia.

Acronimo di Point Of View.

17

Cfr. M. Azar, POV-Matter and Machinic POV between Affects and Umwelten, «Machine Feeling

18

2018», 23 dicembre 2018, p. 3.

Cfr. The early universe, sito ufficiale CERN <https://home.cern/science/physics/early-universe>

19

[ultimo accesso 16 novembre 2019].

(15)

produce quello che verrà teorizzato e chiamato, da Jakob von Uexküll, Max Scheler e Thomas A. Sebeok, Umwelt (ambiente o mondo circostante) e che risulterà essere 20

unico e specifico di quel dato organismo, del quale i ‘regimi di luce’ dello stesso 21

rappresentano la controparte visiva.

Generalmente tradotto anche come “universo soggettivo”, l’Umwelt si configura come il fondamento biologico che sta nell’esatto epicentro della comunicazione e del significato dell’animale-uomo (e non) . 22

Rappresentando dunque, per l’organismo, il suo mondo semiotico, e creandosi nel momento stesso in cui l’organismo stesso interagisce con il mondo circostante, in un meccanismo che prende il nome di circolo funzionale, l’Umwelt va così a configurarsi come un personale modello di mondo, il milieu in cui ha luogo l’esperienza sensibile.

Conseguentemente le Umwelten di diversi organismi differiscono tra loro, come risultato dell'individualità e unicità della storia di ogni singolo organismo, anche nel caso di una condivisione di uno stesso ambiente naturale.

Alla luce di tutto ciò, dunque, risulta semplice vedere come il POV del singolo, punto di partenza della propria Umwelt, abbia profondamente condizionato, fin dall’inizio della storia dell’uomo e non solo, tutte le forme della percezione sensibile e della conseguente conoscenza, configurandosi come unico spiraglio dal quale poter spiare il creato, gettando il proprio sguardo sulla realtà. Uno sguardo «prospettico, che inquadra un campo visivo che non coincide con la totalità del visibile, ma lo ritaglia; uno sguardo che mette a fuoco solo alcune porzioni del visibile, per lasciarne altre in

Cfr. J. von Uexküll, A Stroll Through the Worlds of Animals and Men: A Picture Book of Invisible

20

Worlds, in C. Schiller Instinctive Behavior: the Development of a Modern Concept, New York, International Universities Press, 1957.

Nel suo libro dedicato a Foucault (1986), Gilles Deleuze sottolinea come le diverse forme di

21

organizzazione del sapere e di esercizio di potere sono analizzate dal filosofo studiando il modo in cui esse si organizzano non solo in enunciati e discorsi, ma anche attraverso determinate forme di articolazione del visibile: schemi di visualizzazione, dispositivi di rappresentazione, punti di osservazione, ‘luoghi di visibilità’ e ‘regimi di luce’. «Ogni formazione storica vede e fa vedere tutto ciò che può, in funzione delle sue condizioni di visibilità. […] La visibilità non rinvia a una luce in generale che illumini oggetti preesistenti, ma è fatta di linee di luce che formano figure variabili, inseparabili da questo o da quel dispositivo. Ogni dispositivo ha un suo regime di luce, la maniera in cui essa cade, si smorza e si diffonde, distribuendo il visibile e l’invisibile, facendo nascere o scomparire l’oggetto che non esiste senza di essa. […] Se c’è una storicità dei dispositivi, è quella dei regimi di luce». G. Deleuze, Foucault (1986), a cura di P.A. Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1987, p.40 in A. Pinotti, A. Somaini, Cultura Visuale: Immagini sguardi media dispositivi, Milano, Einaudi, 2016.

«Description of somebody’s Umwelt will mean the demonstration of how the organism (via its

22

Innenwelt) maps the world, and what, for that organism, the meanings of the objects are within it.» Cfr. K. Kull, Umwelt and Modelling in P. Cobley, The Routledge Companion to Semiotics (2010), London, Routledge Taylor & Francis Group, 2019, p. 43.

