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PROBLEMATICHE SULLE RESPONSABILITÀ PENALI

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Academic year: 2022

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* * * TAGETE 2 – 2003

Anno IX

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PROBLEMATICHE SULLE RESPONSABILITÀ PENALI

 

Avv. Roberto Trinchero 

     

La  responsabilità  professionale  dell'odontoiatra  rappresenta  una  tematica  di  estremo  interesse  che si inserisce nella più ampia problematica della responsabilità medica in generale. 

Entrando  subito  nel  tema  assegnato  mi  attinente  alla  specifica  responsabilità  penale  dell'odontoiatra, è necessario distinguere preliminarmente i limiti e le competenze dei differenti  operatori sanitari in odontoiatria, delineare poi le loro funzioni, i campi di intervento e le obbliga‐

zioni, di mezzi o di risultato, che conseguentemente questi professionisti vengono ad assumere. 

Nell'ambito  della  professione  odontoiatrica  si  possono  infatti  distinguere  tre  diverse  figure  professionali: il medico‐chirurgo specializzato in odontostomatologia, il medico chirurgo privo di  specializzazione  ed  il  laureato  in  odontoiatria  e  protesi  dentaria,  regolarmente  abilitato  all'esercizio della professione. 

Quest'ultima figura professionale è stata introdotta dal D.P.R. n.135 del 1980 e l'istituzione della  professione odontoiatrica è stata poi definitivamente sancita con la legge n.409 del 1985. 

Le problematiche nascono dal fatto che tale legge pone le diverse figure professionali sullo stesso  piano senza definirne i rispettivi ambiti di competenza. 

E' necessario pertanto rifarsi alla disciplina comunitaria, specificamente alla direttiva CEE 686/78,  la  quale  testualmente  afferma  che  l'attività  dell'odontoiatra  deve  essere  circoscritta  ad  attività  inerenti  alla  diagnosi  ed  alla  terapia  delle  malattie  e  delle  anomalie,  congenite  ed  acquisite,  dei  denti,  della  bocca,  delle  mascelle  e  dei  relativi  tessuti,  nonché  alla  prevenzione  e  riabilitazione  odontoiatriche. 

Poiché  peraltro  nel  contesto  normativo  su  indicato  non  viene  analizzato  l'aspetto  chirurgico,  mancando quindi una regolamentazione specifica sia nazionale che comunitaria, possono sorgere  perplessità in ordine alla praticabilità da parte degli odontoiatri di veri e propri atti chirurgici, oltre  i normali interventi di estrazione dentaria. 

Essendo  peraltro  quest'ultimo  un  tema  certamente  importante  ma  estraneo  rispetto  a  quello 

 Articolo pubblicato in: I.P.S.E.G., “L’ODONTOIATRA E LA SUA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE. PROFILI GIURIDICI,  MEDICO‐LEGALI E ASSICURATIVI”, ed. Marco Valerio srl. 

 Avvocato penalista, Foro di Torino

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2 specifico della responsabilità medico‐professionale oggetto del seminario, 

non può essere affrontato in tale sede. 

Si può peraltro sinteticamente osservare che la mancanza di regolamentazioni che definiscano gli  ambiti  di  competenza  e  gli  specifici  interventi  praticabili  dalle  varie  figure  professionali  in  odontoiatria, può costituire sia motivo di esitazione del soggetto bisognoso di cure ma, anche e  soprattutto,  un  ostacolo  sia  alla  tutela  della  professione  che  all'affermazione  o  esclusione  di  responsabilità.  E'  pertanto  evidente  la  precauzione  che  deve  accompagnare  l'attività  dell'odontoiatra il quale, per non incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione (art. 348  c.p.),  deve  certamente  attenersi  alle  limitazioni  imposte  dalla  legge,  il  rispetto  delle  quali  costituisce pertanto presupposto indefettibile di una condotta prudente. 

Orbene  entrando  nel  tema  più  significativo  relativo  alle  problematiche  penalistiche,  la  responsabilità professionale medica si configura nel momento in cui il trattamento odontoiatrico  non  abbia  prodotto  l'esito  predeterminato,  ma  abbia  invece  determinato  una  modificazione  peggiorativa dello stato precedente, in altre parole una lesione ovvero addirittura il decesso del  paziente,  tenendo  conto  infatti  che  diverse  patologie  localizzate  (dei  denti  o  del  paradenzio)  possono venire ad interessare altre sedi e provocare gravi complicazioni sistemiche. 

Poiché  le  fattispecie  e  la  responsabilità  penale  di  cui  si  discute  sono  tutte  prevalentemente  a  carattere colposo, appare necessario in tale contesto fornire qualche elemento utile ai non giuristi  al fine di familiarizzare con i più comuni termini di natura‐penalistica. 

