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La memoria tra necessità politica, obbligo giuridico e fondamento morale. Pensieri sparsi

di Adriano Prosperi

Devo prima di tutto salutare le autorità e le cittadine e cittadini presenti e ringraziare la Fondazione “Memoria della Deportazione” per questo invito. Anche se non sono sentimenti di gratitudine quelli che mi hanno visitato dopo aver ricevuto il primo messaggio del Procuratore Edmondo Bruti Liberati. Tanti sono stati e sono tuttora i dubbiosi pensieri che mi hanno affollato la mente: che significa e come si risponde alla domanda che figura nel programma di questo incontro? E cosa può dire uno studioso e professore di storia a questo proposito che interessi a voi? Viviamo da tempo immersi in una ideologia dominante che assegna alla storia uno spazio vicino allo zero nella formazione dei giovani e nella vita sociale. Il che svuota di contenuto e rende un vacuo rituale i cosiddetti giorni della memoria: un appuntamento al quale non mi sono mai prestato senza resistenze, sfruttando invece ogni occasione che mi si offre di parlare e insegnare, nelle scuole.

Ritengo il giorno della memoria nella migliore delle ipotesi una buona intenzione, nella peggiore un'ipocrisia, l'omaggio che il vizio rende alla virtù, il rito di un giorno di ricordo per vivere smemorati gli altri trecentosessantaquattro. Questo è il vero problema, ciò che minaccia davvero un futuro senza più conoscenza critica, senza più alcuna possibilità di sfuggire a quel modello di vita a una sola dimensione che ci propone la cultura dominante. E qui da tempo studiosi di sociologia e di antropologia hanno individuato l'incrinatura profonda della cultura occidentale. Non sono solo gli americani a dimenticare quello che è successo due settimane fa, come ha detto di recente il presidente Obama. Anche gli italiani stanno correndo in quella direzione da tempo. E tra le infinite polemiche sulla condizione degli insegnanti e sulla "buona scuola" nessuno ha trovato niente da dire sull'abbandono della dimensione storica del sapere. Questo è l'ostacolo principale, gravissimo, quando ci si domanda come dare un futuro alla memoria.

La memoria è una realtà vivente, non è una pura conoscenza storica. Ma senza coscienza della dimensione storica della nostra vita, senza quella continuità e progettualità del lavoro e del diritto al lavoro che dà dimensione a passato e futuro, senza trasmissione delle memorie, la società prepara ai nostri figli e nipoti un futuro di automi obbedienti.

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Partiamo da una constatazione: oggi dopo la Shoah è in quell’evento - cioè in quello che è stato definito il male assoluto - che si riconosce un punto di riferimento obbligato per i nostri popoli. La memoria del male estremo ha la funzione di evento guida. E’ per quello che è accaduto nella potenza culturalmente e tecnologicamente egemone dell’Europa - la Germania - nel decennio poco più del terzo Reich e negli anni della

“soluzione finale” che si è messo in moto il meccanismo dell’unione europea. Ed è dunque necessario che di quel male supremo si conservi memoria. Lo si deve all’immenso vuoto aperto da milioni di vittime e più ancora alla rivelazione che il vertice dell’evoluzione del mondo occidentale europeo non è stato altro che il fondo estremo dell’abisso oltre i quale c’è solo la fine. Ma c’è un problema: che cosa ci garantisce che la memoria della Shoah conservi nel tempo il carattere fondante, il punto di riferimento obbligato che essa ha oggi per noi, a tal punto che c’è voluta una legge per garantirne la verità e imporne il rispetto? Perché questo è il punto: se nelle epoche precedenti la convivenza politica e sociale ha trovato fondamento e garanzia in determinate memorie gloriose o documenti solenni, ora noi siamo per sempre orfani dell’orgogliosa sicurezza hegeliana che la storia universale abbia in sé la sua legittimazione. Se la storia universale è il tribunale del mondo, quel tribunale ha aperto le porte dell’inferno in terra.

D'altra parte, la scomparsa di Gianfranco Maris nel cui nome qui ci incontriamo, pone in maniera immediatamente evidente l’urgenza della domanda nel titolo di questo convegno: come si può dare un futuro alla memoria dopo la tendenziale scomparsa dei portatori e testimoni della memoria stessa, coloro che hanno lottato per mantenerne viva la presenza nelle menti e nei cuori ? Si passa ad altre generazioni. E intanto si affaccia quella di chi , come colui che vi parla, visse sì quegli anni e ne ha memoria ma dovette cercar di capire poi per lettura e per bocca d’altri quello che allora accadeva.