(16)

zone periferiche digradanti fino all’invisibilità; uno sguardo che ha un punto cieco e angoli morti ». 23

Lo sguardo (regard per il pensiero francese, gaze per la tradizione della visual

culture angloamericana, Blick per la Bildwissenschaft di lingua tedesca ) assume in 24

questo modo un ruolo essenziale, in quanto elemento condizionante e determinante per la definizione delle coordinate del visibile, e proprio per questo motivo negli studi di cultura visuale non viene mai considerato come atto neutro e de-localizzato, bensì come un atto sempre prospettico, proiettato «a partire da un punto di vista spazialmente e temporalmente concreto », e responsabile di una visione inevitabilmente situata: 25

La visione e i suoi effetti sono sempre inseparabili dalle possibilità di un soggetto osservatore, che è allo stesso tempo sia il prodotto storico sia il luogo dove si verificano le pratiche, le tecniche, le istituzioni e le procedure di soggettivazione. […] Sebbene sia chiaro che si tratti dell’azione del guardare, un osservatore è soprattutto un individuo che compie tale azione all’interno di una determinata serie di possibilità, un soggetto inquadrato in un sistema di convenzioni e limitazioni . 26

Vincolato da uno specifico punto di vista, condizionato da un ineludibile inquadramento spazio-temporale, ed influenzato dalle conseguenti condizioni storiche, sociali e culturali, lo sguardo non si limita così alla funzione di semplice ricettore, ma sviluppa, come sottolinea Georges Salles nel suo testo Le regard, capacità di modellizzazione attiva e culturalmente condizionata del reale . Lungi dall’essere una passiva ricezione 27

di uno spettacolo, come ripropone Rancière, esso opera invece una «selezione,

Pinotti, Somaini, cit., p. XVIII.

23

Vasti campi di ricerca nati intorno alla metà degli anni Novanta e dedicati esplicitamente allo studio

24

della dimensione culturale delle immagini e della visione. Ivi p. 38.

25

Continua: «E con il termine ‘convenzioni’ si intende qui suggerire un aspetto molto più complesso

26

rispetto a quello meramente riconducibile alle pratiche di rappresentazione. […] Se possiamo affermare che esiste uno specifico osservatore […] è soltanto in termini di costruzione di un effetto prodotto da un sistema irriducibilmente eterogeneo di rapporti discorsivi, sociali, tecnologici e istituzionali.» (J. Crary, Le tecniche dell’osservatore (Techniques of the Observer 1990), a cura di L. Acquarelli, Torino, Einaudi, 2014, pp. 8-9). Infatti, i modi di vedere, le modulazioni dello sguardo, l’estensione e le coordinate del visibile non sono mai considerati dagli studi di cultura visuale come fenomeni immediatamente dati, naturali e sovrastorici, ma piuttosto come fenomeni che sono sempre tecnicamente e storicamente determinati. Pinotti, Somaini, cit., p. 40.

G. Salles, Le regard, Paris, Plon, 1939, p.123.

27

(17)

comparazione, interpretazione » del reale, un reale che non esiste in sé e per sé, ma 28

esiste in quanto «configurazione di ciò che è dato come il reale, come l’oggetto delle nostre percezioni, dei nostri pensieri, dei nostri interventi […], come costruzione dello spazio in cui si connettono il visibile, il dicibile, il fattibile ». 29

Per millenni, dunque, se consideriamo ogni tipo di prodotto creativo o forma espressiva (declinata in pittura, letteratura, teatro, cinema, danza…) come rilettura (o risposta) della realtà circostante (senza per questo escludere le attività più funzionali 30

ed utilitaristiche della vita quotidiana del singolo o della collettività), anche il più grande artista, nonostante la sua peculiare originalità, secondo questa linea di pensiero, non ha potuto valicare «le condizioni di possibilità figurativa, sorta di trascendentale visuale storico, imposte dallo schema ottico (come lo definisce Wölfflin) o dal

Kunstwollen (“volere artistico”, come lo designa Riegl ) corrispondenti all’epoca in cui 31

si trova essere nato e cresciuto32». Ma, soprattutto, non ha potuto trascurare il proprio sguardo, spostandosi e muovendosi sempre all’interno dei confini della propria percezione . 33

Il 6 gennaio del 1839 questi presupposti, però, iniziarono a crollare: all’Accademia di Francia fu ufficialmente presentata la fotografia.

J. Rancière, Lo spettatore emancipato (Le Spectateur Émancipé 2008), a cura di D. Mansella, Roma,

28

DeriveApprodi, 2018, pp. 83-84. Ibid.

29

Attuando un’inevitabile semplificazione.