Il  codice  penale  all'art.  43  definisce  infatti  il  delitto  colposo  come  quello  "contro  l'intenzione,  quando  l'evento,  anche  se  previsto,  non  è  voluto  dall'agente  e  si  verifica  a  causa  di  negligenza  o  imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline". 

Occorre  quindi  un'azione  commessa  con  coscienza  e  volontà,  ossia  un  comportamento  attribuibile al volere del soggetto, senza che però sussista volontà dell'evento o, meglio del fatto. 

Nel  reato  colposo  l'agente  ha  posto  in  essere  una  condotta  che  risale  ad  un  atto  di  volontà 

"propria", pur non volendolo né direttamente né indirettamente. 

È  necessario  peraltro  che  il  fatto  sia  dovuto  ad  un'imprudenza,  negligenza  o  imperizia  dell'agente, oppure ad una sua inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline. 

Vediamo  separatamente  i  concetti  di  imprudenza,  negligenza  e  imperizia  che  integrano  la  c.d. 

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3 colpa  generica.  Atteso  che  la  responsabilità  per  colpa  può  riguardare  sia  la  fase  diagnostica  che  quella  terapeutica,  possiamo  delineare  in  un  quadro  sintetico  i  parametri  di  riferimento  della  colpa. 

La condotta negligente si concretizza in un'omissione per superficiale inosservanza di quei doveri a  cui ciascun medico deve attenersi nell'esercizio della sua attività, estrinsecandosi pertanto in una  condotta a contenuto passivo caratterizzata da disattenzione e noncuranza. 

L'imprudenza  si  configura  viceversa  in  una  condotta  attiva  tenuta  dall'operatore  priva  della  necessaria ponderazione della previsione o prevedibilità del danno che potrebbe scaturire dal suo  comportamento. 

La perizia impone che chi eserciti la professione medica sia adeguatamente preparato e tecnicam‐

ente capace, quindi dotato della necessaria abilità e perizia sia manuale che strumentale. 

I requisiti di diligenza e prudenza sono criteri indefettibili nell'attività medica, la valutazione della  perizia può invece diversamente articolarsi in relazione alla peculiarità degli interventi medici, alla  loro complessità e al fattore di rischio che implicano. 

La Cassazione Penale si è espressa in tal senso affermando che "la limitazione della responsabilità  dei professionisti alle ipotesi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c., concerne soltanto  l'errore  dovuto  ad  imperizia  e  non  anche  quello  dovuto  a  negligenza  od  imprudenza,  dato  che  esso  è  configurabile  quando  la  prestazione  abbia  richiesto  la  soluzione  di  problemi  tecnici  di  speciale difficoltà. Pertanto, quando la responsabilità del professionista trova la sua origine nella  carenza di diligenza o di prudenza, la valutazione deve essere effettuata con riguardo alla natura  dell'attività svolta con la conseguenza che è rilevante anche la colpa lieve in quanto la diligenza da  impiegare  è  quella  dell'accorto  professionista,  che  eserciti  cioè  la  sua  attività  con  scrupolosa  attenzione ed adeguata preparazione". 

Poiché la responsabilità professionale non è espressamente definita dall'ordinamento italiano ed i  criteri  di  negligenza,  imprudenza  ed  imperizia  sono  nel  contempo  caratterizzati  da  un'eccessiva  genericità  rispetto  alle  molteplici  e  specifiche  situazioni  che  concretamente  si  realizzano  nell'attività  medica,  sarebbe  necessaria  ed  opportuna  una  normativa  specifica  che  codificasse  parametri certi a cui dovrebbero rifarsi sia gli stessi operatori medici sia periti e giudici nell'ipotesi  di una responsabilità giuridica. 

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4 Volendo peraltro sintetizzare e semplificare il concetto di colpa, questa può essere definita come  l'inosservanza di norme frutto dall'esperienza cristallizzate dagli usi o codificate dalle autorità la cui  osservanza  consente  di  evitare  il  verificarsi  di  eventi  dannosi  o  pericolosi  per  il  singolo  e  più  in  generale per la collettività. 

Venendo ad un'analisi più specifica del tema assegnatomi, si deve evidenziare da una parte che la  responsabilità dell'odontoiatra, così come in qualunque prestazione medica, può verificarsi in ogni  fase  del  trattamento,  dalla  profilassi  alla  riabilitazione  funzionale,  e  dall'altra  che  anche  all'odontoiatra,  nell'ambito  della  sua  specializzazione,  sia  richiesta  non  solo  competenza  scientifica e abilità professionale, ma anche la capacità di instaurare un rapporto fiduciario con il  paziente che non può prescindere da un'informazione quanto più completa e dettagliata. 

