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La logica del giudice e la sua scomparsa in Cassazione - Judicium

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Academic year: 2022

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LA LOGICA DEL GIUDICE E LA SUA SCOMPARSA IN CASSAZIONE

Che la motivazione della sentenza sia buona, apparente, corretta, illogica, incongrua, plausibile o folle non deve più interessare la nostra Corte Suprema che viene così chiamata a fare “nomofilachia” sulla sabbia. Con un colpo di penna è stato sostanzialmente cancellato il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Addio al controllo, ché controllo non è l’ombra pallida del giudizio latamente revocatorio che lo spensierato legislatore del 2012 ha lasciato in vita, tanto per non ridurre a quattro i numeri dell’articolo.

Una bella regressione: funzione “nomofilattica” ora significa in ære ædificare e l’abbreviazione “C. S.” praticata dal giuridichese potrebbe divenire “Corte del Sillogismo”, recte del controllo della premessa maggiore (violazione di legge).

Per consolidata tradizione, la Corte infatti ammette il controllo della premessa minore (fattispecie concreta) solo quando si possa operare un controllo diretto della c.d. falsa applicazione, riconducibile immediatamente al n. 3 dell’art. 360. Il che avviene però solo quando la ricostruzione fattuale non lascia margini per una pluralità di opzioni, vale a dire quando il fatto considerato si presenta come la riduzione in scala della species facti contemplata dalla legge, cioè corrisponde ad essa come un oggetto alla sua figura geometrica di riferimento.

Sappiamo che questo non accade tutte le volte che la ricostruzione fattuale lascia la possibilità che ricostruzioni alternative possano venir legittimamente ricondotte alla fattispecie astratta. Non accade nell’illimitata casistica in cui il c.d.

“giudizio” contiene elementi lato sensu valutativi. Talvolta è sufficiente un aggettivo: la condizione è la condizione ma, poiché il regime del codice sembra presupporne la natura bilaterale, la semplice comparsa dell’aggettivo “unilaterale”

crea seri problemi giuridici per la sorte del contratto in caso di mancato avveramento (o di avvera mento, se la condizione è risolutiva). Ma se la condizione apposta dalle parti al contratto sia bilaterale o unilaterale, la Corte lo ha faticosamente e fruttuosamente ricostruito con il mezzo del controllo indiretto fornitole dal famigerato n. 5): è attraverso questo prudente tipo di controllo che la Corte ha congegnato i caratteri della condizione unilaterale che oggi troviamo rispecchiati nelle massime di decenni. Così, parimenti, se il mandato è in rem

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propriam, se la prestazione è divenuta impossibile in parte, se le cose cessano di servire all’uso a cui sono destinate se divise ecc. ecc. Come può vedersi, lo spostamento dal controllo diretto al controllo indiretto non riguarda solo i veri e propri concetti indeterminati (categoria a cui qualcuno si attarda a ridurre i giudizi del n. 5). Riguarda invece i tanti giudizi di diritto che in vario modo colorano le vicende giuridiche ma non sono riducibili alla direttive per principi che caratterizzano il concetto indeterminato: si tratta piuttosto di concetti “a fattispecie ampia”, in cui il giudizio è seriamente condizionato dalle oscillazioni del fatto, e dalla sua valenza nel contesto di interessi in cui esso si muove, sicché il giudice di legittimità tocca con mano il rischio di anteporre la regola al fatto e di usare il nomen come una camicia di forza. Di qui il tradizionale self-restraint per cui il controllo deve pudicamente limitarsi al riscontro della coerenza logica e semantica della rappresentazione che il giudice del merito ha fatto della vicenda e del suo senso giuridico.

Un discorso analogo vale per l’armamentario concettuale del diritto processuale: se lo scopo dell’atto sia stato raggiunto (ovvero non sia raggiungibile per inidoneità della forma dell’atto), se la causa sia comune, se la separazione delle cause ritardi o renda più gravoso il processo, se il rifiuto a consentire l’ispezione sia ingiustificato, se sia giustificato il rifiuto di rispondere all’interrogatorio formale, la causa è matura per la decisione ecc. ecc. Diritto processuale che non di rado s’asside su giudizi estratti dal mondo del diritto sostanziale: per es., se l’immobile costituisca una unità culturale o se il frazionamento ne potrebbe impedire la razionale coltivazione (art. 577 c.p.c.). Dal momento che il giudizio è sì di diritto, ma è fortemente condizionato dalle circostanze concrete, la Corte ammette che il suo controllo deve restringersi necessariamente alla verifica della congruità e plausibilità della rappresentazione fattane dal giudice di merito: è un giudizio in negativo mille volte riflesso dalla massima che la Corte non cassa perché il giudizio alternativo proposto si rivela migliore di quello prescelto dal giudice di merito, ma cassa perché quest’ultimo non starebbe in piedi da solo (e poco importa che si tratti di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione).

