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I confini della giurisdizione ( tra giudice ordinario e giudice amministrativo ) - Judicium

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ROMANO VACCARELLA

I confini della giurisdizione

( tra giudice ordinario e giudice amministrativo )

1.- Dalla nascita del Regno d’Italia e fino alla fine del secolo XIX la giurisdizione del giudice ordinario confina, sostanzialmente, soltanto con la potestà governativa; e solo di tenere ben fermo e saldo questo confine si preoccupano non soltanto il legislatore ma anche gli organi ai quali, via via, è affidato il ruolo di vigilare sulla rigorosa osservanza del confine.

1.1.- Al momento della proclamazione del Regno d’Italia i confini della giurisdizione erano

disegnati - dalla legge 20 novembre 1859 n. 3780 (c.d. legge Rattazzi, emanata usufruendo dei pieni poteri conferiti al governo in occasione della seconda guerra d’indipendenza) - tra la Pubblica Amministrazione ed i Tribunali ordinari, e tra questi ed i Tribunali del contenzioso amministrativo.

Posto che il potere di denunziare la violazione dei confini era attribuito ai governatori (divenuti, in seguito, i prefetti) è evidente che le ipotesi ritenute più gravi erano quelle di “sconfinamento” del tribunale ordinario nei territori riservati all’autorità amministrativa e a (quella sua appendice costituita dai) Tribunali del contenzioso: sulla denuncia del governatore – proponibile a seguito del rigetto dell’eccezione di incompetenza da parte del giudice - provvedeva, sentito il Consiglio di Stato, il Re con suo decreto.

La legge Rattazzi conobbe un periodo di intensa applicazione subito dopo l’entrata in vigore della “rivoluzionaria” legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, nonostante questa avesse soppresso i Tribunali del contenzioso amministrativo (art. 1) e devoluto (art. 2) «alla giurisdizione ordinaria» - con l’eccezione degli «affari non compresi nell’articolo precedente attribuiti alle Autorità amministrative», con possibilità di «ricorso in via gerarchica» (art. 3) - «tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico,

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comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo e dell’Autorità amministrativa».

Ed infatti, se è vero che «colla presente legge non viene fatta innovazione né alla giurisdizione della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato in materia di contabilità e di pensioni, né alle attribuzioni contenziose di altri corpi o collegi derivanti da leggi speciali» (art. 12), il legislatore non si preoccupò affatto di prevedere organi e/o strumenti idonei a risolvere eventuali conflitti di questi giudici speciali con l’AGO, ma provvide al mantenimento e all’estensione a tutto il Regno (art. 13) - «fino ad ulteriori provvedimenti» - della legge Rattazzi «per la risoluzione uniforme dei conflitti tra le autorità giudiziarie e amministrative … ferma la giurisdizione attribuita al Consiglio di Stato per pronunciare sui conflitti dall’art. 10» dell’all. D (che non prevedeva più l’intervento finale del Re).

Non sembra possa dubitarsi che i conditores della legge – per ciò solo che avvertirono l’esigenza di conservare uno strumento esclusivamente dedicato alla «risoluzione uniforme dei conflitti fra le autorità giudiziarie ed amministrative, che era provvisorio («fino ad ulteriori provvedimenti») non certo nell’an, ma esclusivamente nel quomodo – erano perfettamente consapevoli di quanto ampia e rilevante fosse la “breccia” che gli «affari» di cui all’art. 3 avrebbero aperto nel principio della unicità della giurisdizione ordinaria solennemente sancito dall’art. 2; così come erano consapevoli che la stessa previsione di uno strumento, qual era quello della legge Rattazzi, «risolutore del conflitto» significava che il potere del Tribunale ordinario di stabilire se nella causa sottopostagli si facesse «questione di un diritto civile o politico» esisteva solo se e fino a che, per iniziativa del prefetto, tale potere non fosse stato devoluto «alla giurisdizione» del Consiglio di Stato.

È evidente che, oggettivamente, la decisione del Consiglio di Stato produceva gli effetti – quando negava che si facesse «questione di diritto civile o politico» - di una sentenza (irrevocabile) di rigetto della domanda, ma altrettanto evidente è che ciò non era sufficiente per riconoscere al Consiglio di Stato la natura di giudice: gli effetti (propri di una sentenza) delle sue decisioni provenivano pur sempre, e per giunta irrevocabilmente, da un organo da sempre (da quando era nato in Francia, per scissione, dal Conseil du Roi nel 1578) squisitamente amministrativo, e come tale disciplinato anche dall’all. D alla legge n. 2248 del 1865.

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Il riferimento dell’art. 13 alla «giurisdizione» del Consiglio di Stato, tuttavia, fu tutt’altro che innocuo: nonostante l’all. E, parlando di «giurisdizione» anche a proposito dei soppressi tribunali del contenzioso amministrativo (art. 1) mostrasse chiaramente di usare il termine nel senso (generico) di attribuzione del potere di adottare decisioni (sia giurisdizionali che amministrative), l’uso della parola “giurisdizione”, così manifestamente improprio se riferito al Consiglio di Stato, indirizzò il dibattito politico sugli «ulteriori provvedimenti», annunciati dal transitorio art. 13, più sull’organo che doveva decidere sui conflitti che non sul “come” si dovesse pervenire alla decisione.

1.2.- Come ricorda Franco Cipriani (Il regolamento di giurisdizione, Napoli, 1981, pag. 12 segg.), Pasquale Stanislao Mancini, ispiratore della legge del 1865, pur riconoscendo che «in grazia dei conflitti di attribuzione la legge del 1865 diviene una lettera morta, rimanendo nella sua vitale essenza ed efficacia soverchiata e distrutta … perciocché essa si ridurrebbe ad una flagrante contraddizione con se stessa e ad una miserabile petizione di principio», optò per la

«sussidiaria» soluzione di non incidere sullo strumento (che pure – lo riconosceva - riservava

«all’Amministrazione un trattamento privilegiato di favore») ma solo sull’organo, veramente giurisdizionale – la neonata (legge 12 dicembre 1875 n. 2832) Cassazione di Roma, a sezioni unite –, chiamato a gestire quel sostanzialmente inalterato strumento: «una riforma – conclude Cipriani, pag. 15 – che presentava il duplice vantaggio di costituire un progresso sul piano dei principi e di rafforzare nel contempo l’esecutivo».