Così come è ormai fuori di dubbio che per non incorrere in una condotta negligente, l'odontoiatra  non  deve  limitare  il  suo  intervento  alla  specifica  patologia  del  paziente,  ma  deve  valutarne  preliminarmente  l'intero  quadro  clinico,  informandosi  se  lo  stesso  sia  sottoposto  ad  ulteriori  terapie  mediche,  se  presentì  allergie  od  intolleranze  agli  anestetici  o  se  sia  affetto  da  malattie  sistemiche. 

Volendo prospettare alcuni esempi, anche se in termini certamente non esaustivi, la colpa grave  dell'odontoiatra  si  potrebbe  ritenere  certamente  e  clamorosamente  sussistente  in  una  serie  di  errori  di  estrema  gravità  quali  l'estrazione  di  elementi  dentari  sani  al  posto  degli  elementi  pa‐

tologici, l'avulsione incompleta, la determinazione di fratture di processi alveolari o mandibolari  con  possibilità  di  lesione  del  seno  nasale,  la  trasmissione  di  malattie  infettive  per  mancata  sterilizzazione degli strumenti. Ovviamente si integrerebbe una responsabilità penale quando in  conseguenza di tali condotte ne derivasse al paziente una lesione. 

Ed  ancora  nell'ipotesi  in  cui  l'errore  professionale  derivasse  da  una  cattiva  esecuzione  di  cure  endodontiche,  dalla  cattiva  preparazione  di  protesi  dentarie,  nel  caso  di  applicazione  di  apparecchi  ortodontici  mal  confezionati,  l'odontoiatra  potrebbe  essere  ritenuto  comunque  responsabile per l'operato dei suoi collaboratori e tecnici ai sensi dell'art.1228 c.c.. 

Poiché,  come  abbiamo  visto,  è  imprescindibile  che  l'odontoiatra  nell'esercizio  della  sua  professione  faccia  proprie  tutte  quelle  regole  di  buona  condotta,  di  natura  giuridica,  tecnica,  deontologica e morale cui ogni professionista deve attenersi, non si può non sottolineare che tali 

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5 regole  dovrebbero  essere  attentamente  e  scrupolosamente  seguite  anche  in  quella  parte  se  vogliamo  più  burocratica  della  professione,  in  particolare  quella  attinente  alla  compilazione  ed  alla tenuta della cartella clinica ovvero della documentazione sanitaria in senso lato. 

Accuratezza  e  la  precisione  nella  descrizione  e  nella  documentazione  dell'attività  svolta,  sia  diagnostica  che  terapeutica  accompagnata  da  precisi  riferimenti  temporali,  oltre  a  facilitare  complessivamente  il  lavoro  del  professionista  soprattutto  in  relazione  ad  un’attività  che  non  si  esaurisce normalmente in breve tempo ma di regola in varie sedute, consentendo infatti una più  rapida  verifica  dell’iter  degli  interventi,  assume  soprattutto  nei  casi  in  cui  possa  insorgere  un  contenzioso  in  sede  penale,  una  valenza  probatoria  che  potrebbe  essere  anche  decisiva  in  funzione probatoria. 

Infatti  ben  potrebbe  essere  necessario,  al  fine  di  dimostrare  la  carenza  di  profili  colpo  si  di  imprudenza, imperizia o negligenza, dover dimostrare di aver messo in atto sia dal punto di vista  diagnostico  che  terapeutico  tutte  le  precauzioni  necessarie  ed  applicato  la  miglior  terapia  attuabile. 

In  tali  casi  appare  di  tutta  evidenza  come  una  documentazione  clinica  completa,  precisa  e  puntuale, non attaccabile da consulenti tecnici medico‐legali, diverrebbe nel contesto processuale  l'elemento difensivo più rilevante e decisivo, ben superiore anche alle eventuali dichiarazioni del  professionista  stesso  in  qualità  di  indagato.  Nell'ambito  di  un'analisi  generale  emerge  altresì  un  profilo  che  merita  una  breve  osservazione:  in  relazione  alla  pur  sempre  esistente  incertezza  di  qualificazione giuridica delle prestazioni mediche, se esse possano definirsi obbligazioni di mezzo  ovvero di risultato, mi sembra corretto ritenere che l'intervento odontoiatrico possa avere plurime  e differenti finalità quali il ripristino funzionale, masticatorio o occlusale, la riabilitazione fonetica,  il miglioramento estetico. 

Ne  consegue  che,  quando  l'intervento  miri  a  protesizzare  elementi  mancanti  o  a  ripristinare  la  funzione masticatoria sussiste obbligo di mezzi, quando invece le finalità sono prevalentemente  estetiche,  l'obbligazione  è  di  risultato,  diversificandosi  quindi  la  responsabilità  dell'odontoiatra. 

