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III. IL POETA NEL LABORATOIO

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III. IL POETA NEL LABORATOIO

III.1. Uno scrittore pensante

Verso gli inizi degli anni ´40, abbandonata definitivamente la scrittura poetica a favore della narrativa, Pavese inizia un lungo periodo di riflessione per arrivare ad avere una chiave personale della conoscenza e del suo modo di scrivere.

Nel 1941 compone La spiaggia e verrà pubblicato Paesi tuoi, scritto però nel 1939, il romanzo che lo consacrerà definitivamente come narratore. È significativo sottolineare il fatto che, dopo il 1941, il primo libro scritto e pubblicato sarà Feria d’agosto nel 1946: sono cinque anni di silenzio e meditazioni determinanti ai fini dell’elaborazione teorica di quella che sarà considerata la poetica del mito.

Dall’America, adesso Pavese volge lo sguardo all’Europa: nella sua ricerca attraverso la cultura di una dimensione della propria narrativa, giocò un ruolo fondamentale un tipo di «tessuto connettivo»303 che affonda le sue radici nell’humus culturale europeo di quel tempo.

Pavese tentò una strategia precisa che si andava configurando come una vera e propria operazione culturale, collegandosi a nomi di studiosi e protagonisti di un tipo di cultura che in Italia venne tagliata fuori dal fascismo e dall’interdizione crociana.

Le coordinate filosofiche e culturali della poetica del mito affondano negli interessi per l’estetica romantica e post-romantica, per le avanguardie del primo Novecento, che si collegano ai nomi di Marcel Raymond, Albert Béguin, nella filosofia esistenziale e nella fenomenologia, passando dalla psicoanalisi all’etnologia e, a partire dal 1944, sconfinando nella teologia e nella storia del cristianesimo.

Gianni Vattimo scrisse un articolo nel 1990 sottolineando il valore intellettuale dell’esperienza pavesiana di quel periodo:

Rileggere oggi Il mestiere di vivere, significa vedere se e cosa sia rimasto di quella Stimmung esistenzialistica che è stata la cultura comune degli anni dell’immediato dopoguerra, la prima moda culturale, o meglio il primo stile morale dell’Italia post-fascista.[...] La tragicità non è legata a Pavese solamente al pathos che oggi non sentiamo più: il suo esistenzialismo –

303 Cfr. A. GUIDUCCI, op. cit., p. 246.

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giacché questo è il nome che si deve dare alla sua filosofia, niente affatto ingenua, e nutrita di letture tutt’altro che banali ( Chestov, Kierkegaard, Lavelle) – ha aspetti e componenti che sono ancora vivi, e anzi sembrano oggi riprendere vigore, nella nostra cultura304.

Pavese, come è testimoniato da Il mestiere di vivere, fu un assiduo lettore di Kierkegaard, di Leon Chestov e Louis Lavelle. Alberto Moravia, nel già citato articolo contro Pavese “decadente”, ha dovuto ammettere persino lui di trovarsi di fronte all’unico «scrittore pensante»305 della nostra

letteratura contemporanea.

Ma Pavese non è un filosofo pensante, né tantomeno un interprete della psicoanalisi o un teologo: egli, tuttavia, è uno scrittore, un uomo di cultura e un critico lucido.

Attratto dall’intreccio profondo fra gli interessi artistici ed estetici e le proposte dell’antropologia e della psicoanalisi, era anche un lettore suggestionabile pronto a traslare e trasfigurare tutti i tipi di esperienze: proprio questo arricchimento mediante letture nei diversi campi del sapere ha conferito, secondo Bart Van Den Bossche, l’immagine di un’elaborazione «a spirale»306 del concetto di

“mito”.

La ricerca teorica che Pavese porta avanti s’intreccia a un certo punto con quella di molti scienziati, filosofi, etnologi, antropologi che, in un clima europeo di temperie spirituale propria della cultura occidentale, in quegli anni operavano una spinta concorde nella direzione dell’interesse per il mito: essa rappresentò sostanzialmente un modo rinnovato di guardare al simbolo e di intendere il mito come configurazione simbolica.

Mario Trevi, nell’introduzione all’opera di Jung e Kerényi Prolegomeni dello studio scientifico della mitologia afferma che, dal punto di vista dell’indagine storica, lo sfondo intellettuale di quel tempo era costituito da varie correnti che «proponevano la lettura dei documenti delle antiche civiltà e delle culture primitive non mediante il solo strumento dell’indagine critica, ma anche attraverso una concreta esperienza vissuta (Erlebnis) e una partecipazione commossa (Gemüt)»307.