La legge 31 marzo 1877, n. 3761, è figlia dell’idea, da un lato, della necessità di uno strumento ad hoc per risolvere le questioni di competenza tra giudice ordinario e pubblica amministrazione e, dall’altro, dell’opportunità che la soluzione di tali questioni – fermo che non era sufficiente disporre che il Tribunale ordinario si astenesse dal trattare gli «affari» di cui all’art. 3, ma era indispensabile che, all’occorrenza, fosse possibile sottrargliele – fosse affidata ad un vero giudice; anzi, al “massimo” giudice, in luogo che, com’era “scandalosamente”

accaduto fino al allora, alla pubblica amministrazione.

Eliminata, in tal modo, la «flagrante contraddizione e la miserabile petizione di principio»

che rendeva «lettera morta» la legge del 1865, all. E, l’assoggettamento della P.A. al giudice ordinario aveva trasformato il “conflitto” in questione di “competenza”: una questione, tuttavia,

“speciale” non solo per l’organo cui era devoluta, ma anche e soprattutto per il procedimento che, attraverso «una imposizione quasi violenta, per l’atto di una potestà estranea alla lite, e talvolta, ad essa indifferente», separava la questione pregiudiziale di competenza dal merito (MORTARA, Commentario, I, 1905, p. 149) con il decreto del prefetto che «richiede la

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decisione diretta della corte di cassazione»: la «richiede – osserva MORTARA, pag. 153 - soltanto per modo di dire, ossia con un effetto tutt’altro che immediato; poiché esso non investe la corte della cognizione della controversia e non ne provoca la decisione. Bensì occorre a quest’uopo un ricorso documentato della parte più diligente sul quale la corte procede in via d’urgenza».

Se la sostituzione delle Sezioni Unite romane al Consiglio di Stato non comportò alcun sostanziale spostamento, a favore del giudice ordinario, dei rigorosi confini con la potestà governativa presidiati fino ad allora dal massimo organo della P.A., la legge n. 3761 del 1877, investì le Sezioni Unite della potestà di giudicare «dei conflitti di giurisdizione positivi o negativi fra i Tribunali ordinari ed altre giurisdizioni speciali, non che della nullità delle sentenze di queste giurisdizioni per incompetenza od eccesso di potere» (art. 3 n. 3).

«L’esercizio di questa più eminente fra le attribuzioni giurisdizionali» - in quanto «la vigilanza sui confini delle attività di questi organi è la garanzia delle garanzie della legge, la più fondamentale assicurazione dell’ordinata e disciplinata attuazione della legge nel consorzio civile … una specie di sovrapotere, ossia un atto … di altissima sovranità» che competerebbe al Capo dello Stato «se non vi si opponessero le imprescindibili esigenze delle forme politiche dello stato libero» - nel 1877 fu ragionevolmente attribuito all’organo supremo della giurisdizione ordinaria in quanto, all’epoca, erano «stremate e ritenute prossime a sparire le giurisdizioni speciali» di cui all’art. 12, all. E (MORTARA, pag. 653 - 657).

1.3.- La creazione, con la legge 31 marzo 1889 n. 5992, della IV Sezione del Consiglio di Stato quale organo al quale erano sottoposti gli «affari» nei quali non si faceva «questione di un diritto civile o politico» non fu avvertita dalle Sezioni Unite come il fatto che spostava il confine, con il territorio riservato al potere discrezionale della pubblica amministrazione, da quello del giudice ordinario a quello del nuovo organo; il pericolo di ingerenza nel potere della P.A. non sarebbe più, nella stragrande maggioranza dei casi, provenuto dal giudice ordinario, ma dal nuovo organo che, per ciò solo che era stato creato dando «vita a quella istituzione veramente nuova che è il giudizio di legittimità», aveva ristretto «notevolmente il campo della podestà discrezionale della funzione governativa, conferendo ai singoli soggetti giuridici la facoltà di esigere da essa azione od astensione, e quindi la revoca o la modificazione dei suoi provvedimenti, per un gran numero di casi nei quali potevano per l’innanzi invocare soltanto grazia o favore dal beneplacito delle superiori autorità amministrative» (pag. 657).

La Corte di Roma – le cui decisioni, secondo Mortara, «scapitano di autorità» e di competenza per la necessaria partecipazione al collegio, all’inizio addirittura paritaria, di

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magistrati addetti alla sezione penale – vede a lungo, nella creazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, una ripartizione di competenze all’interno della pubblica amministrazione;

tanto che, investita di una questione avente ad oggetto la sussistenza della potestas judicandi della IV Sezione contestata dalla P.A., la Corte – ancora con una sentenza del 15 dicembre 1897 – si rifiuta di giudicare su quella che qualifica come questione interna alla P.A.

«Per la legge del 31 marzo 1877, sui conflitti di attribuzioni, appartiene alle sezioni unite di questa corte di cassazione giudicare dei conflitti e delle questioni di competenza che sorgono tra l’autorità amministrativa e l’autorità giudiziaria, ma non già dei conflitti e delle questioni di competenza che abbiano luogo tra un’autorità o giurisdizione amministrativa da una parte, e il governo, o potere esecutivo, dall’altra. Nella specie, non s’impegna alcuna questione di competenza tra l’autorità amministrativa e l’autorità giudiziaria, ma bensì la contestazione si aggira unicamente nei rapporti tra il governo, rappresentato dal ministro dell’interno e la quarta sezione del Consiglio di Stato, facendosi questione non già se spetti all’autorità giudiziaria, ovvero al governo o all’autorità amministrativa, ma invece se spetti al governo ovvero all’autorità amministrativa, ossia al Consiglio di Stato, il vagliare e decidere se una parte di territorio comunale abbia, o pur no, i caratteri propri di una frazione o borgata previsti dall’art. 17 legge com. e prov.. Epperò questo supremo collegio, non essendo chiamato da alcuna legge a dirimere tale questione di competenza tra il governo e l’autorità amministrativa, non può conoscere del ricorso con cui appunto una tale questione si propone» (MORTARA, pag. 662).