30

«Se ci rivolgiamo ai due nomi più influenti della storia dell’arte di lingua tedesca fra Otto e Novecento,

31

Wöfflin e Riegl, ci imbattiamo in una spiccata sensibilità per quello che lo stesso Wöfflin ebbe a definire, in una formula destinata a divenire celebre, Kunstgeschichte ohe Namen, “la storia dell’arte senza nomi”. Con tale formula si esprimeva l’esigenza di indagare, al di sotto del livello delle grandi personalità geniali, un anonimo terreno condiviso di sensibilità visuale - una sorta di koinè aisthesis di senso comune - che contrassegna una particolare comunità in una determinata epoca. Così, pure nella notevole diversità dei periodi artistici considerati, si può rilevare una predilezione da un lato per i contorni definiti, per la linearità, per le silhouette negli stili dell’antico Egitto (Riegl) e del Rinascimento (Wöfflin), dall’altro per gli impressionistici giochi cromatici e chiaroscurali negli stili dell’epoca imperiale tardoromana (Riegl) e del Barocco (Wöfflin).» Pinotti, Somaini, cit., p. 80.

Ivi. p. 79-80.

32

Tanto che si è dibattuto per anni sull’esistenza di una storicità della percezione: i diversi modi di

33

rappresentazione della realtà, a seconda dei diversi luoghi o tempi, sono considerabili come semplici condizionamenti di carattere socio-culturale o in qualche modo è possibile rintracciare una correlazione tra il modo in cui il mondo viene rappresentato e il modo in cui viene percepito? Si può affermare con certezza che la percezione sia rimasta nei secoli invariata, fissa ed universale, o può essere stata anch’essa oggetto di variazioni e trasformazioni storiche?

(18)

Già dalla comparsa dei primi dagherrotipi, tra cui il famoso Boulevard du

Temple del loro inventore, Louis-Jacques-Mands Daguerre, che mostrava la prima

immagine umana, non tardarono a fiorire tutta una seria di riflessioni e di commenti attorno alle implicazioni teoriche di questo cambiamento radicale. Da una parte, vi furono coloro che abbracciarono positivamente la nuova tecnica, tra cui ricordiamo in particolare Wilhelm von Humboldt, che vedeva in queste immagini una cosa totalmente diversa dallo sguardo umano, a causa della sorprendente precisione dei dettagli: una resa a cui, nella realtà, l’occhio umano non era mai riuscito ad accedere. Dall’altra, vi fu invece chi la pensava come Charles Baudelaire , che fin da subito rifiutò la fotografia 34

come forma artistica per l’eccessiva somiglianza al reale, additandola come mera replica a cui mancavano creatività e immaginazione.

Ciò che è indubbio, però, è che la fotografia aprì fin dagli albori nuovi e inesplorati orizzonti, andando a configurarsi sempre più come forma di potenziamento e di estensione dello sguardo, nonché come esperienza di ‘stracciamento’ sensoriale, dovuto proprio alla progressiva dislocazione del punto di vista. In ogni modo, ad aprirsi fu un ventaglio di nuove possibilità di visione, che portò con sé una serie di grandi promesse.

Negli anni Venti e Trenta del Novecento, le stesse questioni ritornarono con forza, dal momento che la fotografia aveva condotto ad un processo di sradicamento quasi carnale dello sguardo, che per la prima volta iniziava a liberarsi dal secolare ed indissolubile legame con gli occhi. Anton Giulio Bragaglia, ad esempio, vedeva nella possibilità di catturare il movimento attraverso il mezzo fotografico un’aggiunta conoscitiva rispetto a quanto potesse fare il solo sguardo umano. László Moholy-Nagy, invece, considerava questa ‘nuova visione’ uno sguardo senza pregiudizi, e perciò libero da ogni forma di conoscenza a priori.

Affermazioni simili torneranno poi anche nel celebre saggio di Walter Benjamin, quando scrisse che la macchina fotografica permetteva di rivelare quello che lui chiamava «inconscio ottico », ovvero stratificazioni del visibile a cui l’occhio, da solo, 35

Cfr. C. Baudelaire, Salon de 1859 (1859) in Scritti di estetica, a cura di G. Macchia, trad. di A. Luzzato,

34

Firenze, Sansoni, 1948.

W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (The Work of Art in the Age of

35

Mechanical Reproduction 1966), Milano, Einaudi, 2011 pp. 30-31.

(19)

non era in grado di arrivare, aprendo così anche la possibilità di progettarlo in modo diverso.