Si tratta di un fermento di varie sollecitazioni culturali , di vasti e profondi intrecci fra parallelismi e correlazioni, dalle quali Pavese attinge i motivi dominanti per la sua poetica e, quasi febbrilmente, sente in questi anni di dover stringere tutti i collegamenti.

Lo scrittore si colloca così nel più vasto panorama degli intellettuali europei che parteciparono a un fenomeno che andava nella direzione del «recupero del mitologico e, in senso più lato, del

304 G. VATTIMO, E io invece dico: rileggete quel diario, «L’Espresso», 22 luglio 1990, pp. 25-29. 305 Cfr. A. MORAVIA, op. cit, pp. 187-191.

306 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 215.

307 C.G. JUNG-K. KERÈNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, prefaz. di M. Trevi, Bollati Boringhieri,

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metafisico-religioso, prodotto derivato in parte non piccola dall’affermazione novecentesca di scienze tipicamente “moderniste” quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia, la psicoanalisi»308.

Sono le discipline che, come abbiamo visto, il poeta fu tra i primi a introdurre in Italia, allestendo con Ernesto de Martino il catalogo della «Collana Viola» per l’Einaudi.

Dall’etnologia, Pavese si era impadronito della pura nozione di “mito”: la lettura di James Frazer, in questo senso, gli offrì un intero universo di miti agresti e legati al culto della terra e della fecondità. Nel 1946, rileggendo Frazer, scriverà:

Nel 1933 cosa trovavi in questo libro? Che l’uva, il grano, la mietitura, il covone erano stati drammi, e parlarne in parole era sfiorare sensi profondi in cui il sangue, gli animali, il passato eterno, l’inconscio si agitavano. La bestiola che fuggiva nel grano era lo spirito – fondevi l’ancestrale e l’infantile, i tuoi ricordi di misteri e tremori campagnoli prendevano un senso unico e senza fondo 309.

Innamorato delle sue colline e della campagna, attraverso l’etnologia si era reso conto che le sue propensioni verso il mondo agreste e quella dimensione “selvaggia” non erano un qualcosa di rozzo o banale, ma la prospettiva mutava acquistando uno spessore misterioso, quasi drammatico: la sua propensione verso l’irrazionale trovò allora una giustificazione culturale.

Secondo Patrizia Lorenzi Davitti, l’etnologia «offrì a Pavese lo strumento scientifico per giustificare storicamente, razionalmente, la propria mitologia»310.

Anche Furio Jesi scrisse che «accostandosi ai testi etnologici, Pavese acquisì concezioni che egli forse credette garantite dall’oggettività della ricerca scientifica specialistica, ma che in realtà erano nate nel riflesso di quelle elaboratesi nell’ambito della poesia germanica della fine del secolo»311.

Se poi si pensa all’equazione, irradiata da quel tipo di cultura, tra selvaggio e arcaico nell’inconscio, il passo in direzione della psicoanalisi è breve: in questo senso il nome di Jung offriva un’ulteriore legittimazione scientifica nei riguardi di quel “recupero del mitologico”.

Già nel 1909 Jung scrisse una lettera a Freud in merito alla scoperta della mitologia: «L’archeologia, o piuttosto la mitologia, mi ha assolutamente conquistato [...] Per me non esiste più alcun dubbio su ciò che i miti più antichi e più spontanei tentano di esprimere: parlano del modo più “naturale” del nucleo delle nevrosi»312.

308 C. CORTI, Il recupero del mitologico, in Modernismo, modernismi, G. Cianci(a cura di), Principato, Milano 1991, pp.

314-315.

309 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 319. 310 P. LORENZI DAVITTI, op. cit., p. 215.

311 F. JESI, op. cit., p. 135.

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In un saggio del 1916 intitolato La funzione trascendente Jung scrive che «[...] altrettano puerile è il pregiudizio contro il ruolo che rivestono, nella vita della psiche, le premesse mitologiche. Poiché, si pensa, se esse non sono “vere”, non dovrebbero trovar posto in una spiegazione scientifica. I mitologemi “esistono”, anche se le loro evidenti asserzioni non coincidono col nostro incommensurabile concetto di “verità”»313.

