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Anno IX
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PROBLEMATICHE SULLE RESPONSABILITÀ PENALI
Avv. Roberto Trinchero
La responsabilità professionale dell'odontoiatra rappresenta una tematica di estremo interesse che si inserisce nella più ampia problematica della responsabilità medica in generale.
Entrando subito nel tema assegnato mi attinente alla specifica responsabilità penale dell'odontoiatra, è necessario distinguere preliminarmente i limiti e le competenze dei differenti operatori sanitari in odontoiatria, delineare poi le loro funzioni, i campi di intervento e le obbliga‐
zioni, di mezzi o di risultato, che conseguentemente questi professionisti vengono ad assumere.
Nell'ambito della professione odontoiatrica si possono infatti distinguere tre diverse figure professionali: il medico‐chirurgo specializzato in odontostomatologia, il medico chirurgo privo di specializzazione ed il laureato in odontoiatria e protesi dentaria, regolarmente abilitato all'esercizio della professione.
Quest'ultima figura professionale è stata introdotta dal D.P.R. n.135 del 1980 e l'istituzione della professione odontoiatrica è stata poi definitivamente sancita con la legge n.409 del 1985.
Le problematiche nascono dal fatto che tale legge pone le diverse figure professionali sullo stesso piano senza definirne i rispettivi ambiti di competenza.
E' necessario pertanto rifarsi alla disciplina comunitaria, specificamente alla direttiva CEE 686/78, la quale testualmente afferma che l'attività dell'odontoiatra deve essere circoscritta ad attività inerenti alla diagnosi ed alla terapia delle malattie e delle anomalie, congenite ed acquisite, dei denti, della bocca, delle mascelle e dei relativi tessuti, nonché alla prevenzione e riabilitazione odontoiatriche.
Poiché peraltro nel contesto normativo su indicato non viene analizzato l'aspetto chirurgico, mancando quindi una regolamentazione specifica sia nazionale che comunitaria, possono sorgere perplessità in ordine alla praticabilità da parte degli odontoiatri di veri e propri atti chirurgici, oltre i normali interventi di estrazione dentaria.
Essendo peraltro quest'ultimo un tema certamente importante ma estraneo rispetto a quello
Articolo pubblicato in: I.P.S.E.G., “L’ODONTOIATRA E LA SUA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE. PROFILI GIURIDICI, MEDICO‐LEGALI E ASSICURATIVI”, ed. Marco Valerio srl.
Avvocato penalista, Foro di Torino
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2 specifico della responsabilità medico‐professionale oggetto del seminario,
non può essere affrontato in tale sede.
Si può peraltro sinteticamente osservare che la mancanza di regolamentazioni che definiscano gli ambiti di competenza e gli specifici interventi praticabili dalle varie figure professionali in odontoiatria, può costituire sia motivo di esitazione del soggetto bisognoso di cure ma, anche e soprattutto, un ostacolo sia alla tutela della professione che all'affermazione o esclusione di responsabilità. E' pertanto evidente la precauzione che deve accompagnare l'attività dell'odontoiatra il quale, per non incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 c.p.), deve certamente attenersi alle limitazioni imposte dalla legge, il rispetto delle quali costituisce pertanto presupposto indefettibile di una condotta prudente.
Orbene entrando nel tema più significativo relativo alle problematiche penalistiche, la responsabilità professionale medica si configura nel momento in cui il trattamento odontoiatrico non abbia prodotto l'esito predeterminato, ma abbia invece determinato una modificazione peggiorativa dello stato precedente, in altre parole una lesione ovvero addirittura il decesso del paziente, tenendo conto infatti che diverse patologie localizzate (dei denti o del paradenzio) possono venire ad interessare altre sedi e provocare gravi complicazioni sistemiche.
Poiché le fattispecie e la responsabilità penale di cui si discute sono tutte prevalentemente a carattere colposo, appare necessario in tale contesto fornire qualche elemento utile ai non giuristi al fine di familiarizzare con i più comuni termini di natura‐penalistica.