Ma questo è ancora niente quando si pensa che la cancellazione del controllo della motivazione porta inevitabilmente con sé l’incontrollabilità delle

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presunzioni operate dal giudice di merito. A che serve imporre che esse siano

“gravi precise e concordanti”, se poi il giudice può impunemente presumere quel che gli pare? X è legato dal rapporto α ad Y e di questo rapporto è provata la natura fraudolenta; Z è a sua volta parte del rapporto β con Y e, poiché quest’ultimo soggetto è un poco di buono, anche il rapporto β partecipa della frode. Chi ritiene che questo ragionamento non funzioni perché la massima d’esperienza sottostante è bizzarra, dica anche con quale mezzo può censurarlo la parte che lo subisce.

Stando così le cose, occorre riconoscere che la disinvolta eliminazione dell’ampio controllo del n. 5) non elimina solo il controllo sulla rappresentazione/ricostruzione dei fatti storici (come racconta la vulgata), ma taglia alla radice la possibilità di verifica di quella miriade di giudizi la cui rappresentazione nella sentenza forma la base della piramide sulla quale si assidono ricognizione ed interpretazione della norma. Questo è però il colmo per una Corte che orgogliosamente rivendica il suo ruolo di guida dell’ordinamento giuridico, perché la autorizza a mettere il carro davanti ai buoi, cioè ad impegnarsi in una sorta di legiferazione di secondo grado sganciata dalla sua base e dalla sua ragion d’essere, cioè dall’esperienza che ha generato il quesito giuridico concretamente risolto nella sentenza impugnata.

Franco Cordero vede nella guerra alla distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto la prova della confusione mentale di chi vi si impegna. Ha ragione in principio, ma temo che il rischio concreto sia ora l’abusivo scivolamento di tutta la congerie di giudizi di diritto di cui parliamo nella categoria del “giudizio di fatto”, qualcosa che Roma non curat. Che liberazione per la Corte che non dovrà più occuparsi della maggioranza dei motivi di ricorso!

Si dirà che a questo esito si oppone la natura di “giudizio di valore (giuridico)”

delle nostre valutazioni e che l’abrogazione del controllo indiretto li dovrebbe sospingere nell’area del controllo diretto in chiave di fausse application. In tal modo l’erroneità del giudizio sull’unilateralità della condizione dovrebbe potersi denunciare con il mezzo del n. 3 dell’art. 360. Fermo restando che l’indagine per relationem del defunto n. 5 meglio si adattava al problema, la riconduzione alla

“falsa applicazione di norma di diritto” sarebbe la strada che non solo permetterebbe a chi subisce un abuso, di non perdere il diritto al controllo in

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cassazione (cosa apprezzabile, e tuttavia poco consona allo spirito dei tempi che vuole lo jus litigatoris subordinato allo jus constitutionis), ma consentirebbe di dare un senso alla stessa funzione guida della Corte di cassazione in un campo delicato e quanto mai bisognoso della bussola “nomofilattica”, trattandosi di individuare soluzioni applicative poco o nulla esplicitate dalle norme scritte. Se questo accadesse si sarebbe in buona parte neutralizzato l’effetto perverso della innovazione legislativa. Dubito però che questo accada (o almeno accada nella maggior parte dei casi). A differenza delle Corti Supreme d’autrefois, quella attuale sembra ossessionata dall’idea della deflazione a tutti i costi. Messa in crisi dall’interpretazione dell’art. 111 u. c. cost. che essa stessa ha praticato, è altamente probabile che la Corte leggerà nel taglio legislativo l’attesa autorizzazione a sbarazzarsi all’ingrosso della massa dei ricorsi, operazione di bonifica già sciaguratamente sperimentata con il quesito di diritto, un istituto che è stato gestito come il cacciatore gestisce la trappola tesa alla selvaggina. D’altro canto, non si legge tutti i giorni che il sistema delle impugnazioni è un lusso che non ci possiamo permettere?