Siamo noi i mediatori con chi intanto e in futuro la sua conoscenza se la dovrà creare per via di ricerca sulle fonti documentarie e sulla memorialistica depositata in scritture o registrazioni. Ma già qui si vede come il discorso si allarghi all’inestricabile legame tra memoria e storia: che è anche un campo di contrasti . Il conflitto è quello antico e sempre nuovo tra la storia come conoscenza accertata del passato e memoria come funzione psichica, dunque viva e palpitante ma nello stesso tempo finestra mentale aperta all’errore e alla falsificazione.

Sull’una e sull’altra agiscono potenti influenze esterne. La memoria individuale si sviluppa all’interno di quadri sociali, come sappiamo da quando fu proprio un grande studioso ebreo francese, Maurice Halbwachs, il sociologo e storico morto il 16 marzo 1945 a Buchenwald ad aprire questo campo mostrando come esista qualcosa di collettivo aperto all'azione di poteri e forze esterne, che possono cancellare e riconfigurare il patrimonio di ricordi e di immagini. Ed è questo aspetto che va tenuto presente soprattutto da chi, in tarda età, crede talvolta di ricordare scene autenticamente vissute che poi si rivelano frutto di rielaborazioni successive: chi vi parla ne ha fatto esperienza confrontando quache anno fa i racconti dei sopravvissuti a una strage nazista da cui fu sfiorato con le loro deposizioni rilasciate nel 1944 agli inquirenti dell'esercito alleato.

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Alla memoria, collettiva o individuale, rimane qualcosa di quella natura che Platone nel Filebo immaginò come di una tavoletta cerata su cui il tempo scrive i suoi messaggi. E c'è anche la memoria involontaria, il deposito profondo scoperto da Proust, quello da cui - per fare un esempio - nella mente di un figlio di ebrei morti a Auschwitz, cresciuto in un collegio di gesuiti che lo salvarono battezzandolo e cristianizzandolo, si risvegliasse “a poco a poco il ricordo”: un ricordo vivo, l'immagine del momento in cui i veri genitori lo avevano salutato per sempre affidandolo al collegio prima di sparire deportati per morire a Auschwitz. E da questo ricordo ritrovato l’adolescente che si credeva cristiano e voleva diventare gesuita riprese nome e identità e dedicò la vita allo studio storico della Shoah di cui doveva diventare un vero grande maestro: si chiamò - si chiama - Saul Friedländer.

Come mostra il suo caso, certo eccezionale ma significativo, la cancellazione della sua memoria di essere figlio di ebrei fu una forma di difesa decisa dai genitori davanti al pericolo estremo, per garantirgli la sopravvivenza. Ma quando poi la guerra volse verso la sconfitta delle potenze dell’Asse, furono i creatori dei lager che vennero presi dalla preoccupazione di cancellarne le tracce. E se anche non vi riuscirono ciò non ha impedito che dopo gli assassini materiali sorgessero quelli che Pierre Vidal-Naquet ha definito come “gli assassini della memoria”.

La memoria si nutre del rapporto col presente: e si riattiva oggi in un presente in cui, accanto agli assassini della memoria, sono tornati a colpire i nuovi assassini di ebrei. Li abbiamo visti in azione a Parigi. Eravamo abituati alle cupe fantasie razziste di poche menti turbate e di fascisti fanatici che hanno continuato ad armare qua e là singoli assassini. Un fenomeno residuale, credevamo. Oggi siamo costretti a guardare in faccia il pericolo più grande e riconoscervi il ritorno sotto altra veste di quello che siamo stati.

E dobbiamo preoccuparci di come poter esorcizzare il pericolo di tornare al volto demoniaco del passato. Con quello variamente definito - "terrorismo islamico",

"islamismo radicale" - siamo davanti al fenomeno di una ossessione antisemita che viene da lontano. E se per fortuna non dobbiamo fare confusione tra le fiammate terroristiche pur sempre minoritarie e la religione islamica praticata da vaste masse umane nel mondo , è pur vero che questo fenomeno è anche una maschera stravolta e deforme dell'antisemitismo radicato da secoli in una cultura rimasta estranea all'evoluzione dell'occidente europeo . Una cultura che oggi è tentata di cercare nella religione l'àncora identitaria a cui afferrarsi per dare un corpo alle sue paure e per cercare un riscatto dalle umiliazioni che sperimenta tra noi.