Il codice penale all'art. 43 definisce infatti il delitto colposo come quello "contro l'intenzione, quando l'evento, anche se previsto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline".
Occorre quindi un'azione commessa con coscienza e volontà, ossia un comportamento attribuibile al volere del soggetto, senza che però sussista volontà dell'evento o, meglio del fatto.
Nel reato colposo l'agente ha posto in essere una condotta che risale ad un atto di volontà
"propria", pur non volendolo né direttamente né indirettamente.
È necessario peraltro che il fatto sia dovuto ad un'imprudenza, negligenza o imperizia dell'agente, oppure ad una sua inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline.
Vediamo separatamente i concetti di imprudenza, negligenza e imperizia che integrano la c.d.
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3 colpa generica. Atteso che la responsabilità per colpa può riguardare sia la fase diagnostica che quella terapeutica, possiamo delineare in un quadro sintetico i parametri di riferimento della colpa.
La condotta negligente si concretizza in un'omissione per superficiale inosservanza di quei doveri a cui ciascun medico deve attenersi nell'esercizio della sua attività, estrinsecandosi pertanto in una condotta a contenuto passivo caratterizzata da disattenzione e noncuranza.
L'imprudenza si configura viceversa in una condotta attiva tenuta dall'operatore priva della necessaria ponderazione della previsione o prevedibilità del danno che potrebbe scaturire dal suo comportamento.
La perizia impone che chi eserciti la professione medica sia adeguatamente preparato e tecnicam‐
ente capace, quindi dotato della necessaria abilità e perizia sia manuale che strumentale.
I requisiti di diligenza e prudenza sono criteri indefettibili nell'attività medica, la valutazione della perizia può invece diversamente articolarsi in relazione alla peculiarità degli interventi medici, alla loro complessità e al fattore di rischio che implicano.
La Cassazione Penale si è espressa in tal senso affermando che "la limitazione della responsabilità dei professionisti alle ipotesi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c., concerne soltanto l'errore dovuto ad imperizia e non anche quello dovuto a negligenza od imprudenza, dato che esso è configurabile quando la prestazione abbia richiesto la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Pertanto, quando la responsabilità del professionista trova la sua origine nella carenza di diligenza o di prudenza, la valutazione deve essere effettuata con riguardo alla natura dell'attività svolta con la conseguenza che è rilevante anche la colpa lieve in quanto la diligenza da impiegare è quella dell'accorto professionista, che eserciti cioè la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione".
Poiché la responsabilità professionale non è espressamente definita dall'ordinamento italiano ed i criteri di negligenza, imprudenza ed imperizia sono nel contempo caratterizzati da un'eccessiva genericità rispetto alle molteplici e specifiche situazioni che concretamente si realizzano nell'attività medica, sarebbe necessaria ed opportuna una normativa specifica che codificasse parametri certi a cui dovrebbero rifarsi sia gli stessi operatori medici sia periti e giudici nell'ipotesi di una responsabilità giuridica.
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4 Volendo peraltro sintetizzare e semplificare il concetto di colpa, questa può essere definita come l'inosservanza di norme frutto dall'esperienza cristallizzate dagli usi o codificate dalle autorità la cui osservanza consente di evitare il verificarsi di eventi dannosi o pericolosi per il singolo e più in generale per la collettività.
Venendo ad un'analisi più specifica del tema assegnatomi, si deve evidenziare da una parte che la responsabilità dell'odontoiatra, così come in qualunque prestazione medica, può verificarsi in ogni fase del trattamento, dalla profilassi alla riabilitazione funzionale, e dall'altra che anche all'odontoiatra, nell'ambito della sua specializzazione, sia richiesta non solo competenza scientifica e abilità professionale, ma anche la capacità di instaurare un rapporto fiduciario con il paziente che non può prescindere da un'informazione quanto più completa e dettagliata.