Il processo di emancipazione dello sguardo non può però ritenersi compiuto con l’invenzione della fotografia. Dopo pochi anni dalla stessa, infatti, sarà scandito da una seconda data-simbolo: il 28 dicembre 1895, quando i fratelli Lumière proiettarono per la prima volta in pubblico il loro primo cortometraggio intitolato La sortie des usines

Lumière.

La nascita del cinema fece compiere a questa vertiginosa evoluzione un passo

ulteriore. Esso, di fatto, non solo riusciva a fermare una realtà sfuggente ed inafferrabile come il movimento, ma ci riusciva senza tuttavia doverlo pietrificare in un’immagine statica (come invece accadeva nella fotografia), andando ad abbracciare l’intero gesto o azione dal principio fino alla fine e memorizzando così, in qualche modo, il tempo.

Già di per sé questa prima implicazione appariva, agli occhi dell’uomo post-moderno, una rivoluzione straordinaria, che andava a collocare il cinema, nella divisione già individuata dal Laocoonte (1766) di Lessing tra arti dello spazio (pittura e scultura) e arti del tempo (poesia e musica) in una posizione intermedia tra le due, ovvero tra quelle che operano con segni che stanno «gli uni ‘dopo’ gli altri» (arti del tempo), ma restituendo sullo schermo l’immediata e simultanea visibilità delle cose «le une ‘accanto’ alle altre» (arti dello spazio) . 36

Questo «nuovo organo di senso attraverso cui esperire il mondo » svelò così 37

una nuova regione del visibile, una regione rispetto al quale lo spettatore si trovava in una posizione di prossimità con le cose, in quanto, a differenza di ciò che accadeva con le immagini, non vi erano dei significati da ricercare al di là delle stesse, poiché queste si lasciavano attraversare come le parole . 38

Abolendo così la distanza tra lo spettatore e l’oggetto esperito, tipica delle arti visive, il soggetto osservatore si riavvicinò in questo modo al mondo concreto delle cose e, appropriandosi di un nuovo punto di vista capace di abbattere il velo separatore della comunicazione verbale, andò incontro ad una rinnovata esperienza immediata, non-concettuale della realtà. Se la cultura, come affermò Béla Balázs, è intesa come «la B. Balázs, Der Geist des Films (1930), prefazione di H. Loewy, recensioni di S. Kracauer, e R.

36

Arnheim, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2001, pp. 10-12. Ibid.

37

Pinotti, Somaini, cit., p. 5.

38

(20)

penetrazione dello spirito nella quotidiana materia della vita », ecco che allora nelle 39

immagini cinematografiche per la prima volta lo spirito si «manifesta in modo immediato, nei luoghi e negli oggetti dell’esperienza quotidiana così come nella superficie dei corpi, nei volti e nei gesti », riportando l’uomo a quella forma di 40

comunicazione originaria ed universale che è la mimica, la vera madrelingua dell’umanità . 41

La querelle attorno a questo nuovo tipo di visione, dunque, non poteva che proseguire. Tra i vari autori coinvolti, particolarmente valide saranno le voci di Jean Epstein, che parlò della cinepresa come un cervello in metallo, come un soggetto/ oggetto, come un occhio inumano senza pensiero né memoria che ci permette di uscire da noi stessi per accedere ad una conoscenza del reale più vicina ed approfondita, e di Siegfried Kracauer, che si soffermò invece sul senso di disorientamento provocato da questo sguardo non umano, capace di sradicarci dalla nostra posizione antropocentrica.

L’assunzione di un rinnovato e ravvicinato punto di vista si concretizzò in 42

particolare in quelle inquadrature in primo piano che negli anni Venti ebbero un immediato e duraturo successo nel cinema, tanto da assumere propriamente la nomenclatura di POV.

Questo genere di riprese non solo permetteva all’osservatore di vedere la scena da una prospettiva del tutto nuova, ovvero quella del personaggio, ma, simulando nel contempo i movimenti dell’attore nello spazio, creava un senso di continuità tra chi vedeva e ciò che era visto, come se gli spettatori fossero in qualche modo ‘incarnati’ nelle immagini che stavano guardando.

In questo senso, le immagini POV generavano così una forma di sovrapposizione costante tra il corpo dell’attore, il corpo dello spettatore e la cinepresa, producendo in tal modo una continua coincidenza tra l’uomo e la tecnologia.