Questo non è solo un grande problema del mondo contemporaneo. E' anche uno specchio che si offre alla nostra cultura per riflettervi la propria storia. Forse non meditiamo abbastanza sulla lunga durata dell'odio per l'ebraismo come parte inscindibile del passato cristiano, come sua creazione. E' una vicenda che ci interroga, che ci pone davanti alla domanda di che cosa abbia stimolato l'odio millenario del cristiano per l'ebreo. Un fatto è certo: lungo i tanti secoli della civiltà cristiana occidentale la fede cristiana si è alimentata dell'odio questo sì veramente fraterno per l'ebreo "fratello maggiore": e quando si è costituita una Chiesa pronta a offrire la sua legittimazione al potere politico il virus della paura e dell'odio per il "perfido" ebreo si è fatto cultura, istituzione, barriera legale e di sangue. E c'è voluta la Shoah perché la

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Chiesa cattolica facesse un passo avanti decisivo denunziando e mettendo ai margini l'antigiudaismo nuovo e antico con cui aveva infettato per secoli le masse dei "fedeli" e che le aveva permesso la sua torbida alleanza col regime fascista. Dalla logica profonda del vincolo servo-padrone nacque anche l'estrema contraddizione: fu a lei che si rivolsero le vittime. Basta scorrere le cronache dell'ebraismo italiano per incontrare storie di come tante famiglie ebraiche cercarono di porre i loro figli sotto l'ala protettrice del battesimo. Una protezione fragile, che venne meno quando il razzismo fascista consumò fino in fondo l'unione col razzismo nazista: e fu allora che anche in Italia si scatenò la caccia all'ebreo. Ma solo gli occhi attenti di qualche osservatore isolato colsero allora il segnale di allarme di quei decreti dei borgomastri tedeschi che fin dal 1934 ordinarono di cancellare dagli atti pubblici la definizione di "cristiano" e di generalizzare una sola distinzione: non si parlasse più di medici, avvocati, o negozi cristiani distinti dai non cristiani. Doveva valere solo la distinzione e opposizione tra tedeschi ed ebrei. E la popolazione tedesca accettò e obbedì.

Ora, che cosa abbia predestinato l'ebraismo all'aggressione fanatica dell'intolleranza prima cristiana e islamica poi della nuova religione pagana di un sogno di potenza e di aggressione, resta ancora un problema da sciogliere. Quello che sappiamo di fatto è che il carattere dell'ebraismo storico è stato quello di una religione non espansiva né missionaria, non universalistica , aliena dal proselitismo - piuttosto un vincolo intimo di memoria e di fedeltà di un popolo senza stato. In questo è sfuggita alla sorte delle altre religioni monoteiste, al loro feroce bisogno di cancellare le rivali.

Di questa volontà di potere delle religioni o almeno dei popoli e dei poteri che ne hanno inalberato i simboli bisognerebbe qui almeno fare ricordo, perchè l'avanzata di un'altra cultura e di un'altra religione nel mondo europeo è uno dei fattori del futuro di cui si deve tener conto parlando di come sopravviverà - se sopravviverà - la memoria della Shoah. Ci sarebbe molto da dire sulla storia nostra, europea, come storia di conquista legittimata dalla religione e sul modo in cui lungo questa storia si sia manifestata la forma immateriale della conquista, quella della cancellazione delle memorie delle altre culture. Come e perché la religione abbia un ruolo decisivo nella cancellazione delle memorie e delle culture lo ha detto per la prima volta e in modo lapidario Niccolò Machiavelli: "la variazione delle sètte e delle lingue, insieme con l’accidente de’diluvii o della peste, spegne le memorie delle cose” (capitolo 5 del secondo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio). E’ una delle pagine più radicalmente antiumanistiche di Machiavelli. Quelle che Machiavelli chiamava sètte sono le religioni. E l’esempio che aveva in mente era proprio quello del cristianesimo :

“la sètta cristiana…ha cancellati tutti gli ordini , tutte le cerimonie di quella , e spenta ogni memoria di quella antica teologia”. Se non ne ha cancellato la memoria, dice Machiavelli, è perché è stata mantenuta la lingua latina. Ma per il resto ha fatto di tutto:”ardendo le opere de’poeti e degli istorici, ruinando le imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della antichità”. Del resto prima che la sètta cristiana perseguitasse la religione “gentile”, la stessa cosa aveva fatto la "sètta gentile"

contro quelle precedenti. Che cosa Machiavelli avesse in mente non possiamo dire di saperlo del tutto. Forse erano giunti alle sue orecchie, per esempio dalle prediche dei

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frati del tempo, notizie sull'opera dei frati che accompagnavano Hernàn Cortés in Messico. Ma è un fatto innegabile che oggi bisogna ripensare a quella storia.