Così come è ormai fuori di dubbio che per non incorrere in una condotta negligente, l'odontoiatra non deve limitare il suo intervento alla specifica patologia del paziente, ma deve valutarne preliminarmente l'intero quadro clinico, informandosi se lo stesso sia sottoposto ad ulteriori terapie mediche, se presentì allergie od intolleranze agli anestetici o se sia affetto da malattie sistemiche.
Volendo prospettare alcuni esempi, anche se in termini certamente non esaustivi, la colpa grave dell'odontoiatra si potrebbe ritenere certamente e clamorosamente sussistente in una serie di errori di estrema gravità quali l'estrazione di elementi dentari sani al posto degli elementi pa‐
tologici, l'avulsione incompleta, la determinazione di fratture di processi alveolari o mandibolari con possibilità di lesione del seno nasale, la trasmissione di malattie infettive per mancata sterilizzazione degli strumenti. Ovviamente si integrerebbe una responsabilità penale quando in conseguenza di tali condotte ne derivasse al paziente una lesione.
Ed ancora nell'ipotesi in cui l'errore professionale derivasse da una cattiva esecuzione di cure endodontiche, dalla cattiva preparazione di protesi dentarie, nel caso di applicazione di apparecchi ortodontici mal confezionati, l'odontoiatra potrebbe essere ritenuto comunque responsabile per l'operato dei suoi collaboratori e tecnici ai sensi dell'art.1228 c.c..
Poiché, come abbiamo visto, è imprescindibile che l'odontoiatra nell'esercizio della sua professione faccia proprie tutte quelle regole di buona condotta, di natura giuridica, tecnica, deontologica e morale cui ogni professionista deve attenersi, non si può non sottolineare che tali
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5 regole dovrebbero essere attentamente e scrupolosamente seguite anche in quella parte se vogliamo più burocratica della professione, in particolare quella attinente alla compilazione ed alla tenuta della cartella clinica ovvero della documentazione sanitaria in senso lato.
Accuratezza e la precisione nella descrizione e nella documentazione dell'attività svolta, sia diagnostica che terapeutica accompagnata da precisi riferimenti temporali, oltre a facilitare complessivamente il lavoro del professionista soprattutto in relazione ad un’attività che non si esaurisce normalmente in breve tempo ma di regola in varie sedute, consentendo infatti una più rapida verifica dell’iter degli interventi, assume soprattutto nei casi in cui possa insorgere un contenzioso in sede penale, una valenza probatoria che potrebbe essere anche decisiva in funzione probatoria.
Infatti ben potrebbe essere necessario, al fine di dimostrare la carenza di profili colpo si di imprudenza, imperizia o negligenza, dover dimostrare di aver messo in atto sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico tutte le precauzioni necessarie ed applicato la miglior terapia attuabile.
In tali casi appare di tutta evidenza come una documentazione clinica completa, precisa e puntuale, non attaccabile da consulenti tecnici medico‐legali, diverrebbe nel contesto processuale l'elemento difensivo più rilevante e decisivo, ben superiore anche alle eventuali dichiarazioni del professionista stesso in qualità di indagato. Nell'ambito di un'analisi generale emerge altresì un profilo che merita una breve osservazione: in relazione alla pur sempre esistente incertezza di qualificazione giuridica delle prestazioni mediche, se esse possano definirsi obbligazioni di mezzo ovvero di risultato, mi sembra corretto ritenere che l'intervento odontoiatrico possa avere plurime e differenti finalità quali il ripristino funzionale, masticatorio o occlusale, la riabilitazione fonetica, il miglioramento estetico.
Ne consegue che, quando l'intervento miri a protesizzare elementi mancanti o a ripristinare la funzione masticatoria sussiste obbligo di mezzi, quando invece le finalità sono prevalentemente estetiche, l'obbligazione è di risultato, diversificandosi quindi la responsabilità dell'odontoiatra.