Ecco uno degli aspetti più importanti dell’impostazione junghiana che va a intrecciarsi con le frenetiche indagini pavesiane: Jung prende come oggetto della sua indagine scientifica il mito, che da tanti pensatori e psicologi (lo stesso Freud si occupò pochissimo di miti) fu considerato come una fantasia, una forma di pseudo-conoscenza e, quindi, denigrato, non potendo essere oggetto di un’indagine razionale e scientifica.

Il comportamento dell’uomo, secondo Jung, è frutto dell’influenza esercitata da una serie di simboli e di immagini che ha ereditato dagli antenati sotto forma di mito.

Ma lo studio della letteratura psicoanalitica, e di Jung in particolare, permise in qualche modo a Pavese di riconoscere espresso in un pensiero scientifico molte cose a lui già note e familiari, in termini poetici, fin dalle prime esperienze letterarie.

Nella sua autobiografia pubblicata postuma, Jung riflette sul traguardo raggiunto con la pubblicazione di Trasformazioni e simboli della libido nel 1912: dopo aver trovato la chiave per il “possesso mitologico” e la spiegazione di miti dei popoli del passato, raggiunto questo limite, il medico si chiede: «Ma allora qual è il tuo mito? Il mito nel quale vivi?»314.

Tutta la vita dello psicologo sarà un continuo lavoro di autorealizzazione dell’inconscio, attraverso, scrive Jung, il racconto «della mia favola, la mia verità»315.

È il processo d’«Individuazione» junghiano, processo psichico unico e irripetibile di ogni individuo che consiste nel congiungere nella totalità l’Io e il Sé in una crescente integrazione e unificazione dei complessi che formano la personalità.

Nel saggio intitolato Stato di grazia Pavese scrive: «Viene il momento che la destinata struttura del nostro essere vero – quell’essere che è il modo, lo stile nostro, di guardare – traspare e affiora, balena e scompare e ci tenta alla sua comprensione-espressione. Tutti allora siamo creatori, in quanto interpreti di noi e del mondo»316.

Si può ipotizzare che lo scrittore fuse l’idea d’«individuazione» junghiana con il mito, finendo per circoscriverlo poeticamente con quel nucleo “mitico”: il grumo delle più remote figure personali.

313 C.G. JUNG, La funzione trascendente, in La vita simbolica, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 51. 314 IDEM, Ricordi, sogni, riflessioni, A. Jaffè(a cura di), trad. it. a cura di G. Russo, Bur, Milano 2012, p. 213. 315 Ivi, p. 21.

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Ecco che allora per il poeta, portando al limite estremo questo concetto, l’arte diventa conquista della propria autenticità: esprimersi poeticamente in senso originale comporta un profondo lavoro di scavo all’indietro per rintracciare il proprio nucleo di miti, che sollecita certe immagini, secondo il paradigma della propria autenticità: l’atto poetico è sempre un recupero, una fatica, un’esperienza «tragica»317, come la definisce Pavese.

Nella poetica del mito lo scrittore non ci si imbattè per caso, ma anzi la coltivò con meticolosa attenzione, seguendo un lavoro calcolato e organizzato.

«Non s’improvvisa proprio nulla, – ci dice Pavese – e tanto meno la ricchezza interiore»318.

317 ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 291. 1 settembre 1944: «[...] Ecco perché l’arte vera è tragica – è

uno sforzo. [...]»

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III.2. Ricordi d’infanzia, «stampi», archetipo

Se per Cesare Pavese l’atto poetico deve essere un recupero espresso attraverso un lavoro di scavo interiore alla ricerca dei propri miti e del sè più profondo, la dimensione in cui esso può esplicarsi è quella della memoria che corre giù nell’infanzia; un’infanzia dove la “prima volta” è quella che conta più di tutte le altre, dove ogni episodio diventerà determinante per il futuro modo d’essere dell’individuo e per il mondo di immagini dello scrittore.

Nel gennaio del 1942 un’annotazione diaristica ne Il mestiere di vivere balena con una carica rivelatoria e illuminante: «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta. Devi creare un nesso tra il fatto che nei momenti tu sei inevitabilmente ciò che fosti in passato e il fatto che soltanto le cose ricordate sono vere»319.

