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Il giudice del lavoro: un nuovo giudice conciliatore? - Judicium

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Academic year: 2022

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Maria Procoli

Il giudice del lavoro: un nuovo giudice conciliatore?

Premessa

L’art. 31 della legge 4 novembre 2010 n. 183 ( c.d. “collegato lavoro” ) nella parte in cui, al quarto comma, reca le disposizioni sul tentativo di conciliazione giudiziale in materia di controversie individuali di lavoro, ha introdotto una rilevante novità in tema di “poteri” della autorità giudiziaria, sancendo la figura - tutta da indagare ed alquanto problematica - del “giudice conciliatore”.

L’art. 420 c.p.c, nella formulazione sostituita dalla legge n.533/1973, prevedeva, al primo comma, che il giudice, alla udienza fissata per la discussione della causa, interrogate liberamente le parti presenti, tentasse la conciliazione della lite, con l’ulteriore specificazione della facoltà delle parti di farsi rappresentare in entrambe le attività da un procuratore generale o speciale, a conoscenza dei fatti di causa, con potere di “..conciliare o transigere la controversia”.

La suddetta norma, che aveva fissato i principi dell’obbligatorietà sia del tentativo che dell’interrogatorio nonché quello della ammissibilità della rappresentanza volontaria, principi poi mutuati, per il rito ordinario di cognizione, dal legislatore del 1990 nell’art. 183 c.p.c., nel nuovo testo recita “Nella udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva”, aggiungendo nel successivo capoverso che “La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.

Il primo dato che emerge, per effetto della apportata modifica, è il profondo mutamento del ruolo del giudice nel management della causa: questi che è il “terzo” chiamato a decidere, colui che detterà alle parti la regola di condotta vincolante, basata sul diritto, è nel contempo chiamato da subito “...ad una valutazione “ a prima lettura della controversia “per la formulazione di una proposta transattiva”; laddove, peraltro, tale proposta, appare nei contenuti e nelle modalità affidata alla sua più ampia discrezionalità1.

La disamina della nuova disciplina della conciliazione giudiziale nel rito del lavoro investe quindi la questione, peraltro assai attuale considerate le novità legislative in materia di mediazione e conciliazione stragiudiziale, dell’ambito dei poteri del giudice, nella ricerca, in corso di causa, di una composizione convenzionale della lite; questione, questa, che investe il tema dei rapporti tra conciliazione e giurisdizione, nonché quello dei contenuti stessi delle attribuzioni giurisdizionali.

1 vd. Fabrizia Garri, il Giudice Conciliatore, in Questione Giustizia, n.6 del 2010, pg. 151

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È di tutta evidenza che il favor mostrato nell’ultimo decennio dal legislatore nazionale per la conciliazione in sede contenziosa, favor certamente sospinto dalle sempre più urgenti necessità deflattive determinate dalla nota overload delle corti italiane e, nella materia del lavoro, dall’aumento della domanda giudiziaria in un mercato sempre più “precario”, da un lato consacra definitivamente il principio per cui “la funzione conciliativa sia divenuta ormai parte integrante delle funzioni giurisdizionali” - nel senso che la risoluzione delle controversie si realizza anche attraverso la conciliazione” 2 - e dall’altro, si collega all’idea di poter praticare all’interno del nostro sistema giudiziario il ricorso a strumenti di risoluzione autonoma dei conflitti, attraverso un’offerta pubblica che vede il giudice, spesso suo malgrado, sempre più “conciliatore”.

Soluzione, quella adottata dal nostro legislatore che, come vedremo, presenta non poche criticità in un sistema in cui “La missione tradizionale dei giudici è decidere, nel quadro di un procedimento giudiziario, in funzione della norma giuridica” 3.

Il “nuovo” art. 420 c.p.c tra processo di cognizione ordinaria e “vecchio” rito societario.

Il percorso verso un ruolo sempre più incisivo del giudice nel perseguire una risoluzione negoziale della controversia, prende le mosse, per il processo ordinario di cognizione, già dalla legge 14 maggio 2005 n.80 di conversione del decreto sulla competitività, come modificata dalla n.263 del 28 dicembre 2005.