Responsabilità penale che ricordiamo potrebbe sussistere solo in tanto in quanto si sia prodotta  nel  paziente  una  lesione  qualificabile  come  malattia  eventualmente  aggravata  da  un  indebolimento permanete di un organo. 

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6 Altro  argomento  assolutamente  di  attualità  e  di  estrema  rilevanza,  anche  in  relazione  alle  prestazioni professionali del medico odontoiatra, riguarda la tematica del consenso informato. 

Poiché  oggi  non  esistono  dubbi  di  sorta  sull'obbligatorietà  della  sua  assunzione  da  parte  del  paziente, il consenso rappresenta quindi un elemento essenziale ed irrinunciabile del rapporto tra  il  medico  ed  il  suo  assistito,  divenendo  un  presupposto  discriminante  insostituibile  anche  in  ambito penalistico. Appare infatti incontestabile come l'interesse ultimo del paziente al risultato  dell'intervento medico non possa prescindere da una completa informazione circa i probabili esiti  dello stesso, le modalità di intervento ed i rischi ad esso connaturati. 

Di conseguenza è intuitivo come assuma decisivo rilievo sia la validità del contratto intercorso tra  questi soggetti, validità strettamente connessa alle caratteristiche sostanziali e di espressione del  consenso stesso, sia e non di meno la dimostrazione probatoria della sua sussistenza, il cui onere  incombe certamente sul professionista. 

Altrettanto  rilevante  è  altresì  definire,  anche  in  ambito  penalistico,  le  conseguenze  della  violazione dell'obbligo del consenso o di una non corretta informazione data al paziente. 

Atteso  che  esaustiva  dottrina  e  giurisprudenza  sull'argomento  hanno  ormai  consolidato  il  principio che la mancanza di consenso rende di per se illecito l'atto medico, essendo quest'ultimo  lesivo  dell'integrità  fisica  del  paziente,  si  ritiene  che  in  carenza  di  consenso  il  medico  debba  rispondere  di  lesioni  volontarie,  ancorché  l'atto  medico  sia  stato  correttamente  eseguito  e  non  abbia prodotto conseguenze negative di sorta. 

Certamente tale linea giurisprudenziale può destare istintivamente, e soprattutto per un profano  del diritto, perplessità ma d'altra parte non si può non convenire che un atto medico, che non sia  stato preceduto da una corretta informazione e da un valido consenso, rappresenta una violazio‐

ne del diritto personalissimo del paziente alla disponibilità del proprio corpo in quanto lesiva della  sfera personale del soggetto e della libertà morale dello stesso. 

Non solo ma sta prendendo slancio un'ulteriore tesi in materia di responsabilità penale colpo sa  secondo  la quale quest'ultima  sussisterebbe  nelle  ipotesi  in  cui,  pur  in presenza  di  un  consenso,  quest'ultimo fosse carente sotto il profilo della completa informazione al paziente circa i possibili  e prevedibili rischi connessi all'intervento. 

In tale caso si sostiene che le conseguenze negative derivate al paziente anche in assenza di una 

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7 condotta medica imprudente, imperita o negligente, sarebbero addebitabili comunque al medico  in quanto quest'ultimo avrebbe colpevolmente omesso di informare compiutamente il paziente. 

In tale caso pertanto diverrebbe rilevante sotto il profilo penalistico non la carenza del consenso  ma la sua incompletezza. 

Molte  riflessioni  ed  osservazioni  critiche  potrebbero  esser  mosse  a  tale  impostazione  giuridica  (oggi  anche  percorsa  dalla  Procura  di  Torino),  ma  porterebbero  via  troppo  spazio  al  mio  intervento. Certamente serviranno per una costante riflessione sul punto. 

Certo  il  consenso  non  solo  deve  esser  presente,  ma  ciò  che  è  altrettanto  indispensabile  è  che  l'informazione  resa  al  paziente  sia  completa,  puntuale  ed  idonea  a  consentire  allo  stesso  una  scelta  pienamente  consapevole:  appare  infatti  di  tutta  evidenza  come  la  mancanza  di  una  reale  informazione puntuale ed esaustiva, e quindi in grado di essere pienamente recepita dal paziente,  vizi alla base l'effettività e la validità del consenso. 

Relativamente  all'onere  probatorio  è  indubitabile  che  il  medico  deve  dimostrare  non  solo  l'esistenza del preventivo consenso, ma anche la sua validità nell'ottica appena descritta. 

