• Non ci sono risultati.

3.4. I CONCETTI DI “GRAZIA EFFICACE” E “MISERICORDIA DI DIO” NEL PENSIERO DI MANZONI

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "3.4. I CONCETTI DI “GRAZIA EFFICACE” E “MISERICORDIA DI DIO” NEL PENSIERO DI MANZONI"

Copied!
87
0
0

Testo completo

(1)

3.4. I CONCETTI DI “GRAZIA EFFICACE” E

“MISERICORDIA DI DIO” NEL PENSIERO DI

MANZONI

Nella presente sezione del lavoro verranno studiati separatamente i concetti di “Grazia efficace in relazione alla volontà individuale” e di “Misericordia di Dio verso l’intera umanità” nel pensiero manzoniano. Gli studi di Langella e Parisi hanno dimostrato che l’influenza del giansenismo su Manzoni non fu costante e continua nel corso del tempo, ma subì delle evoluzioni. Come nota Floriani, tale influenza è stimabile nelle opere soltanto sino al 1827, ovvero sino all’incontro tra Manzoni e Rosmini. Dopo quella data, Manzoni, pur rimanendo ancorato

all’agostinismo, si svincolerà dal giansenismo 1. Nell’intero percorso compiuto

dall’autore sino al 1827, è possibile stimare un progressivo allontanamento dalle

idee giansenistiche 2 e, a questo riguardo, possono essere individuate tre grandi

fasi: una iniziale, che annovera in sé stessa tutti gli scritti del periodo della conversione sino alla Vaccina; una intermedia, che raggruppa gli scritti dalla conversione alla Pentecoste del 17, compreso Il conte di Carmagnola, il quale, però, per via della sua gestazione discontinua, si colloca per certi versi a cavallo tra la seconda e la terza fase; infine l’ultima che è quella dell’Adelchi, delle Osservazioni Sulla Morale Cattolica del 1819 e delle due prime versioni del Romanzo.

       1

 La filosofia di Rosmini è permeata da un agostinismo più dolce rispetto a quello giansenistico ed  essa  influenzò  il  pensiero  manzoniano,  sostituendosi  di  fatto  all’ascendente  che  su  Manzoni  precedentemente  aveva  il  giansenismo.  Lo  scrittore  perciò  arrivò  a  conoscere,  soprattutto  tramite  ricezione  indiretta,  i  due  grandi  volti  di  Agostino:  apprese  l’ultimo  Agostino  (dopo  Ad.Simpl. 1,2) mediato da Tosi Degola sino al 1827; conobbe il primo Agostino (prima di Ad.Simpl.  1,2) dopo l’incontro con Rosmini (dal 1826 in poi). Il primo incontro tra Manzoni e Rosmini lascia  intendere che i colloqui tra il filosofo italiano e lo scrittore si fondavano su tutte le conoscenze  che Alessandro aveva acquisito grazie ai suoi lunghi studi sugli autori della patristica. Lo dimostra  anche  soltanto  la  frase  con  cui  Alessandro  salutò  Rosmini,  quando  lo  incontrò  in  casa  propria:  “Quam speciosi pedes evangezantium pacem, evangelizantium bona!”. Si tratta di una citazione  di S. Paolo (Rm, 10,15) che riprende Isaia (52,7). Curiosamente entrambi sono autori amatissimi  dal Degola. Cfr. Alessandro Manzoni, Carteggio Alessandro Manzoni‐Antonio Rosmini, Premessa  di  Giorgio  Rumi,  Introduzione  di  Luciano  Malusa,  Testi  a  cura  di  Paolo  De  Lucia  (fa  parte  di  Edizione  nazionale  ed  europea  delle  opere  di  Alessandro  Manzoni.  Testi  criticamente  riveduti  e  commentati,  Diretta  da  Giancarlo  Vigorelli,  28),  Milano:  Centro  di  Studi  Manzoniani,  2003,  pp.  XXXVIII‐XLI. 

2

  I  concetti  di  “Misericordia  di  Dio”  e  “Grazia  di  Dio”,  nella  maniera  in  cui  Degola  li  intende,  riguardano anche il giansenismo delle origini. 

(2)

3.4.1.

STORIA DEL CONCETTO DI GRAZIA

EFFICACE

IN

RELAZIONE

ALLA

VOLONTA’

INDIVIDUALE NEL PENSIERO MANZONIANO

3.4.1.1.

PRIMA FASE

È possibile che Manzoni avesse già piegato il concetto della “Grazia efficace” alla propria letteratura nell’Urania, scritta tra il 1807 e il settembre del 1809: in quest’opera, che probabilmente attesta il primissimo incontro con il pensiero

giansenistico 3, lo scrittore attua un curioso sincretismo tra cristianesimo,

classicismo e istanze romantiche; Manzoni mostra di ritenere “eletti” i poeti (e quindi anche sé stesso) in nome del loro talento e del loro “genio” di origine divina. Se infatti le menti umane, costrette all’odio dalle “Dire”, sono spesso deboli, l’ingegno del poeta si colloca su un piano diverso. I poeti, come Pindaro, pervasi dall’ “aura sacra”, che la dea Urania sa inspirare, godono dello stato di elezione: sono vati alla maniera esiodea e al tempo stesso, si potrebbe dire, fanno parte di una schiera eletta. Manzoni scrive infatti che le Muse, dopo aver scelto la loro dimora, continuano a spirare l’ “aura divina” “a pochi in fra i viventi” e concedono loro il potere rivelativo della parola (“danno colpir le menti d’immortal parola”) 4.

L’ “aura sacra” della Dea dei cieli è insomma efficace come la Grazia, e s’impossessa della mente del poeta con una “fiamma leve”, scatenando in lui l’ “orror lieto”, ovvero quel senso di sacro e terribile che si prova di fronte al divino

5. Per il Manzoni dell’Urania, tutti gli uomini nella loro volontà paiono

      

3  Fa  riflettere  in  questo  senso  soprattutto  l’immagine  della  Pietà,  che  riporta  verso  il  rigorismo 

giansenistico: “Ove furente / imperversar la Crudeltà solea / orribil mostro che ferisce e ride, /  vider Pietà che mollemente intorno / ai cor fremendo, dei veduti mali / dolor chiedea; Pietà de  gl’infelici / sorriso, amabil Dea”. Manzoni, Urania, vv. 241‐247, pp. 442‐443. L’opera sarà sempre  citata da Poesie e Tragedie.  4  Manzoni, Urania, vv. 315‐320, p. 446. Cfr. Langella, op. cit. (2009), p. 115. Cfr. con Zama, op. cit.  (2013), p. 96.  5

  Manzoni,  Urania,  vv.  112‐116,  p.  436  :  “A  l’appressarsi,  /  de  l’aura  sacra  a  l’aspirar,  di  lieto  /  orror compreso in ogni vena il sangue / sentia l’eletto, ed una fiamma leve / lambir la fronte ed  occupar l’ingegno”. 

(3)

completamente succubi del divino nel bene e nel male: i vizi e le virtù hanno origine divina e si impossessano delle menti umane, in nome del singolare mélange tra classicismo e romanticismo, di cui si è già parlato, che, fondendo insieme elementi cristiani e politeistici, sembra nutrirsi anche della recentissima scoperta del giansenismo. In particolare, potrebbe esserci un’eco di giansenismo nei versi in cui Manzoni afferma che dalle Muse deriva qualsiasi cosa “in fra i

mortali è di gentile” 6: il colorito giansenistico starebbe qui nell’idea che l’origine

del bene è solo ed esclusivamente divina. Le Muse in quest’opera non sono soltanto un’elemento retorico di derivazione neoclassica, ma rappresentano la fonte divina da cui scaturisce ogni bene. Manzoni sta quindi negando ogni forma di giusnaturalismo e afferma, proprio come facevano i giansenisti, che il bene non rientra nelle inclinazioni naturali degli uomini, ma proviene ad essi da una fonte divina.

Nell’abbozzo proemiale della Vaccina, opera iniziata nel 1809 e mai condotta a termine, ritorna nuovamente il concetto di “Genio”, come elemento divino racchiuso nella mente del poeta:

“in quell’età che di veder bramoso / ancor l’ingegno a le cagioni cieco, / ascoso un Genio, anco a me stesso ascoso, / disse improvviso al mio pensier: son teco. / Ei le cose mi mostra che animoso / primier, siccome io valgo, in luce io reco” 7.

Il Genio è, dunque, una fonte di ispirazione misteriosa che Dio accorda ai privilegiati per far loro sentire la propria voce dal cuore dell’anima, e affinché ne rendano testimonianza al mondo.

Come scrive Langella, questo “Genio” nasce dalla riflessione che Manzoni conduce sull’orazione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, che Foscolo aveva scritto pubblicato il 22 gennaio 1809. Nell’opera l’autore dei Sepolcri parlava del daimònion di Socrate: “Sì un Genio parla nel petto a ciascheduno di noi; però l’oracolo consultato da’ miei genitori rispose: che facessero voti a Giove Padre e alle Muse, e che mi abbandonassero in tutto al mio Genio”. La       

6 Manzoni, Urania, vv. 328‐331, pp. 446‐447. “Da lor (le Dee) sol vien se cosa in fra i mortali / è di 

gentile,  e  sol  qua  giù  quel  canto  /  vivrà  che  lingua  dal  pensier  profondo  /  con  la  fortuna  de  le  Grazie attinga”.  