Tale normativa, nell’ambito di un assai ampio intervento riformatore dettato dall’obiettivo di accelerare i tempi processuali, ha modificato le disposizioni del codice di procedura civile sulla trattazione della causa e, con l’intento di conferire effettività all’intervento conciliativo, ha stabilito al primo comma dell’art. 185 c.p.c. che: “Il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione personale delle medesime al fine di interrogarle personalmente sui fatti di causa e di provocarne la conciliazione”.

Nel processo civile “competitivo”, quindi, se le attività connesse alla comparizione personale delle parti vengono, per la prima volta, configurate in termini di facoltatività ed eventualità, pure il giudice, nella udienza appositamente fissata, non si limita “a tentare la conciliazione della lite” ma si adopera al fine di “provocare” la conciliazione delle parti comparse personalmente ovvero a mezzo di propri procuratori speciali.

Si passa, quindi, da un giudice che “partecipa”, quale garante imparziale, alla conciliazione, accompagnando le parti, con l’assistenza dei propri difensori, verso una soluzione negoziale della controversia, ad un giudice che, assunto un ruolo attivo nella dialettica delle posizioni e degli

2 in Santagada, la Conciliazione delle controversie civili, Cacucci, Bari, 2008 pg. 98, 193.

3 M.G.Civinini, nell’Incontro di studio sul tema: Tecniche di conciliazione e mediazione: scambio di esperienze nell’ambito dell’Unione europea, prospettive di cooperazione giudiziaria, Roma 5/7marzo 2007

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interessi in conflitto, “provoca” la conciliazione delle parti, nel senso che le “induce” a trovare l’accordo con cui porre fine alla vicenda processuale.

E non v’è chi non veda che tale attività giudiziale, in concreto, ben può assumere il contenuto della prospettazione alle parti delle possibili ed immediate soluzioni della lite alternative alla decisione;

sicché l’intervento riformatore del 2005, seppure lontano dal prevedere, come ora accade per il giudice del lavoro, l’obbligo di formalizzare la “proposta transattiva”, di fatto già conferiva al giudice il potere di farsi in un certo senso “coautore” del contenuto dell’accordo.

Ma un ruolo ancor più “rafforzato” del giudice era stato anticipato, poco più di due anni prima, dalla disciplina del processo societario.

L’art. 16 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n.5, allo stato vigente per le sole controversie pendenti alla data di entrata in vigore alla legge del 18 giugno 2009, n.69 che ne ha disposto l’abrogazione, recitava: “Quando nel decreto è contenuto l’invito alle parti a comparire di persona, il presidente interroga liberamente ed esperisce, se la natura della causa lo consente, il tentativo di conciliazione, eventualmente proponendo soluzioni di equa composizione della controversia. Nel relativo verbale è dato comunque atto delle posizioni assunte dalle parti.”

Era così riconosciuto per la prima volta espressamente, in capo al giudice, un “ruolo propositivo- valutativo nello svolgimento del tentativo di conciliazione, laddove il richiamo espresso all’equità

“ quale direttiva di merito” del suo intervento4 segnava la diversità dell’attività conciliativa rispetto a quella decisoria, così mettendo al riparo il giudice dal possibile sospetto di anticipazione del giudizio.

La prima attività, quella conciliativa, era rivolta a trovare una assetto “in equilibrio” degli interessi in conflitto, satisfattivo per le parti; la seconda, quella decisoria, era incentrata, invece, sul giudizio di fondatezza delle opposte pretese.5.

Ed allora il giudice, che tradizionalmente si limitava ad assicurare, in posizione di neutralità, l’uguaglianza delle parti nel procedimento conciliativo, controllandone la correttezza dello svolgimento e dello sviluppo delle opzioni - per effetto delle esaminate innovazioni legislative - sempre più controlla la soluzione del conflitto, incidendo talvolta sul contenuto della soluzione negoziale.

La novella del c.d. collegato lavoro: il giudice e le parti alla udienza di discussione.

È questo, nei suoi tratti principali, lo sfondo normativo nel quale si colloca la novella dell’art. 420, primo comma, c.p.c.; con l’ulteriore precisazione, di sicura rilevanza sul piano interpretativo, che

4 vd. Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 5/2003

5 Santagada, “La conciliazione delle controversie civili”, Cacucci Editore, Bari, 2008 pg. 219

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tra la citata riforma del 2005 ed il c.d. collegato lavoro è intervenuta la Direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008 sulla mediazione in materia civile e commerciale, cui ha dato attuazione, tra le note polemiche, il decreto legislativo n.28 del 2010.

La concisione con cui sono indicate le attività preliminari che il giudice del lavoro deve compiere

“nell’udienza fissata per la discussione della causa” ed, in particolare, lo scarno riferimento all’obbligo, nel caso di esito negativo del tentativo di conciliazione, di formulare alle parti “una proposta transattiva”, non semplificano l’opera dell’interprete.

La norma non indica al giudice alcun parametro cui attenersi nella ricerca delle possibili soluzioni da suggerire alla concertazione delle parti, né alcuna direttiva alla sua azione propositiva.

Nella fase iniziale del giudizio, quando è più che mai fluido il gioco delle parti “Il codice dà sostanzialmente carta bianca al giudice”6.

Peraltro, a differenza che nella conciliazione societaria dove, con l’avverbio “eventualmente” il legislatore riconosceva in capo al presidente del collegio il potere di decidere discrezionalmente se fosse o meno opportuno formulare una proposta transattiva, il nuovo testo del citato comma 1 sancisce l’obbligo, seppure non sanzionato, di formulare la proposta.

Così che, accanto alla obbligatorietà, già nel testo dell’art. 420 c.p.c. precedente alla modifica, quanto meno “nominale”, per il giudice del lavoro, di esperire il tentativo di conciliazione, vi è pure l’obbligatorietà della proposta transattiva, proposta che ovviamente sarà formulata solo se le parti non si siano conciliate spontaneamente.

Per il processo del lavoro si configura, quindi, un singolare scenario: da un lato l’assenza di ogni riferimento alla “natura della causa” - inciso il cui significato non può essere “…semplicisticamente identificato con la disponibilità del diritto controverso…”7 - circa l’an del tentativo di conciliazione;

dall’altro, con la riforma del “collegato”, l’obbligo per il giudice del lavoro di formulare la proposta, anche se alcuna delle parti ne abbia fatto richiesta e se alcuno dei contendenti ne abbia avanzato una propria.

Quindi, sottratta al giudice, almeno formalmente, e senza il correttivo della “facoltatività” previsto dall’attuale art. 185 c.p.c. per il processo ordinario, ogni valutazione in ordine alle caratteristiche della controversia, alla qualità ed all’atteggiamento delle parti, alle ragioni di economia processuale sulla opportunità di esperire il tentativo di conciliazione - la “natura della causa”, appunto - gli si attribuisce, di contro, un ruolo propositivo di soluzioni conciliative, tradizionalmente estraneo alla cultura del magistrato giudicante, dai contorni indefiniti e dal contenuto indeterminato.

6 Fabrizia Garri, in Questione Giustizia n.6, 2010, pg 152

7 Santagada, “La conciliazione delle controversie civili”, cit.pg. 200

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Con l’aggiunta che il legislatore del “collegato lavoro”, diversamente che quello del processo societario, neanche soccorre il giudice con il richiamo espresso al criterio dell’equità “quale direttiva di merito” della sua azione propositiva e quale garanzia della sua imparzialità in sede di

“eventuale” decisione della causa” 8.

Il mancato riferimento all’equità, prevista invece dall’art. 16, comma 2, del d.lgs. n.5 del 2003, espone, quindi, il giudice del lavoro, il quale non potrà che muoversi tra le due posizioni estreme come prospettate dalle parti negli atti introduttivi, al rischio della anticipazione del giudizio, con l’ulteriore conseguenza, preannunciata da un parte della dottrina, che ne possa “..addirittura discendere un profilo di ricusazione o quanto meno di astensione del giudice ai sensi dell’art. 51, 1^

comma, n.4 c.p.c.” 9.

L’immagine che si profila è quella di un giudice senza protezione, sempre più “ offerto” allo sguardo sospettoso delle parti, timorose dinanzi a un potere il cui esercizio appare governato, in questa fase cruciale del processo, da regole poco visibili , che sfuggono alla ri-conoscibilità ed al controllo.

La proposta transattiva e il ruolo del giudice

Il tema dei possibili contenuti della proposta provoca, poi, più di una considerazione.

In primo luogo, dal momento che ci si muove nell’ambito di una conciliazione tipicamente aggiudicativa, fondata cioè sui diritti, la proposta avrà necessariamente natura transattiva: sicché, secondo lo schema contrattuale tipico delle “reciproche concessioni” di cui all’art. 1965, comma 1 c.c., il giudice non potrà che prospettare alle parti una soluzione parametrata sul grado di fondatezza delle rispettive pretese.

Il divieto, poi, posto dall’art. 3, lett. a), comma 2) della Direttiva n.2008/52/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 al giudice del procedimento giudiziario di “mediare”

nella medesima controversia, impedisce all’autorità giudiziaria investita del potere di decidere ogni accesso alla “negoziazione” in sede di conciliazione giudiziale, inteso quello della negoziazione come lo spazio in cui si muovono gli interessi sostanziali delle parti sottostanti al bene della vita a cui il legislatore attribuisce giuridica rilevanza10.

8 in Santagada, La conciliazione delle controversie civili, cit. pg.219 “….il legislatore ha richiamato il criterio dell’equità, al fine di chiarire la diversità dell’attività conciliativa rispetto a quella decisoria. Il giudice, infatti, proponendo la sua soluzione “ di equa composizione della controversia”, non esprime un giudizio né effettua una valutazione della fondatezza delle contrapposte pretese ... ma individua, senza valutare i fatti, un punto di equilibrio tra i configgenti interessi delle parti, che possa fungere da “ piattaforma” per il raggiungimento della conciliazione la quale

9 Cecchella, Il nuovo rito ordinario per le liti societarie: un’anticipazione della riforma del processo civile, in Santagada, cit.pg. 218 nota 115

10 per la distinzione tra situazione sostanziale protetta e interesse materiale sottostante, vd. Luiso, voce Conciliazione, in

“Il Diritto” Enciclopedia giuridica, Milano, 2007, vol. III, pg.501

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Ne deriva che, nel processo, tutto improntato alla regola del contraddittorio dove “difficilmente una delle parti rivela all’altra il proprio interesse sottostante, in quanto ciò la porrebbe in situazione d’inferiorità nella trattativa e nella successiva, eventuale fase contenziosa”11, è assai improbabile che la proposta del giudice, formulata sulla base delle allegazioni fissate nei rispettivi atti introduttivi, potrà prendere in considerazione “posizioni e diritti estranei alla res controversa”12. Di fatto, quindi, il contenuto della proposta transattiva, così ancorato all’oggetto del giudizio, non potrà che configurarsi nel senso del ridimensionamento della domanda dell’attore, sul cui capo, quindi, il legislatore ha posto, di fatto, nella ipotesi di mancata accettazione della proposta, il rischio della introduzione del giudizio.

Né tale risultato potrà trovare alcun correttivo nella c.d. “creazione di valore” possibile solo all’esito di una procedura di negoziazione, nel cui esclusivo ambito è consentita la ricerca degli interessi sottostanti e la conclusione di un accordo che, anche se non se fondato sulla ragione e sul torto e tanto meno necessariamente sul diritto, sia sentito da entrambe le parti come “opportuno” proprio perché in grado di soddisfare i propri interessi.

Ma la natura tipicamente aggiudicativa della proposta che il giudice è chiamato a formulare, pone, in tutta la sua complessità, un ulteriore tema: quello, già accennato, dei rischi connessi -soprattutto sul piano delle possibili ricadute sul principio di imparzialità - alla scelta, operata dal legislatore del

“collegato”, di unificare in capo al medesimo soggetto funzioni conciliative e giurisdizionali.