È a partire da questo periodo che Pavese imprime una forte direzione alle sue indagini teoriche: egli vuole ricercare un qualche legame tra ciò che la memoria trattiene sotto forma di ricordo e ciò che uno sente nel momento presente.

Sarà proprio questo il primo tassello che andrà a comporre la variegata trama della poetica del mito: i ricordi di infanzia più profondi e più veri, quelli che hanno a che fare con la continuità delle profondità dell’io. Pavese li chiama «stampi della conoscenza del mondo», come si legge nell’appunto successivo in cui lo scrittore, tornando da Roma in un viaggio in treno, avrebbe visto la pineta di Viareggio:

Davanti al mare della pineta, basso e notturno, passando in treno, hai visto i focherelli lontani e pensato che per quanto questa scena, questa realtà, ti riempia di velleità «di dire», t’inquieti come un ricordo d’infanzia, essa non è però per te né un ricordo né una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo. Se ne deduce che moltissimi mondi naturali (mare, landa, bosco, montagna, ecc.) non ti appartengono perché non li hai vissuti a suo tempo, e dovendoli poetare non sapresti muoverti in essi con quella segreta ricchezza di sottintesi, di sensi e di appigli, che dà dignità poetica a un mondo. Lo stesso devi dire per la sfera dei rapporti umani, per gli esseri umani: soltanto quelle situazioni e quei tipi che a poco a poco ti sono emersi e si sono stagliati sul fondo della tua

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conoscenza iniziale hanno avuto il tempo (sinora) d’incidersi nel tuo spirito e gettare quelle innumerevoli e segrete radichette di riferimenti che dànno il sangue e la vita alle creazioni 320.

I ricordi d’infanzia diventano così la potente fonte d’ispirazione per una poesia sincera, scevra da «frivole ragioni letterarie o analogiche».

L’intensità emotiva che scaturisce nel contatto con un ambiente viene spiegata con l’esistenza di un rapporto affettivo o esistenziale con il paesaggio: i ricordi stessi gli «appartengono» e per questo motivo offrono una «segreta ricchezza»321.

Il 12 febbraio dello stesso anno lo scrittore annota: «L’arte moderna è – in quanto vale – un ritono all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire nella sua forma più pura, soltanto nei ricordi dell’infanzia»322.

Ma Pavese non è semplicemente un poeta della memoria, poiché il ricordo in quanto ricordo non gli interessa: i ricordi d’infanzia sono mezzi, non fini.

Rivolgendosi al passato in una continua operazione di arretramento, scavando negli oscuri giacimenti dell’infanzia, questa si presenta come l’età meno corrotta dall’esperienza, la più intatta e pura, libera dai ricordi.

Elio Gioanola ha messo in luce il confronto tra la poetica di Pavese e la filosofia di Leopardi: anche secondo quest’ultimo al bambino, durante l’infanzia, è concesso uno sguardo contemplativo e meravigliato sul mondo e sulle cose della realtà. Per recuperare queste immagini originarie si pone allora il problema della memoria: «Leopardi – scrive Gioanola – usa costantemente i termini “ricordanza” e “rimembranza”, mai “ricordo” [...] perché questo rinvia a qualcosa di preciso e determinato, con l’eliminazione di quanto vago e indefinito la memoria conserva in rapporto alle sensazioni infantili»323.

Per Pavese l’infanzia non è oggetto di un nostalgico rimpianto, vagheggiamento, o rifugio nel tempo passato: «che l’infanzia sia poetica, è soltanto una fantasia dell’età matura»324 scrive in

questo senso il poeta.

320 Ibid. Corsivo mio.

321 Cfr. ID., Lettere 1926-1950, cit., p. 650. «Cara Fernanda, mi vengono in mente certi bei pensieri, che non c’è ragione

perché non Le comunichi. É il solito problema di quanta fantasia un luogo possa contenere. [...] Di questi luoghi [Gressoney], non ne ho mai veduti se non, raggentiliti, in fondo a qualche quadro toscano. [...] I wonder che cosa posso farne – s’intende, in fantasia. [...] Qualche misteriosa avventura che avesse luogo qui sotto, dove i pini, la cascatella, i prati sospesi a mezz’aria, le cicatrici rosso-brune della roccia, fossero il setting, l’antefatto, la realtà, il “ricordo” nella vita anteriore delle persone. Giacché le persone di un racconto devono essere radicate nella loro realtà circostante da innumerevoli radici che sono i loro ricordi, la loro vita fantastica».