In  ordine  al  primo  aspetto  si  può  sinteticamente  osservare  che  il  consenso,  per  costante  orientamento giurisprudenziale, non è condizionato a specifici requisiti di forma, potendo essere  manifestato al sanitario anche con un comportamento tacito. Il comportamento che riveli dunque  in  maniera  inequivocabile  e  precisa  la  volontà  di  non  sottrarsi  all'intervento  medico,  già  integra  un'ipotesi  di  consenso  validamente  manifestato.  Se  la  forma  scritta  sicuramente  assolve  più  agevolmente  all'onere  probatorio,  è  viceversa  da  sottolineare  come  un  'informazione  resa  oralmente sia spesso più idonea a rendere al paziente una spiegazione più completa, dettagliata,  diretta ed arricchita con le modalità espressive più consone alla capacità di comprensione di chi  deve recepirla. 

Si  è  prospettato  come,  fino  a  quando  la  necessità  di  trasmettere  un  'informazione  completa  e  consona  non  sia  divenuto  un  automatismo  nella  pratica  medica  ad  ogni  livello,  possa  essere  indispensabile  ed  insostituibile,  come  modello  operativo  unico  e  dotato  di  validità  probatoria,  quello della presenza di testimoni per entrambe le parti, professionista ed assistito, che dichiarino  sull'assolvimento dell'obbligo informativo. 

In  specifiche  ipotesi,  in  cui  la  particolarità  delle  prestazioni  diagnostiche  o  terapeutiche,  o  le 

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8 possibili  conseguenze  sull'integrità  fisica  del  paziente,  rendano  opportuna  un'inequivoca  manifestazione di volontà del malato, un consenso necessariamente scritto va ad integrare, ma  non a sostituire, il normale consenso informato. 

In ogni caso nessun trattamento diagnostico e terapeutico può essere intrapreso in presenza di un  esplicito  rifiuto  del  paziente  capace  di  intendere  e  di  volere,  non  essendo  consentito  alcun  trattamento  medico  contro  la  sua  volontà.  Fa  eccezione  l'ipotesi  di  trattamento  sanitario  obbligatorio,  ipotesi  in  cui  l'opposizione  del  paziente  non  produce  alcun  effetto.  E'  opportuno  ricordare che anche in tali situazioni è comunque vietato al medico porre direttamente in essere  trattamenti fisici coattivi. 

In ordine poi alla validità del consenso sotto il profilo della sua completezza, mi sembra corretto  poter concludere che sarebbe oltremodo necessario promuovere una sorta di standardizzazione  del  consenso,  soprattutto  relativamente  ai  contenuti  sia  formali  che  sostanziali  che  deve  assumere  l'informazione.  Fondamentale  a  tal  fine  sarebbe  infatti  pervenire  ad  una  opinione  comune  in  ordine  ai  requisiti  che  dovrebbero  connotare  di  validità  il  consenso,  per  fornire  al  medico  e  alla  giurisprudenza  delle  linee  guida  essenziali  che  definiscano  le  corrette  modalità  di  espressione e le giuste formule per validarne il significato e la dimostrabilità probatoria. 

In  realtà  la  situazione  attuale  in  ambito  giudiziario  demanda  la  valutazione  della  conformità  dell'informazione e del consenso in via quasi esclusiva (eventualmente con l'appoggio di qualche  consulente tecnico) al giudizio del giudice, che spesso è privo di univoci elementi su cui basare il  proprio giudizio. 

Un  contributo  sul  punto  potrebbe  ricavarsi  dalla  giurisprudenza  americana  significativa  per  le  elaborazioni di una casistica ricorrente che possono venire ad assumere valore giurisprudenziale  per la logicità sostanziale che le caratterizza. Si sono ivi elaborati due criteri di riferimento: quello  della  prudencial  rule  secondo  cui  è  da  ritenersi  confacente  l'informazione  fornita  dal  sanitario,  quando questa possa ritenersi soddisfacente per altra persona ritenuta cauta e giudiziosa, e quello  della professional standard rule secondo cui il medico è tenuto ad informare l'assistito di quanto è  presumibile  ritenere  che,  in  analoghe  circostanze,  sarebbe  riferito  dalla  maggior  parte  dei  colleghi. 

In conclusione sul punto relativo all'onere probatorio del consenso si deve osservare che non solo 

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9 e  non  tanto  è  rilevante  la  dimostrazione  di  un  consenso  effettivamente  reso  quanto  della  sua  validità, ossia della completezza e personalizzazione dell’informazione in ordine ad ogni possibile  aspetto dell’intervento medico ed in prospettiva delle finalità cui tale informazione deve mirare. 

Un ultimo rilievo che mi sembra opportuno evidenziare anche in ambito odontoiatrico, riguarda le  linee guida, noti strumenti di ausilio alla pratica clinica definibili come raccomandazioni elaborate  in modo sistematico per aiutare il sanitario a prendere decisioni circa il trattamento terapeutico  adatto a specifiche circostanze cliniche. 