2.- Si può ben dire che il confine della giurisdizione del giudice ordinario si colloca definitivamente, e fondamentalmente, con il territorio riservato al giudice amministrativo con la legge, istitutiva della V Sezione del Consiglio di Stato, 7 marzo 1907, n. 62, il cui art. 1 esplicitamente definisce “consultive” le prime tre Sezioni, e “giurisdizionali” la IV e la V Sezione, escludendo altresì che il presidente del consiglio dei ministri possa presiedere – come gli consentiva l’art. 5 della legge 2 giugno 1889 – la IV Sezione.

La piana applicabilità alla giurisdizione amministrativa dell’art. 3, n. 3 della legge n. 3761 del 1877 sui conflitti di giurisdizione positivi o negativi è esplicitamente ribadita dall’art. 40 T.U. 17 agosto 1907 n. 638 (che diverrà l’art. 48 T.U. n. 1054/1924): «le decisioni pronunciate in sede giurisdizionale possono, agli effetti della legge 31 marzo 1877 n. 3761, essere impugnate con ricorso per cassazione. Tale ricorso tuttavia è proponibile soltanto per assoluto difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato».

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In occasione dell’approvazione della legge, il ministro Giovanni Giolitti dichiara solennemente in Parlamento che «poiché il tribunale dei conflitti non v’è, e non abbiamo alcuna intenzione di istituirlo, e dall’altro canto v’è la cassazione che dalle nostre leggi è posta là per tenere i varii poteri nei limiti della loro giurisdizione, non vedo perché non si debba interpretare una disposizione di legge nel senso che la corte di cassazione abbia l’attribuzione di mantenere le varie giurisdizioni speciali nei limiti dei loro poteri e delle loro competenze».

«Consolidata definitivamente la supremazia della Corte di cassazione sopra tutti gli organi di giurisdizione ordinari e speciali» (MORTARA, IV, 1907, pag. 644) la funzione di Tribunale dei conflitti attribuita alla Corte di cassazione a sezioni unite acquista ulteriore autorevolezza con l’unificazione, nel marzo 1923, della Corte in Roma e la conseguente possibilità di formare collegi esclusivamente con magistrati delle sezioni civili.

2.1.- Con il “concordato” D’Amelio-Santi Romano (1929-30) viene individuato un condiviso criterio – causa petendi e petitum sostanziale – per segnare il confine tra le due giurisdizioni, e inizia un lungo periodo di ordinaria incertezza sul riparto di giurisdizione: e si susseguono le stagioni contrassegnate dal criterio applicativo ora dell’attività di imperio o di gestione, ora delle norme di azione o di relazione, ora dell’attività vincolata o discrezionale, ora della carenza ovvero del cattivo esercizio del potere.

2.2.- Il codice di procedura civile del 1942 recepisce il privilegio attribuito alla P.A. dalla legge del 1877 consentendo al prefetto, quando la P.A. non è parte in causa, di chiedere, con la sospensione del giudizio, la diretta decisione della questione (“richiedere per modo di dire”, diceva Mortara) ai sensi dell’artt. 41, 2° comma, e 368, ma estende – con il regolamento preventivo di giurisdizione, e la conseguente sospensione necessaria del processo – a ciascuna parte il potere di investire le Sezioni Unite delle questioni di giurisdizione che, enumerate nell’art. 37, concernono non più solo la P.A., ma anche i rapporti con i giudici speciali e con i giudici stranieri.

La “supremazia” della Corte di cassazione sui giudici speciali è consacrata con l’art. 362, il quale fa della Corte il supremo giudice in ordine alla sussistenza della giurisdizione dei giudici speciali, nonché dei conflitti positivi o negativi tra giudici speciali e/o giudice ordinario (e dell’inverosimile ipotesi del conflitto di attribuzione negativo tra P.A. ed A.G.O.).

2.3.- La Costituzione del 1948 recepisce, a sua volta, l’assetto che si era venuto creando, e

“costituzionalizza” la dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo riconoscendo pari dignità, ed effettività di tutela, a tali situazioni soggettive (art. 24); afferma che la funzione giurisdizionale è esercitata dal giudice ordinario (art. 102) ma riconosce in quello amministrativo

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il giudice della funzione pubblica (art. 103) che, insieme al giudice ordinario, assicura che l’attività della pubblica amministrazione sia sempre “giustiziabile” (art. 113); ribadisce (art. 111) che contro le sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per cassazione «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111, olim 3°, oggi 8° comma).

Statuizione, quest’ultima, dalla quale sembra debba trarsi la conclusione che l’eventuale istituzione, ancora oggi (anzi soprattutto oggi) vagheggiata, di un Tribunale dei conflitti richieda una legge costituzionale, non essendo una legge ordinaria idonea a superare l’indicazione chiaramente desumibile dalla norma costituzionale.

2.4.- Fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, il quadro di ordinaria incertezza sulla collocazione del confine tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa non subisce scosse di un qualche rilievo: ed il ruolo di Tribunale dei conflitti assegnato alle Sezioni Unite è investito da solo marginali contestazioni.

La più rilevante contestazione riguarda la possibilità di promuovere il regolamento preventivo di giurisdizione nel caso di giudizi pendenti davanti al giudice speciale: possibilità negata dal Consiglio di Stato – e che si concreta nel rifiuto di sospendere ex art. 367 cod. proc. civ. il giudizio a quo – e ancor più recisamente dalla Corte dei Conti, che si rifiuta perfino di riconoscere efficacia alla decisione emessa dalle Sezioni Unite in sede di regolamento.

L’espressa previsione della proponibilità del regolamento preventivo nella legge n. 1034 del 1971 istituiva del T.A.R. (art. 30, 3° comma) fa rapidamente desistere i giudici speciali da ogni contestazione, e le Sezioni Unite acquisiscono definitivamente il potere di pronunciarsi sulla giurisdizione non solo all’esito del giudizio ex art. 111 Cost. (e 362 cod. proc. civ.), ma anche nel corso del giudizio stesso.