Responsabilità penale che ricordiamo potrebbe sussistere solo in tanto in quanto si sia prodotta nel paziente una lesione qualificabile come malattia eventualmente aggravata da un indebolimento permanete di un organo.
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6 Altro argomento assolutamente di attualità e di estrema rilevanza, anche in relazione alle prestazioni professionali del medico odontoiatra, riguarda la tematica del consenso informato.
Poiché oggi non esistono dubbi di sorta sull'obbligatorietà della sua assunzione da parte del paziente, il consenso rappresenta quindi un elemento essenziale ed irrinunciabile del rapporto tra il medico ed il suo assistito, divenendo un presupposto discriminante insostituibile anche in ambito penalistico. Appare infatti incontestabile come l'interesse ultimo del paziente al risultato dell'intervento medico non possa prescindere da una completa informazione circa i probabili esiti dello stesso, le modalità di intervento ed i rischi ad esso connaturati.
Di conseguenza è intuitivo come assuma decisivo rilievo sia la validità del contratto intercorso tra questi soggetti, validità strettamente connessa alle caratteristiche sostanziali e di espressione del consenso stesso, sia e non di meno la dimostrazione probatoria della sua sussistenza, il cui onere incombe certamente sul professionista.
Altrettanto rilevante è altresì definire, anche in ambito penalistico, le conseguenze della violazione dell'obbligo del consenso o di una non corretta informazione data al paziente.
Atteso che esaustiva dottrina e giurisprudenza sull'argomento hanno ormai consolidato il principio che la mancanza di consenso rende di per se illecito l'atto medico, essendo quest'ultimo lesivo dell'integrità fisica del paziente, si ritiene che in carenza di consenso il medico debba rispondere di lesioni volontarie, ancorché l'atto medico sia stato correttamente eseguito e non abbia prodotto conseguenze negative di sorta.
Certamente tale linea giurisprudenziale può destare istintivamente, e soprattutto per un profano del diritto, perplessità ma d'altra parte non si può non convenire che un atto medico, che non sia stato preceduto da una corretta informazione e da un valido consenso, rappresenta una violazio‐
ne del diritto personalissimo del paziente alla disponibilità del proprio corpo in quanto lesiva della sfera personale del soggetto e della libertà morale dello stesso.
Non solo ma sta prendendo slancio un'ulteriore tesi in materia di responsabilità penale colpo sa secondo la quale quest'ultima sussisterebbe nelle ipotesi in cui, pur in presenza di un consenso, quest'ultimo fosse carente sotto il profilo della completa informazione al paziente circa i possibili e prevedibili rischi connessi all'intervento.
In tale caso si sostiene che le conseguenze negative derivate al paziente anche in assenza di una
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7 condotta medica imprudente, imperita o negligente, sarebbero addebitabili comunque al medico in quanto quest'ultimo avrebbe colpevolmente omesso di informare compiutamente il paziente.
In tale caso pertanto diverrebbe rilevante sotto il profilo penalistico non la carenza del consenso ma la sua incompletezza.
Molte riflessioni ed osservazioni critiche potrebbero esser mosse a tale impostazione giuridica (oggi anche percorsa dalla Procura di Torino), ma porterebbero via troppo spazio al mio intervento. Certamente serviranno per una costante riflessione sul punto.
Certo il consenso non solo deve esser presente, ma ciò che è altrettanto indispensabile è che l'informazione resa al paziente sia completa, puntuale ed idonea a consentire allo stesso una scelta pienamente consapevole: appare infatti di tutta evidenza come la mancanza di una reale informazione puntuale ed esaustiva, e quindi in grado di essere pienamente recepita dal paziente, vizi alla base l'effettività e la validità del consenso.
Relativamente all'onere probatorio è indubitabile che il medico deve dimostrare non solo l'esistenza del preventivo consenso, ma anche la sua validità nell'ottica appena descritta.
