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CAPITOLO 3: L’AVVENTO DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 3: L’AVVENTO DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE

La carta, come si è visto, è un prodotto antico ed i principi essenziali della sua fabbricazione sono rimasti tutt’oggi quasi del tutto invariati. Con l’avvento del 1800 si assisterà, però, ad una duplice rivoluzione in materia di fabbricazione della carta: muteranno infatti materie prime e attrezzature, che via via diventano sempre più complesse. In particolar modo con la scoperta della cellulosa, per quanto riguarda le materie prime, e con la diffusione della nuova macchina continua in piano, per quanto riguarda le attrezzature, si avvia la prima svolta decisiva che sancisce l’avvio di un periodo che potremmo definire “moderno”.

3.1

Le materie prime

Per quanto riguarda le materie prime, si cominciava a sentire la necessità di utilizzare fibre vegetali che non provenissero soltanto da stracci. La loro scarsità era di grande freno per lo sviluppo dell’industria cartaria, che pur vedeva continuamente aumentare

la richiesta del suo prodotto.1 L’invenzione, nel 1455, della stampa a caratteri mobili da

parte di Gutenberg e la sua diffusione contribuirono, più di tutto, a fare della carta un prodotto di primo piano e non sostituibile. Vastissima fu la legislazione, come abbiamo già analizzato nel secondo capitolo, che disciplinò in molti Stati italiani, il commercio degli stracci e ne vietò l’esportazione. Questi metodi, però, non bastavano a risolvere il problema, ovvero a mettere a disposizione dei cartai la materia prima nella quantità richiesta dal progresso dei tempi. Bisognava quindi battere vie nuove, al termine delle quali si sarebbe raggiunto, come infatti si raggiunse, lo scopo. Già verso la fine del 1600, iniziarono soprattutto in Germania i primi tentativi per cercare di aumentare la resa degli stracci e individuare materiali sostitutivi. Ma le sperimentazioni più importanti ebbero luogo solo nel 1700. Nel 1712 R. Réamur dichiarava all’Accademia delle Scienze di Parigi che la materia con la quale erano fatti i nidi di vespa era simile alla carta fabbricata dagli uomini e poiché tale materia consisteva di fibre di legno, ne traeva la conseguenza che gli uomini dovevano dirigere le proprie ricerche verso la produzione di carta dal legno; nel 1734 A. Seba aveva studiato la possibilità di produrre carta

1

R. H. Clapperton. Paper an Historical Account of Its Making By Hand from the Earliest Times Down to the Present Day. Oxford, The Shakespear Head Press, 1934, p. 87.

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utilizzando erbe di palude e paglia; pochi anni dopo Stakel tentava con la segatura.2 Colui che, però, passò alla storia con il titolo di primo vero studioso della pasta di legno per carta fu Jacob C. Schaeffer. Egli condusse esperimenti su più di cinquanta piante diverse, concentrandosi in special modo su i legni di abete e pioppo, oggi impiegati in larga misura. Passò comunque circa un secolo prima che agli studi di Schaeffer facessero seguito applicazioni pratiche in fabbrica. Solo, infatti, nel 1884 F.G. Keller, legatore di fogli, ottenne la pasta di legno meccanica sfibrando, per la prima volta, il legno. A quella specie di segatura di legno fece poi aggiungere un 40% ca. di pasta di stracci

trasformando il tutto in carta. Tuttavia la notorietà della pasta di legno si diffuse

ampiamente solo dopo la costruzione di uno sfibratore, introdotto sul mercato nel 1846 da E. Voelter.3 Fino al 1850 ca. per avere carte di buona qualità si preferiva ancora,