L’altra contestazione – solo apparentemente meno rilevante, come si vedrà – concerne il pervicace rifiuto del Consiglio di Stato di accettare l’interpretazione che, dopo vivace dibattito negli anni ’60, la Corte di cassazione ha sposato dell’art. 37 cod. proc. civ., “coordinando” il potere officioso di rilevare il difetto di giurisdizione “in ogni stato e grado della causa” con i principi che governano le impugnazioni (in particolare, con l’art. 329 cod. proc. civ. in tema di acquiescenza): coordinamento attuato esigendo che, in caso di esplicita pronuncia affermativa della (e sulla) giurisdizione, il relativo capo della sentenza sia impugnato per impedirne il passaggio in giudicato, preclusivo anche del potere officioso del giudice (FERRI, Note in tema di pronunce sulla giurisdizione, Pavia, 1968, pag. 86 segg.).

2.5.- Da parte sua, la Corte di cassazione consentiva a che il giudice amministrativo provvedesse, nei casi in cui era munito di giurisdizione esclusiva, sui «diritti patrimoniali

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consequenziali alla pronunzia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre»

(riservati, dall’art. 30, 2° comma, R.D. n. 1054 del 1924, all’autorità giudiziaria ordinaria).

3.- All’inizio degli anni ’90 la legge comunitaria n. 142 del 1992 è costretta ad affrontare la questione della risarcibilità degli (o di quelli che, nel sistema consacrato dal “concordato”

D’Amelio-Santi Romano, sono gli) interessi legittimi dei «soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture», ed a risolverla nel senso che – conformemente alla regola del riparto di giurisdizione - «la domanda di risarcimento è proponibile dinanzi al Giudice ordinario da chi ha ottenuto l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo» (art. 13).

L’effetto di tale norma non è stato soltanto quello di far risaltare – ancor più perché esibito, per così dire, in sede europea – il “barocchismo” del nostro sistema e di rilanciare la questione generale della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi, ma anche quello di far sorgere l’idea che tali questioni potessero risolversi congiuntamente con quelle olim sollevate dalla legge quadro 29 marzo 1983 n. 93, il cui art. 28 disponeva che «in sede di revisione dell’ordinamento della giustizia amministrativa si provvederà all’emanazione di norme che si ispirano, per la tutela giurisdizionale del pubblico impiego, ai principi contenuti nelle leggi 20 maggio 1970 n.

300 e 11 agosto 1973 n. 533». Alla revisione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di pubblico impiego aveva cominciato a porre mano la Corte costituzionale introducendo la tutela d’urgenza innominata di cui all’art. 700 cod. proc. civ.

(sentenza n. 190 del 1985) e il sistema probatorio di cui agli artt. 421 e segg. cod. proc. civ.

(sentenza n. 146 del 1987), seguita dal legislatore che, con la legge n. 146 del 1990, aveva disciplinato, con lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, anche il procedimento di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 Statuto del Lavoratori (distribuendolo tra AGO e TAR).

Dall’idea di riscrivere il processo del pubblico impiego davanti al TAR in sintonia con il rito del lavoro all’idea di attribuire la giurisdizione del pubblico impiego al giudice del lavoro il passo era breve, e fu compiuto dal D. Lgs 3 febbraio 1993 n. 29; anche se prevedendone la realizzazione concreta a partire dal 1996.

La legge c.d. Bassanini n. 59 del 1997 delegò il Governo a “risarcire” il giudice amministrativo della perdita del pubblico impiego con «l’estensione della giurisdizione del giudice amministrativo alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici» (art. 11, comma 4, lett. g): delega che ha dato vita al D. Lgs. 31 marzo 1998 n.

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80, che ha attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non solo i diritti patrimoniali consequenziali, ma l’intera materia dei servizi pubblici e dell’edilizia e urbanistica.

Traendo spunto dal vero e proprio terremoto che stava sconvolgendo il piccolo mondo antico del riparto di giurisdizione la Corte di cassazione – con la sentenza 22 luglio 1999, n. 500 – abbatte definitivamente, con un gigantesco e sofferto obiter dictum, il dogma della non risarcibilità degli interessi legittimi, svelando anche, impietosamente, le ipocrisie concettualistiche sulle quali esso si fondava: l’interesse legittimo è una situazione soggettiva (pretensiva o oppositiva) di diritto sostanziale protetta dalla norma primaria dell’art. 2043 c.c., e come tale il diritto al risarcimento del danno ingiusto non può che competere al giudice ordinario, anche in assenza del previo annullamento del provvedimento lesivo.

Con sentenza del 17 luglio 2000, n. 292, la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33 D. Lgs. n. 80 del 1998 nella parte in cui, in materia di pubblici servizi, aveva ecceduto dai limiti della delega devolvendo al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici, anziché limitarsi ad estendere la sua giurisdizione alle controversie, concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, nei limiti in cui la giurisdizione sui servizi pubblici gli era riconosciuta dal diritto vigente.

A distanza di quattro giorni, è promulgata la legge 21 luglio 2000, n. 205, che ripristina quanto in materia di servizi pubblici disponeva il D. Lgs n. 80 del 1998 (e quanto, in materia di urbanistica ed edilizia, sarebbe stato dichiarato incostituzionale per eccesso di delega dalla sentenza n. 281 del 2004).

Questa convulsa fase si chiude con sentenza n. 204 del 2004 con la quale, in sostanza, la Corte costituzionale ribadisce che il riparto di giurisdizione recepito in Costituzione si fonda sul binomio diritto soggettivo-interesse legittimo, ma precisando che – come poi ribadirà con la sentenza n. 191 del 2006 – l’effettività della tutela giurisdizionale garantita all’interesse legittimo dall’art. 24 Cost. presuppone che la tutela risarcitoria non debba, in quanto diritto soggettivo, essere elargita da un giudice diverso da quello al quale è affidata la tutela demolitoria e/o conformativa contro l’illegittimo esercizio del potere.