In ordine al primo aspetto si può sinteticamente osservare che il consenso, per costante orientamento giurisprudenziale, non è condizionato a specifici requisiti di forma, potendo essere manifestato al sanitario anche con un comportamento tacito. Il comportamento che riveli dunque in maniera inequivocabile e precisa la volontà di non sottrarsi all'intervento medico, già integra un'ipotesi di consenso validamente manifestato. Se la forma scritta sicuramente assolve più agevolmente all'onere probatorio, è viceversa da sottolineare come un 'informazione resa oralmente sia spesso più idonea a rendere al paziente una spiegazione più completa, dettagliata, diretta ed arricchita con le modalità espressive più consone alla capacità di comprensione di chi deve recepirla.
Si è prospettato come, fino a quando la necessità di trasmettere un 'informazione completa e consona non sia divenuto un automatismo nella pratica medica ad ogni livello, possa essere indispensabile ed insostituibile, come modello operativo unico e dotato di validità probatoria, quello della presenza di testimoni per entrambe le parti, professionista ed assistito, che dichiarino sull'assolvimento dell'obbligo informativo.
In specifiche ipotesi, in cui la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche, o le
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8 possibili conseguenze sull'integrità fisica del paziente, rendano opportuna un'inequivoca manifestazione di volontà del malato, un consenso necessariamente scritto va ad integrare, ma non a sostituire, il normale consenso informato.
In ogni caso nessun trattamento diagnostico e terapeutico può essere intrapreso in presenza di un esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la sua volontà. Fa eccezione l'ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio, ipotesi in cui l'opposizione del paziente non produce alcun effetto. E' opportuno ricordare che anche in tali situazioni è comunque vietato al medico porre direttamente in essere trattamenti fisici coattivi.
In ordine poi alla validità del consenso sotto il profilo della sua completezza, mi sembra corretto poter concludere che sarebbe oltremodo necessario promuovere una sorta di standardizzazione del consenso, soprattutto relativamente ai contenuti sia formali che sostanziali che deve assumere l'informazione. Fondamentale a tal fine sarebbe infatti pervenire ad una opinione comune in ordine ai requisiti che dovrebbero connotare di validità il consenso, per fornire al medico e alla giurisprudenza delle linee guida essenziali che definiscano le corrette modalità di espressione e le giuste formule per validarne il significato e la dimostrabilità probatoria.
In realtà la situazione attuale in ambito giudiziario demanda la valutazione della conformità dell'informazione e del consenso in via quasi esclusiva (eventualmente con l'appoggio di qualche consulente tecnico) al giudizio del giudice, che spesso è privo di univoci elementi su cui basare il proprio giudizio.
Un contributo sul punto potrebbe ricavarsi dalla giurisprudenza americana significativa per le elaborazioni di una casistica ricorrente che possono venire ad assumere valore giurisprudenziale per la logicità sostanziale che le caratterizza. Si sono ivi elaborati due criteri di riferimento: quello della prudencial rule secondo cui è da ritenersi confacente l'informazione fornita dal sanitario, quando questa possa ritenersi soddisfacente per altra persona ritenuta cauta e giudiziosa, e quello della professional standard rule secondo cui il medico è tenuto ad informare l'assistito di quanto è presumibile ritenere che, in analoghe circostanze, sarebbe riferito dalla maggior parte dei colleghi.
In conclusione sul punto relativo all'onere probatorio del consenso si deve osservare che non solo
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9 e non tanto è rilevante la dimostrazione di un consenso effettivamente reso quanto della sua validità, ossia della completezza e personalizzazione dell’informazione in ordine ad ogni possibile aspetto dell’intervento medico ed in prospettiva delle finalità cui tale informazione deve mirare.
Un ultimo rilievo che mi sembra opportuno evidenziare anche in ambito odontoiatrico, riguarda le linee guida, noti strumenti di ausilio alla pratica clinica definibili come raccomandazioni elaborate in modo sistematico per aiutare il sanitario a prendere decisioni circa il trattamento terapeutico adatto a specifiche circostanze cliniche.