Fenomeni planetari come la globalizzazione e le migrazioni di popoli ci stanno impegnando, noi storici, a una profonda revisione del nostro modo di concepire la storia europea, di raccontarla, di studiarla. Si parla di storia globale, di "world history".

E intanto si avanza la sensazione che il futuro ci stia allontanando vertiginosamente dal mondo che abbiamo conosciuto. E' specialmente per l'Europa che è giunto il tempo di una revisione sostanziale, in prospettiva di un totale capovolgimento del rapporto di dominio instaurato con tante culture altre nei secoli della storia che chiamiamo moderna. O forse no. Ma intanto il passato dell'espansione mondiale del dominio europeo qualcosa ci dice, utile per testare i pericoli che corre la nostra memoria. Mentre guardiamo impotenti alle distruzioni di Palmira, ripensiamo a come le potenze coloniali europee si dedicarono a estirpare le radici delle religioni indigene dei popoli dell'America latina e dell'Africa, di come si dedicarono a distruggere templi e memorie scritte per impiantarvi il cristianesimo latino. Possiamo consolarci e affrontare i pericoli del futuro pensando a come allora pur in condizioni di servaggio i popoli colonizzati conservarono lingue, culti e tradizioni ereditate, anche se di nascosto, per riappropriarsene quando la decolonizzazione ridette loro l'indipendenza.

Ma c'è anche da riflettere con maggiore ottimismo su come allora nello scambio sempre disuguale con le altre culture anche quella europea ne ricavò esiti sconvolgenti ma tonificanti, di crescita tumultuosa - un mondo più largo, altre umanità, una storia immensamente più lunga con cui pensare l'umanità rispetto a quella misurata dal piccolo numero di millenni che il Medioevo aveva contato a partire dalla creazione biblica dell'universo. E come non ricordare il punto per noi oggi più importante - l'obbligo di affrontare il problema della natura delle umanità nuove? Fu allora che davanti al selvaggio nudo del Nuovo Mondo si pose primamente la domanda che leggiamo nel titolo del libro di Primo Levi: è questo un uomo? Da allora questa è la domanda più grande e più importante che ci torna ancora davanti, una domanda che è forse quella a cui si dovrà se la memoria della Shoah si vedrà riconosciuto un punto fondamentale nella storia futura.

Di fatto, pensare oggi al futuro della nostra memoria - quella della Shoah e della tragedia europea e mondiale del '900 - vuol dire fare i conti con un confronto appena cominciato tra la nostra cultura e quelle dei popoli che nelle turbolenze terribili del presente stanno modificando il nostro mondo e gli preparano un futuro diverso. Ma qui torniamo alla domanda:come garantire che la memoria della Shoah abbia un futuro?

Guardiamo allo stato delle cose. Intanto è noto che non il dovere di ricordare ma piuttosto la volontà di dimenticare ha dominato le nostre società. La stessa dimensione scolastica dell'insegnamento della storia e la cura che i regimi politici hanno dedicato alla stesura dei programmi scolastici di storia confermano che la storia ufficiale è una macchina per dimenticare, quando non è più cinicamente una macchina per ingannare i popoli. Di recente si è creduto di aver rimediato all'incombente smemoratezza e alla deliberata cancellazione con obblighi di legge a ricordare e a farlo ritualmente almeno

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un giorno all’anno; e si è fatto un passo ulteriore in quella direzione con la legge che punisce la negazione del genocidio. E tuttavia sappiamo tutti che si tratta di misure tanto in apparenza bene intenzionate quanto capaci solo di coprire la realtà del vuoto sostanziale di impegno nella conoscenza e nell’azione per eliminare le cause e impedire che ciò che è accaduto ritorni. Che possano tornare lo avvertì Primo Levi, con parole da ricordare oggi perché fissano una delle poche leggi bronzee della storia della specie umana: E’ accaduto, può accadere di nuovo.

