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Quinto seminario nazionale di sociologia del diritto - Capraia, settembre 2009

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ASSOCIAZIONE DI STUDI SU DIRITTO E SOCIETÀ QUINTO SEMINARIO NAZIONALE DI SOCIOLOGIA DEL

DIRITTO

Capraia Isola, 29 agosto - 5 settembre 2009 QUADERNO DEI LAVORI 2009

Massimiliano Verga (a cura di)

C.I.R.S.D.I.G

Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto, dell’informazione e delle

Istituzioni Giuridiche

Quaderni della Sezione : Società e Mutamento www.cirsdig.it

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MESSINA Facoltà di Scienze Politiche

Dipartimento di Economia, Statistica, Matematica e Sociologia “Pareto”

(2)

intende proporre i risultati dei lavori svolti nell’ambito delle ricerche sia metodologiche che applicative nel campo della sociologia del diritto, dell’informazione e delle istituzioni giuridiche. Tale centro è stato costituito dalle Università di Messina e di

Macerata al fine di stimolare attività indirizzate alla formazione dei ricercatori ed anche per favorire lo scambio d’informazioni e materiali nel quadro di collaborazioni

con altri Istituti o Dipartimenti universitari, con Organismi di ricerca nazionali o internazionali. I paper pubblicati sono sottoposti ad un processo di peer-reviewing ad

opera di esperti internazionali. Direzione scientifica: proff. D. Carzo e A. Febbrajo.

Comitato scientifico dei “Quaderni del Cirsdig”

Prof. Larry Barnett, Widener University (USA)

Prof. Roque Carriòn-Wam, Università di Carabobo (Venezuela) Prof. Domenico Carzo (Università di Messina)

Prof. Alberto Febbrajo (Università di Macerata)

Prof. Mauricio Garcia-Villegas, Università Nazionale di Bogotà (Colombia) Prof. Mario Morcellini (Università di Roma “La Sapienza”)

Prof. Edgar Morin, École des Hautes Études en Sciences Sociales (France) Prof. Valerio Pocar (Università di Milano “Bicocca”)

Prof. Marcello Strazzeri (Università di Lecce)

Comitato redazionale:

Maria Rita Bartolomei (Università di Macerata)

Marco Centorrino (Università di Messina)

Roberta Dameno (Università di Milano Bicocca)

Pietro Saitta (Università di Messina)

Angelo Salento (Università di Lecce)

Elena Valentini

(Università di Roma “La Sapienza”) Massimiliano Verga

(Università di Milano Bicocca)

Segreteria di redazione:

Antonia Cava (Università di Messina)

Mariagrazia Salvo

(Università di Messina)

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Diritto e Violenza. Interpretazioni critiche delle prospettive filosofiche di Benjamin e Girard

(Leonardo Catena), p. 7

Giochi di moralità e patto di sangue: il filo rosso delle politiche antimafia (Rosanna Romanelli) p. 14

Prospettive costruzioniste su diritto e società (Luciano Nuzzo), p. 22

Il rischio della sicurezza. Riflessione sulle politiche di sicurezza della società moderna (Diletta Bortone), p. 28

Le politiche di sicurezza negli Usa tra traditional policing e community policing (Pasquale Peluso), p. 34

D e m o c r a z i a , i n t e l l i g e n c e e s e g r e t o di s t a t o (Giulio Vasaturo), p. 39

Il diritto d’asilo tra antiche culture e filosofia (Luce Bonzano), p. 47

Le evoluzioni del sistema di probation inglese tra controllo e assistenza: il ruolo della formazione dei probation officers

(Daniela Ronco), p. 55

Riparare le ferite invisibili: il peso della colpa e la giustizia riparativa (Susanna Vezzadini), p. 62

Prescrizione riparativa nell’affidamento in prova al servizio sociale e applicabilita' (Gilda Losito), p. 68

Consenso informato: più colpe… meno rischi?

(Francesco Giordano), p. 78

Prostituzione e controllo dei corpi. Il dispositivo sessuale nelle politiche securitarie (Caterina Peroni), p. 85

Gli operatori sociali e la riorganizzazione del welfare (Tatiana Saruis), p. 93

Le donne di mafia

(Annamaria Iaccarino), p. 99

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(Angelo Pittaluga), p. 114

Gli Afar. Note a margine di una esplorazione antropologico-giuridica (Monica Raiteri), p. 120

Diritto e cinema. La censura cinematografica in Italia (Giuseppe Racanelli), p. 132

Caduta del monopolio della famiglia eterosessuale.

(Michele Bellomo), p. 139

La costruzione della paura: società, rischio e media (Arije Antinori), p. 147

La violenza “passiva”

(Michele Lanna), p. 154

La società del controllo morbido (Giovanna Palermo), p. 168 Biopolitica: perché parlarne?

(Arianna Piacentini), p. 178

L’Evoluzione del Contratto: gestire la Necessaria Incertezza (Luigi Vannutelli), p. 184

Lettere anonime: Perizia grafologica supportata da un approccio criminologico e criminalistico, p. 187

(Carla Ferrara)

Programma dei lavori, p. 193

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Presentazione

Questo Quaderno dei lavori raccoglie una sintesi delle relazioni presentate da un folto gruppo di giovani studiosi in occasione del Quinto seminario nazionale di sociologia del diritto, tenutosi a Capraia Isola nella prima settimana di settembre 2009.

Come nelle precedenti edizioni, nelle sessioni plenarie mattutine, alla presenza di un discussant invitato a sottolineare tanto i profili di originalità delle relazioni quanto gli eventuali aspetti meritevoli di ulteriori approfondimenti, sono stati presentati sia progetti di ricerca in via di definizione, come nel caso dei dottorandi al primo anno, sia ricerche già concluse, come nel caso degli studiosi al termine del ciclo di dottorato. Alle sessioni plenarie, nel pomeriggio, hanno fatto seguito diversi gruppi di lavoro tematici, inframmezzati da ben meritate attività ludiche e ricreative, che hanno fatto da piacevole contorno alle continue riflessioni e al costante dibattito scientifico che hanno caratterizzato la settimana dei lavori.

Ringrazio il prof. Domenico Carzo per aver accolto con entusiasmo

questo Quaderno tra le pubblicazioni del CIRSDIG .

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Diritto e Violenza. Interpretazioni critiche delle prospettive filosofiche di Benjamin e Girard

Leonardo Catena

1

The theme "Law and Violence" has been addressed by a series of authoritative researchers in the last century and, more recently, by authors that paid attention, from different perspectives, to the risks of violence emerging out of juridical rules. The argumentation of the paper starts from Walter Benjamin’s essay: "For the criticism of the violence", in which the author investigates the connections between violence and law, distinguishing between violence that establishes law and violence that preserves it. Violence, present at the origin of the right, if it is practiced beyond legal norms puts its own existence in danger. In his work Foucault describes modern devices of power-knowledge as tools utilized by conservative violence of the law in force. Girard’s theory tells us about the missed acknowledgment of the fundamental founder’s violence. The sacrifice ritual’s violence protects the whole community from its own violence. The most effective remedy against the violence instigated by the mimetic conflict can be identified in the juridical system’s transcendence, able to practice a third and definitive violence that interrupts the circle of the revenge.