(4)

rievocazione di Socrate, per via della provverbiale ironia comune ad entrambi, si sposa bene con la poetica del Parini che doveva essere la prima fonte di

ispirazione per Vaccina 8. Viene però il dubbio che in questi versi si proietti anche

l’ispirazione giansenistica. Scrive Manzoni a proposito del Genio 9:

“Questo Genio talor de la mia mente / i freni abbandonati in man si piglia, / e volge ove a lui piaccia obbediente / tutta l’alata dei pensier famiglia; tal che dal petto interno odo sovente / una voce, che irata mi consiglia, / che almen fra i tanti il primo mio concetto / torni al Fonte Divin d’ogni intelletto” 10.

I versi appena citati sono importantissimi, perché attestano un cambiamento da parte di Manzoni nel modo di far poesia. In questo momento della sua vita Manzoni è in una fase di grande sperimentalismo ed è alla ricerca di una sua strada. L’apertura al mondo religioso gli ha, però, spalancato nuovi orizzonti ed egli è intenzionato a far dialogare la sua arte con il Dio ritrovato. Non si tratta soltanto di un’intenzione, quanto più di una vera e propria esigenza avvertita come intima e personale: Manzoni, a causa degli anni di ateismo, sente di aver contratto un enorme debito con Dio, e ha imparato da Degola l’importanza di scrivere per la

Verità 11. Di tale importanza Manzoni si è sinceramente persuaso: mettere la

penna al servizio di Dio è il modo migliore che ha a disposizione uno scrittore per essere al tempo stesso “un buon cittadino e un buon cristiano”, come direbbe il giansenista De Vecchi; secondo Degola e Tosi il dovere apologetico appartiene a tutti, ma è anche e soprattutto ruolo dello scrittore.

In questi primi versi della Vaccina la volontà e il dovere di fare apologesi si scontrano, però, con l’assoluta libertà del Genio, che Manzoni sembra intendere soprattutto alla maniera romantica: il Genio è solito impossessarsi della mente di Manzoni, proprio come il daimònion socratico e foscoliano, e detta legge sui suoi suoi pensieri. Nei versi citati della Vaccina Manzoni indica con il Genio il proprio talento, pensato come forza dirompente ed autonoma racchiusa dentro di lui: la ritrovata fede desidera trasformare questo Genio, per renderlo docile, e per        8 Langella, op. cit. (2009), p. 36‐37.  9  Poesie e Tragedie, p. 461, cfr. nota 23.  10  Manzoni, Vaccina, vv. 17‐24, p. 461.  11 L’espressione, spesso usata dai giansenisti è “a gloria di Dio” e ha radici agostiniane. 

(5)

asservirlo a sé. Urge perciò un compromesso 12 e Manzoni per il momento lo trova affidandosi agli insegnamenti di Degola, che tramite le conferenze ha insegnato a Manzoni la filosofia difficile di Agostino e, in particolare, i concetti di “Admonitio” e “Revelatio per signa”, secondo i quali le parole umane, quando scaturiscono dalla fede, hanno potere rivelativo e indicano la Verità divina.

Agostino infatti scriveva che “per verba” si arriva “ad verbum” 13.

In primo luogo al Genio è richiesto di ascoltare quella voce irata che, emergendo dalla soglia della coscienza, prorompe dal petto e ammonisce con il tono del comando: non può che essere la voce del Prédicateur intérieur, Dio di Paolo e di Pascal. Questa voce chiede che il poeta ritorni al “Fonte divino dell’Intelletto”, gli chiede cioè di scrivere attingendo dalla fede. L’espressione rimanda con evidenza al concetto di matrice agostiniana secondo cui la parola umana è in realtà di origine divina, perché derivata dal “Verbum” che abita dentro di noi e che permette all’ “intellectus” qualsiasi processo conoscitivo che possa definirsi retto,

eticamente corretto, conforme alla Verità rivelata 14. Poiché la parola umana è

specchio di quella divina e creatrice, essa ha il dovere di non essere sofistica e di non esprimere nulla di difforme dal vero: attenendosi alla Verità, perciò, il poeta

ritorna a Dio e alla morale evangelica 15. Il Genio è quindi invitato a sottomettersi

a questi contenuti e ad attingere potenza e forza dal “Verbum” stesso 16.

Non appena raccolto l’irato consiglio, avviene la sua trasformazione: sotto gli occhi stessi del lettore il Genio romantico, pur non perdendo affatto autonomia e libertà, diviene anche quello di Dante e, volendo trarre forza e ispirazione dal Verbo divino, assorbe in sé stesso il potere rivelativo della Grazia. Perciò, quando

il Genio si manifesta “porta in dono / le visioni ed il furor divino” 17.

Questo nuovo Genio attinge potenza al momento del mattino, ovvero “nel mistico punto allor che l’alma / dai pigri nodi del sopor si scote, / che sol di sé s’accorge,

e lieve in calma / il soffio de la vita percote ” 18. Secondo una celebre immagine

dantesca, il mattino è il momento privilegiato dell’ispirazione, perché durante le        12  Nella Vaccina si può intravedere la prima presenza di quel difficilissimo conflitto interiore che  oppone l’io di scrittore alla fede e che viene rivelato da Manzoni soltanto alla Saluzzo di Roero.  13  Lettieri, op. cit. (2001), passim.  14  Zama, op. cit. (2013), pp. 64‐65.  15 Ibidem; cfr. pp. 95‐107.  16  Ibidem: cfr. 98‐99.  17  Vaccina, vv. 27‐28, p. 461.  18 Ibidem, vv. 33‐35, p. 462. 

(6)

prime ore della giornata la mente è in grado di accedere maggiormente al divino

19. Il Genio, allora, cominciato il “celeste volo”, presenta alla mente di Manzoni

visioni sacre:

“sempre in quell’ora il veggio, e risplendenti / schiere ha con sé d’aerei simolacri; / quai muovon per lo spazio i passi lenti / e quai festivi ed in lor luce alacri; / e fan motti fra loro e parlamenti, / misteriosi, e balli ordiscon sacri. / Il Genio li governa; io stommi e guato / in tanta pompa di veder beato” 20.

Tentare di ricordare le visioni dopo che quel momento è trascorso, è però inutile perché l’ingegno, senza l’ispirazione divina, non può nulla. Nell’ultima strofa di Vaccina si assiste alla compiuta realizzazione del sincretismo tra i concetti religiosi acquisiti e l’idea romantica del Genio:

“Lui che di tanto il guardo mio fe’ degno / io prego or che anco al dir siemi in ajuto, / perch’egli è sacro e fuor del mortal regno / Ei regga l’ali mie; da lui l’ingegno / ne l’alta region sia sostenuto / tanto che per la via novella e

lunga / l’alto argomento del mio canto aggiunga” 21.

Il Genio, associato al volo (come in A Partenaide 22), mantiene tutta la sua libertà,

come voleva il pensiero romantico; esso, però, “è sacro e fuor del mortal regno”. Il Genio apre infatti la vista del poeta sulle cose celesti, che l’uomo da solo non

può comprendere, e sostiene l’ingegno nelle alte regioni del cielo 23. In questo

modo Manzoni, mediante una poesia ancora legata alle esperienze giovanili, rivendica per sé un’ispirazione quasi profetica e si fa già vate della Provvidenza. Anche la “Grazia”, intesa alla maniera giansenistica, da cui deriva la rivelazione, apre gli occhi degli uomini sulle cose celesti. Sembra perciò plausibile sostenere che il “Genio poetico” di Manzoni abbia finito per assorbire in sé stesso, almeno

       19  Cfr. nota di Boggione. Poesie e Tragedie, p. 462.  20 Ibidem, vv. 41‐49, p. 462.  21  Ibidem, vv. 57‐64, p. 463.  22  Zama, op. cit. (2013), pp. 95‐107.  23 Ibidem. 

(7)

parzialmente, il concetto giansenistico e agostiniano di “Gratia Dei” 24, pur nutrendosi anche e sopratutto di molte altre suggestioni. Se questa ipotesi fosse vera, essa dimostrerebbe quanto sin da subito Manzoni abbia attinto liberamente al giansenismo nel laboratorio della propria letteratura, seguendo criteri propri e in

sostanziale indipendenza 25.

3.4.1.2. SECONDA FASE

Con le opere scritte grossomodo tra il 1811 26 e il 1818 sembra avere luogo

un’altra fase del pensiero manzoniano, in cui l’influenza giansenistica e degoliana si mostra essere piuttosto forte: il primo degli Inni in ordine cronologico, per esempio, La Risurrezione, appare molto vicino al pensiero di Degola e lo stesso vale per La Passione (1814-1815). Uno dei testi che più rappresenta questa fase è, però, Il Natale (1813), dove l’iniziale caduta del masso come simbolo della colpa

adamitica è una celebre ripresa dall’Arnauld 27. In quest’opera l’intervento della

Grazia efficace sul cuore umano e la negazione del libero arbitrio è ben espressa dai versi 15-35:

“tal si giaceva il misero / figliol del fallo primo, / dal dì che un’ineffabilie / ira promessa all’imo / d’ogni malor gravollo, / donde il superbo collo / più

non potea levar” 28.