Lo scopo delle linee guida consiste dunque nel migliorare l'efficacia clinica, la qualità delle cure e soprattutto nel fornire indicazioni per la gestione dei rischi derivanti dai vari interventi.
Oggi si è ancora cauti nell'attribuire alle linee guida autorevolezza medico‐legale assoluta ma il loro rilievo nei giudizi di responsabilità medica è destinato a crescere in maniera considerevole.
Da un punto di vista giuridico infatti la valutazione della competenza media esigibile dall'odontoiatra medio in un determinato atto sanitario non può che ricavarsi dal raffronto con gli standard normali di assistenza e modalità di intervento nello specifico settore.
Una linea guida può avere rilievo in un giudizio di responsabilità medica solo nella misura in cui costituisca parametro di riferimento che individui una condotta professionale media, definendo i mezzi e le regole di condotta tecnica seguite nella prassi dagli odontoiatri mediamente diligenti in un'analoga situazione ed all'epoca dei fatti.
E' importante sottolineare come le linee guida vengano ad assumere un diverso rilievo giuridico per l'odontoiatra che abbia un rapporto di lavoro dipendente presso strutture ospedaliere o cliniche dove siano definite in via generale da un organo dirigente responsabile. In tal caso le linee guida corrispondono ad atti normativi interni o regolamenti di servizio ai quali si riconosce potere di indirizzo con efficacia vincolante per tutti gli operatori.
Ne consegue che in ipotesi di danno cagionato per il mancato rispetto di tali indicazioni, può configurarsi un'ipotesi di colpa specifica per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline che delineano la responsabilità della struttura.
In definitiva le linee giuda sono strumenti di riferimento che tendono a razionalizzare le condotte professionali nelle varie ipotesi di intervento, definendo mezzi e procedure a cui l'odontoiatra medio, con la dovuta diligenza, deve attenersi.
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10 Ne consegue che il rispetto e l'adesione da parte dell'odontoiatra nel caso specifico rappresentano un fondamentale indicatore di condotta diligente, perita e prudente. L’argomento che ho ritenuto di lasciare in coda riguarda l'accertamento della sussistenza del nesso causale tra la condotta e l'evento. Rappresenta indubitabilmente un tema importantissimo circa le problematiche penalistiche della responsabilità professionale sanitaria e continua a suscitare ampi dibattiti in dottrina ed in giurisprudenza. Il codice penale attualmente vigente all'art. 40 dispone che: «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza della sua azione o omissione» ed al capoverso: «non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
L’accertamento del nesso causale è quindi indispensabile affinché un evento possa essere riferito, e di conseguenza addebitato, all'autore della condotta.
Il criterio comunemente utilizzato dalla dottrina e dalla giurisprudenza per la ricostruzione causale consiste, per la causalità attiva, nel procedimento di eliminazione mentale mediante il ricorso alla formula della condicio sine qua non; in pratica viene considerata causa dell'evento quell'azione che non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno.
In altri termini sarà causa dell'evento‐reato ogni condotta (attiva o omissiva) antecedente senza la quale l'evento non si sarebbe verificato; quindi per sapere se un determinato comportamento è condizione indispensabile, sarà sufficiente domandarsi se l'evento concreto si sarebbe ugualmente verificato senza quella condotta dell'agente; se la risposta è affermativa la stessa non potrà essere considerata causa dell'evento, in caso invece di risposta negativa tale condotta risulterà essere condicio sine qua non.
Discorso diverso invece per la causalità omissiva che solleva maggiori difficoltà di accertamento in quanto ovviamente non può consistere in una indagine reale ma si deve necessariamente attestare nel campo ipotetico; in altri termini occorre verificare se il compimento dell'azione doverosa (la cui omissione viene contestata) avrebbe impedito il verificarsi dell'evento dannoso o pericoloso.
E' evidente la difficoltà di condurre un'indagine rivolta a chiarire gli effetti ipotetici di un fattore che non si è mai verificato.