B. Balázs, L’uomo visibile (Der sichtbare Mensch 1924), a cura di L. Quaresima, Torino, Lindau, 2008,

39

p. 129.

Pinotti, Somaini, cit., p. 6.

40

Cfr. Balázs, L’uomo visibile, cit., p. 125.

41

Anni dopo questo distaccamento del punto di vista si articolerà in realtà nelle più varie manifestazioni,

42

fino a muoversi in direzioni del tutto opposte al citato riavvicinamento (si pensi, ad esempio, alle riprese aree rese possibili oggi grazie all’utilizzo dei droni o alla visione satellitare).

(21)

E se si vuole scavare più a fondo secondo un approccio teorico (ricollegandoci alle origini cosmologiche del POV) si può affermare che in questo modo il cinema abbia instaurato una vera e propria relazione tra il punto di vista dello spettatore, inteso come l’orientamento fenomenologico prodotto da un agente incarnato in uno spazio fisico, a sua volta definito come regime di luce, con il regime di visibilità prodotto dalla macchina cinematografica analogica , portando in questo modo al collasso del velo 43

separatore che manteneva isolati, seppure in contatto, uomo e macchina.

Questa dislocazione sensoriale progressiva apparì ancor più chiaramente, ancora una volta, in Benjamin, che ampliò il concetto già anticipato di medium (come atmosfera, milieu in cui ha luogo l’esperienza sensibile) comprendendo al suo interno tutta quella serie di dispositivi che ne permettevano, e ne influenzavano, la ricezione.

Secondo il filosofo le tecnologie ottiche, fotografiche e cinematografiche, si aggiungevano solamente a tutta quella serie di apparecchi (dall’illuminazione elettrica al telegrafo, dal grammofono al telefono) che già trasformavano profondamente ed inevitabilmente il sensorio umano, «innervandosi » propriamente nei rispettivi organi 44

ed ampliandone le capacità percettive.

Idea ripresa parimenti da Marshall McLuhan, che parlò a sua volta dei media nascenti come «extensions of man », ovvero come dei veri e propri prolungamenti 45

sensoriali in grado di incidere profondamente su tutte le forme dell’esperienza, della conoscenza, nonché della vita sociale e culturale degli stessi.

Ri-delimitando il campo d’analisi a quello visuale, oggetto primario d’interesse di questa tesi, un’ultima data segna il punto di svolta successivo, che ha portato il processo di trasformazione dello sguardo umano allo sguardo non umano ad una vertiginosa accelerazione: è il 1982 e, dopo più di vent’anni di sperimentazioni, accanto al già presente (seppur primitivo) personal computer, nasce ufficialmente la parola

Internet . 46

M. Azar, POV-Matter and Machinic POV…, cit., p. 2.

43

Cfr. W. Benjamin, cit., passim.

44

M. McLuhan, Il medium è il massaggio (The Medium Is the Message 1964), trad. di Q. Fiore (2011),

45

Mantova, Corraini Edizioni, 2019, passim.

P. Odifreddi, Gödel e Turing. La nascita del computer e la società dell’informazione, Roma, Editoriale

46

L’Espresso, 2012, p. 31.

(22)

Il progresso tecnologico, da questo momento in poi, s’impenna in maniera sbalorditiva, aprendo orizzonti che fino a pochi anni prima sembravano posizionarsi ai limiti della fantascienza. Da ‘semplice’ calcolatore originariamente progettato per l’ambito governativo e militare, e contraddistinto da costi e dimensioni talmente elevati da renderlo inaccessibile ai più, nel giro di qualche anno il computer diventa oggetto di trasformazioni rapidissime: le interfacce grafiche si semplificano diventando facilmente intellegibili, i costi si abbassano notevolmente, le funzioni si moltiplicano, ma soprattutto, grazie all’invenzione del cosiddetto World Wide Web, una dimensione altra e parallela inizia a svilupparsi e a collegare persone, cose e luoghi della realtà tangibile: il mondo virtuale.

Inutile sottolineare come le implicazioni teoriche che si sono poi sviluppate a partire da quel momento siano state pressoché infinite. Ciò che va qui ricordato è in primo luogo il fatto che la nascita di questa iper-realtà abbia condotto, ancora una volta, a ripensare criticamente il secolare legame che univa saldamente percezione sensibile e conoscenza, portando a diversi esiti nonché a differenti, seppur intrecciate, posizioni.