Lo scopo delle linee guida consiste dunque nel migliorare l'efficacia clinica, la qualità delle cure e  soprattutto nel fornire indicazioni per la gestione dei rischi derivanti dai vari interventi. 

Oggi  si  è  ancora  cauti  nell'attribuire  alle  linee  guida  autorevolezza  medico‐legale  assoluta  ma  il  loro rilievo nei giudizi di responsabilità medica è destinato a crescere in maniera considerevole. 

Da  un  punto  di  vista  giuridico  infatti  la  valutazione  della  competenza  media  esigibile  dall'odontoiatra medio in un determinato atto sanitario non può che ricavarsi dal raffronto con gli  standard normali di assistenza e modalità di intervento nello specifico settore. 

Una linea guida può avere rilievo in un giudizio di responsabilità medica solo nella misura in cui  costituisca parametro di riferimento che individui una condotta professionale media, definendo i  mezzi e le regole di condotta tecnica seguite nella prassi dagli odontoiatri mediamente diligenti in  un'analoga situazione ed all'epoca dei fatti. 

E' importante sottolineare come le linee guida vengano ad assumere un diverso rilievo giuridico  per  l'odontoiatra  che  abbia  un  rapporto  di  lavoro  dipendente  presso  strutture  ospedaliere  o  cliniche dove siano definite in via generale da un organo dirigente responsabile. In tal caso le linee  guida corrispondono ad atti normativi interni o regolamenti di servizio ai quali si riconosce potere  di indirizzo con efficacia vincolante per tutti gli operatori. 

Ne  consegue  che  in  ipotesi  di  danno  cagionato  per  il  mancato  rispetto  di  tali  indicazioni,  può  configurarsi un'ipotesi di colpa specifica per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline  che delineano la responsabilità della struttura. 

In definitiva le linee giuda sono strumenti di riferimento che tendono a razionalizzare le condotte  professionali  nelle  varie  ipotesi  di  intervento,  definendo  mezzi  e  procedure  a  cui  l'odontoiatra  medio, con la dovuta diligenza, deve attenersi. 

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10 Ne  consegue  che  il  rispetto  e  l'adesione  da  parte  dell'odontoiatra  nel  caso  specifico  rappresentano un fondamentale indicatore di condotta diligente, perita e prudente. L’argomento  che ho ritenuto di lasciare in coda riguarda l'accertamento della sussistenza del nesso causale tra  la  condotta  e  l'evento.  Rappresenta  indubitabilmente  un  tema  importantissimo  circa  le  problematiche  penalistiche  della  responsabilità  professionale  sanitaria  e  continua  a  suscitare  ampi  dibattiti  in  dottrina  ed  in  giurisprudenza.  Il  codice  penale  attualmente  vigente  all'art.  40  dispone che: «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento  dannoso  o  pericoloso,  da  cui  dipende  l'esistenza  del  reato  non  è  conseguenza  della  sua  azione  o  omissione»  ed  al  capoverso:  «non  impedire  un  evento,  che  si  ha  l'obbligo  giuridico  di  impedire,  equivale a cagionarlo». 

L’accertamento del nesso causale è quindi indispensabile affinché un evento possa essere riferito,  e di conseguenza addebitato, all'autore della condotta. 

Il criterio comunemente utilizzato dalla dottrina e dalla giurisprudenza per la ricostruzione causale  consiste, per la causalità attiva, nel procedimento di eliminazione mentale mediante il ricorso alla  formula della condicio sine qua non; in pratica viene considerata causa dell'evento quell'azione che  non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno. 

In altri termini sarà causa dell'evento‐reato ogni condotta (attiva o omissiva) antecedente senza la  quale l'evento non si sarebbe verificato; quindi per sapere se un determinato comportamento è  condizione  indispensabile,  sarà  sufficiente  domandarsi  se  l'evento  concreto  si  sarebbe  ugualmente verificato senza quella condotta dell'agente; se la risposta è affermativa la stessa non  potrà  essere  considerata  causa  dell'evento,  in  caso  invece  di  risposta  negativa  tale  condotta  risulterà essere condicio sine qua non. 

Discorso diverso invece per la causalità omissiva che solleva maggiori difficoltà di accertamento in  quanto  ovviamente  non  può  consistere  in  una  indagine  reale  ma  si  deve  necessariamente  attestare  nel  campo  ipotetico;  in  altri  termini  occorre  verificare  se  il  compimento  dell'azione  doverosa (la cui omissione viene contestata) avrebbe impedito il verificarsi dell'evento dannoso o  pericoloso. 

E' evidente la difficoltà di condurre un'indagine rivolta a chiarire gli effetti ipotetici di un fattore  che non si è mai verificato. 

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11 Il Giudice nell'accertamento della causalità omissiva dovrà  inevitabilmente ricorrere all'ausilio  di  regole d'esperienza secondo il principio dell'id quod plerumque accidit. 

