Capitolo 1
IL CONTESTO
1.1 Introduzione. L’importanza del contesto
Per ogni attività di studio e ricerca una semplice e necessaria premessa è collocare nell’adeguato contesto il lavoro che viene svolto. Questo per il ruolo fondamentale che ha il contesto in cui tale attività si svolge, le relazioni che intercorrono fra quello stesso e l’oggetto dello studio, le eventuali influenze, nonché quello che è il particolare contesto di chi effettua l’attività di studio, di ricerca, e altro ancora. L’importanza di queste dinamiche risulta ancora più evidente andando a riflettere su quali siano i reali confini del contesto, rispetto al testo o all’osservatore.
La ricerca di oggettività, frutto di quella sete di conoscenza e di verità che forse la specie Homo sapiens sapiens ha manifestato da sempre nel suo agire, ha portato al tentativo di rendere gli studi o gli esperimenti ripetibili e confrontabili, trovando nel numero e nella traduzione matematica dei fenomeni osservati una risposta a tale esigenza (Galleni, 2004a). Tendenza poi diventata elemento discriminante per indicare
la scientificità di uno studio: un fenomeno è indagabile se misurabile in termini quantitativi1.
Quale sia il ruolo dell’indagatore e di quale entità sia la sua eventuale influenza sull’osservazione o sull’esperimento che va a condurre, è domanda la cui risposta presenta difficoltà significative.
L’influenza del contesto nella formazione di ogni individuo non solo è fondamentale, ma difficilmente controllabile. La ricerca di oggettività nel procedere di qualunque studioso o ricercatore non potrà che passare dal lungo, faticoso e mai concluso esercizio di comprensione e presa di coscienza del contesto e dei suoi effetti su egli stesso, potendo così, almeno in una certa misura, farne parametro del suo procedere.
Sono sempre più numerosi gli studi che sottolineano l’impatto dell’ambiente in cui ci troviamo, ambiente che è fisico ed anche culturale, sulla formazione delle nostre categorie di approccio con la realtà (Mc Luhan, 1968; Bateson, 1983; Milan, 1988; Zanghì, 2001). Jung nel corso dei suoi studi di psicoanalisi è arrivato a sostenere che nessuno è in grado di difendersi dall’influenza del contesto, al punto da finire per esserne “infettato”, per diventare in qualche modo uguale ad esso (in Mc Luhan, 1968). Assume dunque un rilievo ancora maggiore collocare non solo l’oggetto di uno studio in un adeguato contesto e lo studio inteso nel suo processo di svolgimento, ma anche l’osservatore.
1 Può diventare molto importante a questo proposito anche riprendere in considerazione l’approccio del metodo scientifico, indicando forse in Galileo una figura chiave della caratterizzazione del metodo suddetto. In lui, infatti, sono luminose l’attenzione e l’attitudine ad isolare quanto più possibile un singolo evento indagato da possibili fonti di interferenza (gli attriti nella misurazione della velocità di caduta dei gravi ne sono esempio).
La comprensione del contesto, dunque, è di particolare importanza per capire quali siano gli strumenti di analisi, gli strumenti di comunicazione, gli strumenti epistemologici e gli strumenti concettuali di chi opera l’indagine, ma anche di chi ne leggerà l’elaborazione. Questo, nell’affrontare tematiche quali la sostenibilità o lo sviluppo, ha un ruolo fondamentale, perché dando termini di riferimento diversi si trovano risultati e conclusioni diverse, ma anche perché il contesto determina o influisce fortemente sui metodi stessi di indagine e di definizione dei termini di paragone. Fatto che deve essere affrontato con attenzione e onestà da parte di tutti ed anche del ricercatore, dell’uomo di scienza, il quale vive a sua volta in un determinato ambiente, riceve determinati stimoli ed informazioni, adopera strumenti che per quanto abbia rielaborato in prima persona ha comunque ereditato. Ovvero li ha presi dal proprio contesto, il quale è caratterizzato da una cultura frammentata: quella occidentale (Bateson, 1983). Eredità, questa, ricevuta col suo denso carico di significati.
1.2 La cultura contemporanea: la cultura occidentale
Il termine “occidentale” viene utilizzato negli ambiti più vari, con diversi significati e accezioni. Il significato iniziale riferito ad una particolare area geografica, è oramai superato dal suo utilizzo in un’accezione più ampia. Non è caratterizzante il fatto in sé di essere nati e vissuti per la maggior parte della nostra vita in Italia (Paese senz’altro appartenente a quella parte di mondo detta appunto occidentale), bensì
l’influenza che questo fatto porta con sé. Si parla di occidente riferendosi piuttosto a quell’insieme variegato di fattori che nel loro complesso ne descrivono il sistema culturale (e che in parte, come vedremo, spiegano anche il significato di “occidentalizzazione”). Dunque è anche per queste ragioni che si avverte l’esigenza di una riflessione intorno al modo di comprendere se stessi nell’ambito del contesto socio-culturale “occidentale” (Luciano, 2001).
1.2.1 La frammentazione del sapere
L’odierna cultura contemporanea del mondo occidentale affonda le sue radici lontano nel passato, così come avviene per altri sistemi culturali. Tutt’oggi si rintraccia la forte influenza che il mondo ellenistico e solo successivamente quello romano (in maniera molto diversa) hanno esercitato su quei modi di pensare e di agire che hanno condotto sino alla cultura odierna. Pur non ripercorrendo in maniera approfondita tutto il percorso (che evidentemente va ben aldilà di questo elaborato), si deve considerare come si sia trasformata la ricerca del sapere.
Dall’epoca dei Greci e poi dei Romani con scientia si poteva intendere la conoscenza, l’insieme delle conoscenze, quando cessano di essere singole nozioni e diventano un sistema coerente che permette di giudicare e modificare la realtà. Tale espressione è stata successivamente usata per indicare tutto ciò che è accertato in modo rigoroso, determinato, perciò in qualche modo opposto al dogma, per poi assumere la denominazione delle singole branche del sapere.
Secondo alcuni ancora durante il Medioevo scienza significava “sapere” tutto: fisica, scienze naturali, filosofia, teologia, etc. (Pasolini, 1966; Zanghì, 1979). Medioevo durante il quale la teologia unificava i saperi soprattutto, però, negando la loro autonomia; questo fatto ha concorso al raggiungimento di una vera e propria crisi per il sapere nel momento in cui ogni disciplina, ogni “ricchezza” del sapere chiese riconoscimento della propria diversità attraverso l’autonomia dalla teologia stessa, per poi relegare quella e successivamente (con ragioni e percorsi simili) anche la filosofia ai margini delle varie discipline, finendo per emarginare teologia (e filosofia) in ambiti ristretti (Galeazzi, 1979; Zanghì, 1979).
I tentativi da parte delle varie scienze di farsi quell’“uno” che fa la cultura hanno portato alla frammentazione del reale (e con esso, come vedremo, della persona). L’originaria e legittima esigenza di approfondimento e autonomia delle varie scienze, infatti, ha portato con sé una sorta di isolamento, che unito alla predilezione (tipica degli antichi pensatori, ma non soltanto) per il metodo deduttivo1 ci ha mostrato una specializzazione sempre maggiore delle varie discipline. Specializzazione che sarebbe stata una vera e propria frattura inconscia (Mc Luhan, 1968).