322 ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 233.

323ID., Feria d’agosto, Intr. di Elio Gioanola, Einaudi, Torino 2002, p. XVIII. 324ID., Del mito, del simbolo e d’altro, in Saggi letterari, cit., p. 274.

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I primi contatti col mondo, le impressioni decisive, le «prime volte», appaiono come schemi normativi dell’immaginazione affettiva: questi primi schemi hanno determinato tutto il nostro vivere fin da quel tempo lontano, e così in questo vivere li ritroviamo nella nostra vita adulta, affrontando la realtà.

Il ricordare, in Pavese, assume allora un senso nuovo: è un’operazione di recupero del nostro stampo essenziale, di ciò che nell’infanzia ha marcato definitivamente la nostra sensibilità.

Proprio per questo motivo non basta scavare semplicemente nella memoria, poiché la memoria ricorda solo i momenti salienti del passato: è un ricordo in qualche modo impuro, contaminato dall’esperienza.

Questa idea di conoscenza come reminescenza è influenzata in parte dall’anamnesi platonica, ovvero il processo del ricordare attraverso cui all’uomo balena la strana sensazione del già vissuto in una vita anteriore, fuori dal tempo.

Italo Calvino ha scritto che in Pavese «c’è qualcosa di platonico, e non per una gratuita somiglianza; si sfiora in lui la nuova annunciazione di una anamnesi, che forse ci spiega l’ispirazione (scoperta o mito) all’antica, anamnesi non più trascendentale ma circoscritta all’embrionale memoria infantile»325.

Pavese definisce l’infanzia come periodo in cui si coaugolano e si rivelano le «immagini primordiali» , da cui scaturisce la commozione profonda provata di fronte alle ritrovate colline del paese natale, come emerge da questa lettera del 27 giugno 1942 indirizzata a Fernanda Pivano:

Sempre, mai più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi si sommuove nel profondo. Deve pensare che le immagini

primordiali come a dire l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane,

la frutta, ecc. mi si sono dischiuse in questi luoghi [...] e rivedere perciò questi alberi, viti, sentieri ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro, l’immagine assoluta di queste cose, come se fossi un bambino, ma un bambino che porta, in questa sua scoperta, una ricchezza di echi, di stati, di parole, di ritorni, di fantasia insomma, che è davvero smisurata! [...] 326.

Il peso che queste immagini, ambienti, paesaggi hanno avuto durante l’infanzia è determinante nel provocare la sensazione di un potenziamento fantastico che «sommuove nel profondo» e dà origine

325 I.CALVINO,Pavese in tre libri, «Agorà», II, agosto 1946, pp. 8-10. 326 C.PAVESE, Lettere 1924-1944, cit., p. 639.

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all’«immagine assoluta» delle cose. L’entusiamo nuovo è quello di chi riesce a rivedere queste cose con gli occhi del bambino che fu, rivivendo l’esperienza infantile327.

I diversi tentativi da parte di Pavese di chiarire il significato dell’infanzia quale periodo determinante per la psicogenesi, chiamano in causa sedimenti di esperienze esistenziali per spiegare le reazioni emotive.

Il sentimento che nasce dalla consapevolezza del ricordo non è un rimpianto romantico del passato, quanto piuttosto una ferma e fredda tristezza di non poter fare nulla che già non sia stato fatto, una consapevolezza che nulla può accadere perché tutto è già accaduto, dal momento che, scrive Pavese, «più o meno a dieci anni per ciascuno di noi “il gioco è fatto”»328: all’adulto non è dato scampo, secondo lo scrittore, poiché tutto è stato già deciso nell’infanzia, e l’età è solo un ripetersi del tempo.

Le «immagini primordiali», gli «stampi della coscienza», come li definisce Pavese, rappresentano il nucleo di miti personali che dall’inconscio senza tempo plasmano l’emotività adulta: questo pensiero sembra essere ciò che di gran lunga lo accosta maggiormente al concetto di “archetipo”, il principale filone di ricerca della psicologia junghiana.

Il concetto di archetipo è quello che ha fornito il maggior materiale di critica da parte dei detrattori di Jung: non solo, secondo Mario Trevi, l’idea dell’archetipo ha rappresentato per lo stesso Jung un problema di continua revisione e approfondimento»329.