In altri termini, come è stato autorevolmente sostenuto in dottrina “quanto più è attiva la partecipazione del giudice all’esperimento conciliativo … tanto più rischia di essere offuscata la sua posizione di organo terzo, imparziale e neutrale”13.

Ed allora, anche quale effetto del contenuto della proposta, emerge nuovamente il rischio della possibile anticipazione del giudizio.

Peraltro l’assunzione da parte dello stesso soggetto di funzioni conciliative e decisorie, pone il giudice in una posizione di assoluta superiorità rispetto alle parti, posizione che può “contaminare”

la volontarietà dell’accettazione della proposta e della conciliazione, e così condizionare la autonomia negoziale di cui la raggiunta “transazione” dovrebbe essere, anche per il contenuto, la massima espressione.

Tutto questo nella materia del lavoro, dove il giudice è più che mai chiamato, nel suo ruolo di terzo imparziale, a garantire la eguaglianza sostanziale delle parti, assicurando in tutte le fasi del processo,

11 Luiso, cit. pg.504

12 così F. Garri, cit.

13 in Briguglio- Capponi, Commentario alle riforme del processo civile, in Santagada, La conciliazione delle controversie civili, cit. pg. 218, nota 115

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ed a maggior ragione nel delicato momento in cui viene esperito il tentativo e formulata la proposta, la tutela del contraente debole.

È evidente, allora, che siamo di fronte al pericolo che possa percepirsi un offuscamento del ruolo

“protettivo” del giudice del lavoro nella fase della conciliazione giudiziale, ed in particolare quando questi formula la proposta transattiva, con non pochi effetti sul piano degli equilibri del “gioco” dei ruoli nel processo stabiliti dal nostro ordinamento.

Ma probabilmente la urgente finalità deflattiva, posta a base anche del “collegato lavoro”, ha fatto porre in secondo piano al nostro legislatore queste preoccupazioni.

Ed allora, al di là di ogni pur possibile intervento modificativo del nuovo art. 420 c.p.c., gli operatori giudiziari sono sempre più chiamati alla elaborazione di “best practices” volte a bilanciare il rischio di compromissione , anche solo apparente, della “neutralità” del giudice nella fase della proposta transattiva e, più in generale, della conciliazione giudiziale.

Un tale sforzo, innanzitutto culturale, che metta al centro la distinzione tra conciliazione giudiziale e mediation nonché la concreta possibilità per il giudice di investire un soggetto terzo della eventuale negoziazione a lui preclusa (c.d. mediazione delegata, ora prevista dall’art. 2, comma 5, d.lgs. n.

28/2010) tocca la questione dell’intreccio tra giurisdizione e tutele alternative, ed introduce il tema, del tutto diverso ed assai attuale, del rapporto tra giustizia pubblica e giustizia privata.

Sono temi, questi, certamente meritevoli di approfondimento e che toccano la ulteriore questione, tutta interna alle professioni, della “formazione” sia degli avvocati che dei giudici: i primi chiamati ad un ruolo sempre più attivo e propositivo, specificamente attrezzato ad assistere la parte in questa particolare e significativa fase processuale, cui ben potrebbe seguire la immediata definizione della causa; i secondi consapevoli della necessità di aggiornare le proprie competenze/abilità in modo da adeguare le singole professionalità al modificarsi dei contenuti stessi della giurisdizione.

Il comune impegno è all’insegna di preservare “…il ruolo del giudice quale garante imparziale dell’attuazione dei diritti soggettivi anche in sede conciliativa”14 e di praticare - definendo ed utilizzando gli spazi della risoluzione alternativa della controversia - le possibilità di autoregolamentazione del conflitto, verso un “sistema giustizia” che sia anche di tipo “ristorativo”, in cui si possa pacificare senza, necessariamente, decidere.

14 Santagada, La conciliazione delle controversie civili,cit., pg. 201

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