La nostra cultura è abituata a frammentare tutto per controllarlo. La tecnica della frammentazione è l’essenza della tecnologia e della meccanica e determina la ristrutturazione del lavoro e della società umana (Mc Luhan, 1968). In misura notevole la specializzazione dell’industria meccanizzata e l’organizzazione del mercato hanno
1 Basti pensare a tal proposito che laddove episteme significa conoscenza (dal Gr. επισταναι conoscere, sapere), epistematico è il ragionamento deduttivo, che dalle leggi universali discende fino alle verità particolari (D’Anna, 1988).
presentato all’uomo occidentale la sfida della manifattura mediante mono-frattura (il metodo, cioè, di affrontare una alla volta ogni singola cosa, ogni singola operazione). Questa sfida avrebbe permeato successivamente tutti gli aspetti della nostra vita permettendoci una trionfale espansione in tutte le direzioni, non indenne da conseguenze (Mc Luhan, 1968).
Oggi questa frammentazione del sapere è colta da numerosi autori, e talora è percepita come negativa o dolorosa. Si trova, tra gli altri, chi parla di una infruttuosa e negativa divisione cieca fra le discipline (Lovelock, 1991) o della incomunicabilità che mostrano fra loro più saperi che normalmente non dialogano tra loro (Lanza, 2002). Questo richiama all’esigenza di uscire dalle proprie posizioni teoriche che restano irriducibili se non sono viste in un vero profondo dialogo (Zanghì, 1979 e 2004; Shiva, 2001b); esigenza che come vedremo anche successivamente, diventa una necessità difficilmente ignorabile volendo affrontare tematiche particolarmente complesse, o che mettono insieme gli studi e le riflessioni di esperti in materie diverse (le quali, come abbiamo già detto, appaiono poco abituate al dialogo tra loro; Jansen, 2001; Lanza, 2002; Voster, 2002; Banerjee, 2003; e altri).
1.2.2 L’influenza del metodo scientifico
Se sono note le conquiste del metodo scientifico, intese come la ricerca di procedure attendibili, ripetibili, confrontabili, il cercare di ottenere dati, risultati e
scoperte in modo rigoroso e non equivocabile, vale la pena di comprendere anche quali siano gli effetti nella cultura odierna dell’utilizzo del metodo stesso.
Effetti che si verificano anche su una scala ben più ampia di quello che potrebbe apparire ad un primo sguardo, se è vero che “le regole generate dall’argomentare non sono derivate da una qualche fonte superiore [sovrana] bensì diventano regole e norme ‘naturali’. Il potere della scienza e del metodo scientifico nell’argomentare di ogni giorno è un esempio di come la scienza normalizzi il regno sociale e culturale, non a causa di una superiore razionalità della scienza, ma in forza delle sue procedure di normalizzazione che nascono dal suo potere disciplinario” (Banerjee, 2003).
Tale metodo, di per sé frutto della storia e dell’evoluzione del pensiero occidentale, permea profondamente la cultura occidentale e ne è caratteristica, così come autori anche molto diversi tra loro evidenziano (Bateson, 1983; Norberg-Hodge, 2000; Shiva, 2001a, 2001b e 2002; Benton, 2002; Banerjee, 2003; Birkin, 2003).
Particolare attenzione sarebbe da rivolgere alle evidenze riscontrate da quegli autori che provengo da una parte di mondo che occidentale non sarebbe. Da sottolineare come a volte questo metodo, questo pensiero sia percepito come l’unico “pensiero scientifico” portato avanti e sostenuto, mentre si avverte che potrebbe non essere l’unico degno di ‘scientificità’ (Shiva, 2001b e 2002; Banerjee, 2003; e altri).
Per l’Occidente “razionale” è stato a lungo sinonimo di “uniformazione continua e consequenziale”, avendo confuso la ragione con l’alfabetismo e il razionalismo con una particolare tecnologia (Mc Luhan, 1968). Concausa questa dell’approdare ad una cultura riduzionista e meccanicista, originata anche dall’abbandono tipico della cultura occidentale della prudentia sostituita con la ratio (Galleni, 2004a). Ragione che vede
mutare nel tempo la sua interpretazione e utilizzo, spostato sempre più da meditante (che riflette sulla realtà, sull’essere, sul senso di essa) a calcolante (che vuole unicamente capire i meccanismi della natura); prettamente calcolante è apparsa quella adoperata da una scienza correlata in questo caso alla tecnica per strumentalizzare i meccanismi della natura secondo i bisogni dell’uomo (Luciano, 2001).
Il riduzionismo può essere considerato inizialmente come quella tendenza, propria da sempre nelle ricerche filosofiche o scientifiche, a ridurre ad un elemento comune ogni aspetto del reale1 (D’Anna, 1988). Riduzionismo, però, che diventa unica categoria d’approccio all’osservazione scientifica della natura, dando vita ad un conflitto tra riduzionismo biologico2 e biologia relazionale (Shiva, 2001a, 2001b e 2002; Baneriee, 2003; Galleni, 2004a e 2004b; e altri).
In quest’ottica un altro aspetto di notevole importanza è rappresentato dalla nascita dello scientismo, quella corrente intellettuale sorta nella seconda metà del secolo XIX, sulla scia del progresso scientifico proprio dell’epoca, che aveva in sé la persuasione che da sole le scienze potessero risolvere ogni problema dell’uomo (Agazzi, 2004a e 2004b). Alcuni sostengono che quella corrente di pensiero talvolta abbia portato con sé una convinzione nei propri mezzi tale da condurci alla visione di una scienza che si vuole sostituire a Dio per “fare meglio” nella Creazione (Goldsmith, 2001); sulla stessa scia, inoltre, si apre il campo alle più diverse interpretazioni e discussioni in alcuni ambiti di interesse della ricerca scientifica (e non solo) che
1 Riduzionismo che in biologia indica anche quella teoria biologica che deriva l’essenza dei fenomeni vitali e la formazione di un intero organismo da un’unica cellula originaria.
2 Inteso qui nel suo senso più esteso, di categoria, o metodo d’indagine (si veda per approfondimenti nei riferimenti citati).
potrebbero rivelarsi decisivi per l’ambiente e l’uomo (come per le biotecnologie; vedi in Goldsmith, 2001; Shiva, 2001a, 2001b e 2002; Galleni, 1998 e 2004b; Karlsson, 2001; Karafyllis, 2002).
Resta comunque il fatto che se nel clima scientista ha preso sempre più forza l’idea di esattezza associata all’idea di scienze (con l’avvento della nozione di “scienze esatte”, estesa anche alle discipline dedite allo studio del mondo umano che rivendicavano la qualifica di ‘scienze’ in nome dell’oggettività e del rigore che volevano raggiungere; D’Anna, 1988), progressivamente le scienze hanno via via attraversato momenti di ‘crisi’, dovuti anche alle nuove scoperte che venivano fatte e che erano destinate a sovvertire le precedenti leggi e teorie; ne sono esempi le geometrie non euclidee, le teorie della relatività e della meccanica quantistica (Agazzi, 2004b).
Tutto ciò fa parte del cammino storico dell’occidente e ne è rimasto tipico, considerando che “l’uomo occidentale si vedeva come un autocrate dotato di potere assoluto (…)”, e che nonostante “quell’arrogante filosofia scientifica sia ora fuori moda” (Bateson, 1983), “lo scientismo è rimasto profondamente radicato nella mentalità delle società occidentali” (Agazzi, 2004a).
Fatto, questo, che resta attuale nonostante da più parti filosofi della scienza e ricercatori ridimensionino le pretese di assolutezza dello scientismo, anche in vista del fatto che tale ridimensionamento delle suddette pretese non implica l’approdo al relativismo e all’inaffidabilità (Agazzi, 2004b).