L’uomo non può liberarsi dell’opprimente macigno 29 che ormai grava sul suo

(superbo) collo e davanti a lui si erge un Dio che è “Santo inaccessibile”, presso       

24

 Cfr. Zama, op. cit. (2013), passim. 

25 Langella, op. cit. (2009), pp. 93‐131. 

26  In  realtà  Zanella  racconta  che  La  Risurrezione,  il  primo  degli  Inni  in  ordine  cronologico  fu 

pensata  da  Manzoni  nel  momento  della  Conversione:  questo  (ma  non  solo)  dimostra  quanto  i  limiti indicati per ciascuna fase siano puramente orientativi. 

27 Su questo punto si è già studiato molto. Rimando perciò al lavoro di Ruffini (op. cit. (1931), II, 

passim).  

28

  Manzoni,  Il  Natale,  pp.  129‐131.  Gli  Inni  di  Manzoni  saranno  sempre  citati  da  Alessandro 

Manzoni, Poesie e Tragedie, a cura di Valter Boggione, Torino: Utet, 2002.  29

  L’uomo  “giace  in  sua  lenta  mole”:  come  scrive  Boggione,  l’aggettivo  “lento”  ha  implicazioni  morali, e, oltre rimandare all’immagine del pesante macigno, fa riaffiorare l’idea dell’irrimediabile  pigrizia e inerzia che lega gli uomini. Poesie e Tragedie, p. 129 nota 20. 

(8)

cui ormai solo Cristo può intercedere. La Grazia di Cristo è perciò, la “virtù

amica” 30 che sottrae l’uomo all’abisso, l’unica forza in grado di salvare

l’individuo:

“all’uom la mano Ei porge, / che si ravviva, e sorge / oltre l’antico onor” 31.

Appartiene anche a queste fase la cosiddetta “Pentecoste del 1817” 32, opera

segnata da un pessimismo profondo proprio come Il Natale (1813): essa è forse uno dei componimenti manzoniani più vicini al pensiero giansenistico insieme al Natale del 1833.

Nei versi 17-24 33 della Pentecoste del ’17 Manzoni afferma che lo Spirito Santo

deve riempire il cuore dell’uomo con la propria virtù, se vuole che esso risponda

positivamente alla legge e la segua ritenendola santa e giusta 34.

Se questo non avviene la legge 35, anche quella divina, è sinonimo di obbligo e

“servitù”. Nelle strofe successive, invece, Manzoni spiega con la metafora del naufrago che il peccatore non può salvarsi se non è dotato di quell’ “aura ineffabile” che è pietosa, perché concessa per misericordia, e che salva

inevitabilmente 36. La legge divina, infatti 37, non può salvare nessuno se non è

vivificata dalla Grazia:

       30

 Ibidem, v. 13. 

31

 Ibidem vv. 33‐35, p. 131. 

32  A  proposito  della  Pentecoste,  il  Manfredi  scrisse:  “si  sente  l’influenza  di  un  catechista 

giansenistico”  Giuseppe  Manfredi,  Genesi  del  pensiero  religioso  di  Alessandro  Manzoni  in  “Convivium”, V, 1932, n. 6., pp. 874‐876. 

33 Manzoni, La Pentecoste (1817), vv. 17‐24: “Poi che sui colli tuoi / scese il potente Spirito, / che 

l’universo  poi  /  empiè  di  sua  virtù;  senza  cui  l’amabile  /  legge  di  Dio  che  vale?  /  Al  duro  cor  mortale la legge è servitù”, p. 193. 

34 Secondo Omodeo persino i primi versi della poesia accennano ad un’opposizione tra legge di 

Dio,  esemplificata  dall’accenno  al  Sinai,  e  il  peccato  adamitico  a  cui  invece  alluderebbe  la  “Caliginosa rupe (= il famoso masso di Arnauld)”; cfr.  Poesie e Tragedie, p. 192. Di Sacco, op. cit.  (1986), p. 50.  35 Si sta parlando soprattutto della legge morale o di leggi etiche.  36  Cfr. Di Sacco, op. cit. (1986), p. 55.  37  La Pentecoste del ‘17, vv. 25‐40: “E’ face alta che l’onda / irta di scogli illumina / che fa veder la  sponda, / ma che non può salvar: / invan da lunge il naufrago / il suo periglio ha scorto; / invan,  ch’ei piomba assorto / nel conosciuto mar. / Ma questa eterna in Dio, / pietosa aura ineffabile, /  di cui giammai desio / indarno un cor non ha, / questa d’Adamo al misero / germe il cammino  addita / e nel cammin di vita / correr volente il fa”, pp. 193‐195. 

(9)

“Poi che sui colli tuoi / scese il potente Spirito, / che l’universo poi / empiè

di sua virtù; senza di cui l’amabile / legge di Dio che vale?” 38.

La volontà umana sembra, quindi, essere completamente rimessa nelle mani di Dio: infatti, anche se al naufrago è data la possibilità di scorgere la terra da

raggiungere, senza quest’ “aura” la salvezza è solo un miraggio 39.

Solo l’intervento della Grazia permette che la volontà agisca positivamente, ma questo avviene molto raramente, come dimostra lo svolgimento della tragedia Il Conte Carmagnola: Zama, Derla e Tellini definiscono di comune accordo quest’opera come la tragedia della necessità, dove la libertà d’azione sembra non

esistere 40. La trama si costruisce, infatti, sulla necessità fattuale della situazione

che si è venuta a creare, e che porta Carmagnola alla sua esecuzione senza apparentemente identificare un vero colpevole.

Se, però, le premesse sono davvero quelle del giansenismo, il soffocamento della libertà d’azione individuale non coincide affatto con l’annullamento della responsabilità e della colpa. Nel caso del giansenismo il delitto colposo coincide con quello intenzionale. A proposito di Manzoni questo è evidente nella condanna

della figura di Marco 41. Lo scrittore nella Lettre à Monsieur Chauvet scrive a

proposito di questo personaggio, che “non ha potuto o non ha voluto” salvare il

conte suo amico 42. In maniera emblematica Manzoni mette il “potere” e il

“volere” sullo stesso piano: in entrambi i casi si tratta di una colpa, ovvero del non essere stati capaci a lottare con la propria natura lapsa; dato che questo è quasi impossibile ecco che il piano del “volere” può tranquillamente prendere il posto di

quello del “potere” e viceversa, senza che si presenti alcuna differenza 43.

Come studia Bardazzi, gli ultimi due Atti della Tragedia sono stati scritti dopo le Osservazioni Sulla Morale Cattolica e testimoniano l’avvio di una risoluzione del

problema che verte sul rapporto tra Provvidenza e libera volontà 44. Nei versi

101-      

38 La coincidenza della “grazia” con lo spirito santo viene considerata valida persino da Di Sacco, 

tendenzialmente contrario alla tesi giansenistica. 

39

  Come  scrive  Boggione  la  parola  “invan”  suggerisce  il  senso  di  angosciosa  impotenza  che  abbatte l’uomo privo della Grazia.  40  Zama, op. cit. (2013), p. 146.  41  Annoni, op. cit. (1997), pp. 182‐183.  42 Riccardi, op. cit. (2008), p. 155.  43  Annoni, op. cit. (1997), pp. 182‐183.  44

  Per  approfondire  cfr.  Alessandro  Manzoni,  Il  conte  di  Carmagnola,  edizione  critica,  a  cura  di  Giovanni Bardazzi, Milano: Mondadori, 1985, pp. I‐CIII. 

(10)

103 dell’Atto IV Marco, accusato da Marino, di parteggiare per il Carmagnola, afferma la necessità di sposare la causa dello Stato, e quindi di dover accusare il

conte 45. Nel lungo monologo che occupa interamente la II Scena dell’Atto IV,

Marco invece si accusa di viltà, e ammette di avere responsabilità effettive,

decidendo di aver salva la vita e di tradire l’amico 46. Queste parole sono

finalmente quelle che possiedono la verità; in effetti alla convinzione che sia giusto seguire la ragion di Stato, Marco è stato portato da un ragionamento specioso, che va nella direzione opposta a quella del messaggio evangelico: questo sofisma è quello di Marino ed è scaturito dal pervertimento della ragione e dalla debolezza dell’intelletto umano il quale, a causa della colpa adamitica, non riesce a comprendere dove stia il giusto.