Tra i primi autori ad occuparsi apertamente di questa complessa tematica troviamo Walter Benjamin con il suo saggio giovanile “Per la critica della violenza”. Il filosofo tedesco problematizza i rapporti tra violenza e diritto, attraverso la critica della distinzione tra violenza che pone e violenza che conserva il diritto. Il sistema giuridico è interessato a monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola non tanto per salvaguardare i fini giuridici, quanto per salvaguardare il diritto stesso.

Lo Stato teme la violenza perché è insita in essa un carattere di

1 Leonardo Catena, laureato in sociologia presso l'Università degli Studi di Urbino con una tesi intitolata"Le politiche per i giovani nel welfare in transizione. Dalle direttive dell’Unione Europea alla normativa della regione Marche" (relatore Prof. Fabrizio Pappalardo), è attualmente dottorando di ricerca in “Sociologia dei fenomeni culturali e dei processi normativi” (tutor Prof. Yuri Kazepov) presso l’Università degli Studi di Urbino e cultore della materia in Sociologia della devianza, Sociologia urbana e Fondamenti della società del benessere e politiche sociali comparate. E-mail:

leonardocatena@libero.it.

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creazione giuridica. Diverso invece è il caso della violenza impiegata a fini giuridici, essa svolge la funzione di conservazione del diritto. Non a caso, coloro che contestano la pena di morte non impugnano solo una determinata pena, ma mettono in discussione il diritto stesso nella sua origine. Questo perché l’origine violenta del diritto si mostra paurosamente nel potere di vita e di morte, un potere che non intende tanto punire un’infrazione giuridica, quanto statuire un nuovo diritto.

Benjamin individua la presenza di questi due tipi di violenza, creatrice e conservatrice, anche in un’altra istituzione dello Stato moderno, ossia la polizia. In essa scompare la differenza tra violenza che pone e violenza che conserva la legge, in quanto la polizia è un potere a fini giuridici, ma ha anche la facoltà di stabilire essa stessa dei fini, pur entro certi limiti. La polizia interviene per ragioni di sicurezza in molti casi in cui non sussiste una chiara situazione giuridica, senza seguire dei fini legalmente definiti. Se le forze dell’ordine operano al di fuori delle regole del diritto penale e delle garanzie costituzionali si possono verificare situazioni di "vuoto di diritto" anche in una democrazia, vuoti che consegnano la nuda vita delle persone, spogliata di ogni dignità e diritto, a una violenza arbitraria. Se ne hanno degli esempi comprovati talvolta dalle sentenze giudiziarie, come nel caso del G8 di Genova o delle morti sospette nelle carceri, in cui le forze dell’ordine operano mettendo in atto perquisizioni arbitrarie, costruendo false prove o macchiandosi di pestaggi contro dei cittadini inermi. In uno Stato di diritto le polizie dovrebbero essere "neutrali" e limitarsi ad una funzione meramente amministrativa di esecuzione diritto delle norme giuridiche.

Il rischio da evitare è che l’istituto della polizia non si limiti soltanto ad applicare la legge con la forza, ma la inventi ogni volta che interviene per garantire la sicurezza in una situazione giuridicamente non chiara.

Un certo grado di discrezionalità operativa è fisiologico negli operatori che esercitano responsabilità decisionali attribuite dalla norme, ma l’interpretazione e la costruzione della norma, utilizzate al fine di colmare vuoti o incoerenze del sistema di regolazione formale, non devono sfociare nella violazione della norma stessa.

La rinuncia del singolo a farsi giustizia da sé è legata al

riconoscimento dell’autorità di chi esercita la sovranità, dell’istituto

giuridico in base al quale viene legittimamente usata la forza. Il

problema sorge, secondo Derrida, dal misconoscimento della relazione

che unisce la nascita della legge alla violenza, misconoscimento che è

alla base anche del fondamento mistico dell’autorità. La forza del

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singolo è sospesa per essere delegata alla norma giuridica. In questo modo viene occultata la violenza che sta all’origine del diritto. Nella riflessione di Derrida, le due violenze non esistono come pure, ma in un rapporto di contaminazione differenziale. Nell’analisi foucaultiana, invece, è il nuovo potere disciplinare, con le tecnologie politiche del corpo e di sorveglianza ininterrotta volte a normalizzare i corpi, a rappresentare la violenza che conserva l’ordinamento giuridico-statuale esistente. La nascita della biopolitica è connessa allo sviluppo di un biopotere, basato sulla sostituzione del potere di vita o di morte della sovranità con quello di far vivere biologicamente degli individui e lasciarne morire altri. Si assiste alla costruzione sociale di una nuova alterità, relativa al livello di devianza rispetto ad un modello culturale i cui confini sono continuamente ridefiniti in funzione delle variabili esigenze economiche e sociali delle popolazioni da far vivere. Il discrimine postmoderno è socialmente costruito e legalmente differenziato. Un esempio concreto ci è fornito dalle leggi e dalle politiche nazionali sull’immigrazione che tendono ad escludere, se non ad espellere, gli stranieri invece che garantire loro inclusione sociale e diritti di cittadinanza. Senza dimenticare la rinvigorita pratica concentrazionaria dei Campi, di cui ne sono esempi i Centri di identificazione ed espulsione, luoghi in cui si manifesta lo stato di eccezione e la dissoluzione dei diritti e della persona giuridica. I dispositivi di potere operanti nel Campo, un territorio atopico in cui è sospesa la validità del diritto, sono sottratti da ogni controllo di legalità riferibile alla Costituzione. Nel totalitarismo moderno si instaura uno stato di eccezione, si produce un biodiritto che si applica ai corpi migranti delle non-persone, corpi privati della personalità giuridica e quindi anche di esistenza sociale. Il campo come spazio biopolitico, fondato sullo stato d’eccezione, è il paradigma dello spazio politico della modernità. Lo stato d’eccezione non è un diritto speciale, ma una sospensione dell’ordine giuridico, è uno stato kenomatico.

Il diritto può essere tuttavia, come ci dice Eligio Resta, il luogo in cui si gioca la scommessa di una differenza rispetto alla violenza. Il diritto sarà differente dalla violenza se lo sarà; sarà solo un’altra violenza se finirà per somigliare troppo all’oggetto che dice di regolare (Resta, 1992).

La società fatica ad auto-rappresentarsi la violenza come dimensione

che le appartiene e finisce per addomesticarsi alla sua presenza. Girard

ha individuato nel sacrificio il meccanismo che riesce ad interrompere la

mimesi della violenza che mette in pericolo la società dall’interno. La

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sacralità della violenza è la risposta della società al suo problema specifico della violenza distruttiva. Il sacrifico protegge l’intera comunità dalla sua stessa violenza, e risponde al bisogno della comunità di interrompere con un’unica violenza rituale la violenza che incombe nella forma di una minaccia indifferenziata sull’intera struttura comunitaria.

Il conflitto mimetico, che scaturisce dal conflitto dei doppi, al fine di evitare la distruzione reciproca, viene deviato verso un nuovo oggetto.

Da questo meccanismo nasce quell’originaria ambivalenza della violenza stessa, che distrugge e che salva, che uccide e che cura.

Quest’ambivalenza è indicata dal greco pharmakon, veleno e antidoto insieme, malattia e cura. Nel politico per Girard non c’è innocenza, in quanto arena degli uomini desideranti, e quindi non c’è salvezza. Una relativa salvezza c’è però in un fenomeno che al politico è strettamente congiunto, ossia il fenomeno giuridico o giudiziario. Il giudizio consente di scardinare il rapporto tra violenza e sacro, e rende superfluo il sacrificio. La risoluzione della violenza viene delegata dalla società ad un sapere ed un potere specialistico, il sapere-potere giuridico. Scrive Girard che non c’è differenza di principio tra vendetta privata e vendetta pubblica, ma vi è un’enorme differenza sul piano sociale, in quanto la vendetta non è più vendicata. La pena è una vendetta che neutralizza se stessa, perché risponde alla violenza in modo asimmetrico rispetto ad essa. Le decisioni dell’autorità giudiziaria si impongono sempre come l’ultima parola della vendetta (Girard, 1980)

2

. Nel moderno sistema di monopolio statuale della violenza riemergono forme di riappropriazione privata della violenza e di mimesi della vendetta. Basti pensare alla presenza, già menzionata, della pena di morte o a tentativi di linciaggio nei confronti di presunti criminali. In questi casi ricompare una simmetria insopportabile tra l’atto punitivo della vendetta e la vendetta stessa, incapace di differenze. La violenza punitiva dovrebbe guardarsi attentamente dall’assomigliare alla violenza punita, per evitare di esserne un suo doppio. Se si pratica una violenza eccessiva questa agirà, anziché da antidoto, da acceleratore del contagio mimetico. Il diritto non può esistere senza la violenza legittima e al contempo la violenza statuale non può presentarsi come legittima senza un diritto che la regoli. Questo meccanismo non garantisce la scomparsa della violenza, ma la possibilità di una sua minimizzazione. Nonostante

2 Si può parlare di trascendenza del sistema giudiziario perché la violenza giudiziaria è definitiva, essa evita il conflitto dei doppi.

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queste sopravvivenze e contraddizioni, il moderno sistema giudiziario si presenta come il più “curativo” della violenza. Proprio per questo il potere politico dovrebbe prestare una particolare attenzione a non delegittimare in nessun caso il potere giudiziario. Delegittimarlo significa privarlo della capacità di minimizzazione della violenza e ridare vigore ad una concezione vendicativa della giustizia. Come ci ha mostrato Stanley Kubrick, con “Arancia Meccanica”, uno Stato che si identifica principalmente con la forza fa perdere al diritto la sua differenza rispetto alla violenza, e la legge non è più sufficiente a garantire che la reazione delle pubbliche autorità sia altro rispetto a una vendetta.

Bibliografia

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Arendt H., (2008) Sulla violenza, Guanda , Parma.

Barberis M., (2004) Breve storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna.

Benjamin W.,(1995) Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino.

Derrida J., (2003) Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, Bollati Boringhieri, Torino.

Ferrari V., (2004) Diritto e società. Elementi di sociologia del diritto, Laterza, Bari.

Foucault M., (1993) Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino.

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Resta E., (1992) La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza Bari.

Resta E., (1996) Poteri e diritti, Giappichelli, Torino.

Sorel G., (1997) Considerazioni sulla violenza, in Scritti politici (a cura

di) Viverelli R., Utet, Torino.

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Strazzeri M., (2007) Il teatro della legge. L’enunciabile e il visibile, Palomar, Bari.

Strazzeri M., (2004) Il Giano bifronte. Giuridicità e socialità della norma,

Palomar, Bari.

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Giochi di moralità e patto di sangue: il filo rosso delle politiche antimafia

Rosanna Romanelli

1

In this research the Becker's approach, born in order to explain individual crime, is applied to the phenomena of organized crime. Egoist and rational individuals associate themselves to join in their criminal mafia- style project. The Game Theory based on Becker's approach formalizes the reasons that push the associates to a criminal organization and to cooperate in criminal actions. In fact, they find that belonging to a criminal organization, which is coersively guaranteed with a 'pact of blood', may represent a surplus compared to the benefits they can obtain with their individual actions. This 'pact of blood' generates and assures the survival of whatever criminal organization. Being able to demolish their rules with the support of turncoats -within the logic of a rewarding justice- is the objective of all the anti-mafia policies on which the good outcome of the fight against the organized crime are played.

In questa ipotesi di ricerca, l’approccio beckeriano, nato per spiegare il crimine individuale, viene applicato ai fenomeni di criminalità organizzata. Individui egoisti e razionali si associano per dar luogo all’impresa criminale di stampo mafioso. La teoria dei giochi fondata sull’approccio beckeriano, formalizza le cause che spingono gli affiliati ad un’organizzazione criminale ad associarsi e a cooperare nell’agire criminoso: essi trovano, infatti, che l’appartenenza ad una organizzazione criminale, garantita coercitivamente dal Patto di sangue, possa fornire un surplus rispetto al beneficio che essi possono ottenere dall’agire individuale. Il Patto di sangue genera e assicura la

1 Avvocato e Dottore di Ricerca in “Criminologia, Devianza e Mutamento Sociale”

presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Si occupa di scienze penalistiche, criminologiche e penitenziarie, con particolare attenzione ai fenomeni di criminalità organizzata. Candidata borsista DAAD presso la Freie Universitat di Berlino (Criminal Law Department) con un progetto di ricerca sulla Criminalità Transnazionale, ha partecipato alla realizzazione dell’Inchiesta “Europe beginnt in Scampia”: Streifzuge im Reich der Camorra (rbb, Berlin 2007). Professore a contratto in procedura penale presso l’Istituto regionale di studi giuridici del Lazio “Arturo Carlo Jemolo”, collabora presso il Dipartimento di Teoria Economica e applicazioni dell’Università Federico II di Napoli, occupandosi di economia e criminalità. E-Mail:

rosannaromanelli@libero.it

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sopravvivenza di un’organizzazione criminale: scardinarne le regole, attraverso le dichiarazioni dei “collaboratori di giustizia” (in una logica di giustizia premiale), è l’obiettivo delle politiche antimafia su cui si gioca il buon esito della lotta alla criminalità organizzata.

Scopo di questa ipotesi di ricerca è tentare di razionalizzare e di dimostrare con l’ausilio teorico ed analitico della Teoria dei giochi

2

il ruolo decisivo che il Patto di sangue

3

ha per la sopravvivenza e la prosperità di un’organizzazione criminale

4

.

Infatti, un elemento chiave dell’organizzazione mafiosa è l’esistenza di un vincolo formale tra gli affiliati, denominato spesso

“Patto di sangue”. La presenza di tale patto fra gli affiliati garantisce che il surplus “cooperativo” generato dall’organizzazione sia mantenuto nel corso del tempo e comporta, dunque, anche una regola distributiva per dividerlo tra gli associati. È proprio la insoddisfazione per tale regola distributiva che spesso porta al manifestarsi di guerre di mafia: sorte, per ridefinire a vantaggio di qualcuno degli affiliati l’esistente accordo distributivo fra le parti.

Per spiegare l’esistenza della mafia, in particolare, si analizzerà formalmente l’interazione strategica di due criminali, come esempio di

“dilemma del prigioniero”

5

. Si giungerà alla conclusione che l’interazione tra due o più soggetti, animati da motivazioni egoistiche e razionali, permette di conseguire risultati efficienti solo se tale comportamento dà vita a vantaggi addizionali per entrambi. L’approccio qui proposto, suggerisce di introdurre correttivi alle tradizionali politiche anti- crimine

6

. Senza la previsione di effetti favorevoli in termini di quantità di pena discendenti direttamente dalla collaborazione, in un ordinamento disciplinato dal principio della obbligatorietà della azione penale, si rischia la totale chiusura di chi è disposto a confessare, lasciando inaridire una possibilità di indagini utilissima. La prevenzione e la repressione che hanno un evidente impatto sul crimine individuale potrebbero non averlo sulla mafia. Invece, i “collaboratori di giustizia”

possono essere la politica anti-mafia più efficace, giacché, confessando,

2 Colombo (2003).

3 Gratteri e Nicaso (2009).

4 L’espressione “organizzazione criminale” , ricomprende tutti i fenomeni di associazionismo di stampo mafioso contemplati dall’art. 416- bis del Codice penale.

5 Làszlò (2000).

6 A.A.V.V., (1992).

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minano il Patto di sangue che costituisce l’essenza di un’organizzazione mafiosa.

Si considerino due casi: il primo, con soluzione non cooperativa, ed il secondo con soluzione cooperativa, resa possibile, dall’esistenza di un patto di sangue tra gli affiliati all’organizzazione malavitosa. Nel primo caso, i due soggetti stringono un accordo non vincolante per commettere insieme un singolo reato, mentre, nel secondo caso, i due soggetti stringono tra loro un patto di sangue, che nel gergo criminale indica un accordo coercitivo, che vincola ciascun delinquente all’associazione criminale in maniera duratura e stabile, per tutta la vita, e la cui violazione importa la morte (uccisione) del traditore.

Caso 1)

Si supponga, in un primo momento, che due criminali (giocatori), A e B, stipulino un accordo per commettere una specifica attività delittuosa. Ad esempio, essi si propongono di ricevere una partita di droga in una piazza di spaccio, dandosi appuntamento in un giorno preciso di consegna. Ciascuno dei due criminali può decidere di violare l’accordo e, quindi, far saltare l’incontro programmato; oppure, di rispettare l’accordo iniziale e così ricevere il “carico” insieme all’altro criminale nel giorno di consegna stabilito.

Si facciano le seguenti supposizioni: a) ciascun giocatore ottiene il massimo payoff

7

quando alla propria strategia di violazione dell’accordo (consistente nel ricevere la partita di droga nel giorno effettivo) si accompagna la strategia di rispetto dell’accordo da parte dell’altro giocatore (consistente nel non presentarsi alla ricezione del carico, perchè informato della mancata consegna); b) se entrambi i giocatori violano l’accordo, e quindi agiscono da soli, essi possono di fatto impossessarsi della partita di droga, ma in questo caso, i payoffs sono relativamente più bassi; c) se i due giocatori cooperano, il payoff è in assoluto il più alto, anche se va diviso in due parti uguali.

Sulla base di queste ipotesi, il gioco assume le caratteristiche tipiche del dilemma del prigioniero e, quindi, può descriversi con la sottostante matrice di payoff dove V indica la violazione dell’accordo e R il rispetto dello stesso.

7 In teoria dei Giochi, il payoff è la fase conclusiva del gioco. Può essere reso in italiano come: risultato, premio, ricompensa, pagamento

(17)

Per semplicità espositiva, rappresentiamo ora queste disuguaglianze con un esempio numerico.

A tal fine, si assuma che il provento del crimine in caso di mancata cooperazione sia pari ad 1 se entrambi i giocatori violano l’accordo, ma sia pari a 4 nel caso in cui l’altro giocatore cooperi. Se il giocatore coopera, in presenza di violazione dell’accordo da parte dell’altro, il payoff è 0. La matrice dei payoffs diventa quella descritta nella Tabella:

Criminale A

Cri minale B

R V

3,3 0,4

4,0 1,1

La Tabella evidenzia che la soluzione che permette a ciascun criminale di massimizzare la propria utilità attesa è data dalla combinazione (V, V), vale a dire violazione – violazione: entrambi i criminali riterranno più conveniente non rispettare l’accordo e, quindi, ricevere in autonomia la partita di droga nel giorno di effettiva consegna. Infatti, non conoscendo il comportamento dell’altro, entrambi i giocatori si aspettano che l’altro violi l’accordo e non hanno altra scelta che violarlo a loro volta. Come si vede chiaramente dall’esempio numerico, la soluzione violazione – violazione rappresenta un equilibrio di Nash

8

. La soluzione non cooperativa è stabile, poiché nessuno dei due giocatori ha interesse a modificare la propria strategia, indipendentemente dalla scelta dell’altro. Per tale motivo, si dice che la soluzione violazione – violazione rappresenta un equilibrio con strategia dominante. Tuttavia, solo la soluzione alternativa cooperazione –

8 In Teoria dei Giochi si definisce equilibrio di Nash un profilo di strategie (una per ciascun giocatore) rispetto al quale nessun giocatore ha interesse ad essere l'unico a cambiare. L'ottimo paretiano, invece, si realizza quando non si può migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro. Confrontando la soluzione cooperazione – cooperazione con le altre, si vede che nelle altre soluzioni almeno uno dei due giocatori peggiora la sua condizione. Quindi, l’unica soluzione Pareto-efficiente è quella (C, C)

(18)

cooperazione (R, R) è una soluzione Pareto–efficiente

9

, giacché presenta un payoff maggiore per entrambi i giocatori.

Caso 2)

Si ipotizzi ora che i due giocatori, A e B, stringano tra loro un accordo vincolante al fine di coordinare tutte le loro azioni delittuose.

Usando il gergo della mafia, l’accordo sarà denominato Patto di sangue.

Esso lega gli affiliati all’organizzazione criminale per tutta la loro vita:

con tale accordo, infatti, gli associati si obbligano a porre in essere qualsiasi tipologia di reato programmata, o programmabile in futuro, seguendo le indicazioni e le direttive dell’organizzazione malavitosa.

Esso è vincolante in quanto, è dotato di strumenti coercitivi capaci di portare i soggetti a ritenere conveniente il rispetto dello stesso.

L’eventuale violazione è sanzionata con la morte del traditore.

Si immagini, nuovamente, l’esempio di cui sopra della consegna di una partita di droga, ma, a differenza del caso precedente, si ipotizzi che tale reato sia uno dei tanti reati che i due soggetti hanno in animo di compiere insieme. Al fine di definire i payoffs e le strategie, vanno interamente riprese le ipotesi precedenti, con un’unica differenza: ora, in caso di violazione, il patto di sangue prevede la morte del traditore.

Si può procedere ad una rappresentazione numerica dei payoffs, assumendo, ad esempio, che la pena associata alla violazione del patto di sangue sia pari a - 5 (un valore negativo)

Criminale A

Cri minale B

R V

3,3 0,-1

-1,0 -4,-4

Questa ipotesi aggiuntiva conduce ad una diversa gerarchia dei payoffs, rispetto a quella rappresentata nella Tabella precedente. In questo caso, ad entrambi i criminali, converrà scegliere la strategia del

9 Vedi nota precedente, n. 7

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rispetto dell’accordo e, quindi, presentarsi alla consegna nel giorno stabilito. In altri termini, la strategia Pareto-efficiente ora diventa dominante. In tale gioco, l’esistenza di un Patto di sangue fra i soggetti, permette il raggiungimento di una soluzione di equilibrio, data dalla combinazione cooperazione – cooperazione (R,R), che rappresenta anche la strategia dominante, giacché per ciascun giocatore il payoff ad essa connesso è, comunque, superiore a qualunque altro.

La riflessione proposta sembra consolidare la politica criminale fondata sull’uso dei “collaboratori di giustizia” nel processo penale:

rompendo le regole del Patto di sangue, si sfaldano le basi delle organizzazioni criminali. In un processo penale dominato dall'oralità e dalla formazione dibattimentale della prova, non si può fare a meno, del

“teste della Corona” e cioè delle dichiarazioni di coloro che, proprio per avere fatto parte di organizzazioni criminose, sono in grado di riferire compiutamente dall'interno le dinamiche e le attività illecite delle organizzazioni stesse. Il fenomeno del pentitismo, valutato spesso in modo troppo emozionale fin quasi a demonizzarlo, costituisce in realtà uno dei temi fondamentali su cui si gioca il buon esito della lotta alla criminalità organizzata.

In effetti, solo proteggendo il collaboratore di giustizia, pentito di mafia, si limita il beneficio dell’adesione al Patto di sangue, e lo Stato può ridurre il gap fra il vantaggio della defezione e quello della affiliazione

10

.

Riferimenti Bibliografici

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Bonanno, A., e F. Pastore (2003), “Il crimine organizzato nell’ economia del crimine”, XVIII Conferenza AIEL, Messina.

10 Bonanno, A., e F. Pastore (2003).

.

(20)

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Marselli, R. e M. Vannini (1999), Economia della criminalità, Utet, Torino.

Merò (2000) Calcoli Morali - Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Edizioni Dedalo

Savona, U.E. (1990), “Un settore trascurato: l’analisi economica della

criminalità, del diritto penale e del sistema di giustizia penale”, in

Sociologia del Diritto, Vol. 17, N° 1-2, pp. 255-278.

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Prospettive costruzioniste su diritto e società Luciano Nuzzo

1

The purpose of this essay is to reflect on the persistence of ontological models in legal thought. These models, in my opinion, are inadequate to describe the complexity of a social system such as law.

Faced with the more or less explicit reproposal of these references, it does not make sense to use the old concept of criticism, but it makes sense to see how, once deconstructed the certainties of traditional thinking, a completely unexplored world opens up.

L’obiettivo del presente testo è quello di riflettere sulla persistenza nella costruzione del discorso giuridico di schemi concettuali di tipo ontologico. Tali schemi a nostro avviso sono inadeguati a descrivere la complessità di un sistema sociale quale il diritto.

Di fronte alla riproposizione, in modo più o meno esplicito di tali riferimenti, non ha senso utilizzare il vecchio concetto di critica ma ha senso vedere come invece, una volta decostruite le certezze del pensiero tradizionale, si apre un mondo completamente inesplorato.

Il problema teorico da cui parte una prospettiva di ricerca post- ontologica è l’inadeguatezza della razionalità europea.

La razionalità non può dire di sé di essere razionale se non postulando l’esistenza di un mondo indipendente da colui che l’osserva.

L’illuminismo poteva vedere se stesso in un mondo da illuminare e poteva considerare irrazionale tutto ciò che gli si contrapponeva alla condizione di occultare l’unità della distinzione tra ragione e torto, verità e falsità e alla condizione di trattare il paradosso del riferimento a sè, che l’applicazione della distinzione a se stessa avrebbe prodotto, come contraddizione (Luhmann, 1990).

Nel 1919 Paul Valery in suo articolo dal titolo significativo La crise de l’esprit, come un nuovo Amleto si immaginava su un promontorio dal quale poteva contemplare un immenso paesaggio di rovine, abitato da milioni di spettri. Ordine e disordine si complicavano a vicenda, si confrontavano e si confondevano uno con l’altro.

1 Luciano Nuzzo è assegnista di ricerca in Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università del Salento. Mail: luciano.nuzzo@unisalento.it

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Il problema che si presentava agli intellettuali era che l’ordine del mondo non corrispondesse più all’ordine della ragione. La ragione si rivelava incapace di controllare l’indeterminabile complessità che si riversa su un mondo che era stato accuratamente descritto e disegnato come un reticolo di organizzazioni uguali, indipendenti e liberamente ordinate secondo natura, ragione e diritto e che si rivela invece come inafferrabile orizzonte di indeterminatezza.

Da una parte, dunque, le autodescrizioni della società moderna, che utilizzavano ed utilizzano determinate semantiche, risultano inadeguate a descriverne la complessità. Le trasformazioni semantiche seguono le trasformazioni strutturali a considerevole distanza. Perché, in altri termini, attraverso il ripetere e il dimenticare possa condensarsi senso a condizioni di tipo nuovo, si richiede del tempo. (De Giorgi, Luhmann, 1992).

Dall’altra vengono meno nella società moderna i “luoghi” da cui poter effettuare la descrizione corretta del mondo. Non è più possibile immaginare una topologia dell’osservatore. Il riferimento all’immagine della montagna, come metafora di un osservazione distanziata dal mondo che si vuole osservare, e che troviamo in molta letteratura, non costituisce di per sè garanzia della correttezza dell’osservazione.

Questa impossibilità di un luogo privilegiato da cui osservare il mondo è collegata alla struttura della società moderna.

Le società pre-moderne erano accomunate dalla possibilità di pensare l’unità del mondo da una posizione privilegiata, dal vertice della gerarchia o dal centro della società che si identificava con la città. In queste società si poteva pensare l’ordine come “ordine naturale”, e ciò che lo eccedeva come “disordine” (Luhmann, 1988). La società moderna, invece, proprio per la forma della differenziazione che la caratterizza, si definisce per l’autonomia dei sistemi di funzione. Questo implica che non esistono le condizioni perché l’osservazione possa essere effettuata da una posizione privilegiata (De Giorgi & Luhmann 1992).

Allora da dove possiamo incominciare?

Il problema dell’inizio non è un problema della logica, come

credeva Hegel. E’ piuttosto un problema che si riferisce a connessioni di

operazioni.

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L’inizio è una costruzione dell’osservatore. E’ il problema di ciò che si vuole osservare. L’inizio è un problema dello stesso oggetto. Ma l’oggetto è ciò che viene costruito come oggetto dall’osservatore.

L’oggetto è una connessione di operazioni. Per cui ogni struttura si costruisce il suo inizio e lo costruisce ogni volta che si attiva come insieme di operazioni.

Osservare diritto significa osservare società. Una teoria del diritto è una forma della comunicazione sociale. La teoria in altri termini è un modo di produrre società.

Questo significa che la teoria implica sempre se stessa come parte dell’oggetto che descrive.

Descrivere significa osservare. Osservare significa poter distinguere qualcosa da qualcos’altro. Significa produrre una differenza.

Osservare attraverso distinzioni è una operazione attraverso cui si costruisce società. Costruire società significa che attraverso ogni operazione si produce il contesto delle operazioni come risultato di quelle operazioni. Ad una logica classica di tipo lineare si sostituisce una logica circolare per cui le singole operazioni sono rese possibili dal contesto di operazioni e il contesto di operazioni è reso possibile dalle singole operazioni.

E’ evidente allora la rottura con il pensiero ontologico in base al quale la realtà veniva presupposta alla conoscenza: la realtà sarebbe unica e indipendente dagli osservatori che la osservano. In questo modo fu possibile pensare la conoscenza come descrizione vera della realtà.

Si presupponeva in altri termini che anche nel caso di più osservatori, il mondo oggetto dell’osservazione fosse lo stesso. E che tale mondo fosse determinabile in modo certo (Luhmann, 1990).

Anche versioni più raffinate e recenti non riescono a decostruire completamente la relazione di soggetto/oggetto. Si ammette il pluralismo conoscitivo, per cui sono possibili interpretazioni diverse, ma ciò è riconosciuto solo nei limiti indicati dal testo, limiti altrettanto oggettivi (Luhmann, 1990).

Siamo come le mosche di Wittgenstein, trapped in a glass (Wittgenstein, 1999).

Per Wittgenstein nella sua critica all’empirismo logico e alla

congruenza di referenza, senso e verità che svolge in modo particolare

nel testo sulla On Certainty, non possiamo superare i limiti del nostro

linguaggio. La conoscenza è ammessa solo nei termini di azione

linguistica (Wittgenstein, 2003).

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Ma se è vero che questo orientamento teorico rappresenta una rottura delle teorie della conoscenza tradizionali, si presuppone comunque il riferimento ad una realtà. In altri termini se è vero che un concetto o una distinzione è costituita dall’uso di particolari giochi linguistici senza alcuna referenza alla realtà, il carattere scientifico della conoscenza rimane basato sulla possibilità di accedere alla realtà che è qualcosa in più di un mero gioco linguistico.

La teoria della società propone una teoria della conoscenza radicalmente post-ontologica. Per cui il mondo così come è e il mondo come viene osservato non sono distinguibili.

L’osservazione non descrive linguisticamente il mondo ma lo costruisce in un determinato modo (Luhmann, 2002, 11). La correttezza o la certezza non può essere valutata in relazione all’oggetto. L’oggetto è una costruzione di un osservatore che utilizza una determinata distinzione. L’osservatore di primo livello non può vedere la distinzione che usa mentre osserva, mentre cioè utilizza operativamente la distinzione. Egli vede solo ciò che indica come oggetto. Un osservatore di secondo livello che osserva come un altro osservatore ha costruito il mondo e che osserva quindi la distinzione che l’altro osservatore ha utilizzato, può vedere la contingenza di quella costruzione. Può vedere come la costruzione dell’osservatore di primo livello non è necessaria ma contingente, non è giusta ma artificiale.

Non ci può essere una referenza comune tra osservazione di primo e di secondo livello. Perché altrimenti tale referenza si dovrebbe cercare nell’oggetto oppure nella distinzione che si utilizza. Ma l’osservatore di secondo livello usa una distinzione diversa.

Che cosa significa tutto questo per il diritto e per la teoria del diritto?

Il diritto non rappresenta linguisticamente il mondo. Così come il diritto non si applica alla realtà. Il diritto costruisce il mondo. Il diritto costruisce ciò che usa come realtà.

Il diritto moderno comincia da sé e in questo modo può costruire il mondo.

Una teoria del diritto come teoria post-ontologica è una teoria che comincia da sé, si auto-implica ovvero costruisce il proprio oggetto.

Il pensiero tradizionale considera se stesso come pensiero

realistico perché tratta l’oggetto di cui si occupa come un dato che tutti

possono osservare; quel pensiero considera l’oggetto come un oggetto

storico per il motivo che lo colloca in un contesto determinato; quel

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pensiero inoltre si considera libero per i semplice fatto che ritiene di non essere vincolato all’oggetto che osserva. In realtà quel pensiero non ha nulla a che vedere con l’oggetto di cui si occupa così come l’oggetto non ha nulla a che vedere con il pensiero che lo considera. L’idea che scaturisce dal nostro punto di vista elimina queste fallacie e ogni altra fallacia conseguente: il fondamento, il contesto, la storia, il soggetto, la separazione, la supremazia dell’osservatore ecc.

L’idea della auto implicazione invece lascia vedere che l’oggetto è l’oggetto della teoria che a sua volta è teoria dell’oggetto, che la storia è la rappresentazione del fatto che la circolarità di teoria e oggetto ricomincia sempre a partire da sé come ogni circolarità; da ultimo essa lascia vedere che la libertà è una caratteristica della costruzione e non come si pensa risultato di una scelta che come tutte le scelte è già fatta prima di essere resa operante.

Riferimenti bibliografici

De Giorgi, R. & Luhmann, N. 1992. Teoria della Società. Milano: Franco Angeli.

Luhmann, N.. 2002. Theories of Distinctions. Redescribing the Description of Modernity. Stanford:Stanford University Press.

Luhmann, N. 1990. Osservazioni sul moderno, Roma: Armando 1990.

Luhmann, N.. 1988. ‘The Third Question: The Creative Use of Paradoxes in Law and in Legal History’ Journal of Law and Society, 15, 153- 165

Wittgenstein, L. 1999. Ricerche Filosofiche, Torino: Einaudi.

Wittgenstein, L. 2003. On Certainty. Oxford: Blackwell Publishing Ltd.

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Il Rischio della sicurezza. Riflessione sulle politiche di sicurezza della società moderna.

Francescadiletta Bortone

1

My research project aims to analyze the security contemporary policies.

The theoretical perspective proposed in this essay is the one offered by Luhmann’s theory of society. Specifically, I intend to discuss and deconstruct the concept of security, which is object of the techniques adopted by law. First step of my analysis becomes, then, to prove the

“flimsiness” of security idea spread in contemporary society, and the philosophical presuppositions that are behind it.

Second step is to present another way to describe the concept of security, highlighting that the issues which politics and law examines through their certainties, could be constructed and treated differently. To do this I will use the acquisitions of the theory of risk. Third step, it will see how the proliferation of security policies and related security measures don’t engender stability and order, but increasing the number of risk situations.

Il rischio, nelle analisi comunemente utilizzate, appare come entità oggettiva della quale è possibile valutare la dannosità. Pertanto si programmano e si attivano misure di prevenzione per ridurre le probabilità che il rischio temuto si verifichi.

Lo scopo del lavoro tende a dimostrare come l’attivazione di tali misure di sicurezza sia essa stessa altamente rischiosa. Per tali motivi questo approfondimento potrebbe intitolarsi anche Il rischio della prevenzione del rischio.

La vita quotidiana è continua ricerca di sicurezza. La pressione mediatica e propagandistica da parte della politica e dei mass media orienta l’immaginazione collettiva utilizzando la paura, che genera mostri e nemici da cui difendersi.

Nella società dell’insicurezza si assiste ad un costante condizionamento tra forme di intervento statuale ed opinione pubblica, per cui sicurezza diventa, concretamente, tecnica di assorbimento

1 Dottoranda di Ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università del Salento – Lecce.

Indirizzo e-mail: francescadiletta.bortone@unisalento.it.

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dell’insicurezza: i cittadini si tranquillizzano perché “altri” utilizzano la loro paura trasformandola in rassicuranti politiche dell’ordine. Prolifera la comunicazione sull’insicurezza, aumentano i profili dei soggetti pericolosi e, di conseguenza, le misure per raggiungere il “traguardo sicurezza”.

Ma cos’è la sicurezza? Di cosa parliamo quando parliamo di sicurezza? E rispetto a cosa è sicura la sicurezza?

Nelle scienze sociali contemporanee ci si imbatte di frequente nel termine sicurezza che spesso viene affiancato al termine rischio. Rischio è costruito come qualcosa che è bene prevenire, evitare, neutralizzare.

Sicurezza, al contrario, è qualcosa da raggiungere, produrre, aumentare: si identifica con l’ordine che potrebbe essere mantenuto costante se non esistesse la “minaccia rischio”. Se ci si orientasse a sicurezza, l’agire potrebbe essere fruttuosamente programmato secondo aspettative e previsioni, senza incorrere in delusioni future. Se invece

“l’ordine della sicurezza” non si raggiunge, se cioè si verifica il rischio, lo schema si frantuma, la certezza del risultato finale svanisce. Per evitare che questo accada, diviene allora necessario intervenire affinché il rischio del rischio non esploda rompendo gli schemi di ciò che consideriamo sicuro. In questa prospettiva, rischio e sicurezza si presentano come “oggetti”, dotati di realtà e per questa ragione oggetto di conoscenza. Questo schema rischio/sicurezza renderebbe possibile scegliere tra alternative rischiose ed alternative sicure (De Giorgi, 2006).

Ma in queste analisi su rischio e sicurezza, comunemente utilizzate, chi è l’osservatore? Il fatto che non si ponga tale questione, espone la comunicazione sul rischio al rischio della comunicazione.

Per comprendere il significato di questa domanda e per arrivare a formulare una risposta ci viene in aiuto la teoria dei sistemi.

Si è detto che sicurezza e rischio vengono trattati come dati, forniti di una loro consistenza, di una realtà, calcolabili. Ma cosa vuol dire realtà? Quale realtà?

Conoscere realtà, vuol dire osservare realtà, ed osservare realtà

vuol dire porre in essere una distinzione tra ciò che consideriamo realtà

e ciò che consideriamo non-realtà. Distinguere, quindi, significa

indicare qualcosa a differenza di qualcos’altro. Le due parti della

distinzione non possono esistere una senza l’altra, poiché l’una è l’altra

parte dell’altra ed insieme danno l’unità della distinzione, ma non

possono essere osservate contemporaneamente, altrimenti si

distruggerebbe la distinzione.

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Se osservo rischio, non posso prescindere dal considerare l’esistenza dell’altra parte, sicurezza, che mi permette di indicare rischio a differenza di sicurezza. Ma non posso osservare contemporaneamente le due parti della distinzione rischio/sicurezza. La distinzione è un’operazione. Essa produce eventi, poiché distinguere è esso stesso un evento. Attraverso distinzioni, quindi, si generano eventi, qualcosa che prima non c’era e che – attraverso la distinzione - si produce, emerge.

Gli eventi, dei quali si parla e che costituiscono realtà, sono comunicazione sociale. E la realtà è costituita dall’operazione della comunicazione, sociale perché produce società.

La distinzione, poi, in quanto operazione, viene effettuata da qualcuno. Osservatore è colui che effettua la distinzione. L’osservatore non vede l’unità della distinzione che realizza. Solo un altro osservatore (osservatore di secondo livello), attraverso l’uso di un’altra osservazione, può vedere il primo nell’atto dell’osservare.

Alla luce di tutto ciò, e ritornando al punto di partenza, realtà diventa risultato di selezioni di un osservatore di primo livello che usa una distinzione per stabilire cosa è realtà e cosa non lo è. Un osservatore di secondo livello potrà osservare il primo che opera la sua distinzione, arrivando a notare come la realtà della realtà del primo non ha realtà, ma è solo una sua costruzione. Un altro osservatore potrebbe costruire un’altra realtà. Realtà diviene allora struttura di eventi contingenti che si manifestano come emergenze.

Sicurezza o rischio sono comunemente considerati come le due parti di una distinzione, trattati come dati reali che si ritiene possano agire sulla realtà, l’una in forma positiva, l’altro in forma negativa. Ma essi altro non sono se non costruzioni di realtà che potrebbero essere costruite diversamente. Non hanno pertanto realtà, non descrivono condizioni. Sicurezza (così come rischio) non costituisce uno “stato di cose”, essa è un costrutto di un osservatore che usa la distinzione di stabilità e instabilità; oppure di identità e mutamento per decidere cosa è sicuro e cosa no, cosa è rischioso e cosa non lo è. Tali distinzioni, però, risultano improbabili. Inoltre, un altro osservatore potrebbe descrivere la stessa condizione utilizzando altre distinzioni (De Giorgi 2006).

Adoperato in questo modo, il concetto di sicurezza, contrapposto a

quello di rischio, rimane privo di consistenza. Può valere solo come

spunto di riflessione intorno ad esigenze sociali che richiedono che il

livello del rischio venga calcolato.

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Ma è davvero possibile optare tra alternative sicure o alternative rischiose? La questione manifesta la sua inconsistenza, quando ci si rende conto che l’alternativa, per essere considerata sicura, dovrà rispondere adeguatamente ad una “doppia sicurezza”. Da un lato essa dovrà assicurare che nel futuro non vi sia alcun danno derivante dalla sua scelta; dovrà, inoltre, garantire che compiendo “quella” scelta, non si perdano opportunità vantaggiose che si sarebbero potute realizzare scegliendo l’alternativa rischiosa. Questo, in sintesi, ci porta a comprendere che non si potrà mai rinunciare “con sicurezza” ad un vantaggio insicuro (Luhmann, 1996).

L’argomentazione fin qui svolta dimostra in forma evidente

“l’illusorietà della sicurezza” ed il fatto che non esistano alternative assolutamente sicure. Al rischio di una scelta rischiosa si potrà contrapporre solo il rischio di un’altra scelta rischiosa. Non è possibile, cioè, costruire condizioni sicure né è possibile avere condotte di vita sicure.

Ora risulta più chiaro come le idee di sicurezza della società moderna denuncino la vuotezza semantica su cui fondano il concetto di sicurezza. Le politiche di sicurezza, nate da questa illusorietà divengono politiche “del vuoto”. Amplificano la semantica del nulla e costruiscono

“il nemico”. Esse, inoltre, dichiarano la circolarità da cui nascono che vede viziosamente riproporsi lo schema politica di sicurezza – nemico – sicurezza – politica di sicurezza.

Alla luce di quest’ultimo passaggio ci si chiede quale sia l’incombente “rischio della sicurezza”.

Nella società del rischio, sicurezza diventa un risultato programmabile e per raggiungerlo la società, attraverso le sue politiche, osserva e costruisce la realtà usando la distinzione sicuro/non sicuro.

Sicurezza diviene (come già affermato in precedenza) tecnica di assorbimento della insicurezza, tecnica di rassicurazione che sfrutta la paura. Ne deriva la costruzione e rappresentazione di eventi come emergenza. Una volta deciso cosa non è sicuro si produrranno e legittimeranno provvedimenti emergenziali, per rispondere ad una emergenza costruita.

Decidere su un evento, costruirlo come emergenza diventa un rischioso strumento di potere. La decisione è politica, è costruzione del mondo realizzata dalla politica, cioè è costruzione politica del mondo.

Ma la politica non può considerare tutte le conseguenze delle sue

decisioni, che pertanto possono produrre conseguenze rischiose per i

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singoli sistemi sociali. La politica, da sistema di distribuzione di risorse, diventa sistema di distribuzione dei rischi. Essa, inoltre, prende decisioni che hanno forma giuridica, scaricando sul diritto il rischio delle sue decisioni (Nuzzo, 2008).

La politica di sicurezza introduce il nemico, ne delinea i contorni, ne disegna l’emergenza e usa il diritto come strumento che vi provveda.

Il diritto, in questo modo, potrebbe perdere la sua differenziazione dalla politica. Il diritto, cioè, rischierebbe di trasformarsi in diritto della sicurezza, ovvero in diritto contro il nemico. Un diritto che assume direttamente il compito politico della difesa dall’emergenza, dalla minaccia. Ma l’emergenza non è reale. Essa è costruzione di un osservatore. L’emergenza è stabilita da qualcuno e comporta l’assunzione di tecniche per il suo trattamento. Essa diventerebbe, in questo modo, strumento (di potere) per organizzare e legittimare un nuovo ordine: l’ordine della sicurezza.

BIBLIOGRAFIA

De Giorgi R., Temi di filosofia del diritto, Pensa Multimedia, Lecce 2006;

M. Douglas, A. Wildavsky, Risk and Culture. An Essay on Selection of Technological and Environmental Dangers, California University Press, Berkeley 1982.

Luhmann N., Osservazioni sul moderno, Armando, Roma 2006;

Luhmann N., Sociologia del diritto, Laterza, Bari 1977;

Luhmann N., Sociologia del rischio, Bruno Mondadori, Milano 1996;

Luhmann N., De Giorgi R., Teoria della Società, Franco Angeli, Milano 1992;

Nuzzo L., Le anticamere del diritto. Ordine politico ed eclissi della forma giuridica, Pensa Multimedia, Lecce 2008;

Spencer Brown, Laws of Form, Cognizer Company, 1994;

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Le politiche di sicurezza negli USA tra traditional policing e community policing

Pasquale Peluso

1

Fear of crime and security needs have influenced the '80s, the security policies to fight crime and ensure the quality of life for citizens. Since the mid-90s the criticism of the policies of zero tolerance, also based on the results of reducing crime rates, have led to a revision of the function and tasks carried out by police. The model of community policing has increasingly become, thanks to positive results obtained in some American cities. The attention of the police force has moved from repression to prevention. There are several positive effects of various community policing programs, although there are criticisms. Many authors claim, however, that through these programs not only enhance social cohesion, but also the social capital of society and the forms of informal social control. Finally, this model has become an instrument for local administrators to mantain control, predict and lead to an acceptable level through the direct involvement of citizens, fear of crime.

La sicurezza rappresenta un vero problema sociale con il quale l’opinione pubblica, gli amministratori locali ma anche i sociologi ed i criminologi sono chiamati a confrontarsi. Il diffuso sentimento di insicurezza che pervade il contesto sociale rappresenta per alcuni autori un problema più grave del crimine stesso

2

. Per contrastare i fenomeni criminali ed il sentimento di insicurezza dei cittadini sono continuamente studiate ed attuate azioni di prevenzione. Tali azioni possono sia incidere sulla riduzione dei tassi di criminalità, sia essere dirette soltanto a ridurre la percezione soggettiva di insicurezza, anche se in alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, sono ritenute azioni di

1 Pasquale Peluso, avvocato e criminologo è dottorando di ricerca in Criminologia, devianza e mutamento sociale, presso l'Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa” e si occupa di criminalità organizzata e sicurezza urbana. Collabora con la Cattedra di Criminologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. Partecipa alle attività di ricerca svolte dalla cattedra tra cui “Questa è Scampia” avviata nel 2006 e “Arruolamento alla legalità” iniziata nel 2009. email: pacopeluso@gmail.com

2 Clemente e Kleiman (1976).

(35)

prevenzione soltanto quelle che influiscono sulla riduzione degli eventi criminosi. L’insieme delle azioni di prevenzione inserite in un contesto politico ed istituzionale ed attuate in modo coordinato e continuativo determinano le c.d. politiche di sicurezza.

L’affermarsi di sistemi basati su modelli preventivi ha cambiato il ruolo delle forze dell’ordine che sono state costrette ad elaborare nuovi modelli di controllo sociale rivoluzionando le proprie strutture organizzative e le modalità operative, superando l’idea che la delinquenza può essere combattuta soltanto con la tutela dell’ordine. Se il modello tradizionale forniva alla polizia come obiettivi primari il far rispettare la legge, lo svolgere le indagini ed il catturare i criminali, il modello del community policing pone la polizia in condizione di prestare maggiormente attenzione non solo ai problemi della comunità locale ma, anche, di stimolare la cooperazione dei cittadini e, quindi, in definitiva di ottenere dalla collettività una nuova legittimazione all’azione di controllo.

Già nel 1999 negli USA quasi i due terzi delle agenzie di polizia delle contee (66%) e delle municipalità (62%) che disponevano di un organico di 100 o più poliziotti avevano formalmente sottoscritto piani di community policing, lo stesso era stato fatto dalla metà dei dipartimenti degli sceriffi e da quasi tutti i dipartimenti di polizia delle più grandi contee (97%) e delle città (95%)

3

.

È difficile ricercare una definizione univoca del community policing. Una estesa parte della letteratura definisce il community oriented policing come una filosofia di polizia

4

. Da un punto di vista sociologico, la community può essere definita come un gruppo di persone che condivide tre cose: il vivere in una determinata e distinta area geografica; le medesime caratteristiche culturali, le attitudini e gli stili di vita; l’interazione reciproca

5

. È stato sostenuto che il community policing fornisce alla comunità il potere di regolare se stessa, scrollandosi di dosso la paura della criminalità attraverso partnerships con la polizia e ripristinando le norme della comunità che regolano i comportamenti degli individui che ne fanno parte evitando, così, nuovi comportamenti criminali

6

.

3 Reaves e Hart (2000).

4 Fielding (2005).

5 Farley (1994).

6 Buerger (1994).

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Una volta che i cittadini e la polizia iniziano a lavorare insieme devono, prima di tutto, definire ed individuare i problemi della comunità, poi sviluppare soluzioni di cooperazione, successivamente progettare programmi che possano essere implementati dalla polizia e dalla comunità ed, infine, implementare quanto elaborato a livello teorico

7

. Il Community oriented policing (COP) è costituito da: Strategic oriented policing (SOP), Neighborhood oriented policing (NOP), Problem oriented policing (POP). Con lo Strategic oriented policing (SOP) la polizia utilizza le pratiche e gli strumenti tradizionali per ridistribuire le proprie risorse per identificare i problemi al fine di eliminare la componente criminale e le cause che generano il disordine sociale. Più recentemente, è stato anche definito come “order maintenance policing” o “broken windows policing” o ancora “zero-tolerance policing”. Alcune di queste definizioni hanno per qualche studioso

8

un connotato negativo Il Neighborhood oriented policing (NOP) comprende tutti i programmi che aiutano la comunicazione tra la polizia e la comunità per promuovere un vero senso di comunità e mira a favorire l’interazione della polizia con tutti i membri della comunità per ridurre la criminalità e la paura del crimine attraverso l’implementazione di programmi proattivi

9

. Cambiare la mentalità della polizia e dei cittadini e portarli insieme ad affrontare questi problemi, far partecipare tutti i residenti e non soltanto una parte di essi, è la chiave del successo dei programmi di Neighborhood oriented policing. Spesso, in letteratura, il Neighborhood oriented policing viene indicato come l’essenza del community policing

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. II Problem oriented policing è diretto alla risoluzione dei problemi attraverso gli sforzi concertati sia dalla polizia che della comunità per determinare le cause della criminalità e del disordine sociale nella comunità e creare delle soluzioni ai problemi adottando i programmi maggiormente praticabili. Se il problema non è risolto, attraverso l’attuazione di una prima azione viene studiata una soluzione alternativa da attuare. Lo scopo del problem-oriented policing è di far lavorare insieme polizia e comunità per risolvere problemi che non possono essere risolti con il tradizionale lavoro della polizia o che hanno bisogno di speciale attenzione o di una soluzione specifica

11

. Le tre componenti formano

7 Roberg (1994).

8 Eck e Maguire (2000).

9 Reisig e Parks (2004).

10 Skogan (1994).

11 Bichler e Gaines (2005).

Riferimenti

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