Abbiamo una legge sul giorno della memoria, abbiamo le tante invenzioni per rendere avvertiti tutti di ciò che è stato. Basteranno le “Stolpersteine” – le pietre d’inciampo tedesche - il binario speciale della stazione di Milano, o le leggi sul reato di negazionismo? Sappiamo bene che non è una legge che può garantire la durata di una cosa così complessa e mutevole come la memoria collettiva. Lo prova quel che è accaduto quando la norma di legge, tentando di fissare in una formula precisa ciò che deve essere difeso dalla negazione, si è servita di una parola nuova, nata solo nel 1944 dalla penna di un giurista armeno, Rafel Lemkin: genocidio. E la forma del reato si è fatta inevitabilmente astratta e generalizzante, tendendo a coprire altri momenti e altri episodi di una storia umana non certo avara di cancellazioni violente di gruppi umani. E l’inesorabile capacità di astrazione modellizzante della norma di legge si è associata all’ altra astrazione , quella pedagogica che ha affidato alla memoria della Shoah una funzione educativa: e così riappare il fantasma della “historia magistra vitae” e la memoria rischia di diventare semplice imparaticcio scolastico, carico di noia, esposto alla dissacrazione e all’iconoclastia di ribellioni giovanili.

Ma che cos'è questa memoria, cos'è questa storia che vorremmo specialmente tutelate?

Sembra, a pensarla astrattamente, un carico pesante di lutti e di tragedie, di verità faticosamente restaurate lottando contro una diabolica volontà di occultamento e di cancellazione: un'eredità pesante e complessa, frutto di una esplorazione storica che ha scavato in profondità nelle coscienze come nelle istituzioni. Metterei l'una a fianco dell'altra due facce, una di memoria e l'altra di storia. Accanto all'emozionante racconto dell'affiorare a poco a poco della memoria profonda sperimentato da Saul Friedländer, c'è l' emergere della conoscenza storica: qui l'accertamento del vero è stata anche la missione di chi ha visto come testimone durante la guerra gli orrori dei lager e ha deciso di opporre la pazienza della ricerca alla volontà di cancellazione.

Senza l’indagine accurata di Raul Hilberg, ex combattente della seconda guerra mondiale, non avremmo l’opera di riferimento sulla Shoah che oggi possiamo leggere.

Nella sua opera Hilberg seguì un principio fondamentale: si mosse sul terreno del

“come”, perchè escluse di poter rispondere alla domanda del "perché". Escluse cioè che si potesse "comprendere", col rischio connesso del "perdonare" ("Tout comprendre c'est tout pardonner"). Cominciò da un documento apparentemente insignificante, un biglietto collettivo stampato dalle ferrovie del Reich, la Deutsche Reichsbahn: era un biglietto di sola andata per un carico umano avviato al campo di sterminio. L’apparato delle ferrovie del Terzo Reich “sapeva” che a quei viaggi non c’era ritorno. Basta alla scienza storica un biglietto feroviario per lacerare quel velo dell'ignoranza, quel fingersi smemorati e ignari con cui un intero popolo cercò di sottrarsi alla sua responsabilità collettiva.

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Su questa strada si è proceduto innanzi. Oggi non solo abbiamo una salda e sicura conoscenza dei fatti, delle istituzioni, delle persone e delle idee, non solo sono stati messi al sicuro i luoghi e l'assetto materiale dei lager. C'è un'archeologia della Shoah, ci sono le tante orrende Pompei del mondo contemporaneo, che differiscono da quella antica solo per l'assenza dei corpi materializzati dal fango dell'eruzione del Vesuvio.

Quelli della Shoah , dematerializzati, aleggiano in luoghi per sempre sacri nell'antico significato della parola - luoghi sacri e maledetti, esecrati e incancellabili.

Ma c'è una dimensione speciale di questa conoscenza per via di memoria e di storia che la rende inesauribile fonte di esplorazione. In questo bisogna riconoscere una grande intuizione di Primo Levi che ha segnato la strada a tutti. Nella prefazione a “Se questo è un uomo” Primo Levi scrisse di voler fornire documenti “per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. Quella prefazione è un documento straordinario. Ci dovremo tornare alla fine di queste considerazioni.

Su questa strada si è mosso di recente nella sua ricerca lo storico Robert Browning.

Quelli di cui ha ricostruito le imprese erano dei vigili di Amburgo a cui fu demandato il compito di eliminare col minimo dispendio di mezzi gli ebrei dell’Europa orientale.