La successiva sentenza n. 77 del 2007 precisa che il riparto di giurisdizione tra vari ordini di giudici è finalizzato alla più adeguata tutela delle situazioni soggettive, e che pertanto dalla carenza di giurisdizione del giudice adito non può derivare la perdita della situazione soggettiva azionata ma la translatio, fermi gli effetti della domanda proposta, del giudizio davanti al giudice munito di giurisdizione.

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4.- È impossibile dar conto compiutamente del modo in cui, nello scenario scaturito dal vero e proprio cataclisma che si è appena cercato di descrivere per sommi capi, le Sezioni Unite hanno gestito il potere – loro riconosciuto dall’art. 111, 8° comma, Cost. – di sindacare, «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione», le decisioni del Consiglio di Stato.

Sicché, più che soffermarsi su orientamenti manifestatisi in specifiche materie (ad esempio, sul più che ragionevole criterio secondo il quale, travolto dall’annullamento giurisdizionale ovvero in sede di autotutela, l’interesse oppositivo è leso non dal provvedimento illegittimo, ma dal comportamento della P.A. che ha determinato – nell’aggiudicatario o nel titolare della concessione annullata – un affidamento rilevatosi … inaffidabile: Cass. n. 4614 del 2011, che riconosce la tutela risarcitoria al giudice amministrativo solo quando essa vale a completare la tutela demolitoria e/o conformativa), sembra opportuno cercare di cogliere le linee di tendenza del giudice dei conflitti e, soprattutto, gli strumenti attraverso i quali queste linee di tendenza emergono.

4.1.- In occasione del vero e proprio “braccio di ferro” con il Consiglio di Stato sulla c.d.

pregiudizialità amministrativa, le Sezioni unite – facendo consapevolmente uso, consacrato dal D. Lgs. n. 40 del 2006, del potere di affrontare con obiter dicta questioni «di particolare importanza» (art. 363 cod. proc. civ.) – hanno affermato (23 dicembre 2008, n. 30254) che il concetto di giurisdizione non si esaurisce nell’attribuzione del potere di decidere certe controversie a certi giudici, ma va inteso nel senso di tutela dei diritti e degli interessi, sicché vi è questione di giurisdizione anche quando si deve stabilire se sussistevano le condizioni perché il giudice, al quale è attribuita la relativa potestas, avesse il dovere di esercitarla, e quindi di accordare o negare la tutela richiestagli. Di qui la conclusione che la dichiarazione d’inammissibilità della domanda risarcitoria perché non preceduta dal “pregiudiziale”

annullamento del provvedimento lesivo sarebbe stata cassata per «motivi inerenti alla giurisdizione» in quanto il giudice amministrativo avrebbe illegittimamente rifiutato di esercitare la giurisdizione – e cioè, di tutelare una situazione soggettiva che aveva il “dovere” di tutelare – che, non solo più come “potere”, gli competeva.

È superfluo sottolineare che, in tal modo, il sindacato delle Sezioni unite investe il “merito”

della decisione del Consiglio di Stato, e cioè si risolve in una censura per “violazione di legge”

che l’art. 111, 7° comma, Cost. consente nei confronti delle sentenze del solo giudice ordinario.

Sembra anche superfluo osservare che il tentativo del Consiglio di Stato (adunanza plenaria n.

3 del 2011) di aggirare il minaccioso avvertimento di Cass. n. 30254 facendo formale acquiescenza alla tesi della S.C. in tema di pregiudizialità amministrativa ma riproponendo sotto

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mentite spoglie la sostanza della propria tesi (il non aver chiesto preventivamente l’annullamento del provvedimento illegittimo comporta il rigetto nel merito, totale o parziale, della domanda risarcitoria per aver dato causa o aver cooperato, ex art. 1227 c.c., alla produzione del danno) non avrebbe esito diverso a fronte del novello, e sostanziale, concetto di questione di giurisdizione: anche se l’art. 30, 3° comma, del cod. proc. amm., stabilisce che «nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti», è evidente che le Sezioni unite – utilizzando il concetto di questione di giurisdizione che hanno forgiato – ben potrebbero sindacare il modo in cui il giudice amministrativo ha fatto uso del potere di negare o comprimere la tutela risarcitoria. In buona sostanza, dall’errore di diritto (ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) censurabile in caso di dichiarata inammissibilità della domanda risarcitoria si passerebbe (anche) ad un vizio di motivazione (ex art. 360, n. 5 cod. proc. civ.) censurabile, sempre sub specie di mancato o deficitario esercizio del potere-dovere di accordare tutela giurisdizionale, in caso di rigetto totale o parziale della domanda.

4.2.- A mio avviso, la vera e propria svolta metodologica dell’atteggiamento delle Sezioni Unite nel giudicare i «motivi inerenti alla giurisdizione» fatti valere contro decisioni del Consiglio di Stato è stata segnata dalla sentenza n. 24883 del 2008, con la quale è stato letteralmente abrogato l’art. 37 cod. proc. civ. laddove sanciva la rilevabilità ex officio del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado della causa.

Si è ricordato che, negli anni ’60, un primo vulnus era stato inferto alla norma con il prevalere dell’indirizzo – divenuto poi dominante, ma tenacemente respinto dal Consiglio di Stato – secondo il quale l’esplicita pronuncia affermativa della giurisdizione precludeva, ove non espressamente impugnata e quindi passata in giudicato, l’esercizio del potere officioso: ma è evidente che, in presenza del rigoroso concetto di giurisdizione quale attribuzione del potere di giudicare certe controversie, la dichiarazione ex officio del difetto di giurisdizione – nonostante si fosse formato (secondo la tesi della Cassazione) il giudicato per mancata impugnazione dell’esplicito capo affermativo della giurisdizione – non era censurabile ex art. 111, 8° comma, Cost., in quanto esso costituiva, al più, un error in procedendo ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ..