Esaminando  il  cammino  giurisprudenziale  in  tema  di  accertamento  della  causalità  omissiva,  si  rileva  che  al  criterio  della  certezza  degli  effetti  della  condotta  si  può  sostituire  quello  della  probabilità di tale effetto, nel senso di ritenere sussistente il rapporto di causalità anche quando  l'azione  che  doveva  essere  compiuta,  avrebbe  avuto  non  già  la  certezza,  quanto  serie  ed  apprezzabili probabilità di 

successo. (Vds. Cass. Sez. IV 7/1/1983, Est. Suriano). 

Tali  probabilità  sono  state  individuate  nella  giurisprudenza  della  Suprema  Corte  in  maniera  sempre  più  restrittiva  e  partendo  da  un  settanta‐ottanta  per  cento  (Cass.  2/4/  1987,  Ziliottoi  Cass26/4/1983  Andreini)  si  è  giunti  ad  un  ordine  del  cinquanta  per  cento  (Cass.  7/3/1989,  Princivalli) ed infine addirittura nella misura del trenta per cento (Cass. Sez. VI 12/7/1991, Silvestri  e Leone). 

In tale contesto si è inserita nel 1990 la sentenza sul disastro di Stava (sez.IV, 6/12/1990 n.4973,  Bonetti) che ha rappresentato una vera svolta nell'interpretazione dell'art. 40 c.p. 

I giudici della Suprema Corte, nel ritenere che: “il nesso di causalità è un requisito della fattispecie,  esso non può essere configurato in modo tale da restare del tutto indeterminato, o determinabile di  volta in volta dal giudice in base al suo imperscrutabile apprezzamento: lo vieta il principio costitu‐

zionale di legalità‐tassatività della fattispecie”, hanno affermato la necessità di ricorrere alle leggi  universali e, in mancanza di queste, a quelle statistiche. 

Proprio  con  riferimento  a  queste  ultime  ci  si  è  posti  l'interrogativo  sull'entità  del  coefficiente  percentualistico che rende utilizzabile la legge statistica nel processo penale. 

La sentenza di Stava sul punto si limita ad affermare che le leggi statistiche "sono tanto più dotate  di validità scientifica quanto possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi” 

ed  il  giudice  ove  non  potendo  disporre  di  leggi  universali  "dirà  che  è  probabile  che  la  condotta  dell'agente  costituisca  coeteris  paribus,  una  condizione  necessaria  dell'evento,  probabilità  che  altro  non  significa  se  non  probabilità  logica  o  credibilità  razionale,  probabilità  che  deve  essere  di  alto  grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell'agente, l'evento non  si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità”.  

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12 La sentenza in argomento ha avuto l'indiscusso pregio di sottolineare che il nesso causale (come  del resto ogni altro elemento della fattispecie) deve essere oggetto di accertamento rigoroso tale  da  non  lasciare  dubbio  alcuno,  e  ciò  in  ossequio  ai  principi  di  legalità  e  tassatività  sanciti  nella  Costituzione. 

Il cammino iniziato dalla sentenza Stava trova poi sviluppo e conferma in altre recenti pronunzie  della Corte di Cassazione che hanno ulteriormente chiarito ed approfondito i ragionamenti svolti,  arrivando ad affermare che: “In ossequio al principio di personalità della responsabilità penale, il  giudice può affermare sussistente il rapporto di causalità in quanto abbia accertato, con probabi‐

lità  vicina  alla  certezza‐  ovvero  con  probabilità  vicina  a  cento‐  che  la  condotta,  vuoi  attiva  vuoi  omissiva,  è  stata  causa  dell'evento  verificatosi”  [Cass.  Sez.  IV;  29  Novembre  2000,  no  9793,  MUSTO; identicamente, Cass. Sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, BALTROGGHI; vds. anche  Cass. sez. IVG, 28 novembre 2000, n. 2123, DI GINTIO]. 

La  Corte,  nelle  sentenze  sopra  indicate,  introduce  due  motivi  di  novità  nel  dibattito  giurisprudenziale  sull'accertamento  del  nesso causale  nei reati  omissivi.  Da  un  lato  si  dice  che  il  procedimento  di  accertamento  della  causalità  omissiva  non  si  differenzia  da  quello  utilizzato  in  caso  di  reati  commissivi  ("...  sarebbe  stato  un  non  senso  continuare  a  sostenere  la  diversità  strutturale della causalità attiva dalla causalità omissiva”), sottoponendo quindi ad una stringente  verifica il tema della causalità ipotetica. 

Il secondo punto affrontato dalla Corte riprende l'impostazione della sentenza Stava nel fatto che  il  Giudice  non  può  accontentarsi  di  una  probabilità,  anche  se  credibile,  seria  razionale,  ma  può  accettare  la  legge  probabilistica  [statistica]  soltanto  qualora  questa  enunci  una  connessione  tra  eventi in una percentuale vicina a cento [vds. sentenza Baltrocchi]. 

Una  probabilità  che  deve  sfiorare  la  certezza  non  ammette  evidentemente  discorsi  ipotetici. 

Viene  quindi  ancora  una  volta  ribadita  l'equiparazione,  sotto  il  profilo  dell'accertamento,  tra  causalità omissiva e causalità commissiva. 

Si  è  ancora  aggiunta  altra  recentissima  sentenza  della  IV  sezione  penale  della  Corte  di  Cassazione del 25/09/ 2001 che si può dire, ha concluso il cammino intrapreso con la sentenza sul  disastro di Stava. 

L’estensore di quest'ultima, nel prendere le mosse dal fatto che il giudice penale deve accertare il 

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13 fatto contestato come reato in  termini  di assoluta certezza, richiama  l'attenzione sul significato  che  deve  essere  attribuito  alla  "elevata  probabilità"  affermando  che  la  locuzione  «significa  probabilità  vicino  alla  certezza,  confinante  con  la  certezza,  non  v'è  dubbio  che  la‐èlevata  probabilità altro non sarebbe che certezza, che la dottrina che, in tema di rapporto di causalità si è  occupata  dell'elevata  probabilità  per  metterne  in  evidenza  gli  equivoci  ai  quali  si  presta,  ha  dimostrato, peraltro, che neppure la scienza conosce certezze, ma soltanto probabilità confinanti  con la certezza, sicché di elevata probabilità può parlarsi soltanto se la si intende come probabilità  confinante con la certezza». 

Ancora  una  volta  la  Suprema  Corte  rivisita  l'argomento  dell'accertamento  del  nesso  causale  e,  volendo  spingersi  ad  una  quantificazione  percentualistica  di  tale  "probabilità"  e  rispondendo  quindi a quell'interrogativo lasciato insoluto dalla sentenza Stava, l'estensore della presente pro‐

nuncia afferma: "Se elevata probabilità significa, invece, certezza al 70%, all'80% o anche al 90% 

‐e  ciò  perché  neppure  queste  dieci  distanze  sono,  e  non  lo  sono  neanche  per  la  citata  dottrina,  qualcosa che confini con la certezza ‐il fatto non può ritenersi accertato, sicché la sentenza che lo  ritenesse accertato non potrebbe non essere annullata per difetto di motivazione o, se si vuole,  per illogicità manifesta perché darebbe per accertato ciò che, alle condizioni date, non può dirsi  logicamente che lo sia». E' fuori di dubbio che la sentenza "Sgarbi" costituisca l'anello di chiusura  del discorso iniziato con la pronuncia sul disastro di Stava e ciò con espresso riferimento non solo  all’ulteriore  specificazione  percentualistica  riferita  all'"elevata  probabilità",  ma  anche  e  soprattutto  al  fatto  che  se  il  nesso  causale  è  elemento  costitutivo  della  fattispecie  anch'esso,  come la condotta e l'evento, deve essere individuato con "assoluta certezza". 

Del  resto  tale  conclusione  diventa  oggi  l'unica  accettabile  non  solo  alla  luce  dei  principi  di  tassatività  e  stretta  legalità,  ma  soprattutto  del  criterio  di  giudizio  che  deve  immancabilmente  essere  proprio  del  giudice  penale  consistente  nella  regola  dell'"oltre  ogni  ragionevole  dubbio". 

Pare  allora  corretto  sostenere  che  la  Giurisprudenza  della  Suprema  Corte,  una  volta  così  poco  garantista da individuare "le serie ed apprezzabili probabilità di successo" addirittura nella misura  del  trenta  per  cento  [vds.  cass.  sez.  VI  12/7/1991  Ric.  Silvestri  e  Leone],  abbia  mutato  il  proprio  orientamento  e  richieda  che  il  nesso  di  condizionamento  tra  la  condotta  e  l'evento  debba  essere  accertato,  come  tutti  gli  altri  elementi  della  fattispecie,  in  termini  di  certezza.  Del  resto  volendo 

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14 ragionare  in  termini  di  prospettiva  futura  ci  si  accorge  che  la  stessa  impostazione  si  rinviene  nell'art. nell'art. 14 del Progetto Preliminare di riforma del codice penale che trattando del nesso  causale  nei  reati  omissivi,  dispone  che:  «non  impedire  un  evento  che  si  ha  l'obbligo  giuridico  di  impedire  equivale  a  cagionarlo,  se  il  compimento  dell'attività  omessa  avrebbe  impedito  con  certezza l'evento». 

 

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