Jung, nella sua pratica terapeutica attraverso il recupero della mitologia e lo studio dei sogni ossessivi o altamente emotivi, si trova inizialmente a confrontarsi con dei dati che sembrano rivelarsi come innati ed ereditari della mente umana.

Egli nota che nei sogni dei suoi pazienti compaiono elementi non individuabili e non ricavabili dall’esperienza personale del sognante, ma piuttosto delle forme e associazioni mentali la cui presenza e la cui messa in luce non trovano una spiegazione nei dati concreti dell’esperienza diretta del singolo uomo. Questi sono inizialmente denominati “resti arcaici” della memoria nascosta, primitiva o “ancestrale”.

Fu proprio la teoria dei resti arcaici ad indurre lo scienziato ad approfondire le conoscenze nel campo della mitologia: ben presto Jung sostituirà l’espressione “resti arcaici” con “immagini primordiali”; da qui, il passo fu breve affinché lo studioso collegasse le due parole in una sola: quella, cioè, di “archetipo”, il cui uso del termine appare fin dal 1919 e la sua formulazione più

327 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 217: «il contatto percettivo con queste immagini che

fuoriescono dai binari del proprio mondo predeterminato provoca un “cortocircuito”, un “urto” che ne fa risaltare l’estraneità rispetto ai presupposti esistenziali dei propri ricordi».

328 C. PAVESE, L’arte di maturare, in Saggi letterari, cit., p. 329.

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completa e matura si può far risalire al 1929, attraverso la pubblicazione de Il mistero del fiore d’oro.

Nell’opera Tipi psicologici del 1921, Jung si domanda se l’immagine primordiale, o archetipo, corrisponda, nella sua universale presenza, a un’azione esterna costante e universale, simile a una legge di natura. Ciò che proviene dall’interno, dalla psiche, appare secondo il medico del tutto autonomo alla natura: la struttura cerebrale deve le sue caratteristiche a «una proprietà specifica e autonoma della materia vivente, cioé a una legge che è data con la vita stessa»330.

Secondo Jung la psiche è un’attività continua di composizione e scomposizione di parti che funzionano autonomamente e si costituisce sommando dei processi multipli: i complessi primari, che si relazionano direttamente all’Io e sono definiti “coscienti”, e i complessi secondari, che rimangono sullo sfondo, “inconsci”; entrambi questi complessi compongono l’inconscio personale. All’interno di questi processi il fattore dell’immaginazione gioca un ruolo fondamentale, creando dei processi simbolici in continua transizione: l’elemento onirico, in cui emerge l’elemento archetipico, sembra mostrare che l’archetipo non è un modello statico, ma piuttosto un fattore dinamico che si manifesta sotto forma di impulsi istintivi.

Archetipo è dunque in Jung un “resto arcaico”, un’“immagine primordiale” che è la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo comune all’uomo le quali, pur nelle specifiche variazioni individuali, continuano a proporsi come derivanti da un medesimo modello fondamentale.

Per Jung la realtà non è altro che una costruzione relativa al rapporto che gli uomini hanno con la propria immaginazione, ma il pensiero razionale e quello immaginativo non sono in contrasto: entrambi parlano della realtà: l’uno lo fa orientandola attraverso le convenzioni culturali, l’altro attraverso l’individualità necessaria a completare la comprensione.

L’analisi di questi due tipi di pensiero consiste nel sondare le immagini mentali degli individui e di individuare le caratteristiche comuni alle rappresentazioni archetipiche che possono essere ricondotte all’inconscio collettivo.

Proprio in merito alla formulazione di un inconscio collettivo, Jung ha notato che i motivi “personali”, i quali emergono nel sogno in quanto tali, hanno solo una valenza individuale; gli elementi archetipici che emergono in altri sogni, invece, si radicano in miti, o quanto meno in lontane tradizioni, le quali hanno a che fare con i sempiterni problemi del genere umano: il pericolo, la fame, la guerra, la malattia, la vecchiaia, la morte.

Un primo eco del concetto di “inconscio collettivo” lo troviamo già nel 1911 all’interno di Trasformazioni e simboli della libido, nel quale l’autore parla di energie psichiche che travalicano

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la mente individuale e si riferisce a “immagini primordiali” capaci di generarsi secondo una forza autonoma, provenienti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli e culture.