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11 Il Giudice nell'accertamento della causalità omissiva dovrà inevitabilmente ricorrere all'ausilio di regole d'esperienza secondo il principio dell'id quod plerumque accidit.
Esaminando il cammino giurisprudenziale in tema di accertamento della causalità omissiva, si rileva che al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire quello della probabilità di tale effetto, nel senso di ritenere sussistente il rapporto di causalità anche quando l'azione che doveva essere compiuta, avrebbe avuto non già la certezza, quanto serie ed apprezzabili probabilità di
successo. (Vds. Cass. Sez. IV 7/1/1983, Est. Suriano).
Tali probabilità sono state individuate nella giurisprudenza della Suprema Corte in maniera sempre più restrittiva e partendo da un settanta‐ottanta per cento (Cass. 2/4/ 1987, Ziliottoi Cass26/4/1983 Andreini) si è giunti ad un ordine del cinquanta per cento (Cass. 7/3/1989, Princivalli) ed infine addirittura nella misura del trenta per cento (Cass. Sez. VI 12/7/1991, Silvestri e Leone).
In tale contesto si è inserita nel 1990 la sentenza sul disastro di Stava (sez.IV, 6/12/1990 n.4973, Bonetti) che ha rappresentato una vera svolta nell'interpretazione dell'art. 40 c.p.
I giudici della Suprema Corte, nel ritenere che: “il nesso di causalità è un requisito della fattispecie, esso non può essere configurato in modo tale da restare del tutto indeterminato, o determinabile di volta in volta dal giudice in base al suo imperscrutabile apprezzamento: lo vieta il principio costitu‐
zionale di legalità‐tassatività della fattispecie”, hanno affermato la necessità di ricorrere alle leggi universali e, in mancanza di queste, a quelle statistiche.
Proprio con riferimento a queste ultime ci si è posti l'interrogativo sull'entità del coefficiente percentualistico che rende utilizzabile la legge statistica nel processo penale.
La sentenza di Stava sul punto si limita ad affermare che le leggi statistiche "sono tanto più dotate di validità scientifica quanto possono trovare applicazione in un numero sufficientemente alto di casi”
ed il giudice ove non potendo disporre di leggi universali "dirà che è probabile che la condotta dell'agente costituisca coeteris paribus, una condizione necessaria dell'evento, probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, probabilità che deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell'agente, l'evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità”.
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12 La sentenza in argomento ha avuto l'indiscusso pregio di sottolineare che il nesso causale (come del resto ogni altro elemento della fattispecie) deve essere oggetto di accertamento rigoroso tale da non lasciare dubbio alcuno, e ciò in ossequio ai principi di legalità e tassatività sanciti nella Costituzione.
Il cammino iniziato dalla sentenza Stava trova poi sviluppo e conferma in altre recenti pronunzie della Corte di Cassazione che hanno ulteriormente chiarito ed approfondito i ragionamenti svolti, arrivando ad affermare che: “In ossequio al principio di personalità della responsabilità penale, il giudice può affermare sussistente il rapporto di causalità in quanto abbia accertato, con probabi‐
lità vicina alla certezza‐ ovvero con probabilità vicina a cento‐ che la condotta, vuoi attiva vuoi omissiva, è stata causa dell'evento verificatosi” [Cass. Sez. IV; 29 Novembre 2000, no 9793, MUSTO; identicamente, Cass. Sez. IV, 28 settembre 2000, n. 1688, BALTROGGHI; vds. anche Cass. sez. IVG, 28 novembre 2000, n. 2123, DI GINTIO].
La Corte, nelle sentenze sopra indicate, introduce due motivi di novità nel dibattito giurisprudenziale sull'accertamento del nesso causale nei reati omissivi. Da un lato si dice che il procedimento di accertamento della causalità omissiva non si differenzia da quello utilizzato in caso di reati commissivi ("... sarebbe stato un non senso continuare a sostenere la diversità strutturale della causalità attiva dalla causalità omissiva”), sottoponendo quindi ad una stringente verifica il tema della causalità ipotetica.