Erano “uomini comuni” e divennero macellai capaci di uccidere vecchi, donne e bambini solo perché ebrei. Lo scelsero loro. Fu data loro facoltà di svolgere altri compiti: e invece non solo accettarono ma rivelarono una straordinaria fantasia creativa nell’inventare maniere di uccidere, per esempio risparmiando con teutonica taccagneria sul numero dei colpi di arma da fuoco col mettere in fila le teste da attraversare con una sola pallottola. E alla fine se ne tornarono alle loro case e rientrarono senza sforzo nella vita quotidiana come se fossero semplicemente stati inviati in una normale missione di lavoro. Intorno a loro, pronti a riaccoglierli al loro ritorno, c’era una popolazione tedesca che forniva mano d'opera e mezzi per far funzionare gli apparati dello sterminio.

Un "uomo comune" era anche il tenente colonnello Helmuth Groscurth, impegnato nell’eccidio di Bjelaja Zerkov nei pressi di Kiev dell’agosto 1941. La strage ebbe una coda con l’eliminazione di novanta bambini, prima abbandonati in un edificio senza cibo né acqua poi (22 agosto) sterminati. Non ci furono in materia speciali resistenze in chi li uccise, né nei quattro cappellani cattolici e protestanti che furono chiamati a consolarli religiosamente né tra le molte migliaia di soldati che parteciparono all’azione o ne furono spettatori.

L’uccisione dei piccoli fu considerata dallo stesso Groscurth una “necessità”

conseguente all’eliminazione di tutta la popolazione ebraica adulta della città. Il comandante del plotone di esecuzione che eliminò i novanta bambini, Häfner, raccontò che “Le grida (delle vittime) erano indescrivibili…In particolare – aggiunse – mi è rimasta impressa nella memoria una bimbetta bionda che mi prese la mano. Poi hanno fucilato anche lei”1. L’analisi delle fonti storiche relative all’episodio dell’eccidio ma anche alla circolazione delle notizie sui campi di sterminio – per esempio i carteggi dei soldati al fronte con le famiglie o le deposizioni di alcuni responsabili 2- permette 1 Saul Friedländer “Massacri e società tedesca” (in Storia della Shoah, a cura di Marina

Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Lewis Sullam, Enzo Traverso, vol. II, Utet 2006, pp.15-33).

2 “Bei tempi”, trad. Giuntina 1990.

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allo storico di concludere che la società tedesca sapeva e condivideva l’operato delle sue truppe. Perfino la piccola minoranza di studenti cattolici dissidenti , il gruppo della Rosa Bianca di Monaco , considerava gli ebrei come un’umanità a parte, che forse

“meritava il suo destino”3.

Se ne deduce che le figure dei due dittatori e quelle dei loro immediati satelliti non erano soli e non erano nati dal nulla , come tende a far credere l’impoverimento della memoria che fa giganteggiare nelle fantasie malate di minoranze nazifasciste i profili di pochi capi . Non erano soli, intanto. Bisognerebbe rileggere e meditare attentamente le parole di un importante documento: il memoriale consegnato alla Società delle Nazioni da James McDonald, nel 1936. Un documento prezioso, circolante su Internet ma di rado letto e citato ancor oggi. Fu allegato alla sua lettera di dimissioni dall’ufficio di alto commissario per i profughi ebrei e altro nella Germania del Terzo Reich. E’

un’analisi delle misure prese in Germania contro i “non Ariani” dove di pagina in pagina ci troviamo davanti a una folla di voci del mondo tedesco, a misure prese localmente dalle autorità cittadine e alle espressioni di convinzioni diffuse che ci squadernano un panorama impressionante di una popolazione che pensa abitualmente in senso antisemita. E' a questa mentalità diffusa e condivisa che corrispose la realtà dei campi di concentramento e delle condizioni generali degli ebrei , sia in Germania che sulla via dell'esilio. L'appello di McDonald rivolto alla Società delle Nazioni fu quello di agire al più presto per arrestare la deriva tragica che già si intravedeva. Non venne ascoltato. Ma l'atto di accusa riguardava non le sole gerarchie del partito nazista e dello stato, bensì l'intera popolazione tedesca. D'altra parte, la rituale esecrazione della "barbarie tedesca" che risuona nei nostri monumenti sui luoghi di memoria, ha abituato noi italiani a dimenticare la nostra parte di responsabilità: e invece siamo chiamati a riflettere più seriamente di quanto si sia fatto finora su quello che accadeva nelle piazze dell'Italia del '36, osannante al discorso di Mussolini sul ritorno dell'Impero sui colli fatali di Roma. Che cosa avvenne di questo popolo tedesco tutto pervaso dalla convinzione che ci fosse un’umanità senza diritti, non degna di vivere? E’

simile la domanda che si può rivolgere al popolo italiano, quello di quegli stessi anni Trenta che gli storici hanno dovuto riconoscere come portato maggioritariamente al consenso, anzi all’entusiastico consenso alle follie omicide e megalomani del regime fascista? Perché la barbarie, alla quale oggi prestiamo il volto di aggressori esterni considerati come primitivi e intolleranti a fronte della civile Europa, ha avuto nella storia europea pochi decenni fa quello di due popoli civilissimi: una Germania , sicuramente la nazione più colta e avanzata scientificamente dell’intero continente, e la nostra Italia con le sue non piccole ambizioni e le sue pur notevoli realtà. Né in Germania né in Italia i regimi nazifascisti furono quella calata degli Icsos che i vecchi liberali immaginarono.

La lotta per liberarsi da quei regimi costò un immane sacrificio al resto del mondo. Ma la rigenerazione dei popoli che doveva seguirne lasciò a desiderare. E se noi italiani abbiamo avuto grazie alla rivolta di uomini come Gianfranco Maris l'avvio di un 3 Friedländer, Massacri cit., p.25 (cita da un volantino del 1942 di Inge Scholl, dove per sollecitare l'opinione cattolica tedesca davanti allo sterminio dell'elite polacca si parte dal supposto punto di vista collettivo che era indifferente davanti al massacro degli ebrei).

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riscatto morale che ci ha dato la memoria e l'orgoglio della Resistenza e il suo frutto più bello, la Costituzione repubblicana, questo non ci fu nemmeno embrionalmente in Germania. Ma l’esempio e l’opera di quei pochi che nella solitudine del carcere o del confino e in mezzo al rischio mortale di una lotta tanto generosa quanto impari, se hanno dotato tutti noi di un’etichetta più nobile di quella che meritavamo come popolo, non hanno cancellato la necessità profonda di un esame del passato diverso da quello superficiale, evasivo, furbesco che ha steso un velo roseo sulle rappresentazioni correnti del passato italiano. C'è una domanda che nella Germania post-hitleriana un personaggio esemplare a suo modo delle radici profonde della malattia tedesca come Franz-Joseph Strauss ebbe l’impudenza di rivolgere a Willi Brandt (esule in Norvegia durante il nazismo) – “Che cosa faceva Lei in quei dodici anni fuori della Germania?

Noi sappiamo che cosa facevamo qui in Germania” . Questa domanda le donne e gli uomini della Resistenza e le masse dell'antifascismo italiano la avrebbero dovuta rivolgere a tanti personaggi italiani, passati dai vertici del regime fascista a quelli degli apparati polizieschi, militari e politici della Repubblica nata dalla Resistenza, a tanti professori di regime (a partire dai firmatari del Manifesto della razza), a tutti coloro che avevano occupato beni e cattedre degli esuli e delle vittime., senza escludere tutti quei fascisti di Salò che guidarono, collaborarono e talvolta condussero in proprio le nefandezze e le stragi naziste. Di fatto anche in Italia la malattia non fu curata: questo è il minimo che si possa dire.

Oggi qualcosa sta accadendo che ci ricorda quello che è accaduto. L’Europa davanti all’emergenza di milioni di migranti sembra entrata in crisi, regredita, immemore delle ragioni profonde della sua nascita, immemore del Nobel per la pace che ha tentato di premiare l’auspicata svolta storica di quella che fu la madre di tutte le guerre. E' avvenuta la negazione di Schengen, è entrata in crisi quella cancellazione dei confini interni che aveva abolito l'armatura di ferro degli stati nazionali e coperto di sbarramenti e di fili spinati il breve spazio continentale. Tornano pratiche che pensavamo per sempre sepolte nel passato più orribile: nuovi lager per migranti, pratiche di schedatura a forza coi numeri scritti sui corpi di bambini, e la recente norma di spoliazione legale dei profughi che da una incredibile Danimarca si è diffusa e sta conquistando gli altri paesi europei. Eppure questa è anche l'occasione forse estrema perchè questo nostro continente entri sia pur scalciando e urlando in una nuova storia. E'stato davanti allo spettro di un passato che torna che la cancelliera della Germania, l'unico capo di governo europeo che abbia avvertito il bisogno di colmare il vuoto desolato di veri statisti , ha tentato l’uscita disperata e risolutiva di imporre il dovere dell’accoglienza come uscita collettiva per il suo paese dall’incubo e dal peso del “male assoluto”. E così il lager di Buchenwald o l'immenso aeroporto hitleriano di Tempelhof aperti per ospitarvi migliaia di profughi hanno conosciuto una specie di riconsacrazione. Un tentativo disperato. Stiamo assistendo agli esiti non incoraggianti del tentativo. E intanto, mentre nel “mare nostrum” annegano donne, vecchi e bambini in cerca di sicurezza, il governo del nostro paese si fa prendere da scrupoli strani davanti alla cancellazione del reato di clandestinità.