Le ipotesi in cui le Sezioni Unite avevano cassato la decisione del Consiglio di Stato per aver erroneamente declinato la giurisdizione riguardavano esclusivamente il “merito” della questione, e cioè la spettanza di quella controversia al giudice amministrativo: a quanto mi risulta, fino al 2007, solo con la sentenza 19 gennaio 1987 n. 411 le Sezioni Unite avevano censurato una

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sentenza del Consiglio di Stato che, nonostante l’espressa e non impugnata statuizione affermativa del TAR, aveva dichiarato il difetto di giurisdizione, ed analogamente avevano proceduto solo dal 2007, con la sentenza n. 4109, per potersi pronunciare – con un lungo obiter dictum – sulla translatio judicii (che, sia detto per incidens, non aveva nulla a che fare con il caso di specie, nel quale la causa non doveva essere trasferita ad un altro giudice, ma doveva tornare al giudice a quo).

Sebbene incisa dal vulnus del giudicato da pronuncia esplicita non impugnata (vulnus, pertanto, i cui effetti erano contenuti, tra l’altro, dalla rigorosa osservanza della regola dell’insindacabilità degli errores in procedendo ex art. 111, 8° comma, Cost.), la funzione fondamentale dell’art. 37 cod. proc. civ. – quella di rendere la questione dell’attribuzione di una controversia ad un giudice totalmente insensibile al modo in cui si era svolto il procedimento - era assicurata proprio dalla rilevabilità ex officio del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado della causa: e questa fondamentale funzione faceva anche sì che alle Sezioni Unite fosse devoluta, e fosse devolvibile, esclusivamente la questione dell’attribuzione, o non, di una certa materia ad un certo giudice. In sintesi, l’art. 37 cod. proc. civ. garantiva ai giudici speciali che le Sezioni unite potessero pronunciarsi esclusivamente sulla (vera o presunta) violazione della norma attributiva del potere giurisdizionale, e mai sul come il giudice speciale aveva esercitato quel potere.

A sua insaputa – e lo si può ben dire perché nel codice del processo amministrativo (art. 9) varato nel 2010 ha inserito il principio del giudicato «esplicito o implicito» - il Consiglio di Stato, difendendo la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, difendeva i limiti della sindacabilità delle proprie decisioni.

È del tutto evidente che, riservandosi il potere di valutare la fondatezza di un motivo inerente la giurisdizione tenendo conto dell’eventualità che si sia formato, o non si sia formato, un giudicato implicito sulla giurisdizione, le Sezioni Unite si occupano del “merito” della questione di giurisdizione solo dopo aver ripercorso l’intero procedimento svoltosi davanti al giudice amministrativo: e si occupano del procedimento con la piena consapevolezza (esemplare l’analisi della questione, da ultimo, di Cass. n. 23306 del 2011) che in tal modo – affermando che «alla questione della giurisdizione attiene anche il sistema delle disposizioni che disciplinano il rilievo della medesima questione e l’irreversibilità della relativa decisione» - si valica il confine degli errores in procedendo (cfr. Cass. n. 5468 del 2009: l’erronea valutazione da parte del Consiglio di Stato in ordine alla formazione del giudicato interno riguarda la

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correttezza dell’esercizio del potere giurisdizionale ed è estranea al controllo dei limiti esterni della giurisdizione affidato alla Corte).

Non è dubbio che non esiste – né può esistere - alcun razionale criterio idoneo a giustificare perché il giudicato implicito sia trattato ora come “attinente” alla questione di giurisdizione, ora come error in procedendo: esemplare è un recente caso in cui le Sezioni Unite – a fronte di una decisione del Consiglio di Stato che aveva dichiarato perfettamente legittimo il procedimento amministrativo in base al quale la P.A. aveva alienato un’azienda ma che aveva dichiarato di non potersi pronunciare ex professo sulla pretesa nullità (che comunque, incidenter tantum, escludeva) dei relativi contratti perché la questione spettava al giudice ordinario – hanno statuito (Cass. 24 luglio 2009, n. 17349) «che la sentenza impugnata non poteva affermare la giurisdizione del giudice ordinario, relativamente alla dichiarazione di nullità o di annullamento dei contratti in questione, essendosi sul punto formato il giudicato implicito, per mancanza di impugnazione, relativamente alla giurisdizione, della sentenza del TAR»; tornata la medesima controversia, tra le stesse parti, davanti alle Sezioni Unite con l’impugnazione della nuova decisione con la quale il Consiglio di Stato, rimangiandosi totalmente la precedente decisione, affermava la totale illegittimità del medesimo procedimento amministrativo e la conseguente nullità dei contratti, le Sezioni unite hanno respinto il ricorso con il quale si lamentava che sulla questione della legittimità del procedimento amministrativo si era formato il giudicato affermando (Cass. 27 gennaio 2012 n. 1149) che «la censura, quale quella di specie, concernente una pretesa violazione del giudicato, riguardando la correttezza dell’esercizio del potere giurisdizionale del giudice adito, rimane estranea al vizio di eccesso dei limiti esterni della giurisdizione e, quindi, al controllo di questa Corte per motivi inerenti alla giurisdizione», riguardando tale controllo solo «i caratteri essenziali di tale funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, perciò, escluso ogni sindacato sui limiti interni di tale giurisdizione, cui attengono gli errores in judicando o in procedendo».

La sensazione – accentuata dalla circostanza che entrambe le opposte pronunce invocano valanghe di precedenti conformi - che il criterio del giudicato implicito, con la sua ambivalente sindacabilità/insindacabilità, sia bon à tout faire non sembra azzardata; specie se si considera la sua intrinseca, oggettiva opinabilità.

Anche a questo proposito, più eloquente di qualsiasi discorso può essere un recentissimo esempio, avente ad oggetto due identiche, parallele vicende di annullamento da parte del Consiglio

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di Stato di due delibere del CSM: in entrambi i casi viene dedotta, in sede di giudizio di ottemperanza, la circostanza – in entrambi i casi ritenuta ininfluente dal Consiglio di Stato – che tutti i partecipanti al concorso annullato erano ormai in pensione e che, pertanto, era impossibile (ordinare di) rinnovare la procedura concorsuale: in un caso le Sezioni unite (n. 23302 del 2011) accolgono il ricorso e annullano la decisione del Consiglio di Stato affermando che l’ordine al CSM di provvedere a rinnovare il procedimento concorsuale “ora per allora” eccede i limiti entro i quali è consentito l’esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza e viola le prerogative (art.