1.2.3 Società dei consumi e consumismo
La società in cui viviamo è una società di tipo occidentale, e si presenta come una società di massa e consumistica (Zanghì, 1979; Galeazzi, 1979; Luciano, 2001). Molti i fattori che hanno determinato queste caratteristiche: società di massa, anche come conseguenza di quei particolari cambiamenti sociali a cui abbiamo assistito nella storia più recente di questa società. In periodi di tempo relativamente rapidi, infatti, si assiste alla realizzazione di nuove soluzioni nei campi dell’ingegneria, dell’architettura, etc.; realizzazioni permesse da nuove straordinarie fonti di energia e sempre più realizzate anche a misura di tali innovazioni. Difatti, a partire dal secolo XVIII, in Europa si sviluppa l’arte di utilizzare su larga scala l’energia termica mediante la caldaia a vapore. È l’avvio della cosiddetta Rivoluzione Industriale. Di pari passo con lo sviluppo industriale, aumenta la produttività del lavoro e la quantità dei beni (anche se non equamente distribuiti) messi a disposizione delle popolazioni investite da questo processo. Aumenta però anche l’impatto sull’habitat naturale (Rondinara, 1996).
Sono dunque le conquiste della macchina a vapore e dell’energia elettrica, assieme a molte altre (dapprima si sfruttano tecnologie basate sul carbone per poi arrivare al petrolio e altre forme di energia di scoperta e utilizzo sempre più vicine ai giorni nostri), con l’avvento della Rivoluzione Industriale, a condurre alla nascita delle industrie, delle fabbriche, delle macchine al servizio dell’uomo e della sua produzione, prendendo poi campo la produzione meccanizzata (Morandini, 2003). Sono gli albori della nascente società di massa, determinati in parte dai cambiamenti nelle tecniche di
produzione, ma soprattutto da quei cambiamenti da essi derivati nelle abitudini lavorative e di vita quotidiana (Bucholz, 1998; Morandini, 2003).
A questi cambiamenti di produzione si accompagna un altro fenomeno dalle importanti conseguenze sociali, parallelo al nuovo esplosivo aumento di popolazione1, che è la tendenza a spostarsi verso le città, con le loro offerte di nuovo lavoro, di prospettive, di sogni. È il fenomeno della crescente urbanizzazione, che assume dimensioni sempre più estese e che in un arco di tempo relativamente breve condurrà agli agglomerati urbani e le megalopoli dell’oggi (in cui abitava nell’anno 1950 il 43% circa della popolazione mondiale; nel 1975 il 51% circa, nel 2000 il 58% circa; e in cui si prevede, inoltre, che nel 2030 vi abiterà il 71% circa, su una popolazione mondiale prevista di circa 6 miliardi e 900 milioni; dati calcolati dalle Nazioni Unite, riportati da D’Antonio et al., 2002; si veda in Tabella 1, pag. 12).
Anche tutto questo concorre all’origine della società di massa. Il fenomeno della massificazione, ovvero quel processo attraverso il quale la maggior parte degli individui approdano ad uno stesso comportamento, uniformandosi nei valori e nelle scelte, è considerato tipico delle società avanzate industrialmente (Casoli, 1979a; D’Anna, 1988).
1 Si deve considerare come sia aumentata la consistenza della popolazione umana: 10.000 anni fa, allorché cominciano in alcune aree del pianeta processi di coltivazione agricola, la popolazione mondiale è stimata essere compresa tra i 2 e i 20 milioni; nell’anno 1 d. C. si stima che fosse tra i 170 e i 330 milioni; nel 1650 tra i 500 e i 600 milioni; nel 1804 la popolazione mondiale raggiunge il primo miliardo di abitanti; nel 1900 raggiunge 1 miliardo e 600 milioni; nel 1927 raggiunge il secondo miliardo di abitanti (dopo 123 anni); nel 1960 il terzo (dopo 33 anni); nel 1974 il quarto (dopo 14 anni); nel 1987 il quinto (dopo 13 anni); nel 2000 si superano i 6 miliardi; nel 2050 la previsione “media” secondo le Nazioni Unite è di 9,3 miliardi (Chambers et al., 2002).
Tabella n. 1 – Le campagne si spopolano, le città si affollano Paesi 1950 1975 2000 2030 Paesi sviluppati Popolazione urbana 450 730 900 1010 Popolazione rurale 370 310 280 200 Totale popolazione 820 1040 1180 1210
Paesi in via di sviluppo
Popolazione urbana 300 810 1940 3880 Popolazione rurale 1410 2220 2930 3020 Totale popolazione 1710 3030 4870 6900 Paesi sviluppati Popolazione urbana 55 70 76 83 Popolazione rurale 45 30 24 17 Totale popolazione 100 100 100 100
Paesi in via di sviluppo
Popolazione urbana 18 27 40 56
Popolazione rurale 82 73 60 44
Totale popolazione 100 100 100 100
Fonte: United Nations,2000
valori assoluti (milioni di unità)
valori percentuali Anni
Fonte: D’Antonio et al., 2002.
È l’avvento della produzione di massa e del consumo di massa. Quando piuttosto sia nato il consumismo è più difficile dirlo, come è difficile definire il fenomeno. Siamo immersi in esso e per questo non ne vediamo i confini né l’origine (Casoli, 1979a). Tenuta debita considerazione del fatto che anche noi che scriviamo siamo immersi in quella realtà e che incontriamo le stesse difficoltà di decifrazione, abbiamo cercato col nostro studio di inquadrare per quanto possibile il consumismo, che si presenta di per sé
come una tendenza, una spinta a consumare oltre il necessario, per poi caricarsi, con l’avvento degli stadi avanzati dell’organizzazione industriale, di un intenso significato politico e sociale; essendo, infatti, il consumo necessario per vendere, tutto l’odierno apparato produttivo è teso a creare bisogni, anche artificiali (Casoli, 1979b; Baggio, 1988b; Rondinara, 1996; Shiva, 2001b; e altri; si veda, inoltre, più avanti in 3.2 e 4.2.3).
È questo un tema molto studiato e molto dibattuto, anche in ragione del fatto che oggi stesso la società occidentale (e non solo) si confronta col fenomeno in atto e con le conseguenze dello stesso sul presente e sul futuro (tema questo che come vedremo si apre alle riflessioni sulle diverse possibilità di futuro per l’umanità).
Il cambiamento produttivo e la creazione di bisogni artificiali viene sostenuto da molti studiosi che evidenziano come negli anni ’50 il sistema economico, sociale, culturale venne trasformato dalla produzione di massa e dal consumo di massa e dalla creazione di nuovi bisogni e nuovi strumenti per gratificare questi bisogni (Bell, 1976; Norberg-Hodge, 2000; Rondinara, 1996; Bucholz, 1998; Morandini, 2003; e altri).
Dunque al primo fondamentale cambiamento (la formazione di una società di massa, che, come già detto, non è stata indenne da conseguenze sui modi di pensare comuni), si accompagnano le diverse dimensioni dei fenomeni stessi (diventati ora di vasta scala), il forte e fondamentale cambiamento dei modi di consumo, prima, e dei beni di consumo, successivamente.