A cose fatte, Marco è l’individuo diviso tra la consapevolezza della morale evangelica e l’impossibilità di conformarsi ad essa. Il fatto che il monologo di Marco sia improntato a verità può essere dedotto dall’incipit con cui si apre il discorso: “Dunque è deciso! … Un vil son io! … (…) Io prima d’oggi non

conoscea me stesso!” 47. Come si è visto anche l’Innominato dopo la conversione

ammetterà di conoscersi finalmente. Dice l’Innominato: “Dio veramente grande,

Dio veramente buono! Io mi conosco ora” 48. Il confronto tra i due “loci paralleli”

porta alla conclusione che Marco rispetto al personaggio del Romanzo ha fatto il percorso contrario …

A proposito del rapporto tra grazia efficace e volontà individuale, Manzoni si mantenne sempre ancorato ad una posizione che apparentemente può sembrare ortodossa e che si ispira all’esortazione evangelica: “petite et dabitur vobis”

perché “omnis qui petit, accipit” 49. Secondo Manzoni Dio dà infallibilmente ciò

che viene chiesto con la preghiera. Con tutta evidenza, il punto di partenza è       

45 Manzoni, Il Conte Carmagnola, Atto IV, Scena II,  vv. 111‐112 “Ma se nemico / è della patria? 

Mi si provi, è mio”, p. 32. Citato sempre da Poesie e Tragedie, p. 679. 

46

  Ibidem  In  particolare,  vv.  273‐283:  “Abbandonar  nel  laccio  /  un  amico  io  potea!  Vedergli  al  tergo / l'assassino venir, veder lo stilo / che su lui scende, e non gridar: ti guarda! / Io lo potea;  l'ho fatto... io più nol deggio / salvar; chiamato ho in testimonio il cielo / d'una infame viltà... la  sua  sentenza  /  ho  sottoscritta...  ho  la  mia  parte  anch'io /  nel  suo  sangue!  oh  che  feci!  ...  io  mi  lasciai  /  dunque  atterrir?  ...  La  vita?  ...  Ebben,  talvolta /  Senza delitto non  si  può  serbarla”,  pp.  687‐688. 

47

 Ibidem, vv. 270‐271, p. 687‐688. 

48

 Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, XXIII, p. 806. Cfr. Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi di  Alessandro  Manzoni,  raffrontati  sulle  due  edizioni  del  1825  e  1845.  Con  un  commento  storico,  estetico  e  filologico  di  Policarpo  Petrocchi,  Introduzione  di  Giovanni  Nencioni,  Firenze:  casa  editrice Le Lettere, 1992, p. 560. 

(11)

sempre il giansenismo che tanto insisteva sull’importanza di attenersi alla scrittura evangelica, consiglio che Manzoni prese sempre alla lettera. Questo concetto (“Dio dà infallibilmente ciò che viene chiesto con la preghiera”), come si è visto, ritorna nella lettera del 1842 al Coen e nelle parole scritte alla figlia Vittoria il 10

aprile del 1835 50; esso compare nuovamente vent’anni dopo, nelle Osservazioni

Sulla Morale Cattolica del 1855 51. Langella nota però la sua presenza anche nella quinta strofa della Pentecoste del ‘17, in cui si dice chiaramente che il desiderio di salvezza non si manifesta mai invano, (infatti a chi domanda sarà dato).

Langella ritiene che in questa affermazione ci sia un ridimensionamento oggettivo

del giansenismo 52. In realtà tutto ciò non sembra essere vero. Pascal su questo

punto, partendo proprio dalla parola evangelica, si sarebbe detto assolutamente d’accordo con Manzoni. Lo confermano le stesse parole che egli scrisse a proposito dei “pauvres de la grâce” e che qui vale la pena di riportare:

“Opérez votre salut avec crainte. Pauvres de la grâce. Petenti dabitur. Donc il est en notre pouvoir de demander? Au contraire ; donc il n’y est pas, parce que l’obtention y est, le prier n’y est pas. Car puisque le salut n’y est pas, le prier n’y est pas. Le juste ne devrait donc plus espérer en Dieu, car il ne doit pas espérer, mais s’efforcer d’obtenir ce qu’il demande. Concluons donc que puisque l’homme est incapable maintenant d’user de ce pouvoir prochain et que Dieu ne veut pas que pas que ce soit par là qu’il ne s’éloigne pas de lui, ce n’est que par un pouvoir efficace qu’il ne s’éloigne pas… Donc ceux, ayant persévéré quelque temps dans la prière par ce pouvoir efficace, cessent de prier, manquent de ce pouvoir efficace. Et partant Dieu quitte le

premier en ce sens” 53.

      

50 Scrive Manzoni alla figlia: “Confida tanto più quanto più ti senti debole, perché il Signore non 

manca  mai  a  chi  si  conosce  e  prega.  Prometti  d’essere  in  tutto  e  sempre  fedele  alla  sua  santa  legge:  prometti  senza  esitare,  poiché  Chi  ti  ha  dato  il  comando  ti  promette  Egli  il  soccorso.  Chiedigli con ferma speranza quello di cui già senti aver tanto bisogno”. Tutte le lettere II, p. 47.  51  Scrive Manzoni: “La grazia non è mai dovuta, ma non è mai negata a chi la chiede con sincero  desiderio, e con umile fiducia” ; “nella preghiera, a disposizione della quale, per dir così, è messa  la potenza divina da quel: “Chiedete e vi sarà dato”, Osservazioni Sulla Morale Cattolica (1919), II,  p. 75; 77. Cfr. Langella,  op. cit. (2009), p. 110.  52  Langella,  op. cit. (2009), p. 110.  53 Pascal, Pensées, 869 (Lafuma). Citato da Lettieri, op. cit. (1999), p. 229. 

(12)

Come spiega Lettieri, secondo Pascal i “poveri di Grazia, vengono condannati perché non hanno pregato per la propria salvezza. Questo, però, non significa affatto che “l’ottenimennto della salvezza dipenda esclusivamente dal chiedere dell’uomo”, è invece vero che “ sarà dato soltanto a chi chiede, ma è la grazia che

agostinianamente concede la stessa preghiera, l’invocazione a Dio” 54. Manzoni è

dello stesso parere. Si ritorni ora al testo della Pentecoste del ’17:

“Ma questa eterna in Dio, / pietosa aura ineffabile, / di cui giammai desio / indarno un cuor non ha, / questa d’Adamo al misero / germe il cammino

addita / e nel cammin di vita volente il fa” 55.

Per quanto non emerga in modo esplicito, sembra evidente che secondo Manzoni l’intervento di Dio debba verificarsi necessariamente affinché il “desio” della grazia (= “pietosa aura ineffabile”) giunga: la Grazia avvia al “cammin di vita” e

“fa correr volente” 56. Per il Manzoni Dio fa in modo che l’individuo desideri,

agendo direttamente dal profondo della volontà individuale, secondo un’accezione

molto usata dai giansenisti 57. In campo pratico, però, tale perifrasi si traduce

nell’assentire spontaneo della volontà individuale (segretamente e internamente

mossa da Dio) all’azione della Grazia 58. Non c’è, perciò, nulla di più coerente con

tutto questo del fatto che l’uomo, avendo chiesto sinceramente e mosso da Dio a        54  Lettieri, op. cit. (1999), p. 230.  55  Pentecoste (1817), vv. 33‐40, pp. 194‐195.  56 Cfr. Poesie e Tragedie, p. 195, nota v. 40.  57

  Peccando  di  quella  che  Langella  chiama  giustamente  “sottigliezza  teologica”  si  potrebbe  dire  che  Manzoni  sia  d’accordo  con  Degola  a  proposito  del  “simul  non  velle”  della  potestas  dissentiendi:  lo  stesso  concetto  non  potrebbe  essere  espresso  meglio  rispetto  a  quanto  fa  Manzoni: la grazia fa “correr volente” nel cammin di vita l’individuo. Aldilà della polemica che le  cinque proposizioni di Cornet spalancano, Degola rivedeva nella propria interpretazione, data ad  esse,  la  vera  risoluzione  di  tutta  la  questione  della  “Gratia  Dei”:  si  deve  perciò  ritenere  che  Manzoni  abbia  molto  probabilmente  sentito  parlare  di  esse,  e  che  avesse  risolto  la  questione  della Grazia, da un punto di vista strettamente teologico, alla stessa maniera dei giansenisti: se si  guarda  all’opera  manzoniana  secondo  un  approccio  unitario,  in  più  punti  della  propria  opera  Manzoni  dice  chiaramente  che  nulla  deriva  all’uomo  da  sé,  ma  tutto  da  Dio,  e  in  questo  si  comprendono  anche  i  buoni  sentimenti  o  la  buona  volontà;  si  deve  perciò  concludere  che,  se  Manzoni avesse mai teorizzato il rapporto tra “Gratia Dei” e “Libertas agendi” in chiave teologica,  probabilmente avrebbe parlato della “voluntas Dei” come “causa efficiens” per quella individuale  e  (probabilmente)  avrebbe  concordato  con  Degola  nel  dire  che  la  volontà  umana  al  momento  dell’agire della Grazia decide di non esercitare la propria “potestas dissentiendi” perché di fatto è  sempre e solo Dio che guida la nostra volontà dall’interno. Questo, credo, significhi “il fa correr  volente” e in questo, a mio parere, crede Manzoni quando esorta la figlia a chiedere a Dio la fede,  perché Dio dà “infallibilmente” ciò che si chiede. 

(13)

chiedere, riceva. Il desiderio stesso è frutto della Grazia, e viene creato nell’uomo da Dio. Il punto di partenza giansenistico a proposito del veloce processo che portò a questa posizione, secondo cui Dio dà infallibilmente quel che viene chiesto, può essere colto anche nei versi 65-68 della Passione (1815) in cui, forse, per la prima volta compare la chiara allusione a quell’esortazione biblica:

“Su nel cielo in sua doglia raccolto / giunse il suono d’un prego esecrato: / i

celesti copersero il volto: / disse Iddio: Qual chiedete sarà” 59.

La massima evangelica, “petite et dabitur vobis”, è qui pervertita in senso negativo, e allude alla crudele preghiera di morte dei Giudei quando chiesero il sangue di Cristo. Dietro l’adempimento di questa imprecazione vi è il Dio terribile dei giansenisti che è capace di tremende vendette (la diaspora ebraica).

Sull’idea pascaliana che la preghiera sia di origine divina si sostiene anche un punto chiave del pensiero manzoniano, che dimostra perciò di avere radici giansenistiche: la necessità di nutrire fiducia verso Dio.

La fiducia in Dio, predicata dai Giansenisti come condizione necessaria della fede nelle promesse millenaristiche e messianiche, era considerata da Degola parte

integrante dell’Esprit di Gesù Cristo 60. Essa trova posto nell’opera manzoniana,

già all’indomani della conversione, negli ultimi versi della Risurrezione (1810-1812) ed è destinata a divenire, come nota Floriani, un valore-chiave della

concezione religiosa di Manzoni 61. Scrive Manzoni:

“ma che fia di chi rubello / torse, ahi stolto! I passi erranti nel sentier che a

morte guida? Nel signor chi si confida / col Signor risorgerà” 62 .

Per questioni tematiche, si colloca in questa seconda fase anche il Natale del 1833, che rappresenta un ritorno alle posizioni giansenistiche più rigide, alle quali Manzoni si trovò vicino soprattutto nella fase che si è appena analizzata. In quest’opera, però, l’influenza del giansenismo si spinge ben oltre quel che si è        59  Manzoni, La Passione, p. 150.  60 Degola, Instruction in Eustachio Degola, il clero costituzionale, pp. 458.  61  Floriani, Paura di che? in Studi di Letteratura Italiana in onore di Claudio Scarpati, a cura di M.  Girardi, E. Bellini, U. Motta, Milano, Vita e Pensiero, 2010, pp. 753‐766.  62 Manzoni, La Risurrezione, vv. 108‐112, p. 168‐169. 

(14)

potuto constatare sinora. Manzoni, in effetti, in questi versi si mostra finalmente consapevole, in un modo, si direbbe, sconosciuto alla precedente opera innografica, dell’agostinismo da cui prende le mosse il giansenismo e lo recupera volutamente.

Questa nuova consapevolezza gli deriva molto probabilmente dall’incontro con Rosmini. Ai versi 7-8 Manzoni scrive:

“è fato il tuo pensiero / è legge il tuo vagir”.

Manzoni in questi versi richiama un concetto espresso da Agostino, secondo cui ogni azione che l’uomo fa, è stata già decisa e scrutata da Dio al momento della creazione operata dal Verbum, ovvero al momento del “fari”: Dio crea tramite la parola.

Per l’Agostino del De Civitate Dei (V, 9, 10, 11), che cerca di rispondere alle obiezioni sollevate da Cicerone a proposito del concetto stoico di fato, Dio nella sua praescientia ha già previsto e creato tutte le nostre azioni in un momento fuori dal tempo in cui la potenza coincide con l’atto. Questa idea di matrice neoplatonica venne interpretata dai giansenisti privilegiandone le conclusioni più estreme: essa teorizzerebbe ai loro occhi la negazione del libero arbitrio e la concessione all’uomo della sola libertas peccandi. Basta la sola allitterazione “vagir / ferir” a rendere l’idea del Dio che ha in mente Manzoni in questo momento particolare della sua vita: un Dio crudele che, oltre a privare completamente l’uomo della libera volontà, decide per praescientia, secondo una logica incomprensibile e paradossale, anche il male e le sciagure che lo colpiranno:

“vedi le nostre lagrime / intendi i nostri gridi / il voler nostro interroghi, / e a tuo voler decidi” 63.

       63

 Manzoni, Il Natale del 1833, vv. 11‐12. Poesie e Tragedie, pp. 534‐535. Agostino nel De Civitate  Dei  tentava  di  salvare  il  libero  arbitrio  ma  finisce  per  negarlo,  sostenendo  che  Dio  è  causa  efficiens per le volontà individuali e che per prescienza decide.  

Cfr.  Augustinus,  De  Civitate  Dei,  V,  9.3:  Ordinem  autem  causarum,  ubi  voluntas  Dei  plurimum  potest,  neque  negamus,  neque  fati  vocabulo  nuncupamus,  nisi  forte  ut  fatum  a  fando  dictum  intellegamus, id est a loquendo 20; non enim abnuere possumus esse scriptum in Litteris sanctis:  Semel locutus est Deus, duo haec audivi, quoniam potestas Dei est, et tibi, Domine, misericordia,  qui  reddis  unicuique  secundum  opera  eius  21.  Quod  enim  dictum  est:  Semel  locutus  est, 

(15)

3.4.1.3. TERZA FASE

In questo periodo (1819-1827) Manzoni appare ancora legato al concetto giansenistico di Grazia efficace e alla concezione agostiniana (e giansenistica) della provenienza divina di ogni bene compiuto dall’uomo. Lo scrittore in questa terza fase riscopre il valore dell’assentimento dato alle disposizioni rette che, poste da Dio nel nostro cuore, al pari del peccato, possono e riescono a lottare con esso. Come vuole il giansenismo, l’origine di tali disposizioni è divina, come anche la forza che le ravviva e le fa sussistere. Questa convinzione porta, però, nel concreto, in Manzoni a conclusioni maggiormente ottimistiche e ortodosse rispetto al punto di partenza giansenistico.

Tali conclusioni si osservano già nella Pentecoste del 1819, in cui Manzoni esprime ancora una volta il concetto dell’efficacia della Grazia, ma aggiungendovi

qualcosa di suo: (vv. 90-94) 64:

“Spirto discendi ancora, / a’ tuoi cultor propizio, / propizio a chi T’ignora; / scendi e ricrea; rianima / i cor nel dubbio estinti; e sia divina ai vinti

mercede il vincitor” 65.

L’intervento divino viene presentato come ineluttabile e definitivo, ma, accanto ad esso, Manzoni ripone fiducia in una maggiore benevolenza da parte di Dio, finalmente davvero propizio verso tutti. Secondo questi versi, esistono cuori, “infecondi”, maggiormente restii al bene e più ancorati al peccato rispetto ad altri,        

intellegitur  "immobiliter",  hoc  est  incommutabiliter,  "est  locutus",  sicut  novit  incommutabiliter  omnia  quae  futura  sunt  et  quae  ipse  facturus  est.  Hac  itaque  ratione  possemus  a  fando  fatum  appellare, nisi hoc nomen iam in alia re soleret intellegi, quo corda hominum nolumus inclinari.  Non est autem consequens, ut, si Deo certus est omnium ordo causarum, ideo nihil sit in nostrae  voluntatis  arbitrio.  Et  ipsae  quippe  nostrae  voluntates  in  causarum  ordine  sunt,  qui  certus  est  Deo  eiusque  praescientia  continetur,  quoniam  et  humanae  voluntates  humanorum  operum  causae  sunt;  atque  ita,  qui  omnes  rerum  causas  praescivit,  profecto  in  eis  causis  etiam  nostras  voluntates ignorare non potuit, quas nostrorum operum causas esse praescivit. 

64

 La straordinaria efficacia dell’intervento divino è descritta con molto più vigore nelle versioni 

scartate di quest’inno per quanto riguarda la strofa precedente “(…) Oh scendi, autor di Vergini / 

allevator di prodi, / tu che spirar nei palpiti / dei puri sen ti godi, / e tu li crea: tu <…> / le voglie  sante  avviva,  /  tu  i  doni  tuoi  coltiva  /  negli  infecondi  cor  >  tu  le  pie  voglie  suscita  /  tu  mite  le  coltiva  /  come  del  sol  la  viva  /  fiamma  risveglia  il  fior”.  Citato  da  Boggione  che  si  rifà  alla  trascrizione di Albonico. Poesie e Tragedie, p. 184. L’immagine del “fior” che ricorda la purezza  ritorna nelle versioni scartate con una certa insistenza e viene descritto cosa accade al fiore della  virtù se non riceve la luce salvifica del Sole, allegoria per Spirito Santo. 

(16)

ai quali, però, Dio si preoccupa di dare tutte le occasioni possibili per salvarsi. Esistono invece cuori, in cui il seme della Grazia attecchisce più facilmente, fino a dar loro il dono della “seconda vita”. La grande innovazione rispetto alla fase precedente risiede nel fatto che per il Manzoni della Pentecoste del 1819 e dell’Adelchi, la Grazia di Dio diviene finalmente e per davvero un dono per tutti, di cui riesce ad usufruire una moltitudine, e non più un solo sparuto gruppo di eletti. Questo dono, maggiormente allargato, è però sempre concessione di Dio. L’uomo non possiede di per sè naturalmente buone inclinazioni; è quindi evidente che i presupposti, da cui parte Manzoni, sono giansenistici anche in questa seconda Terza Fase. Tutti questi concetti si possono verificare mediante un confronto con le Osservazioni Sulla Morale Cattolica del 1819, dove Manzoni scrive:

“l’uomo è corrotto ed inclinato al male, (…) tutto ciò che egli ha in sé è un dono di Dio” 66 .

I presupposti di queste parole sono gli stessi di Degola, Pascal, Agostino e della Pentecoste del 1817. Nelle parole appena citate Manzoni sembra condividere con i giansenisti, l’idea che vede il peccato, come una ruggine che insinuatasi nel cuore umano, ne corrompe il bene originario. Il pensiero dello scrittore al riguardo emerge con più precisione se si affianca il passo citato a quello delle Osservazioni sulla morale cattolica, in cui egli parla dei “sentimenti retti ai quali tutti gli

uomini hanno una disposizione” 67. Manzoni scrive:

“questi sentimenti non ponno mai essere in contraddizione colla legge di Dio, dal quale vengono pure. La legge non è anzi fatta che per confermarli, che per annunziare all’uomo che egli può e deve seguirli per dargli un mezzo con cui discernere nel suo cuore ciò che Iddio vi ha posto, e ciò che il

peccato vi ha introdotto” 68.

Le inclinazioni rette “vengono dalla legge di Dio”, non sono perciò connaturate alla natura umana, ma ci appartengono, in quanto qualità date da Dio all’uomo        66  Manzoni, Osservazioni Sulla Morale Cattolica (1819), cap. XVII, p. 149.  67  Ibidem, V, p. 44.  68 Ibidem. 

(17)

prelapsario. Secondo Manzoni il peccato adamitico non distrugge tutto: lascia intatte quelle disposizioni alle quali noi possiamo attingere grazie all’aiuto divino, al Deus absconditus ed interiore che lavora dall’interno della nostra volontà. Quel che cambia rispetto ai giansenisti è la presenza di un maggiore ottimismo e, quindi, l’acquisizione di una visione più positiva del rapporto uomo / Dio.

La condizione di Adamo non implica più per Manzoni l’ineluttabile sprofondamento nel pantano della colpa da parte dell’uomo: la salvezza diviene un bene più facilmente raggiungibile, perché la legge evangelica ha smesso di essere servitù, per divenire parola rivelativa ed efficace. La legge è finalmente divenuta una fiaccola che non soltanto illumina per il naufrago la terraferma, ma che più facilmente lo aiuta a raggiungerla: questo è per esempio il caso di

Gertrude, portata lentamente dalla Religione verso il proprio pentimento 69.

Per Manzoni, però, è sempre e solo Dio a far sì che si attui la salvezza. Su un piano schiettamente teologico, Dio fa sempre tutto, proprio come volevano i giansenisti; la differenza sta nel fatto che il Dio di Manzoni concede la Grazia molto più volentieri e più facilmente di quanto non faccia quello di Giansenio o

anche di Bossuet 70. Anche per il Manzoni che ha già fatto l’esperienza del

Romanzo, la Grazia è il motore pulsante della fede e prende possesso dei cuori a dispetto della colpa adamitica.

Le Strofe per una prima comunione 71 scritte su richiesta intorno al 1830

confermano tale convinzione. Anche quest’opera è fondamentale documento per comprendere l’azione della Grazia nella vita spirituale del credente e soprattutto l’intervento di essa al momento della celebrazione dei sacramenti: secondo

Manzoni la Grazia, proprio come insegnava Degola 72, vivifica il cuore di chi è in

procinto di ricevere il sacramento:

“Anche i cor che T’offriamo son tuoi: / Ah! Il tuo dono fu guasto da noi; / ma quell’alta Bontà che li fea, / li riceva quai sono, a mercé; / e vi spiri,

       69

 Langella, op. cit. (2009), p. 106. 

70

 Ibidem 

71  Questo  componimento,  infarcito  di  citazioni  bibliche,  fa  ritornare  seppur  edulcorati  da  un 

“ineffabil gaudio”, gli aspetti terribili e severi del Dio dell’Antico Testamento e dei giansenisti. 

72

 Curiosamente anche in quest’opera, proprio come nei testi analizzati del Degola, il dono della  fede è paragonato al dono dell’esistenza, perché tutto Dio ci dà. 

(18)

col soffio che crea / quella fede che passa ogni velo, / quella speme che more nel cielo, / quell’amor che s’eterna con Te” 73.

Nel momento del sacramento questo Dio è invitato a cambiare il cuore umano con il “soffio che crea” ovvero con il “Verbum” a cui non soltanto si deve l’intera creazione, ma anche la costituzione dell’uomo nuovo. Questo pensiero, come si è visto, ricorreva identico in Degola, che avvertiva il momento della conversione come una rinascita dell’individuo. Ora, il sacramento, specie quello dell’eucarestia, reitera questo processo e riconferma la fede. I cuori degli uomini appartengono a Dio, che nel momento del sacramento agisce sui quelli infecondi per trasformarli; Dio in questi versi viene supplicato di infondere la speranza salvifica che, per il Manzoni del Romanzo, deve sostenere tutti gli uomini nel percorso accidentato della vita.

Questi versi confermano che anche per Manzoni, come per i Giansenisti, il motore della fede sia sempre il Dio che agisce dall’interno della volontà muovendo l’individuo ad assentire a quelle originarie disposizioni rette e a combattere la colpa. Il risultato, che concretamente si ottiene, è un paradosso dal punto di vista teologico ma non lo è dal punto di vista umano: Manzoni arriva a concedere un maggior campo d’azione alla volontà umana. Seguendo la via del giansenismo, Manzoni fa quindi rinascere la volontà individuale: il suo uomo, insomma, può superare il bivio dei due sentieri (quello della luce e quello delle tenebre), e può

avviarsi, pur con fatica, verso la salvezza 74.

L’ Adelchi è forse l’opera che accanto al Romanzo meglio di tutte rappresenta questa lunga fase del pensiero manzoniano. Si è detto che per il Manzoni della terza fase Dio fa sì che la Grazia efficace agisca più facilmente. In che modo? Utilizzando il dolore e la sofferenza della vita per far breccia sul cuore umano. In       

73

 Manzoni, Strofe per una prima comunione, vv. 17‐24, Poesie e Tragedie, pp. 215‐216. Questa  poesia,  che  testimonia  l’importanza  del  sacramento  presso  Manzoni,  sarebbe  da  affiancare  ad  alcuni  passi  delle  Osservazioni  Sulla  Morale  Cattolica,  dove  Manzoni  ricorda  che  è  peccato  mortale non assistere alla Santa Messa. Per lo scrittore, che su questo punto era vicino a Bossuet  e Degola, come mise in luce Parisi, il momento del sacramento è una parte fondamentale della  vita del credente e deve essere ricevuto ricevuto con sincero pentimento con l’intervento della  Grazia. Cfr. Parisi, op. cit. (2003), passim. 

Cfr. anche con Versi per una Prima Comunione scritti probabilmente prima del 1823 per conto di  Tosi:  “Vieni  o  Signor,  riposati:  /  regna  ne’  nostri  petti!  /  Sgombra  da’  nostri  affetti  /  ciò  che  Immortal non è. / Sei nostro! Ogni visita / prepari un tuo ritorno, / fino a quell’aureo giorno che ci  rapisca in Te” Poesie e Tragedie, pp. 514‐515. 

(19)

molti punti dell’Adelchi Manzoni sottolinea che il pentimento ha valore escatologico e che la sofferenza è parte integrante della morale tragica del giusto, il quale, secondo l’insegnamento giansenistico, è chiamato ad annichilire sé stesso. L’annichilimento non avviene soltanto passando attraverso il momento estremo del proprio supplizio, ma anche mediante quell’atteggiamento di umiltà che Manzoni ereditò dagli insegnamenti di Degola.

Parlando del proprio futuro seppellimento, Ermengarda dice:

“Modesta / sia l’urna mia – tutti siam polve; ed io / di che mi posso gloriar? (…)75.

Parlare della sofferenza a proposito del rapporto tra “Grazia Efficace” e volontà individuale, tra fede e assentimento ad essa, è importantissimo perché per i giansenisti il dolore del pentimento doveva regolare la vita religiosa dei pii. Affrontando questo tema nell’ambito della tragedia, Manzoni lega indissolubilmente la condizione del giusto a quella della sofferenza: tale legame era però già evidente nel Conte di Carmagnola.

Nella Terza Fase, però, vi è un cambiamento sostanziale. Se il Carmagnola muore da φάρμακος, senza aver acquistato nessuno alla causa di Dio, non avviene così per Adelchi. Nella seconda Tragedia, l’umano patire diviene spesso teatro d’azione della Grazia efficace: sullo sfondo della catastrofe la Grazia, tramite la compassione originata dalle sofferenze altrui, “si contagia” da un cuore all’altro. In questo modo la compassione e la sofferenza divengono strumento necessari per muovere nel cuore dell’empio i sentimenti cristiani.

La catastrofe, con la quale spesso gli uomini si confrontano, quella che i greci chiamavano anche δυστυχία, richiede al personaggio tragico di Manzoni una risposta che deve essere positiva, affinché tutti ne abbiano un miglioramento. La macchina delle opere tragiche di Manzoni e in particolar modo dell’Adelchi scaturisce da riflessioni che poggiano sugli scritti del Lessing e sulla tragedia

classica 76, specialmente quelle di Eschilo 77, secondo il quale il primo male si

      

75  Manzoni,  Adelchi,  vv.  82‐84,  p.  436.  Citato  sempre  da  Alessandro  Manzoni,  Adelchi,  Edizione 

critica, a cura di Isabella Becherucci, Firenze: Presso l’Accademia della Crusca, 1998. 

76

 Annoni, op. cit. (1997), passim; Claudio Scarpati, Pietà e Terrore nell’Adelchi in Manzoni tra due  secoli, Milano: Vita e Pensiero, 1986, pp. 77‐99. 

(20)

diffonde come un cancro che prende il nome di ἄτη. Questo male, appena attivato, crea un vortice distruttivo potenzialmente infinito, teso all’annientamento del γένος.

Come sa bene l’autore dell’Urania, l’ἄτη si rigenera tramite la vendetta, e agli

occhi di un autore cristiano, solo i sentimenti altruistici del perdono e della pietà cristiana possono arginarne il vortice.

Carmagnola, Ermengarda ed Adelchi riescono a rompere la spirale dell’odio e

della vendetta scegliendo la via del perdono 78. Tra la prima Tragedia e la seconda

c’è, però, una differenza data dalla maggiore importanza che l’iniziativa personale

assume nell’Adelchi. Come indicano Scarpati 79 e Zama 80, questo è valido non per

Adelchi, ma per Ermengarda, che si riappropria della volontà e, in piena consapevolezza e libertà, prende decisioni che annientano il vortice d’odio dell’

ἄτη 81. Ermengarda sceglie di “onorare la sventura” tramite il perdono e di non

lasciare sulla terra alcun motivo di odio che alimenti la spirale distruttiva 82:

“Senza rancor passa Ermengarda oggetto / d’odio in terra non lascia, e di quel tanto / ch’ella sofferse, Iddio scongiura e spera / ch’Egli a nessun conto ne chieda, poi che dalle mani sue tutto ella prese. / Questo gli si dica, e (…) se all’orecchio altero / troppo acerba non giunge esta parola / ch’io gli perdono” 83.

Ermengarda nell’Atto I, di fronte alla necessità della propria rovina (io la candida insegna esser dovea: / il ciel non volle), decide: “oh, basta; in me finisca la mia

sventura” 84. Manzoni approda alla formulazione di questo verso passando da “in

me finisca questa sventura” a “in me finisca ogni sventura” 85. Le tre formule

mettono concordemente in evidenza l’intenzione di Ermengarda, ovvero quella di         77  Per  approfondire:  Enrico  Medda,  Arnaldo  Di  Benedetto,  La  Tragedia  Sulla  Scena,  Torino: 

Einaudi, 2002.  78  Annoni, op. cit. (1997), 82.  79  Claudio Scarpati, Pietà e Terrore nell’Adelchi in Manzoni tra due Secoli, Milano: Vita e Pensiero,  1986.  80  Zama, op. cit. (2013), passim.  81  Scarpati, op. cit. (1986), pp. 80‐81.  82Cfr. Giorgio Cavallini, Lettura dell'Adelchi e altre note manzoniane, Roma: Bulzoni, 1984, p. 62.  83  Manzoni, Adelchi, Atto IV, scena I, vv. 66‐73, pp. 435‐436.  84  Adelchi, Atto I, scena I, vv. 225‐226, p. 241.  85 Scarpati, op. cit. (1986), p. 83. 

(21)

porre fine alla sventura propria ed altrui tramite il rifiuto della vendetta. La medesima volontà riappare nei versi 245-254 (Atto I):

“Al santo / di pace asilo e di pietà, (…) a quello Sposo che non mai rifiuta, / lascia ch'io mi ricovri. A quelle pure / nozze aspirar più non poss'io, legata /

d'un altro nodo; ma non vista, in pace / Ivi potrò chiudere i giorni” 86.

Per quanto il progetto di farsi suora non venga poi attuato, la donna manifesta qui

un desiderio di pace che ella potrà realizzare, se non per sé, per gli altri 87.

Inoltre, i versi 103-105 del IV Atto (“ma quella via, / su cui ci pose il ciel, correrla intera / convien, qual ch’ella sia, fino all’estremo” 88) paiono quasi una rettifica dei versi 39-40 della Pentecoste del ’17, i quali recitano in riferimento all’ “aurea ineffabile” (= Grazia) intesa come soggetto agente e in riferimento all’individuo inteso come oggetto passivo: “nel cammin di vita correr volente il fa”. Il contesto è abbastanza diverso, ma il paragone sussiste sul piano filologico per via della reiterazione del verbo: l’infinito del verbo “correre” nella Pentecoste del 17 era inserito in una perifrasi passivante, indicando così la forza vincente della Grazia, che trascina la volontà portando l’individuo alla vita eterna; la stessa voce verbale compare invece a proposito di Ermengarda in una perifrasi attiva, che indica l’intenzione, tutta stoica, di non lasciarsi trascinare dal proprio destino ma di accettarlo, compiendo così la volontà di Dio, “quale ch’ella sia”.

Se il confronto in qualche modo davvero sussiste, si deve concludere che la figura di Ermengarda fa rifiorire la volontà individuale, la quale, nel suo caso, sembra collaborare attivamente all’azione santificante della Grazia: ella accetta il proprio destino, decide di assecondarlo, ferma il vortice d’odio con il perdono e, soprattutto, in punto di morte, in quanto figura Christi, ha “un candido pensier d’offerta” e diviene ostia santa e martire, come lascia intendere il coro. Il suo fato

sarà perciò “al Dio dei santi ascendere / santa del suo patir” 89.

       86  Manzoni, Adelchi, Atto I, scena I, vv. 242‐254, p. 242.   87  Ibidem  88 Ibidem, p. 437.  89  Manzoni, Adelchi, Atto IV, Coro, vv. 23‐24, pp. 445‐446. A questo riguardo Di Sacco constata  come per Manzoni la “salvezza sia fuori da questo mondo” perché “fuor della vita è il termine /  del lungo martir”. Op. cit. (1986), pp. 32‐33. 

(22)

In realtà, come si è già detto, Manzoni condivideva con i giansenisti, ad un livello schiettamente teologico, l’idea che i sentimenti retti fossero sempre e solo opera della Grazia di Dio operante all’interno della volontà individuale al fine di muoverla al bene. Ad un livello più concreto e letterario, però, il realismo manzoniano esige che la volontà individuale sia sentita necessariamente come autonoma e slegata da quella divina. Accade così che la riflessione letteraria e religiosa di Manzoni finisce per sconfinare nella riconquista del libero arbitrio: conformarsi ai sentimenti retti diviene allora una scelta franca dell’individuo, il quale percepisce la Grazia (quando la percepisce), come una forza misteriosa e ineffabile, apparentemente incomprensibile nelle sue modalità d’azione.

Per quanto riguarda Adelchi, lo studio di Zama ha messo in evidenza come egli

non sia dissimile dal Carmagnola 90 nella sua figura di giusto, trascinato dal

destino; egli però non è più l’ “eroe vecchio”, dalla volontà ammutolita.

Per quanto rimanga irrimediabilmente imbrigliato nella necessità delle cose, la sua volontà si manifesta nella lacerazione tra quel che vorrebbe e l’impossibilità di averlo. Questo sarà anche il dramma di Gertrude. Rispetto al destino, la volontà di Adelchi va in direzione contraria, o, se non altro, non può opporsi alla feroce forza che possiede il mondo: anch’egli è costretto infatti dal ciclo della storia a continuare la semina di ingiustizie e il raccolto di sangue, proseguendo per quella

via che i precedenti re avevano tracciato 91. In punto di morte, però, egli compie lo

stesso passo di Ermengarda e con le sue parole veridiche finisce per annullare il vortice distruttivo generato dall’accecamento (ἄτη): Adelchi, infatti, accantona quell’idea di vendetta che considerava positiva all’inizio della Tragedia e muore pronunciando parole di altruismo verso il padre sconfitto; in punto di morte Adelchi perdona persino il suo oppressore: “il tuo nemico prega per te morendo”

92. Per quanto, perciò, l’eroe Adelchi possa essere definito passivo di fronte agli

       90  Per approfondimenti sull’iter di Adelchi rimando all’esaustivo lavoro  di Zama (op. cit. (2013),  pp. 143‐168).  91 Mi riferisco ai versi più celebri dell’opera che sono forse tra i più conosciuti della letteratura  italiana: “Godi che re non sei, godi che chiusa / all'oprar t'è ogni via: loco a gentile / ad innocente  opra  non  v'è:  non  resta  /  Che  far  torto,  o  patirlo.  Una  feroce  /  forza  il  mondo  possiede,  e  fa  nomarsi / dritto; la man degli avi insanguinata / seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno / coltivata col  sangue, e omai la terra / Altra messe non dà”, Adelchi, Atto V, scena VIII, vv. 349‐357, pp. 384‐ 385. 