Da una parte infatti, seguendo l’ottica benjaminiana, si può affermare che ciò che oggi è possibile vedere grazie a queste nuove tecnologie, che come innervazioni aumentano le possibilità percettive dei nostri organi di senso, contribuisce ogni giorno di più ad estendere ed ampliare le nostre conseguenti possibilità di conoscenza.

Lo schermo, che Mauro Carbone chiama a ragione «il dispositivo ottico di riferimento della nostra epoca », come la cinepresa e la macchina fotografica prima di 47

lui, si fa in questo modo ancor più finestra sul mondo, dando accesso al nostro sguardo agli angoli di conoscenza più remoti e nascosti, direzionandolo in luoghi sconosciuti e, in questo modo, dislocandolo capillarmente in tutto il globo, in una vera e propria proliferazione massiva dei POV (cosa che avrà un duplice risultato: moltiplicazione del POV del soggetto vedente, ma in contemporanea moltiplicazione dei POV da cui il soggetto è visto) . 48

Dall’altra parte, delineandosi come oggetti (o meglio immagini di oggetti) che, pur restando sensibilmente percepibili, non per forza risultano essere presenti nella Lo schermo viene definito in tal modo da Carbone per il fatto di proporsi come il perimetro all’interno

47

del quale oggi svolgiamo tutta una serie di azioni che hanno a che fare con grandi spicchi della nostra vita quotidiana: il lavoro, l’intrattenimento, il gioco, la vita sociale e affettiva, la sessualità. M. Carbone, Lo schermo, la tela, la finestra, in schermi/screens, «Rivista di estetica», 55, 1 marzo 2014, p. 28.

Cfr. §1.3.

48

(23)

propria Umwelt (in quanto ciò che vediamo proiettato sullo schermo non è in realtà effettivamente presente) mettono inevitabilmente in crisi il concetto stesso di realtà. Per non parlare del correlato concetto di verità, divenuta in questo modo ancor più filtrata e manipolabile, fino alla teorizzazione della contemporaneità come un vero e proprio «regime di post-truth ». 49

A ciò si aggiunge, inoltre, anche il discorso diametralmente opposto, che rende l’incrinatura ancor più profonda: ciò che non si offre visibile ai nostri occhi non significa necessariamente che non esista, solo perché non riusciamo ad esperirlo attraverso i sensi.

A questo proposito molto si è parlato di una smaterializzazione della realtà, e dunque, accanto a questa, ad un’inevitabile smaterializzazione della cultura visuale, proprio alla luce del carattere sempre più invisibile ed impercettibile della stessa . 50

Ma se di vera e propria smaterializzazione è difficile parlare, in quanto erroneamente potrebbe far pensare, come sostenne Jean Baudrillard , a questa iper-51

realtà come ad un sistema di simulacri sganciato totalmente dalla realtà , quel che resta 52

tuttavia indubbio è che, riprendendo le parole dell’artista e teorico Trevor Paglen , la 53

cultura visuale ha cambiato forma. E ha iniziato a farlo proprio staccandosi e rendendosi sempre più indipendente dall’occhio umano, diventando così per larga parte non visibile. È proprio per questo motivo che lo stesso Paglen parlerà di immagini invisibili: con lo sviluppo crescente delle nuove tecnologie, e dunque parallelamente del cosiddetto mondo virtuale, il supporto materiale di immagini e fotografie verrà infatti sempre meno, riducendo le stesse, per la maggior parte della loro esistenza, a stringhe di dati. Oggi non sono più le vecchie fotografie ingiallite a passare di mano in mano. Al

Cfr. M. Azar, From Panopticon to POV-opticon…, cit., p.1.

49

Si pensi, ad esempio, ad una fotografia digitale; essa diventa visibile all’uomo solo nel momento in cui

50

vi sia un supporto che ne permetta la riproduzione, ad esempio lo schermo di un cellulare. Perdendo il suo supporto materiale, è considerabile comunque una fotografia? Perde per questo la sua storica funzione di traccia-documento? E nel momento in cui blocco il telefono, ed essa scompare, finisce per questo di esistere in quanto tale? I dati che ne permettono la visualizzazione, seppur invisibili e intellegibili per l’uomo, restano invariati, e in quanto tali restano al contrario decifrabili da altri dispositivi.

Cfr. J. Baudrillard, Simulacri e impostura (Simulacres et Simulation 1981), a cura di M. G. Brega,

51

Roma, Pgreco, 2008, passim. Cfr. §1.2.