Dal punto di vista storico possiamo soffermarci almeno su pochi, ma forse significativi, aspetti: nell’Occidente si manifestò l’improvvisa disponibilità di alcuni manufatti in numero di copie molto elevato, che dovevano perciò trovare nuovi acquirenti, nuovi mercati per essere smaltiti; parallelamente nell’Occidente si è andato
affermando un modello di economia capitalistico. Questi due fatti secondo molti autori sono strettamente legati al fenomeno dell’aumento dei consumi e del consumismo propriamente detto (Bell, 1976; Galeazzi, 1979; Bucholz, 1998; Gui, 1992; Zappalà, 1992; Benton, 2002; Borghesi & Vercelli, 2003; Fernando, 2003; e altri).
Sempre a proposito della creazione di nuovi bisogni per soddisfare le eccedenze di produzione ci è sembrato basilare affrontare un altro aspetto che ha avuto enorme importanza per i suoi effetti nella società moderna, occidentale e non; è un aspetto complesso la cui comprensione può rivelarsi una necessaria premessa delle argomentazioni affrontate: l’introduzione e susseguente diffusione di elettricità e televisione.
È questa una tematica molto complessa e approfondita, e ne affrontiamo in questa sede solo alcuni significativi passaggi1. Lo stile di vita occidentale si è formato attraverso la cultura dell’elettricità (luce elettrica, ma anche tv, radio, etc.), e in conseguenza di ciò anche attraverso la cultura della pubblicità che ha poi profondamente permeato e indirizzato tali mezzi elettrici (Mc Luhan, 1968). L’immagine televisiva offre allo spettatore circa 3 milioni di puntini al secondo2, mentre l’occhio ne accetta solo qualche dozzina per volta e con quelli costruisce un’immagine. Anche questo semplice dato isolato ci fa intuire quale potenza possa esserci in questi mezzi al di là dell’utilizzo che ne viene fatto.
1 Ci rifaremo in particolare al lavoro sempre attuale di Marshall Mc Luhan e lavori successivi come quello di Chomsky (Chomsky, 2004).
2 Il dato è tratto da Mc Luhan, 1968; dunque si tratta di una caratteristica riferita a modelli non più recenti, che riportiamo comunque per l’importante riflessione che si può ricavarne anche solo prendendo il dato come una indicazione di massima.
L’autore sottolinea poi come l’uomo occidentale non sia stato educato o equipaggiato ad affrontare anche uno soltanto dei nuovi media nei termini che gli sono propri: ci siamo dunque ritrovati ad utilizzare uno strumento senza conoscere minimamente le conseguenze derivanti dall’utilizzarlo, e sebbene questo fatto sia stato motivato almeno in parte dalla difficoltà di fare previsioni adeguate, dal non poter neanche immaginare la diffusione dello strumento e la portata delle conseguenze del suo utilizzo, l’effetto delle conseguenze stesse non può risultarne mitigato.
Riprende inoltre Mc Luhan: “neanche la più lucida comprensione della forza particolare di un medium può impedire la consueta ‘chiusura’ dei sensi che ci conforma allo schema nell’esperienza subita. Questi media si presentano dunque come strumenti a forte impatto su quella sfera della persona umana difficilmente controllabile, che é l’inconscio”. È di estrema importanza l’affermazione, confermata nel tempo, che il medium è il messaggio, cioè la fonte prima degli effetti (Mc Luhan, 1968; si veda inoltre in Casoli, 1979; Packard, 1985; Baggio, 1988b; Bucholz, 1998; Milan, 1988; Norberg-Hodge, 2000; e altri). Come se la forza del mezzo risiede nel mezzo in se stesso e non nel contenuto che lo attraversa: pur concentrandoci sui contenuti di un programma proposto, è la forma stessa che assorbiamo in maniera incontrollabile, con le relative conseguenze.
Bisogna pertanto sottolineare che gli annunci pubblicitari non sono destinati ad una fruizione cosciente. Sono “pillole subliminali per il subconscio che cercano di esercitare una magia ipnotica” (Mc Luhan, 1968). Di particolare interesse ed importanza è notare gli effetti che l’introduzione della televisione (occidentale) produce in contesti culturali in cui prima non se ne aveva traccia (si veda ad esempio nell’esperienza e
nell’opera di Norberg-Hodge, 2000). Troviamo un altro significativo esempio rappresentato nell’effetto suscitato in Indonesia dal cinema holliwoodiano; l’impatto prodotto negli spettatori fu sconvolgente ed immediato al punto da indurre l’allora Presidente Sukarno a rifiutare il cinema stesso (1956): è un altro modo per capire il cinema in sé come una gigantesca inserzione pubblicitaria per beni di consumo e stili di vita (Mc Luhan, 1968).
Analogamente si può intuire la presenza di effetti indiretti su individui di giovane età; si osservano effetti quali la teledipendenza, il cambiamento nelle capacità di osservazione e concentrazione, la passivizzazione. Di non minore importanza è sottolineare come si osservino solitudine, accettazione acritica di quanto viene detto, inibizione della creatività, inibizione dell’attività motoria e del gioco (tra gli altri: Mc Luhan, 1968; Packard, 1985; Milan, 1988). Annotando poi il fatto che nel 1964 il bilancio annuo della pubblicità negli USA era di 12 miliardi $, all’incirca pari al bilancio scolastico annuale (Mc Luhan, 1968), e che un bambino occidentale medio veniva raggiunto già nella metà degli anni ’80 da più di 10.000 spot in tv (Milan, 1988), viene messa in evidenza la grande quantità di questa enorme massa di informazioni-incentivi al consumo e come queste influiranno non solo sul suo consumo, ma anche sul suo concetto di cosa è la vita: un superficiale materialismo (Packard, 1985).
Come ultimo aspetto sul mezzo tecnico in sé e i suoi effetti varrebbe la pena di soffermarci sul “torpore mummificante” che sembra provocare (Rondinara, 1996), sulla relazione tra il ‘Narciso’ mostrato e promesso dalla televisione con vestiti, oggetti, mode e stili di vita, e la ‘narcosi’ che provoca quel torpore frequentemente riscontrato in chi utilizza determinate tecnologie (provocato anche perché lo strumento è una
proiezione di sé, dunque induce una caduta della propria attenzione a leggerlo e affrontarlo come “altro da sé”; uso che determina la frammentazione dell’uomo (Mc Luhan, 1968).
Si comprendono le ricadute notevoli che tutto ciò ha avuto e avrà sulla quotidiana esistenza per l’uomo (e la rilevante attinenza parlando di ‘sostenibilità’), considerando che:
(…) se Archimede disse una volta “datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo”, oggi egli ci avrebbe indicato i nostri media elettrici dicendo: “m’appoggerò ai vostri occhi, ai vostri nervi e al vostro cervello, e il mondo si sposterà nella direzione che sceglierò io”; con la differenza che noi abbiamo ceduto questi ‘punti d’appoggio’ a società private (Mc Luhan, 1968).
Tornando ai legami tra capitalismo e consumismo, varrebbe la pena di approfondire maggiormente quegli aspetti storici e sociali che ne hanno permesso una tale affermazione e diffusione nel mondo occidentale. Di notevole interesse il lavoro di Max Weber1, secondo il quale nella società dell’Europa Occidentale e soprattutto in quella Nord-Americana a partire dall’Etica Protestante si sarebbero diffuse e affermate quelle idee e quei valori ancora oggi molto diffuse, tra le quali anche la primigenia idea che il lavoro potesse essere uno strumento di salvezza, perché visto come una vera e propria “chiamata di Dio all’uomo”, nobilitando e riscattando lavoratori d’ogni estrazione. Da lì poi si giunse all’idea che il commercio e la capacità di generare capitale, per essere reinvestito per generare nuovo capitale e poi accumularlo, fossero piena espressione di tale chiamata; in tal modo, però, i consumi sarebbero stati tagliati a misura dell’interesse nel creare la ricchezza di capitale.