105 Cost.) del CSM, mentre nell’altro caso (n. 736 del 2012) rigettano il ricorso. La ragione del diverso esito sta, spiega la sentenza del 2012, nel giudicato implicito – formatosi solo nel secondo caso - sulla questione della rilevanza del collocamento a riposo di tutti i contendenti: nel primo caso non si sarebbe formato alcun giudicato perché il Consiglio di Stato, rigettando l’eccezione del CSM, si era limitato a ribadire che il ricorrente, ancorché collocato a riposo, conservava un interesse giuridicamente qualificato alla rinnovazione della procedura concorsuale, mentre nel secondo caso il Consiglio di Stato non soltanto avrebbe ribadito l’interesse del “pensionato”, ma – respingendo la richiesta del CSM di dichiarare cessata la materia del contendere - «ha escluso precisamente l’effettivo interesse che il CSM ha predicato come proprio dell’amministrazione pubblica».

Ogni commento, credo, sciuperebbe la genuinità delle sensazioni che, da sé sole, provocano queste parole.

4.3.- Recentemente, poi, le Sezioni unite (sentenza n. 2312 del 2012) hanno cassato con rinvio una

decisione del Consiglio di Stato che aveva annullato per eccesso di potere l’esclusione dalla gara di una ditta (e la caducazione delle già avvenute aggiudicazioni) perché “sfiduciata” dalla P.A. in quanto ritenuta “inaffidabile”: l’ esistenza di indici sintomatici dell’eccesso di potere e quindi di un indebito fine di esclusione era stata desunta, dal Consiglio di Stato, non solo dalla contraddizione tra le gravi inadempienze, asseritamente riscontrate in passato, ed i successivi, reiterati rinnovi dei

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contratti, ma anche dalla CTU – disposta dal Consiglio di Stato - che aveva rilevato la

“inattendibilità” delle contestazioni mosse alla ditta, su segnalazione di una società d’indagine, in ordine alla qualità del servizio reso.

La Corte – rilevato che «il parametro di “inattendibilità” adottato per individuare, sulla base delle risultanze della CTU, valutazioni tecniche inaccettabili, appare non poco inappropriato ove utilizzato nello scrutinio di legittimità di scelte ad alto tasso di “soggettività”» - osserva che «il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti dall’appaltante come ragioni del rifiuto e non può avvalersi, onde ritenere avverato il vizio di eccesso di potere, di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa (ove si recepiscano, come ha fatto il giudica amministrativo, le considerazioni esposte dal consulente).

«L’adozione di siffatti criteri di non condivisione, infatti, nella parte in cui comporta una sostituzione nel momento valutativo riservato all’appaltante, determina non già un mero errore di giudizio (insindacabile in questa sede) ma uno sconfinamento nell’area ex lege riservata all’appaltante stesso e quindi vizia, per ciò solo, la decisione».

È ben vero, osserva la Corte, che il Consiglio di Stato è pervenuto al “ragionevole dubbio” della pretestuosità delle ragioni poste a giustificazione del provvedimento annullato anche sulla base del contraddittorio comportamento della P.A., «ma la sentenza, ritenendo non sufficiente tale elemento per pervenire ad un giudizio di illogicità del criterio di valutazione, ha inteso giustapporre alla appena riportata statuizione una articolata proposizione volta a desumere – dal confronto critico tra rapporto “accusatorio” rassegnato dalla società di indagine e la relazione di CTU disposta dal giudice amministrativo – gravi vizi di attendibilità e plausibilità del primo, tali da interagire con le denunziate contraddizioni pervenendo a formare un complesso di elementi sintomatici dell’eccesso di potere per “sviamento”».

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In conclusione, «una decisione che non accerti l’inesistenza di alcuna ragione giustificatrice o la esistenza indiscutibile di ragioni dissimulate ma valuti solamente la insufficienza dei dati addotti» a sostegno del venir meno della fiducia «incorre, all’evidenza [sic!], nel vizio di eccesso di potere cognitivo ai danni dell’amministrazione». Di qui la cassazione … con rinvio al Consiglio di Stato, in quanto munito indiscutibilmente di giurisdizione, che deve esercitare rispettando «le regole della stessa propria cognizione».

Anche stavolta non sembra necessario alcun commento; basta chiedersi in cosa una sentenza del genere si differenzi da quella che una qualsiasi Sezione della Corte avrebbe potuto emettere a conclusione di un (più che) rigoroso scrutinio di una qualsiasi sentenza di una qualsiasi Corte d’appello impugnata per i motivi di cui ai nn. 3 e (soprattutto) 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.

5.- Dalla contorta cronistoria che si è esposta, emerge come la lunga pax che dal 1930 (ma, si può

dire, dall’inizio del XX secolo per la “soggezione” nutrita dal Consiglio di Stato, neo-giudice, verso le Sezioni Unite della Cassazione, specie dopo l’unificazione di quest’ultima) ha regnato tra giudice ordinario e giudice amministrativo (pax contrassegnata anche da un certo fair play: v. n. 2.5), si sia rotta con il D. Lgs. n. 80 del 1998, “attuativo” della c.d. legge Bassanini: prima del quale il giudice ordinario non aveva battuto ciglio davanti alle numerose leggi e leggine che incrementavano le ipotesi di giurisdizione esclusiva (vedile elencate dalla sent. n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale, punto 3.1).

La bocciatura della tecnica del trasferimento di “blocchi di materie” da parte della Corte Costituzionale, ma accompagnata dall’ineludibile attribuzione al giudice amministrativo anche della tutela risarcitoria contro l’illegittimo esercizio del potere, mirava a conciliare il “barocco”, ma costituzionalizzato sistema delle due giurisdizioni con le elementari esigenze – anche di provenienza “europea” – di effettività della tutela giurisdizionale; così come allo stesso obiettivo mirava la successiva sentenza (n. 77 del 2007) sulla translatio judicii.

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Il modo in cui il Consiglio di Stato pretendeva di “gestire” la tutela risarcitoria affidatagli ha innescato un primo, fondamentale conflitto con le Sezioni Unite: fondamentale perché la Corte – per la prima volta, e cioè dichiarandolo apertamente – ha spostato, ben all’interno del giudizio amministrativo, il proprio sindacato sui limiti esterni (?) della giurisdizione e varato un concetto di

“questione di giurisdizione” che, superando le norme di attribuzione della potestas judicandi, investiva il “come” la tutela giurisdizionale era stata accordata o negata dal giudice amministrativo.

Il giudice ordinario non aveva più il potere di darla, ma le Sezioni Unite, in compenso, si attribuivano il potere di valutare come veniva data la tutela risarcitoria.

Quasi contestualmente è stato “abrogato” dalla Corte di cassazione l’art. 37 cod. proc. civ. in nome della ragionevole durata del processo, e con esso lo strumento che presidiava – quali uniche disciplinatrici della “giurisdizione” alla quale fa riferimento l’art. 111, 8° comma, Cost. – le norme di attribuzione: strumento che continuava ad essere adeguato presidio anche dopo l’affermarsi della tesi secondo la quale la pronuncia esplicita, non impugnata, precludeva il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione (giudicato esplicito), dal momento che a) la pronuncia esplicita impugnata dava luogo ad un sindacato che non poteva aver altro oggetto che l’attribuzione di quella controversia a quel giudice; b) la pronuncia esplicita non impugnata non poteva aver altra funzione che rendere indiscutibile quell’attribuzione.

Di tutt’altra natura è il giudicato implicito: non solo perché, inevitabilmente, la rilevazione della sua formazione confina con (rectius, sconfina nel)l’error in procedendo prestandosi ora ad occhiute analisi, ora a “rassegnato” fin de non recevoir, ma anche perché esso può annidarsi, occasionalmente e/o all’occorrenza, in mere, incidentali affermazioni della sentenza scrutinata dalla Corte. In breve, lo strumento del giudicato implicito – per giunta coniugato con un “vasto” concetto di questione di giurisdizione – consente alla Corte sia un sindacato perfettamente in linea con quanto immaginava il costituente, sia un sindacato estremamente penetrante: equivale ad assoluta libertà di azione.

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Che a questo atteggiamento della Corte di Cassazione sia estranea l’esigenza, o la tentazione, di reagire a certi sconfinamenti del Consiglio di Stato, non solo giudiziari, può negarlo soltanto chi ritenga che “Piccole donne crescono” sia un libro erotico: ma ciò che spiega, non necessariamente giustifica, almeno del tutto. Se, infatti, a fronte dell’uso quanto mai disinvolto che il Consiglio di Stato sta facendo del giudizio di ottemperanza le Sezioni Unite pretendessero di verificare in concreto i presupposti fissati dalla legge per l’esercizio, in luogo della giurisdizione di legittimità, di tale speciale giurisdizione di merito, non vi sarebbe, a mio giudizio, nulla da eccepire: e cioè sindacando – e non lasciando in balia del Consiglio di Stato – la reale portata del giudicato ottemperando (e, quindi, la sua “violazione”), sindacando la correttezza dell’evocazione dell’evanescente concetto di “elusione del giudicato”, valutando se il comportamento che si esige dalla P.A. non la privi del tutto della discrezionalità riconosciutale dal “vero” giudicato. Molto, viceversa, vi è da eccepire se la Corte, da un lato, in proclamato ossequio all’inapplicabilità dell’art.

360 n. 4 cod. proc. civ., si rifiuta di valutare se il giudicato progressivamente formatosi in sede di ottemperanza ha ancora qualcosa a che vedere con quello originario o si rifiuta di valutare i (conseguenti) perentori e assiomatici verdetti di “elusione”, e se, dall’altro lato, dimenticando quel che ha appena detto sulla non sindacabilità degli errores in procedendo, va a valutare se in un incidentale e innocuo passo della motivazione si annida, sovente all’insaputa di tutti, un giudicato implicito che preclude l’esame della “vera” questione di giurisdizione.

L’incertezza, si può dire, è nel DNA del nostro sistema di riparto della giurisdizione, ed alle Sezioni Unite la Costituzione affida l’altissimo compito, - «la più eminente fra le attribuzioni giurisdizionali, atto di altissima sovranità», diceva Mortara – di «mantenere le varie giurisdizioni speciali nei limiti dei loro poteri e delle loro competenze» diradando, per quanto possibile, l’incertezza: ma la certezza deve, in primo luogo, riguardare gli strumenti - che non possono essere ambivalenti, e cioè ora utilizzati ora non utilizzabili - e deve conseguentemente riguardare la profondità del sindacato sulla decisione impugnata.

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La moderata incertezza, fisiologica nel nostro sistema, sta pericolosamente somigliando, sempre più, al caos; dal quale si esce, istituzionalmente, attraverso una del tutto improbabile revisione della Costituzione che o realizzi il voto di Calamandrei per l’unicità della giurisdizione o cancelli il confine tra 7° e 8° comma della Costituzione (il Consiglio di Stato, a sua insaputa, sembra riconoscerlo quando afferma che le sue decisioni passano in giudicato solo dopo il decorso del termine per ricorrere per cassazione, e quindi qualifica mezzo d’impugnazione ordinario il ricorso per cassazione; quasi dando ragione a Mortara per il quale la legge n.62 del 1907 «aveva parificato,nella gerarchia degli organi giurisdizionali, il Consiglio di Stato ad una corte di appello»: IV, pag. 644) ovvero si esce, pragmaticamente, attraverso un nuovo “concordato” che inauguri un nuovo periodo di pax tra le Corti.

La giustizia, in Italia, ha sufficienti problemi perché ad essi debba aggiungersi anche quello non del riparto, ma della guerra tra le giurisdizioni ….

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