come abbiamo già detto, unire alle carte ricavate dai vegetali, la polpa di stracci in una percentuale variabile dal 10 al 40%. La preparazione della carta dai vegetali era fatta macerando questi materiali con prodotti come calce, soda e potassa caustica; venivano quindi lavati e pestati con i magli o con la pila olandese (v. le attrezzature). La carta prodotta con questi trattamenti conteneva, però, tutta una serie di sostanze non cellulosiche (sostanze incrostanti) presenti nella pianta (soprattutto nel legno) e che, in realtà, non servivano alla fabbricazione della carta ma, anzi, ne danneggiavano fortemente la qualità. Per questa ragione si cercò di modificare o estrarre con mezzi chimici tali sostanze per rendere il prodotto più ricco di cellulosa: le prime prove di “pasta chimica” si ebbero nel 1850-51 ma cominciò ad essere prodotta solo dopo i brevetti di H.Burguess e C.Watt, ottenuti nel 1854. Si diffuse, però, ampiamente solo dopo il 1880 con il processo al solfito di C.D.Ekman e con il contemporaneo processo al solfato di C.F.Dahl.4,5 A ciò si aggiungeva l’introduzione di nuove innovazioni che

riguardavano soprattutto lo sbiancamento e la collatura. La “sbianca” con cloro gassoso inventata da C.Berthollet nel 1785, appositamente concepita per i tessuti, venne ben presto impiegata anche per sbiancare la pasta di carta. Nei primi anni si sbiancavano proprio gli stracci, ma dal 1798 in poi si cominciò a sbiancare la pasta eseguendo il processo in una fase intermedia della sfibratura. L’operazione veniva eseguita in speciali tini, utilizzando cloro gassoso o soluzione di cloruro di calce. Ad essa faceva poi seguito un lavaggio in acqua per l’eliminazione del cloro. Questa immersione, più o meno lunga, in acqua non riusciva in realtà ad eliminare completamente il cloro. Il degrado che si riscontrava nelle carte con il passare del tempo, impose, alcuni decenni dopo,

2 P. T. Tschudin. La carta. Storia, materiali, tecniche. Roma, Edizioni di storia della letteratura, 2012, p. 141

3

E. Pedemonte. La carta: storia, produzione, degrado e restauro. Venezia, Marsilio Editori, 2008, p. 78 4 D. C. Coleman. The British Paper Industry 1495-1860. Oxford, Clarendon Press, 1958. p. 181

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uno speciale trattamento anticloro con iposolfito e bisolfito di sodio. 6 Anche il processo

di collatura subì alcuni cambiamenti in seguito all’introduzione della macchina continua in piano (v. le attrezzature) e all’aumento dei ritmi di produzione della carta. Si rese, infatti, necessario un processo di collatura che avvenisse contemporaneamente alla fase di formazione della polpa di carta. Tutto questo si realizzò grazie a M.F.Illig che, nel 1807, pubblicava il suo scritto sulla collatura in pasta con resina vegetale (colofonia) e allume. Essa veniva effettuata nella pila olandese o anche nella tinozza della macchina continua in piano.7

3.2

Le attrezzature

Una crescente esigenza di produttività portò alla meccanizzazione della produzione manuale della carta e a nuovi processi chimici. Quali furono, dunque, i cambiamenti più importanti correlati all’industrializzazione?

LA CALANDRATURA A MARTELLO

Verso la metà del XVI sec., l’introduzione del martello per lisciare apportò enormi vantaggi all’interno del processo di produzione della carta. Nel 1541 fu proprio H.Frey, un artigiano di una piccola cittadina dell’attuale Repubblica Ceca, a costruire un martello per lisciare comandato dall’albero del mulino a magli tramite un albero a camme azionato da una ruota idraulica. L’operaio lisciatore muoveva un fascio di carta sull’incudine in modo tale che ogni punto della superficie venisse colpito dal martello (Fig. 3.1). Questo sistema consentiva di ottenere una miglior lucidatura e contribuiva a rendere più rigidi i singoli fogli.8

6 Carta in Nuova enciclopedia popolare italiana, vol.4. Torino, G. Pomba Editore, 1857. p. 569 7 P. T. Tschudin. La carta…, cit. pp. 145-146

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A. Annesi. La nobile arte di fabbricare la carta. Roma, Istituto Romano di Arti grafiche Tumminelli, 1969, p. 139

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A partire dal XVII sec. risulta documentata anche la lisciatura tramite cilindri. In questo caso, i fogli venivano adagiati tra due lastre di metallo o tra due cartoni.

L’INTRODUZIONE DELLA PILA OLANDESE: ANALOGIE E DIFFERENZE CON I MAGLI

La successiva importante innovazione riguardò la preparazione della pasta. Nei primi tempi della fabbricazione della carta, lo avevamo detto, gli italiani introdussero il mulino a magli per formare l’impasto. Questo tipo di mulino venne sostituito, verso la metà del XVII sec., da una macchina tagliastracci azionata da una ruota idraulica costruita in Olanda (Fig. 3.2). La più antica notizia su questa nuova macchina, che ben presto prese il nome di “pila olandese” o “pila a cilindro”, è data da un certo J.Becker il quale, in un suo scritto, testimoniava di averla vista in un paese dell’Olanda settentrionale nel 1680 9.

Il processo di tritatura avveniva sempre in presenza di acqua. Le pile olandesi erano composte da una vasca originariamente di legno, poi di pietra e poi ancora di ghisa o di cemento, all’interno della quale gli stracci venivano fatti circolare attorno ad una parete divisoria posta in mezzo al mastello. La molitura avveniva per opera di due cilindri lignei azionati tramite forza idrica; il primo era un cilindro per sfilacciatura mentre l’altro era un cilindro provvisto di lamine adatto, invece, alla raffinazione dell’impasto. Il processo di lavorazione della pila olandese era questo: l’impasto versato nella vasca

9 C. E. Rusconi. Carta, cit. p. 48

Fig.3.2. Pila olandese: prospettiva e sezione: A. vasca; B. parete divisoria; C. cilindro a lamine; D. platina metallica laminata;

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era dapprima sottoposto all’azione del cilindro per sfilacciatura dove l’impasto veniva, appunto, triturato; esso passava poi al cilindro raffinatore provvisto, invece, di lamine longitudinali e collocato a distanza variabile sopra una platina metallica fissa, anch’essa laminata. Durante l’operazione, che durava parecchie ore, gli stracci passavano molte volte nell’interstizio tra platina e cilindro e gradualmente si riducevano, così, a quello stato di sfibratura necessario per il tipo di carta da fabbricare. Nel corso del XVII sec. questa macchina venne introdotta in tutta Europa.10 Il motivo della sua generale

affermazione è da ricercare in una serie di fattori: 1) le pile olandesi consentivano di ottenere una pasta da carta con un miglior grado di raffinazione. I martelli, infatti, lavoravano, diciamo così, “con una corsa ridotta” per non lanciare in aria la pasta della pila entro cui lavoravano; per questo non avevano mai la forza di portare l’impasto al grado di raffinazione raggiunto invece dal cilindro; 2) il tempo di lavorazione era assai più breve di quanto non fosse necessario con le pile a magli. Il tempo di sfibratura era, infatti, di circa dieci ore contro le trenta/quaranta ore dei magli; 3) la perdita di materia prima era molto più ridotta in quanto con i magli la resa degli stracci era in media del 70% mentre con la macchina olandese si arrivava al 95%; 4) i cilindri della pila olandese avevano, infine, una maggiore durata dei magli che necessitavano di essere restaurati ogni cinque/sei anni. Tutto questo, però, a discapito della qualità del prodotto finito; la maggiore raffinazione della pila olandese produceva una polpa di carta con fibra più corta e, conseguentemente, un prodotto-carta meno resistente. Nei primissimi tempi le pile olandesi vennero affiancate alle pile a magli: in queste ultime si produceva la cosiddetta “mezza pasta” che poi passava nella pila olandese dove veniva raffinata finemente. Pian piano però l’uso delle pile olandesi andò incrementando a tal punto che esse sostituirono definitivamente le pile a magli.

IL TELAIO MONTGOLFIER O VELINO

All’introduzione della pila olandese seguì, come conseguenza, l’introduzione di una nuova tipologia di telaio. Nel telaio fino ad ora menzionato, in corrispondenza dei filoni e delle vergelle, si depositava, a causa del loro spessore, una quantità minore di polpa di carta; il risultato era la formazione di un foglio di carta non uniforme che mostrava, in trasparenza, degli assottigliamenti in corrispondenza dei fili metallici (vergatura). Nel 1757 fu ideato in Inghilterra da J. Wattman, un nuovo telaio con un piano filtrante costituito da una fitta rete metallica. Essa divenne necessaria in seguito alla maggior sottigliezza delle fibre prodotte dalla pila olandese; fibre più corte difficilmente

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A. Blanchet. Essais sur l’histoire du papier et de sa fabrication, exposition retrospective de la papeterie.

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potevano essere trattenute da un normale telaio con filoni e vergelle. Per di più la rete metallica permetteva di produrre un foglio più uniforme ovviando al “difetto” della vergatura. La carta prodotta con questo telaio fu chiamata velina, ricordando il “velino”, una pergamena pregiatissima ricavata da agnelli nati morti che si presentava sottile, bianca, uniforme nell’aspetto e particolarmente resistente. Tale telaio venne poi perfezionato in Francia nel 1781 da un certo Montgolfier e da lui prese il nome.11

LA COLLATURA IN PASTA MEDIANTE COLOFONIA

Sempre degli inizi del XIX sec. è la sostituzione della collatura in folio con la collatura in pasta mediante la colofonia (una resina vegetale) e allume. Il nuovo sistema fu inventato da Moritz Friedrich Illig. Questo tipo di collatura viene effettuata preparando il cosiddetto sapone di colofonia, ottenuto bollendo la colofonia in una caldaia con una soluzione di carbonato di sodio. La soluzione, che forma molta schiuma ed è per questo chiamata sapone, viene aggiunta alla polpa di carta direttamente nella pila olandese. Si aggiungeva poi una soluzione di allume che riportava il pH in campo acido. Il risultato era una buona distribuzione e uniformità della collatura, una maggiore rapidità del processo di fabbricazione, un minor costo. Tutto ciò, comunque, sempre a discapito della qualità: questo processo causava, infatti, un’acidificazione del foglio di carta che sarà destinato, inevitabilmente, a deteriorarsi in tempi relativamente brevi.

LA MACCHINA CONTINUA IN PIANO

A dare il via alla produzione della carta su scala industriale fu, però, la nascita della cosiddetta “macchina continua in piano” (Fig.3.3) inventata nel 1798 dal francese Nicholas Louis Robert, capo operaio nella cartiera di Didot. Robert, una volta ottenuto il brevetto nel 1799, ruppe ogni rapporto con Didot. Egli infatti, desideroso di vendere subito la sua patente, si dimenticò che Didot fu per lui di grande aiuto nella realizzazione della macchina avendogli messo a disposizione officina, denaro e personale. Didot, dal canto suo, prima di vendere il brevetto voleva, almeno, utilizzarlo per la sua cartiera. Si finì, dunque, in tribunale arrivando ad un compromesso: nel 1800 Robert vendette il suo brevetto a Didot per 25.000 franchi; questi lo cedette a sua volta ai fratelli Fourdrinier di Londra. La macchina trovò la sua prima applicazione proprio in Inghilterra nella cartiera dei Fourdrinier dove l’ingegnere Donkin costruì nel 1803 il primo esemplare funzionante.12 Essa era composta da un tino nel quale entrava un

11 M. Copedé. La carta e il suo degrado. Firenze, Nardini Editore, 2003, pp. 16-19

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nastro continuo, costituito da una tela metallica simile a quella del telaio Montgolfier. La pasta veniva depositata sul un nastro da un cilindro a palette e la tela veniva sottoposta a scosse intermittenti per facilitare la distribuzione uniforme della pasta; dopodiché il foglio continuo si depositava su di un feltro.13 Nelle prime macchine il

movimento del nastro era fornito da una serie di ingranaggi azionati a mano per mezzo di una manovella, la velocità era di pochi metri al minuto e il nastro di carta doveva essere tagliato in fogli ancora umido per subire poi le stesse lavorazioni della carta a mano. Miglioramenti vennero applicati con il passare del tempo; la macchina continua in piano cominciò ad essere provvista di cilindri in rame riscaldati con il vapore per l’essiccazione del nastro continuo di carta (Donkin 1822), di cassette aspiranti per facilitare l’estrazione dell’acqua dalla carta e per velocizzare il movimento del nastro che raggiunse i 60m al minuto (Canson 1832), di cilindri premitori che eliminavano l’impressione della tela sulla carta (Donkin 1833). I primi modelli di queste macchine non consentivano, inoltre, la formazione della filigrana; ciò fu però possibile nel 1827 grazie all’invenzione del cosiddetto “rullo ballerino”, un cilindro rivestito di tela con un punzone che, girando sulla carta quando questa era ancora bagnata, spostava le fibre che passavano sotto questa matrice formando così la filigrana. Al cilindro ballerino sono state successivamente affiancate le filigrane a secco, realizzate con le “mollette filigranatrici”, rotelle di metallo che andavano ad incidere il segno sul rotolo di carta già formato. I miglioramenti che continuarono ad essere approntati sulla macchina continua in piano portarono ad avere attrezzature sempre più grandi e veloci ma, anche in questo caso, a discapito della qualità del prodotto finito dato che la velocità e il movimento del nastro non facevano altro che favorire l’orientamento delle fibre nel senso di marcia della macchina; le fibre così non si intrecciavano ma si allineavano creando una carta più fragile.14

13 C. E. Rusconi. Carta, cit. pp. 54-56 14 M. Copedè. La carta…., cit., pp. 30-32

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Fu, comunque, una vera e propria rivoluzione nell’ambito della fabbricazione della carta e i risultati si avvertirono subito; per avere un’idea concreta del vantaggio derivato dall’introduzione di questa macchina basti pensare che il primo esemplare entrato in funzione poteva produrre, durante ventiquattro ore di lavoro, tanta carta quanta ne sarebbe stata fabbricata da 100 persone con sei tini a disposizione. È evidente che i prezzi del prodotto subissero una riduzione fortissima, a vantaggio del consumo che crebbe a dismisura. La carta, considerata fino ad allora ancora come un prodotto di pregio diventò, con l’introduzione della macchina continua in piano, un materiale a disposizione di tutti e per tutti gli usi.

LA MACCHINA CONTINUA IN TONDO

Quasi contemporaneamente alla macchina continua in piano venne inventata la “macchina continua a cilindro” o “a tamburo” o “in tondo” (Leinstenschneider, 1797) (Fig.3.4). Qui il nastro in piano era sostituito da un’intelaiatura cilindrica ricoperta da una griglia di fili di rame, simile al telaio della carta a mano. Il cilindro, detto “tamburo creatore”, era immerso per circa tre quarti in una vasca contenente la pasta; ruotando produceva una differenza di pressione tra interno ed esterno, l’acqua per tale causa penetrava, quindi, all’interno attraverso la tela e le fibre venivano, invece, trattenute sulla superficie e depositate come foglio su di un “feltro levatore” che scorreva sopra la vasca. A differenza della macchina continua in piano, la macchina a cilindro permetteva la formazione di carta con filigrana in quanto essa veniva cucita, come nel telaio a mano, sulla tela che rivestiva il cilindro.15

15 Carta in Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti. Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1951, p. 184

Fig.3.4. Macchina continua a cilindro. 1. Ingresso della pasta; 2. Tamburo; 3. Feltro; 4. Cilindro levatore; 5. Nastro di carta sul feltro; 6. Cilindro arrotolatore.

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3.3

La carta oggi

La costruzione della pila olandese e soprattutto della macchina continua in piano unita alla rivoluzione apportata dalle nuove materie prime rese disponibili dall’inventiva umana ebbero influenze radicali sull’intera struttura industriale del settore. Paesi come quelli del Nord Europa, che avevano appreso tardi l’arte della fabbricazione, divennero produttori di primaria importanza grazie alle inesauribili disponibilità di cellulosa; nuovi continenti come quello americano si affermarono prepotentemente sul mercato internazionale ed, invece, paesi che pur avevano primeggiato in Europa e nel mondo, videro la loro industria decadere rapidamente.16 Questa profonda rivoluzione, tecnica e

di mercato, non poteva non rimanere senza conseguenze in Italia che vide, anch’essa, declinare o scomparire molti centri cartari e solo alcuni trasformarsi e adattarsi con successo alla nuova situazione, una situazione per un verso meno facile mancando il paese di materie prime. La carta divenne un prodotto di largo uso; la produzione fu costantemente stimolata da nuovi consumi nel campo dell’editoria e non solo. Ma se da una parte la società ne ha tratto vantaggio, dall’altra sono state prodotte opere che, per la loro forte deperibilità, sono destinate ad una vita effimera. Le materie prime naturali impiegate oggi nella fabbricazione della carta sono ricavate dai seguenti vegetali: 1) legno di conifere o resinose (abete, pino, larice, etc..); 2) legno di latifoglie (pioppo, faggio, etc..); 3) foglie e culmo (grano, riso, etc..); 4) piante annuali (sparto, canna, cotone, etc..). La carta ricavata dal legno, in rapporto al grado di purezza della materia fibrosa ed in relazione al tipo di lavorazione per la sua estrazione, si può classificare in carta di pasta meccanica, carta di pasta chimica, carta di pasta semichimica o chemi-meccanica.17 La carta di pasta meccanica, anche detta pasta-legno, si ottiene con la

sfibratura meccanica del legno. Essa contiene tutte le impurità che sono presenti nel legno insieme alle fibre cellulosiche: lignina, tannini, resine etc.. Possiede fibre con bassa resistenza meccanica, è opaca ed ha un basso costo. È usata per la fabbricazione di cartoncini, cartoni e carta da giornale; se usata per la fabbricazione di carta deve essere addizionata, a causa della sua scarsa resistenza meccanica, con pasta chimica in una percentuale variabile dal 20 al 40%. La pasta chimica si ottiene, invece, trattando il legno o altri materiali vegetali, con sostanze chimiche allo scopo di eliminare le sostanze incrostanti presenti. I reattivi chimici possono essere acidi (bisolfito di calcio o di sodio) o alcalini (soda-solfato, calce); nella pratica, però, essi non riescono ad ottenere una completa liberazione delle fibre cellulosiche in quanto non arrivano ad una totale eliminazione delle sostanze incrostanti. Essendo più pura della pasta

16

A. Annesi. La nobile arte…, cit. p. 150.

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meccanica viene utilizzata per carta e cartoni. Le paste semichimiche e chemi-meccaniche si preparano in due fasi: in primo luogo si impregna il legno con alcuni reattivi chimici al fine di indebolire la coesione tra le fibre cellulosiche, in seguito si esegue una sfibratura meccanica. Se prevale la fase chimica su quella meccanica si ottiene la pasta semichimica, viceversa si parla di pasta chemi-meccanica. La prima viene impiegata nella fabbricazione di carte per stampa e scrittura, la seconda per giornali e rotocalchi. 18, 19

18 V. Vidrich. Il legno e i suoi impieghi chimici. Bologna, Edagricole, 1988. pp. 32-37 19 M. Copedè. La carta…., cit., pp. 38-41

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