A fronte di tutto ciò le disuguaglianze sociali sarebbero state comprese (e permesse) dalla convinzione che, se il denaro veniva continuamente reinvestito nell’ulteriore accumulo di capitale, ciò avrebbe portato beneficio alla società nel suo insieme mediante l’aumento di produzione e di ricchezza economica (Bucholz, 1998; idea, questa, che ritroveremo più avanti ben espressa nella formulazione delle teorie dello sviluppo: si veda in 3.2 e 3.2.12).
Resta comunque il fatto che secondo molti autori si è assistito (specialmente nella seconda metà del secolo scorso) alla creazione di una società di consumo mediante la promozione di carte di credito e altro, fino alla manipolazione e creazione del desiderio da parte delle compagnie private (Bucholz, 1998), soprattutto attraverso l’uso della televisione che in se stessa promuoveva un’immagine di famiglia americana tipica che non era corrispondente alla realtà di per sé, ma che aveva potere d’induzione sugli spettatori (Packard, 1985 e 1996; Bucholz, 1998; Chomsky, 2004). E se tale è il potere che quei modelli e quei messaggi hanno avuto sulla società americana stessa, notevolissimo è stato quello che ha avuto sulle società non americane in cui sono stati introdotti senza alcuna ‘avvertenza’ (un ulteriore esempio, che verrà ripreso più avanti, è quello dato dall’impatto che cinema e televisione hanno avuto sulla popolazione di alcuni villaggi dell’altopiano tibetano del Ladakh, rimasti isolati dall’Occidente fino agli ultimi decenni del secolo trascorso; si veda in 4.2.2).
Inoltre, secondo numerosi autori, la giustificazione culturale, se non morale, del capitalismo e soprattutto del consumismo, divenne l’edonismo (Casoli, 1979a, 1979b; Baggio, 1988; Cicchese, 1997; Bucholz, 1998). Così l’apparente liberazione sessuale è stato legame, strumentale al consumismo, proprio in forza dell’enorme importanza
psicologica che la sfera sessuale ha per l’uomo (Casoli, 1979b). Secondo gli autori le ragioni e le dinamiche di ciò sarebbero numerose e complesse, ma forse vale la pena di sottolineare che secondo alcuni era necessario eliminare il senso di colpa (attribuito all’azione di Chiese e Religioni), minandolo alla base (Bucholz, 1998), dando così vita ad un vero e proprio culto del consumo, specchio di quel narcisismo modello che meglio di ogni altro sembrava dare piena giustificazione al consumismo stesso: difatti una cultura simile vive per il presente e non salva per il futuro, perché crede che potrebbe non esserci un futuro di cui preoccuparsi1.
Questo è di fondamentale importanza per capire come il consumismo non sia un qualche effetto secondario in sé, ma il consumismo è prima di tutto una logica di comportamento, prima ancora di un effetto tecnologico o ideologico (Casoli, 1979a). Si tratta di una vera e propria cultura del consumo, ad oggi studiata da vari punti di vista (Benton, 2002), che riempie di sé la personalità del nostro tempo rendendo impossibile capire gli odierni stili di vita o ripensarne un’etica senza tenerne conto (Morandini, 2003). Un modello di pensiero che si propone di ri-significare (o de-significare) tutta l’esistenza umana per aumentare la domanda sulla base dei propri prodotti, relazioni umane comprese (Zappalà, 1992).
Il consumismo è ubiquitario ed effimero nell’Occidente, ma lo si può intendere come la religione del Ventesimo Secolo (Miles, 1998). A noi, che vi siamo immersi, il consumismo si manifesta come una veste del nichilismo, la più sottile e la più allettante;
1 Riprenderemo in seguito l’importanza che la concezione del presente e del futuro può avere dovendo affrontare le tematiche della sostenibilità e delle generazioni future (si veda nel Capitolo 3).
difficile da comprendere, seppure ne conosciamo bene i suoi effetti perché li soffriamo ogni giorno; il consumismo non appare, non si definisce, perché non è nulla, in se stesso, così che anche ribellarsi ad esso è molto difficile, finendo magari per restare intrappolati tra protesta e consumo, scoraggiamento e consumo, rifiuto di tutto e consumo (Casoli, 1979a). D’altra parte chi può dire la differenza che passa tra l’avere un televisore e averne due? Si può essere consumisti davanti ad una televisione e non consumisti avendone due: l’uso e lo scopo decidono. (Casoli, 1979a).
1.2.4 Il rapporto Uomo-Natura e la percezione dell’ambiente
L’ultimo aspetto che abbiamo ritenuto necessario prendere in considerazione nello studio e nella esposizione del contesto in cui ci siamo trovati a muovere, è il rapporto che l’uomo oggi ha con la natura, e la percezione che l’uomo moderno ne ricava.
Alla formazione della percezione che l’uomo moderno ha della natura ha concorso in maniera decisiva l’evoluzione del contesto storico, sociale e culturale che abbiamo tratteggiato precedentemente. In particolare, inoltre, il rapporto di forza tra la coscienza finalistica e l’ambiente è cambiato rapidamente negli ultimi 100 anni e la velocità di cambiamento di questo rapporto sta senza dubbio aumentando rapidamente col progresso tecnico. L’uomo cosciente, in quanto modificatore del suo ambiente, è ora pienamente in grado di devastare se stesso e quell’ambiente con le migliori intenzioni coscienti (Bateson, 1983).
Come già accennato, sono aumentati gli spazi ‘artificiali’ ed è aumentato il tempo che l’uomo si trova a trascorrere in tali spazi, lavorativi e abitativi. Ai nostri giorni, poi, il contatto effettivo che un uomo occidentale mediamente ha con la natura, intesa come qualunque ambiente naturale, si è ulteriormente ridotto: l’aumento della vita nelle città, l’abbandono del lavoro nei campi in favore di quello offerto da fabbriche e città, e le abitudini di vita ‘elettrica’ ne sono in parte causa. Sarebbe di notevole interesse e importanza, per meglio comprendere le categorie di pensiero dell’uomo moderno nel mondo occidentale, poter approfondire quanto incida il distacco dalla terra, coi suoi ritmi e i suoi cicli, ma anche col suo mondo di percezioni olfattive, tattili, visive, gustative, sulle capacità sensibili dell’uomo e sulla sua formazione della cultura; d’altronde proprio la ‘capacità di cultura’ sembra essere, sino a questo momento, una tra le più peculiari caratteristiche della specie Homo sapiens sapiens (Bateson, 1983; Facchini, 2000).
Ci limitiamo ad esporre una situazione incontrata molto spesso anche nelle varie occasioni di dialogo (o di insegnamento, a vario titolo) che abbiamo avuto. Sono sempre più numerosi quei giovani che non hanno mai visto nel suo ambiente un animale da fattoria né tanto meno un animale allo stato selvatico nel suo ambiente, o che non conoscono i cicli delle stesse piante alimentari che quotidianamente mangiano, o ancora più significativamente, che in ogni giorno dell’anno possono trovare fra gli scaffali di negozi e grande distribuzione. Prodotti che spesso hanno ben poco delle caratteristiche olfattive, etc., che hanno gli stessi prodotti di stagione. Un discorso analogo e più marcato è rappresentato dai materiali che comunemente ci circondano: plastiche e materiali di sintesi hanno in massima parte sostituito fibre vegetali, legno, e altro; la
tastiera e schermo del computer sul quale io stesso mi trovo a scrivere rappresentano una porzione significativa del nostro ambiente per tempo e contatto; così vale per gli spostamenti che nel nostro mondo occupano una fetta sempre più rilevante del nostro tempo: utilizziamo autoveicoli, treni, navi, aerei, in cui la maggior parte dei materiali non sono di origine naturale.
Con tutto ciò non è scopo di questo lavoro approfondire ed entrare in merito alle ragioni e al valore di queste innovazioni e cambiamenti di prodotti e abitudini; ci sembra rilevante piuttosto prendere coscienza del contesto fisico e delle percezioni derivanti sottolineando che anch’esse, di fatto, concorrono alla formazione della cultura di cui abbiamo detto.
Si deve inoltre considerare come questo tipo di situazione sia descrittiva del mondo industrializzato e che rappresenta il mondo occidentale, mentre per larghe fette della popolazione abitante questo pianeta il tipo di contatto quotidiano con la natura differisce notevolmente, così come il rapporto che emerge tra queste popolazioni e la natura. Si ritrovano aspetti contemplativi nei mondi culturali dell’Africa o dell’Asia Orientale, con un approccio al mondo della natura che è talora ‘spirituale’ (e non necessariamente ‘spiritualistico’), per cui si parla di “pace della contemplazione” (Zanghì, 1979), presentandosi come un approccio più “olistico”, sentendo profondamente l’uomo stesso come parte integrante della natura.
Ricorrente (soprattutto nei mondi non occidentali) è anche la visione di una terra che è madre (Norberg-Hodge, 2000; Shiva, 2002; e altri1). E se è forte il ruolo dell’immagine e della metafora in una simile visione, è altrettanto forte la presa di distanza al modo occidentale di vedere la natura e di interagire con essa. Particolare attenzione va data al lavoro di Shiva e collaboratori, che indicano nella visione occidentale un approccio alla natura riduttivo2, perché visto come meramente strumentale; secondo gli autori tale approccio è tipico di una mentalità occidentale: mentalità fortemente maschilista e che ancora vive il contatto con le altre culture e le altre impostazioni scientifiche in maniera oppressiva, ritenendo se stessa come l’unica impostazione che ha in sé dignità scientifica e volendo imporsi sulle altre. In questo modo avrebbe luogo una vera e propria forte colonizzazione culturale, e l’affermarsi di una monocultura della mente (Norberg-Hodge, 2000; Shiva, 2001a, 2001b e 2002; Benton, 2002; Banerjee, 2003).
La percezione che l’uomo occidentale ha della natura è dunque discontinua, frammentata, caratterizzata dal distacco da essa; distacco che è fisico e percettivo. Anche il tipo di percezione che l’uomo occidentale ha della natura inevitabilmente rischia di influire sulle sue riflessioni a riguardo e sul suo agire nei confronti della natura. Ci sembra interessante sottolineare l’accento che Lovelock pone sull’importanza del contesto ‘sensoriale’ per poter sviluppare o meno alcune riflessioni importanti per
1 Vedremo i risvolti di tale impostazione nella pratica anche in 5.5.3 per il rapporto tra coltivatori del Sud del mondo e tecniche di coltivazione adoperate, all’interno del Commercio equo e Solidale.
2 Riconducibile a quello riduzionista della scienza occidentale (Shiva, 2001a, 2001b e 2002; Galleni, 2004a e 2004b).
l’uomo moderno. Dice infatti l’autore1 che “negli ultimi due secoli siamo diventati tutti abitanti urbani e sembra che abbiamo perso interesse al significato di Dio e di Gaia. Come scrisse il teologo Keith Ward sul Times, nel dicembre 1984:
Non è che la gente sappia che cosa è Dio e che abbia deciso di rifiutarlo. Sembra che ben poche persone conoscano l’idea tradizionale e ortodossa di Dio, condivisa da Giudaismo, Islam e Cristianesimo. Non hanno la minima idea di che cosa si intenda con la parola ‘Dio’. Semplicemente, non ha alcun senso né ruolo nella loro vita. Al suo posto, essi o si inventano qualche vaga idea di una forza cosmica che non ha alcuna implicazione pratica, o si appellano a qualche immagine semidimenticata di una super-persona dalla lunga barba che interferisce in continuazione con le leggi meccaniche della natura.
Mi chiedo se questo non sia dovuto ad una privazione sensoriale” (Lovelock, 1991).
In questo passaggio torna in luce quel fenomeno per cui per una larga fetta della popolazione mondiale si sia verificato e si verifichi l’allontanamento da ambienti naturali in seguito alla crescente urbanizzazione, e il chiedersi se e come ciò possa concorrere alla riflessione profonda da parte dell’uomo su sé e l’universo in cui si trova; questioni forti che hanno caratterizzato la riflessione dell’uomo nel corso della sua storia e che sembrerebbero ora perdere ruolo o importanza.
Un altro aspetto fondamentale nella percezione che l’uomo occidentale ha della natura è il considerare il ruolo delle conoscenze scientifiche e soprattutto dei veicoli d’informazione (ovvero i mezzi di comunicazione di massa dei nostri giorni). L’uomo è infatti un grande modificatore dell’ambiente che lo circonda, a partire dagli albori della sua storia sul pianeta sino ai giorni nostri: dall’agricoltura e la pastorizia al
1 In James Lovelock, 1991. Le nuove età di Gaia: una biografia del mondo vivente. P. 211 (op. cit.).
disboscamento, l’uso del fuoco, fino a grandi opere come dighe, canali, fiumi artificiali, ma anche molte altre azioni che hanno sull’ambiente una ricaduta talora molto rilevante1. Se con le innovazioni tecniche e tecnologiche cambia l’impatto dell’uomo e delle sue attività sull’ambiente, certamente cambia anche la sua capacità d’indagine riguardo tale impatto.
Di nostro interesse in questa sezione è sottolineare come, ad un certo momento, agli occhi di quell’uomo ormai allontanatosi dalla natura in modo tale da non poterne forse percepire in maniera diretta e immediata i cambiamenti in atto e gli effetti delle sue azioni, si sia presentata un’immagine nuova e inaspettata: è l’odierna crisi ecologica.
Negli anni ’50 inizia una vera e propria presa di coscienza dei problemi ambientali senza che questo facesse presa sull’opinione pubblica (delle società europee e nordamericana), facendola scivolare nell’indifferenza (Rondinara, 1996). Negli anni ’60 il rapido sviluppo industriale connesso con l’avvio e poi il dilagare della società dei consumi amplificò la situazione, trovando, però, ancora poco riscontro nell’opinione pubblica, al punto da chiamare quei pochi (soprattutto giovani) che volevano avvertire dei pericoli cui l’ambiente era sottoposto per l’azione antropica “Cassandre del XX secolo” (Rondinara, 1996). Negli anni ’70 e ’80 si manifestano ‘improvvisamente’ disastri ambientali tristemente famosi (e purtroppo talora ripetutisi) anche ai giorni nostri: l’inquinamento da mercurio nel mare di Minamata (Giappone); il naufragio della petroliera Torrey Canyon nel Canale della Manica (Inghilterra–Francia) nel 1967; la
contaminazione da diossina a Seveso (Italia) nel 1977; gli incidenti alla centrale termonucleare di Tree Miles Island (USA) nel 1979; la fuga di sostanze tossiche dall’industria chimica di Bhopal (India) nel 1984; l’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl (URSS) nel 1986; la contaminazione del fiume Reno a Basilea (Svizzera) nel 1986, che si estese in Germania, Olanda e Francia; la distruzione delle foreste ad opera delle piogge acide, in Europa e in America settentrionale, note dalla metà degli anni ’80 sino ai giorni nostri (si veda a titolo di esempio, tra gli altri: Rondinara, 1996; Miller, 1997; Lapierre et al., 2002).
Questi ed altri avvenimenti vennero in parte documentati, filmati e, cosa più importante, trasmessi proprio dai grandi mezzi di comunicazione di massa agli occhi della società civile del mondo industrializzato. L’effetto che ne è derivato è stato una sorta di shock, o di risveglio da quella inconsapevolezza e incredulità largamente diffuse precedentemente, provocando reazioni molto diverse, ma ad ogni modo portando all’attenzione di tutta la società industrializzata l’evidenza del fatto che l’ambiente riporta le conseguenze dell’azione umana; un ambiente che appare degradato e in pericolo. Questa sorta di scoperta, di rivelazione, le immagini in presa diretta diffuse dalla televisione, il timore che si possano infliggere alla natura danni che la natura stessa non sia in grado di recuperare, descrivono il tipo di percezione che contraddistinguere la questione ambientale del nostro tempo: la percezione di quella che è nota come la crisi ecologica.
In conseguenza di tutto ciò, verranno approfondite di seguito più avanti le diverse riflessioni maturate in campo ambientale nel contesto occidentale, con i diversi approcci alla natura che da tali riflessioni derivano.
1.2.4.1
Le diverse prospettive in etica ambientale
L’indagine e la riflessione sul rapporto uomo-natura e sulle conseguenze di tale rapporto nel passato, nel presente e nel futuro costituisce il campo d’azione di quel settore particolare dell’etica che si definisce “ambientale” (Galleni, 2002; Scalfari et al., 2004).
Vogliamo dare a questo proposito un ragguaglio, seppur sintetico, delle diverse prospettive sotto cui generalmente in letteratura vengono ricondotte la gran parte delle riflessioni e teorie, così da avere un quadro generale e coglierne le rilevanti conseguenze per quella che è l’attività umana che ne deriva.
La prima prospettiva è quella che viene detta antropocentrica forte.
Secondo tale prospettiva si afferma l’assoluto primato dell’uomo sulla natura. Quest’ultima viene considerata esclusivamente come riserva di risorse da sfruttare per i fabbisogni ed i profitti umani immediati. La principale caratteristica di questa visione è che l’uomo si pone al di fuori della natura come ente detentore di una dignità superiore rispetto a tutto ciò che è non-umano. Il valore della natura, di conseguenza, viene fatto coincidere esclusivamente con il valore di mercato (si veda anche più avanti in 3.3.2.1, 3.3.2.2 e 4.2.2), in quel dato momento, derivante dallo sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo. Questa posizione di antropocentrismo estremo sembra in crisi inevitabile dal momento in cui si è cominciato ad acquisire dati sulle caratteristiche di esauribilità e non rinnovabilità di molte risorse e quindi ad elaborare modelli di sviluppo
in cui si ponevano limiti allo sfruttamento delle risorse (Rondinara, 1996; Morandini, 1999 e 2003; Lanza, 2002; Galleni et al., 2002; Galleni, 2004a e 2004b; Scalfari et al., 2004; e altri).
La seconda prospettiva di tipo antropocentrico è definita preservazionista ed è ispirata dall’obbligo di preservare almeno alcune porzioni della natura (riserve, parchi, aree protette), che non hanno un valore economico d’uso, di mercato o di domanda, ma il cui valore per gli uomini va oltre quello strettamente economico. Una delle prime manifestazioni concrete di questa nuova prospettiva si avuta negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del XIX secolo con l’istituzione della prima riserva naturale del mondo nel 1864 (Yosemite Valley), della riserva delle sequoie giganti (Mariposa Grove) ed ancora nel 1872 del primo parco nazionale del mondo (Yellowstone; Scalfari et al., 2004). Complessivamente la natura viene concepita come fonte di esperienza di speciale valore per gli uomini, atte a migliorare la qualità dell’esistenza, a perfezionare il carattere, a espandere e affinare la sensibilità; una sorta di museo, fonte di piaceri estetici. Infine, si tratterebbe di una sorta di laboratorio in vivo da cui attingere informazioni e materiali per espandere la conoscenza scientifica o promuovere ricerche mediche, etc. (Rondinara, 1996; Morandini, 1999 e 2003; Lanza, 2002; Galleni et al., 2002; Galleni, 2004a e 2004b; Scalfari et al., 2004; e altri).
Una terza prospettiva è quella conservazionista, in cui si sottolinea l’esigenza e il dovere di un uso anche economico, ma razionale e non arbitrario della natura nel suo complesso a questo si riconduce la necessità di integrare i principi di libertà e responsabilità, come proposto dal filosofo Hans Jonas: ognuno dovrebbe sentirsi
responsabile delle proprie azioni, tenendo conto delle conseguenze sulla natura avendo cura di esso anche in vista delle considerazioni per le future generazioni (Jonas, 1990).
L’uomo risulta inserito nella natura: permane il concetto di superiorità dell’uomo in quanto in grado di assumersi delle responsabilità e rispettarne i doveri (Rondinara, 1996; Morandini, 1999 e 2003; Lanza, 2002; Galleni et al., 2002; Galleni, 2004a e 2004b; Scalfari et al., 2004; e altri).
Sia la prospettiva preservazionista che quella conservazionista non mettono in discussione il fatto che la natura possa avere valore intrinseco, ma sottolineano la centralità dell’uomo nell’attribuire, percepire ed apprezzare tale valore, rappresentando un avvio verso prospettive non antropocentriche: per la qual cosa vengono definite anche prospettive antropocentriche deboli.
Una quarta prospettiva è quella definita non-antropocentrica, o anti-antropocentrica: sostiene che la natura possiede un valore intrinseco e che questo non sia inferiore a quello dell’uomo e che merita tutela di per sé, indipendentemente dal soddisfacimento dei bisogni umani.
A questa prospettiva si riconducono le principali riflessioni a partire dalla dottrina cattolica, dal Buddismo, Induismo, Scintoismo, Jainismo e altre (Scalfari et al., 2004). Viene inoltre ritenuto lecito ipotizzare l’estensione dell’area della moralità ad altre forme di psichismo animale (in vista dei più recenti studi condotti nel campo delle scienze del comportamento animale); restano inevitabilmente fuori dall’area della moralità tutte quelle forme di vita incapaci di sentire e provare piacere e dolore, dando una scala con diversi valori (Scalfari et al., 2004).
Si apre una quinta importante prospettiva, definita deep ecology. L’anti-antropocentrismo sembra raggiungere il suo culmine, passando dal considerare l’uomo una parte del tutto che non ha, però, più valore o diritti degli altri viventi fino a ritenere l’uomo addirittura un elemento dannoso per la Terra, per la vita nel suo complesso (si parla dell’uomo come di un cancro per la natura; Galleni et al., 2002; e altri). Si accompagnano spesso filosofie di derivazione New Age a questo tipo di riflessione (Rondinara, 1996; Morandini, 1999 e 2003; Lanza, 2002; Galleni et al., 2002; Galleni, 2004a e 2004b; Scalfari et al., 2004; e altri).