52

T. Paglen, Invisible Images, cit., p. 2.

53

(24)

loro posto vi sono veri e propri pacchetti di informazioni, che circolano di macchina in macchina.

Raramente visibili all’occhio umano, e anche in tal caso solamente tramite un’opportuna interfaccia, le nuove immagini hanno reso così la cultura visuale umana un caso speciale di visione, un’eccezione alla regola. La travolgente maggioranza delle immagini ora sono fatte dalle macchine per altre macchine, con gli umani limitatamente coinvolti se non del tutto esclusi da quel meccanismo di visione che proprio per questo motivo prende il nome di machine-to-machine vision.

Lo sguardo umano dunque, che già con la fotografia aveva iniziato a dissociarsi, con il cinema ancor più a distanziarsi, e con le nuove tecnologie a portata di mano di tutti a moltiplicarsi, compie il passo decisivo. Diventa sguardo non umano per eccellenza: sguardo macchinico.

(25)

1.2. «Your pictures are looking at you». Immagini operative e visione

artificiale

La nascita delle immagini coincide probabilmente con la stessa nascita dell’uomo. E fin dalle origini un legame inscindibile salda assieme il concetto di uomo e il concetto di immagine: basti pensare al principio veterotestamentario dell’uomo creato a ‘imago Dei’.

Mezzo più antico di trasmissione materiale di conoscenza tra gli uomini, costantemente partecipe della formazione del pensiero e ricorsivamente coinvolta ai fini della comunicazione, l’immagine ha mantenuto per secoli un vero e proprio primato sulla parola, rendendosi protagonista indiscussa di quella che oggi viene definita cultura visuale.

Questo primato, come teorizzò Béla Balázs nel suo volume L’uomo visibile, pur resistendo alla scossa provocata dalla nascita della scrittura, cessò di esistere solo con l’invenzione della stampa, la cui portata rivoluzionaria indusse gli uomini, con il tempo, a tralasciare ogni altra forma di comunicazione. Così «lo spirito visibile si è trasformato in spirito leggibile e la cultura visuale in cultura concettuale ». 54

Il linguaggio verbale prese dunque il sopravvento come strumento primario di codificazione dell’universo, relegando il mondo delle immagini in una posizione secondaria e subordinata. Un ribaltamento che, nonostante sia sembrato per lungo tempo irreversibile, verso la metà del XIX secolo si verificò una seconda volta: è l’invenzione della fotografia, ancora una volta, a farsi da spartiacque, segnando l’avvento, o meglio il ritorno, ad una cultura fondata sulla visione e guidata dall’occhio.

Già lo stesso Bergson, di fronte all’inondazione di immagini di cui si sentiva testimone, non potendo neanche immaginare, al tempo, la proliferazione esponenziale a cui stiamo assistendo oggigiorno, arrivò a descrivere nel 1896 l’intero universo e la materia di cui è composto come un ‘aggregato’ (ensemble in francese) di immagini: «[…] this aggregate [ensemble] of images I call the universe ». 55

Sulla scia di questa tripartizione, Vilém Flusser sentì il bisogno di distinguere tra «immagini tradizionali» e «immagini tecniche»: le prime, precedendo di decine di

Balázs, L’uomo visibile, cit., p. 125.

54

H. Bergson, Matter and Memory (1991), in A. MacKenzie, A. Munster, Platform Seeing: Image

55

Ensembles and Their Invisualities, «Theory, Culture & Society», 2019, p. 2.

(26)

millenni la scrittura (si pensi ad esempio alla grotta di Lascaux), significherebbero secondo la sua concezione dei ‘fenomeni’, ovvero sostituirebbero propriamente degli eventi (ad esempio la caccia) con stati di cose traducendoli in scene; le seconde, caratteristiche del contemporaneo, significherebbero ‘concetti’, ossia prodotti indiretti di testi scientifici . 56

Se è dunque possibile considerare le immagini tradizionali come astrazioni di primo grado, in quanto astraggono dal mondo concreto, le immagini tecniche, invece, rappresentano un’astrazione di terzo grado: esse infatti astraggono dai testi, che astraggono dalle immagini tradizionali, che a loro volta astraggono dal mondo concreto . 57

Da tali premesse deriva un’estrema difficoltà nel decifrare i concetti transcodificati che danno vita ad una fotografia. A differenza di un’immagine tradizionale, nella quale un essere umano, per esempio un pittore, si inserisce tra le immagini e il loro significato elaborando simboli nella propria testa per poi trasferirli sulla superficie dell’immagine, con le immagini tecniche invece c’è un ulteriore fattore di cui tenere conto: la macchina fotografica.

Dunque la codifica, se per le prime risulta immediata in quanto realizzata semplicemente nella mente dell’uomo, per le seconde avviene invece all’interno dell’apparecchio, rimanendo in questo modo nascosta ed invisibile all’essere umano; proprio per tale motivo il mezzo fotografico venne chiamato dal filosofo boemo black

box , “scatola nera”, per riferirsi ad uno strumento che secondo la sua concezione non 58

solo rappresentava il prototipo archetipico di ogni tipo di apparato, ma che era inoltre in grado di simulare e meccanizzare il pensiero, ovvero il gioco di combinare i simboli . 59

L’invisibilità dei processi sottesi alla produzione delle immagini tecniche, iniziata dunque già con la fotografia analogica, raggiunse il suo apice con la comparsa

Cfr. V. Flusser, Per una filosofia della fotografia (Hacia una filosofía de la fotografía 1990), trad. di C.

56

Marazia, Milano, Bruno Mondadori, 2006, passim.

Cfr. V. Campanelli, Una filosofia della fotografia, «Doppiozero», 16 luglio 2015 <https://

57

www.doppiozero.com/materiali/anteprime/una-filosofia-della-fotografia> [ultimo accesso 13 novembre 2019].

Nella teoria dei sistemi, un modello black box è un sistema che, similmente ad una scatola nera, è

58

descrivibile essenzialmente nel suo comportamento esterno ovvero solo per come reagisce in uscita (output) a una determinata sollecitazione in ingresso (input), ma il cui funzionamento interno è non visibile o ignoto.

Campanelli, cit.

59

(27)

di una nuova forma di visualizzazione, che contribuì pertanto a ridefinire nuovamente le coordinate del visibile: l’immagine digitale.

Il passaggio da un supporto di tipo chimico a questo genere di immagini, che necessitano di essere nuovamente codificate per poi essere riprodotte in pixel, divenne ancora una volta una svolta epocale. Negli anni Novanta l’uomo si trova difatti di fronte ad immagini la cui visibilità risulta quasi secondaria rispetto alle operazioni e alle attivazioni in cui sono coinvolte nella fase precedente e successiva alla loro visualizzazione, durante le quali la stessa si riduce a mera stringa di dati.

La manifestazione visibile di questa nuova tipologia d’immagine, lungi dall’essere permanente, non risulta che una breve parentesi della sua esistenza, la cui durata reale ci sfugge ancora completamente. Sottraendosi in tal modo allo sguardo umano l’immagine digitale, apparentemente percepita come ancora più effimera proprio a causa della mancata materialità del supporto, può invece avere una vita dell’ordine dei decenni: nessuno sarà in grado di dire quando un determinato pacchetto di dati sarà completamente scomparso, né da quali e quante macchine nel corso della sua storia sarà codificato, poiché il tutto resterà intellegibile all’occhio umano. «If we want to understand the invisible world of machine-machine visual culture», afferma Paglen, «we need to unlearn how to see like humans ». 60

Con queste parole l’artista, il cui lavoro affronta in particolar modo il tema della sorveglianza di massa e della raccolta di dati, cerca di dare all’uomo una chiave di lettura del nuovo regime visuale che si è progressivamente instaurato, un regime nel quale l’uomo non solo occupa una posizione marginale, ma sempre più spesso non necessaria. Paglen è tra coloro che credono che, di pari passo con il progresso tecnologico, l’esclusione dello sguardo umano sarà presto totale, soppiantato dall’avvento di una visione unicamente machine-to-machine.

Questo invisibile «spostamento tettonico », verificatosi nel giro di pochi anni, è 61

stato a malapena notato e scarsamente compreso, ma le conseguenze che ha prodotto nella determinazione delle coordinate del visibile sono tutt’altro che trascurabili.

I teorici della cultura hanno per lungo tempo sospettato che vi fosse qualcosa di diverso nelle immagini digitali rispetto ai mezzi visivi del passato, ma hanno avuto

Paglen, Invisible Images, cit., p. 7.

60

Ibid.

61

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