Abbiamo oggi una Corte in crisi di identità che suole lamentarsi che l’assedio a cui soccombe trova in massima parte la sua strada nel defunto n. 5). Certo si è tentati di darle ragione quando si leggono le migliaia di ricorsi in cui l’incultura della nostra strabordante avvocatura dà mostra di sé spingendosi a deplorare le conclusioni del CTU che non avrebbe capito la miglior qualità delle conclusioni del CTP, o l’avere il giudice di merito creduto ad un teste piuttosto che a un altro (è disperante notare quanto sia difficile far intendere che la scelta degli elementi di valutazione spetta al giudice di merito che può trascurarne alcuni, a preferenza d’altri, senza doverne rendere analiticamente conto). La soluzione non è però la tranquilla soppressione del controllo della motivazione, cioè della censura al possibile défaut de base légale della decisione: fare questo significa buttare il bambino con l’acqua sporca.

Oltre alla regressione, la rimozione: l’errore di pensare che del controllo della motivazione si possa fare a meno è un classico delle nostre altalene legislative, e proprio dalla Corte di cassazione è venuta in altri tempi la resistenza e la produzione dell’antidoto. Il codice del 1865 non prevedeva norme analoghe a quella vigente finora, ma la pratica delle Cassazioni italiane aveva escogitato una

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forma di controllo sulla motivazione forzando il numero 2) dell’articolo 517, che consentiva il ricorso per nullità della sentenza a tenore dell’articolo 361 allargato a comprendere l’omissione dei “motivi in fatto ed in diritto”. Il codificatore del 1940 introdusse un formula (“omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio”, che fosse stato oggetto di discussione tra le parti: formula sinistramente ripresa oggi), di cui venne immediatamente percepita la portata troppo ristretta, riducentesi ad un caso di violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Fu sulla spinta (anche) della stessa Corte di cassazione che la riforma del 1950 introdusse la formulazione (“omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio”) sopravvissuta fino al ritocco (fatto in luogo di punto) del decreto legislativo n. 40/2006 che non ha toccato la sostanza della disposizione, né alterato la giurisprudenza della Corte. Vale forse la pena ricordare che l’abortito “progetto Tarzia” aveva considerato il problema proponendo l’impiego della formula “mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato” (è il testo dell’art. 606 lett. e) del codice di procedura penale). Nella sua adozione si era vista una possibile soluzione del “difficile equilibrio tra la funzione di giudice del diritto e la parallela funzione della verifica della corretta ricostruzione del fatto, attraverso il controllo della motivazione”: disincentivare il ricorso indiscriminato alla Corte conservandole il suo fisiologico potere di controllo.

Non sappiamo se avrebbe funzionato. Quel che sappiamo è che la sottrazione del potere di controllo che consegue al nuovo testo del n. 5) priva l’ordinamento del mezzo per evitare che la formula “controllo del diritto” diventi un vuoto simulacro. Un serio controllo della motivazione costituisce il mezzo che

« empêche les juges du fond de faire obstacle au contrôle de Cour de cassation en dissimulant une illégalité derrière un silence ou une ambiguité » (Boré). Esso è così indispensabile che se non esistesse, bisognerebbe inventarselo. Se la inventò infatti la Corte di cassazione delle origini1. Se ne appropriarono in qualche modo

1 Per la precisione: Cour de cassation, chambre civile 26 ottobre 1808 (decidendo di un litigio relativo a diritti feudali, la Corte cassò una sentenza da cui non risultava con sufficiente chiarezza se gli abitanti del luogo avessero rivestito effettivamente lo stato

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le Corti di cassazione italiane in difetto di previsioni legislative, nella coscienza che, senza di esso, si può parlare di applicazione della legge solo in un senso accademico. Evidentemente la Corte di cassazione dell’oggi non è più la stessa delle origini.

Cosa sia, e cosa voglia diventare, però non si sa.

B. S.

di vassalli, sicché nell’incertezza del punto di fatto, non si capiva bene se dovesse

essere applicato alla causa l’art. 8 della legge del 28 agosto 1792).

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