Un’ultima e forse decisiva considerazione va fatta per quel che riguarda la teoria biosferocentrica, che prende la biosfera come elemento centrale negli studi di biologia evolutiva (Galleni et al., 2002; Galleni, 2004a e 2004b; si rimanda, inoltre, per la teoria di Gaia e le sue implicazioni per le conseguenze dell’azione umana sull’ambiente). Secondo tale prospettiva la biosfera è essenziale, co-essenziale allo sviluppo dell’uomo inteso come parte integrante del mondo vivente, senza entrare in un’ottica di primato dell’uomo a cui consegua un approccio di domino da parte di quello sulla natura, né ponendosi in un’ottica anti-antropocentrica per la quale l’uomo sia necessariamente più danno che beneficio. Per quanto sia una strada di conoscenza e di riflessione ancora molto aperta, anche per la sua novità, di per sé richiama al principio di responsabilità, al rispetto dei limiti e meccanismi della biosfera, alla necessità di lavorare attivamente alla miglior conservazione dei suoi equilibri, regolati da reti di relazioni (Galleni et al., 2002; si veda anche più avanti in 2.3, 2.3.1 e 2.4).
Si vedrà in seguito la rilevanza di questi diversi approcci nel concorrere all’attuale stato della Terra e al determinare un certo tipo di modello di sviluppo o un
altro. Sottolineiamo fin da ora che sotto l’attuale modello di sviluppo portato avanti almeno a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale del secolo scorso si ritrovano sostanzialmente posizioni riconducibili a prospettive antropocentriche (e spesso di antropocentrismo forte; Rondinara, 1996; Morandini, 1999 e 2003; Lanza, 2002; Galleni et al., 2002; Bordeau, 2004; Galleni, 2004a e 2004b; Scalfari et al., 2004; e altri).
Va considerato anche che le teorie economiche mutano il comportamento umano in misura più o meno rilevante od evidente, dunque non si possono considerare strumenti neutrali di conoscenza, come qualche epigone della tradizione di pensiero positivista vorrebbe ancora far credere (Zamagni, 2004); conseguenza di ciò, il riduzionismo economico portato avanti con un modello di sviluppo che vedeva illimitate le risorse e aliene da vincoli o dubbi di natura etica sul loro prelievo (si veda in 3.2.1.1 e 3.2.1.2, si consideri inoltre l’importanza dell’introduzione tipicamente del sistema di pensiero occidentale della nozione di ambiente, inteso come misurabile, in luogo di quella di ambiente, con cui avere un rapporto, una relazione; Banerjee, 2003; si veda anche in 4.2.3) ha a sua volta generato una coscienza trascurante la natura in sé stessa.
1.3 Conclusioni. Il quadro emergente
Abbiamo preso in esame l’importanza del contesto in cui ci siamo trovati a condurre le nostre indagini e l’importanza sostanziale che ha un contesto nella formazione della cultura. Sostanziale anche se si tiene conto che “anche il linguaggio dei geni, come qualunque altro linguaggio, deve per forza avere strutture contestuali. È il contesto che si evolve. (…). L’unità di sopravvivenza (sia nell’etica sia nell’evoluzione) non è l’organismo o la specie, ma il più ampio sistema in cui la creatura vive: se la creatura distrugge il suo ambiente distrugge se stessa” (Bateson, 1983). In parallelo a ciò si può comprendere come anche il pensiero, la formazione del pensiero, la riflessione che l’umanità sviluppa, evolvano non isolatamente da un contesto, ma assieme al contesto.
Il contesto in cui abbiamo operato e che abbiamo preso in esame è il contesto culturale occidentale; ne abbiamo sottolineato alcuni tratti essenziali e cercato di cogliere quale sia il bagaglio culturale con la sua influenza1.
Il contesto culturale è dunque quello occidentale. Questo si presenta come variegato in numerose discipline con la forte tendenza alla specializzazione; come abbiamo visto, però, non sembra più in grado di presentare una visione unitaria del sapere; il sapere, la conoscenza, appare frammentata in una molteplicità di discipline che spesso non appaiono in grado di dialogare tra loro.
1 influenza dalla quale non sono esenti né gli autori, né, presumibilmente, i possibili lettori. Va considerato, a tal proposito, che l’accesso ad internet e la sua capacità di usarlo e trarne letteratura scientifica è “occidentale” (Borghesi & Vercelli, 2003)
Oggi viviamo la cultura della ragione come osservazione che misura e realizza l’unità che è astratta: il concetto; l’intelletto, inteso invece come sapere in atto, “saggezza”, realizza l’unità col reale grazie ad una ragione che ne attualizza la molteplicità attraverso le scienze (Zanghì, 1979). Esiste, inoltre, il pericolo per la ragione di diventare sintetica e dunque staccarsi dal reale per costruirselo, cadendo così nell’ideologia (Zanghì, 1979).
Tale frammentazione si riflette anche nei modi di avvicinare il reale, sui quali per la società occidentale ha avuto peso anche l’importanza assunta dal metodo scientifico nel pensare comune, e dunque come categoria di base della cultura occidentale. Tale frammentazione è anche lo specchio di una società frammentata, con relativa parzialità di visione e scale di valori spesso contrastanti e comunque sempre viste solo nelle situazioni contingenti, nonché sulla misura dell’interesse individuale (Baggio, 1988a).
Le scoperte tecniche e tecnologiche cui l’umanità ha assistito in particolare durante questi ultimi due secoli nel mondo occidentale, con la rivoluzione industriale e i cambiamenti lavorativi, sociali, culturali conseguenti e concomitanti, hanno portato tra le loro conseguenze la nascita della società di massa e della società dei consumi, come oggi le conosciamo. Soprattutto il consumismo, sia esso un fenomeno derivato da tale processo storico o piuttosto una delle cause agenti sul processo stesso, ha rappresentato e rappresenta un vero e proprio sistema di pensiero.
Il consumismo mistifica nelle società “sviluppate” la vita e la morte e conseguentemente tutta l’esistenza. Il primo passo è la massificazione in abitudini,
schemi comuni; il secondo è il prolungamento dell’adolescenza come incapacità di dire ‘no’ definitivi (Casoli, 1979a).
Dunque consumismo non solo come rapporto col consumo di beni e prodotti, bensì come sistema di valori (o di non-valori; Baggio, 1988a; Chomsky, 2004; e altri) e come causa generante tal sorta di sistema di pensiero. Di rilievo anche considerare come la presa di coscienza o responsabilità delle cause inerenti a questo processo sono rifiutate con decisione da chi sostiene tale sistema di pensiero (Baggio, 1988a; si veda nell’opera per un maggior dettaglio alle reazioni scatenatesi nella società americana alla proposizione di un parallelo tra capitalismo e collettivismo e della visione del capitalismo come un meccanismo che crea disuguaglianza).
Abbiamo così inquadrato la generalizzata percezione della natura da parte dell’uomo, sulla quale agiscono sia il contesto sempre più artificiale in cui si vive e lavora, con progressivo distacco dalla natura, sia il contesto culturale consumista, che a sua volta rappresenta un sistema di pensiero1.
La presa di coscienza del contesto in cui ci si muove permette una miglior comprensione e analisi, oltre che delle riflessioni maturate sul rapporto uomo-natura coi relativi approcci alla natura, anche delle varie teorie di sviluppo coi loro modelli e con i diversi percorsi che hanno portato a ipotizzare e ricercare un modello di sviluppo “sostenibile”, letti così nel contesto da cui sono partiti.
1 Torneremo su questo in 3.2.1, 3.4, 4.2.1 e 4.2.2 per un approfondimento e gli ulteriori decisivi legami con il modello di sviluppo in atto e con il concetto di uomo che ne deriva.