(23)

eventi della storia 93, non lo è se si considera la sua tragedia dal punto di vista di Dio: le sue parole, il desiderio ultimo di assecondare il proprio destino, lo stesso fatto della sua morte aprono un spiraglio di salvezza anche per le figure di Desiderio e Carlo. In questo modo la sofferenza del giusto assurge al ruolo di “conduttore” nei confronti della Grazia che, portando nel cuore degli empi i sentimenti di pietà, li avvia alla redenzione.

Concludendo, le forze dell’individuo non si sollevano dalla colpa, anzi:

quest’ultimo nel compiere l’errore ha in effetti maggiore responsabilità 94;

ciononostante, in questa Terza Fase, Manzoni teorizza l’esistenza di una maggiore possibilità di salvezza, che può concretizzarsi nel momento in cui i personaggi “empatizzano” gli uni con gli altri, provando sentimenti altruistici. Questa dinamica così illustrata è rara, se non impossibile, per i giansenisti; non lo è invece per Manzoni che, come si vedrà, risemantizza il concetto di Misericordia divina.

Si può, perciò, comprendere, a questo punto, l’importanza del passo delle Osservazioni Sulla Morale Cattolica selezionato da Langella:

“milioni di deboli creature, con quell’aiuto divino che rende facili tutti i doveri hanno trovato che la determinazione, la più ammirabile e la più difficile, quella di morire fra i tormenti della verità, era la più ragionevole, la sola ragionevole e l’hanno abbracciata. Prodigiosa storia della religione! Nella quale l’atto di virtù, il più superiore alle forze dell’uomo è forse quello

di cui gli esempi sono più comuni” 95.

La Grazia trova il modo di trascinare a sé una moltitudine operando nei loro cuori e donando loro l’aiuto necessario: il modo risiede nelle sofferenze. Manzoni, insomma, allarga notevolmente i “limiti giansenistici” dell’intervento della “Grazia efficace”, che sostanzialmente opera molto più spesso e sfrutta ogni

possibilità per far breccia nei cuori e per catturare a sé nuovi individui 96.

       93

  La  Becherucci  nella  sua  edizione  critica  all’Adelchi  avverte  il  mutamento  del  carattere  di  Adelchi  che  passa    da  eroe  attivo  a  passivo  interprete  della  sua  situazione  storica.  Becherucci,  Introduzione, La prima forma, p. XXXIII.  94  Manzoni si sta avviando alla scoperta del libero arbitrio.  95  Osservazioni Sulla Morale Cattolica, I, III, pp. 31‐32.  96 Langella, op. cit. (2009), pp. 107‐109. 

(24)

Come ha messo in luce da Zama, nel passaggio dalle prime versioni alle seconde di alcune opere manzoniane il lavorio d’intarsio, messo in atto da Manzoni, si esplica nel tentativo di dar maggior potere alla volontà dei personaggi, dotandoli di una responsabilità effettiva nelle vicende: questo cambiamento si osserva nel passaggio dall’Appendice Storica a Storia di una Colonna infame, dove il lavoro di correzione, rispetto alla versione precedente, fa emergere con chiarezza il concetto per cui l’errore umano avviene in totale consapevolezza e responsabilità

97: in altre parole, nella Storia di una Colonna Infame, i giudici non sbagliano per

incapacità di vedere ciò che è giusto a causa di un difetto di intelligenza, dovuto al pervertimento adamitico; i giudici sbagliano sapendo di farlo, nell’esercizio

effettivo del libero arbitrio 98. Scrivendo questi contenuti, Manzoni dimostra di

aver trovato una risposta all’aporia rappresentata da Marco 99. Agli occhi del

Manzoni che ha superato questa Terza Fase, Marco è l’individuo che scopre in sé stesso di aver addotto giustificazioni e sofismi per non compiere l’unica cosa

giusta, ovvero non tradire l’amico e andare, se necessario, incontro alla morte 100.

Lo stesso processo, che porta alla progressica valorizzazione della volontà individuale, si osserva, ancora all’interno della Terza Fase, nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi e proprio in relazione al rapporto tra Grazia e libero arbitrio. Anche nel caso dei Promessi Sposi si assiste allo sforzo (riuscito) di dare più valore alla volontà individuale, rispetto alla versione precedente. Secondo una traccia seguita da Zama è possibile fare un confronto che potrà essere illuminante al riguardo.

A proposito del Conte del Sagrato, si può vedere come la volontà individuale dell’uomo cada letteralmente in possesso della Grazia senza attuare una vera e propria resistenza. Quando, nel rassicurare Lucia egli dice “State di buon animo”

101, lo fa “spinto da un bisogno di far cessare quell’angoscia e quel lamento, di

consolare quella creatura” 102.

      

97  Puppo  mette  in  luce  come  “il  significato  più  profondo  degli  avvenimenti  esaminati  si  venne 

rivelando  a  poco  a  poco  alla  mente  di  Manzoni”  Citato  da  Zama,  op.  cit.  (2013),  p.  170.  Nella  rielaborazione della seconda versione fu quindi importantissimo per Manzoni fare il punto della  situazione  sul  problema  fondamentale:  quello  della  responsabilità  personale  dei  giudici.  Cfr.  anche Acerboni, op. cit. (2012), pp. 78‐79.  98  Per uno studio approfondito rimando al lavoro di Zama, op. cit. (2013), pp. 169‐194.  99 Passim  100  Passim  101  Fermo e Lucia, II, 10, 47, p. 263.  102 Ibidem 

(25)

Il gioco in cui si esplica il percorso di passaggio allo stato di Grazia per il Conte è determinato dal vigore delle immagini e dei pensieri che si impongono alla sua mente, animati da una forza estranea, quella della Grazia. Pare di assistere ad un gioco alternato, in cui alla potenza del ricordo, comparso alla mente, segue la pallida resistenza della volontà individuale. La prima delle immagini è quella di

Lucia, che “più potente, più viva si pose a sedere nella sua mente, e vi stette” 103.

La seconda è quella della schiera delle persone uccise in precedenza che

“cominciarono a schierarsi dinnanzi alla sua memoria” 104.

Nel reagire a ciascuna immagine l’ “io” del Conte dà una risposta che pare essere più la constatazione seccata di un fatto avvenuto che una vera resistenza: di fronte alla prima immagine, non riesce a trovare piacere all’idea di sentir “guaire” Lucia e conclude di essere affetto da compassione: “Compassione! Ma certo io ho avuto

compassione; la sento ancora … e qualche cosa di peggio!” 105. Di fronte alla

seconda immagine, dopo un tentativo di resistenza, arriva la constatazione:

“Ebbene ne ho fatte troppe … se non le avessi fatte sarebbe meglio” 106. A questo

punto emerge dall’abisso della coscienza un altro “io” che si impone sul primo con facile vittoria:

“Poniamo che appena fatto giorno io entri nella sua stanza = la poveretta si spaventa; ma io le dirò subito subito: vi lascio in libertà, vi farò condurre a casa. Oh come si cangerà in volto! Che cosa mi dirà! Mi dirà delle benedizioni che mi faranno bene. Voglio badar bene a tutto quello che mi

dirà, e ricordarmene per pensarvi la notte!” 107.

La risposta che il primo “io” sa dare a questo appena apparso è quella del pentimento e, a proposito di Lucia, si chiede “ma devo lasciarla andare?”. È come se la Grazia di Dio avesse assunto sostanza in questo secondo “io”, destinato a rimpiazzare il secondo. Manzoni affida ad esso tutte le parole volontaristiche, che in modo simile a quel che accade in Gertrude, producono il dramma della volontà. Emblematico è il momento in cui il secondo “io” appena formatosi decide:

       103  Ibidem, 58, p. 265.  104 Ibidem, 62, p. 265.  105  Ibidem, 60.  106  Ibidem, 64, p. 266.  107 Ibidem, 65‐66. 

Riferimenti

Documenti correlati

Sala Conferenze del Consiglio superiore della magistratura Piazza dell’Indipendenza, 6

Invece tra i regali che Chiara ha fatto a Borana, un valore particolare lo meritano i libri che sono andati ad arricchire la piccola biblioteca che Borana stessa coordina ed è

In questo contesto, pertan- to, le corrispondenze nel loro insieme e per i loro contenuti testimoniano il fer- vore scientifico, culturale, letterario, politico ed intellettuale di

Otto secoli di Misericordia conservati nella storia della Confraternita raccontano un’inedita Firenze , “città della cristiana fratellanza non solo città dei mestieri e dei

mestamente sorrise, e: «Se non fosse ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto quell'anima gentil fuor de le membra prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo di Quei, ch'etema

« La Società degli Ingegneri di Torino, udita ed approvata la splendida relazione del socio Casana intorno alle condizioni attuali dei locali destinati alla Scuola d'Applicazione

Trentadue anni dopo, alla vigilia della sua nascita al cielo, la sorella incaricata della biblioteca, poco prima dei Vespri la vide entrare per riportare i quotidiani da lei

Il Padre della misericordia, il cui nome è santo davanti a tutte le genti, attende di essere santificato nella vita dei creden- ti; manda perciò il santo Spirito a fare dei