Il secondo punto affrontato dalla Corte riprende l'impostazione della sentenza Stava nel fatto che il Giudice non può accontentarsi di una probabilità, anche se credibile, seria razionale, ma può accettare la legge probabilistica [statistica] soltanto qualora questa enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento [vds. sentenza Baltrocchi].
Una probabilità che deve sfiorare la certezza non ammette evidentemente discorsi ipotetici.
Viene quindi ancora una volta ribadita l'equiparazione, sotto il profilo dell'accertamento, tra causalità omissiva e causalità commissiva.
Si è ancora aggiunta altra recentissima sentenza della IV sezione penale della Corte di Cassazione del 25/09/ 2001 che si può dire, ha concluso il cammino intrapreso con la sentenza sul disastro di Stava.
L’estensore di quest'ultima, nel prendere le mosse dal fatto che il giudice penale deve accertare il
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13 fatto contestato come reato in termini di assoluta certezza, richiama l'attenzione sul significato che deve essere attribuito alla "elevata probabilità" affermando che la locuzione «significa probabilità vicino alla certezza, confinante con la certezza, non v'è dubbio che la‐èlevata probabilità altro non sarebbe che certezza, che la dottrina che, in tema di rapporto di causalità si è occupata dell'elevata probabilità per metterne in evidenza gli equivoci ai quali si presta, ha dimostrato, peraltro, che neppure la scienza conosce certezze, ma soltanto probabilità confinanti con la certezza, sicché di elevata probabilità può parlarsi soltanto se la si intende come probabilità confinante con la certezza».
Ancora una volta la Suprema Corte rivisita l'argomento dell'accertamento del nesso causale e, volendo spingersi ad una quantificazione percentualistica di tale "probabilità" e rispondendo quindi a quell'interrogativo lasciato insoluto dalla sentenza Stava, l'estensore della presente pro‐
nuncia afferma: "Se elevata probabilità significa, invece, certezza al 70%, all'80% o anche al 90%
‐e ciò perché neppure queste dieci distanze sono, e non lo sono neanche per la citata dottrina, qualcosa che confini con la certezza ‐il fatto non può ritenersi accertato, sicché la sentenza che lo ritenesse accertato non potrebbe non essere annullata per difetto di motivazione o, se si vuole, per illogicità manifesta perché darebbe per accertato ciò che, alle condizioni date, non può dirsi logicamente che lo sia». E' fuori di dubbio che la sentenza "Sgarbi" costituisca l'anello di chiusura del discorso iniziato con la pronuncia sul disastro di Stava e ciò con espresso riferimento non solo all’ulteriore specificazione percentualistica riferita all'"elevata probabilità", ma anche e soprattutto al fatto che se il nesso causale è elemento costitutivo della fattispecie anch'esso, come la condotta e l'evento, deve essere individuato con "assoluta certezza".
Del resto tale conclusione diventa oggi l'unica accettabile non solo alla luce dei principi di tassatività e stretta legalità, ma soprattutto del criterio di giudizio che deve immancabilmente essere proprio del giudice penale consistente nella regola dell'"oltre ogni ragionevole dubbio".
Pare allora corretto sostenere che la Giurisprudenza della Suprema Corte, una volta così poco garantista da individuare "le serie ed apprezzabili probabilità di successo" addirittura nella misura del trenta per cento [vds. cass. sez. VI 12/7/1991 Ric. Silvestri e Leone], abbia mutato il proprio orientamento e richieda che il nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento debba essere accertato, come tutti gli altri elementi della fattispecie, in termini di certezza. Del resto volendo
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14 ragionare in termini di prospettiva futura ci si accorge che la stessa impostazione si rinviene nell'art. nell'art. 14 del Progetto Preliminare di riforma del codice penale che trattando del nesso causale nei reati omissivi, dispone che: «non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento».