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Le cifre fasulle sulle pensioni

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Academic year: 2021

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PRIMO PIANO

Tutti le sparano per infilzare la riforma della Fornero che votarono e che funziona bene

Le cifre fasulle sulle pensioni

Bastano  due  conti  per  accertare  penalizzazioni  contenute

 di Giuliano Cazzola 

Il  dibattito  sulle  pensioni  si  è  trasformato,  ormai  da  troppo  tempo,  in  una  sorta  di  «Giostra  del  Saracino» dove  tutti  (ora  in  toni  sguaiati  e  volgari  come  quelli  di  Matteo  Salvini,  ora  con  argomenti  pseudo­tecnici come  quelli  del  Ministero  del  Lavoro  e  dell'Inps)  cercano  di  infilzare  l'ex  ministro  Elsa  Fornero  e  la  riforma che  porta  il  suo  nome,  nonostante  il  voto  «bulgaro»  del  Parlamento  (distratto?  coartato?),  nell'inverno  del 2011.  «Flessibilità  vo'  cercando»  è  ormai  divenuto  il  grido  di  battaglia  della  «terribile  coppia»  delle  due  P: Padoan­Poletti.  Matteo  Renzi  ha  ordinato  loro  di  consentire  alle  nonne  d'Italia  di  godersi  il  nipotino  (nel silenzio  assordante  delle  tardo­femministe)  e  i  due  ministri  non  possono  che  obbedire  almanaccando  tra  i conti  che  non  tornano.

Per  adesso,  il  solo  ad  essere  contento  è  Cesare  Damiano,  il  «santo  patrono»  degli  esodati,  al  quale hanno  promesso,  nella  prossima  legge  di  stabilità,  una  settima  salvaguardia.  Ma  davvero  la  riforma Fornero  è  una  specie  di  gabbia  in  cui  resteranno  imprigionati  i  lavoratori  e  le  lavoratrici,  impossibilitati  ad andare  in  quiescenza  se  non  ad  età  venerande?  È  questa  una  convinzione  diffusa  che,  come  tutti  i  luoghi comuni,  viene  accettata  senza  sforzarsi  nemmeno  di  leggere  le  norme.  Basterebbe,  infatti,  rammentare che  nel  requisito  anagrafico  per  la  pensione  di  vecchiaia  (pari,  nell'anno  in  corso,  a  66  anni  +3  mesi  per  i dipendenti  pubblici  e  privati,  per  i  lavoratori  autonomi  e  per  le  lavoratrici  del  pubblico  impiego;  a  63  anni  e 9  mesi  per  le  lavoratrici  dipendenti  dei  settori  privati  e  a  64  anni  e  9  mesi  per  quelle  autonome)  sono inclusi  sia  i  12  mesi  (18  per  gli  autonomi)  della  c.d.  finestra  mobile,  sia  gli  incrementi  derivanti

dall'aggancio  automatico  all'attesa  di  vita:  misure  adottate  dal  governo  di  centro  destra  (legge  n.122/2010) e  soltanto  confermate  nel  2011.

Le  medesime  considerazioni  valgono  per  la  pensione  anticipata.  Anche  nel  requisito  contributivo,  vigente nel  2015,  di  42  anni  e  6  mesi  (per  i  lavoratori  dipendenti  pubblici  e  privati  e  gli  autonomi)  e  di  41  anni  e  6 mesi  (per  le  lavoratrici  di  tutti  i  settori)  sono  assorbite  le  finestre  mobili  ed  inclusi  gli  effetti  della  dinamica demografica.  Tutto  ciò  a  prescindere  dall'età  anagrafica.  Il  requisito  dei  62  anni  (praticamente  sospeso  fino a  tutto  il  2017)  serve  solo  a  definire  l'ambito  di  una  possibile  penalizzazione  sull'assegno  di  chi  va  in quiescenza  anticipata  in  un'età  inferiore  (l'1%  per  i  primi  due  anni  e  il  2%  per  quelli  successivi).

È  sufficiente  fare  un  paio  di  conti  per  capire  che  si  tratta  di  un  taglio  molto  più  modesto  di  quelli  proposti, oggi,  dai  sostenitori  della  flessibilità  in  uscita.  Per  concludere,  diamo  la  parola  al  Rapporto  2015  del  Mef sulle  «Tendenze  di  medio­lungo  periodo  del  sistema  pensionistico  e  socio­sanitario».  Si  scoprirà  che l'insieme  degli  interventi  di  riforma,  dal  2004  in  poi,  hanno  prodotto  una  riduzione  dell'incidenza  della  spesa pensionistica  sul  Pil  pari  a  60  punti  percentuali  cumulati  al  2060.  Di  questi,  afferma  il  Rapporto,  i  due  terzi sono  dovuti  alle  misure  adottate  prima  della  c.d.  riforma  Fornero,  la  quale  fornisce,  comunque,  un

contributo  rilevante  alla  sostenibilità  del  sistem,a  realizzando  una  riduzione  di  spesa  in  rapporto  al  Pil  che si  protrae  per  circa  30  anni,  a  partire  dal  2012.  L'effetto  di  contenimento  (incluse  le  deindicizzazioni, massacrate  dalla  Consulta)  passa  dallo  0,1%  del  Pil  del  2012  a  circa  1,4  punti  percentuali  del  2020.  Poi decresce  a  0,8  punti  intorno  al  2030  per  annullarsi  intorno  al  2045.

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