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Nel confuso scenario del presente, si tratta di riuscire a leggere non solo permanenze del passato ma anche segni del futuro. E bisogna risolvere il problema del conflitto tra la memoria e la storia, tra il peso del passato e l'apertura confidente al futuro. Quel conflitto fu descritto e drammatizzato da Fiedrich Nietzsche nella quarta delle sue Considerazioni inattuali, quella “sull’utilità e il danno della storia per la vita”.

Nietzsche propose allora un elogio della smemoratezza: e accusò l’ipetrofia della memoria di essere la causa che paralizza l’agire storico. “Immaginate – scrisse - l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare: Un uomo simile …quasi non oserebbe più alzare il dito. Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce ma anche oscurità”. A questa proposta nietzschiana è stato risposto da Walter Benjamin, nelle sue tesi di filosofia della storia, scritte proprio negli anni della denuncia del delegato della Società delle Nazioni.L'immagine che Benjamin ebbe della storia è ancora attuale: quella dell'angelo di Paul Klee, che ha nelle ali la spinta del vento inarrestabile del futuro ma mentre procede in avanti tiene la testa rivolta verso il passato. Un passato oppresso, un passato da redimere: l'ingiustizia di cui hanno sofferto le vittime e da cui bisogna ripartire se si vuole avere un futuro. Le parole di Benjamin sono profetiche: "Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è posseduto solo da quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E il nemico no ha mai cessato di vincere".

Il nemico non ha mai finito di vincere. Gli antisemiti uccidono ancor oggi. E intanto le notizie dei recenti e abituali dinieghi opposti da parte tedesca all'estradizione di criminali di guerra colpevoli di aver fatto morire orrendamente bambini e madri nelle stragi di SantAnna di Stazzema e del Padule di Fucecchio4 sono solo l’ennesima prova delle radici profonde di un’omertà diffusa, di una volontà di cancellare la memoria come un peso intollerabile per il nazionalistico orgoglio della potenza egemone dell'economia e della politica europea, ma anche in generale per il quieto vivere delle nostre società.

Ma intanto la necessità politica della memoria ci impone di muoverci verso quello

“studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”, di cui parlava Primo Levi. Che è qualcosa di più ampio e di più preciso di quello che Saul Friedländer definì “un giusto equilibrio tra i due approcci”, quello della descrizione della dimensione politica e criminale del Terzo Reich e quella delle dinamiche sociali complessive. Primo Levi scrive non per aggiungere particolari atroci a quelli già allora noti, non per formulare nuovi capi d’accusa. No, il suo scopo è assai diverso. Rileggiamo le sue parole, forse ce ne siamo dimenticati:

“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta 4 Per Sant'Anna mi riferisco al rifiuto della Procura di Amburgo di far processare Gerhard

Sommer (colpevole di aver bruciato vivi bambini e madri a Sant'Anna; v. Sant'Anna di Stazzema rivista on line diretta da Marco Piccolino, n.1, genn. 2016). Nel secondo caso si tratta all'analogo rifiuto opposto nel caso di Johann Robert Riss, sergente allora della 26esima divisione corazzata della Wehrmacht, individuato e segnalato dal centro Wiesenthal di Gerusalemme.

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all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza:finché la concezione sussite, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”.

Queste parole scritte or sono quasi settant’anni dovrebbero venir scolpite nei luoghi più visibili delle nostre città, entrare a far parte dell’educazione civile nelle scuole, diventare l’equivalente italiano delle “pietre d’inciampo” ("Stolpersteine") tedesche. E’

solo movendo da una piena comprensione del significato di questo avvertimento che riusciamo a comprendere e a vedere i segnali di quello stesso pericolo che si addensano sul nostro presente. Solo così possiamo credere davvero nella necessità e nell'urgenza di garantire un futuro alla memoria nell'interesse della sopravvivenza della stessa specie umana e di una società in cui valga la pena vivere - necessità primaria e urgente di un rinnovato e adeguato riconoscimento dei diritti umani , di ogni essere umano, migrante o clandestino che sia.

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