Ma da quale “fondo” l’inconscio prende il materiale per le sue immagini e secondo quali schemi si formano queste immagini? Jung distingue tra i due tipi di inconscio:

Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’eredità. L’inconscio personale consiste soprattutto di complessi, il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è ormato essenzialmente da archetipi 331.

Nell’inconscio collettivo, dunque, oltre alle esperienze e ai vissuti individuali, risiedono anche le esperienze e i vissuti dell’uomo come essere collettivo.

In Istinto e inconscio, del 1919, si legge:

al di là dei contenuti personali troviamo nell’inconscio anche le caratteristiche che non sono state acquisite individualmente, bensì ereditate, cioé gli istinti intesi come impulsi ed attività che precedono, senza motivazione conscia, da una costrizione interiore. A questi si aggiungono le forme esistenti a priori, ossia congenite, dell’intuizione, cioé gli archetipi di percezioni e comprensione, che sono una condizione ineliminabile e determinante a priori di tutti i concetti psichici. Come gli istinti inducono l’uomo a un comportamento specificamente umano, così gli archetipi costringono la percezione e l’intuizione a formazioni specificamente umane. Gli istinti e gli archetipi dell’intuizione formano l’inconscio collettivo 332.

Nel 1934 Jung è chiamato a dare una spiegazione dei concetti di archetipo e inconscio collettivo in una conferenza tenutasi presso la Fordham University di New York.

In questa occasione si delinea la maggior distanza dalle idee di Freud, per il quale l’inconscio è il punto verso il quale confluiscono i contenuti rimossi, esclusivamente personale; Jung, al contrario, sostiene che solo lo strato superficiale dell’inconscio, quello cioé che corrisponde all’intimità individuale della psiche costituita dai complessi a tonalità affettiva, mantiene una sua individualità.

331 ID., Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 69. 332 ID., Istinto e inconscio, in La psicologia dell’inconscio, Newton Compton, Roma 1997.

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Questi complessi poggiano a loro volta su uno strato ancora più profondo, innato e collettivo, avente contenuti e comportamenti che sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui: gli archetipi sono dunque i contenuti dell’inconscio collettivo.

Ma ciò che sembra aver maggiormente suggestionato le fantasie di Pavese riguardo al concetto di immagine è il saggio La psicologia analitica e l’arte poetica, che lo scrittore fece tradurre per Einaudi: qui Jung, collegandosi alla nozione di archetipo, parla delle figure prodotte dalla libera fantasia creatrice sostenendo che «in ciascuna di queste immagini è racchiuso un frammento di psicologia e di destino umano, un frammento dei dolori e delle gioie che si sono succedute infinte volte, secondo un ritmo su per giù uguale, nelle schiere dei nostri antenati»333.

«Colui che parla con immagini primordiali – prosegue Jung – è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne; [...] egli innalza il destino personale a destino dell’umanità [...] Questo è il segreto dell’azione che può compiere l’arte»334.

Ora, ciò che Pavese opera intorno al 1943 è una specie di «archeologia della propria formazione culturale»335, al fine di scoprire le immagini e le situazioni che hanno inciso in modo significativo sul suo immaginario personale:

Da bambino s’impara a riconoscere il mondo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni delle cose: parole, vignette, racconti. Se si risale a un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi, perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva 336.

D’altronde, ci dice Jung, «ogni relazione con l’archetipo, vissuta o semplicemente espressa, è “commovente”, cioé essa agisce poiché sprigiona in noi una voce più potente della nostra»337.

Si può vedere adesso come gli «stampi mitici della sensibilità»338 pavesiani richiamano in

qualche modo la concezione junghiana di archetipo: se si tiene conto del carattere di universalità dei

333 ID., La psicologia analita nei suoi rapporti con l’arte poetica, in Il problema dell’inconscio nella psicologia

moderna, cit., p. 49.

334 Ivi, p. 50.

335 Cfr. B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 219.

336 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 243. Corsivo dell’autore.

337 C.G. JUNG, La psicologia analita nei suoi rapporti con l’arte poetica, in Il problema dell’inconscio nella psicologia

moderna, cit., p. 50.

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prototipi di quei «personali nuclei mitici», Furio Jesi, citando a questo proposito Adler, sostiene che nelle teorie pavesiane «par di leggere uno studioso influenzato dalla scuola zurighese di Jung»339.

Ma questi «stampi», seppelliti sotto le stratificazioni dell’esperienza e che ogni tanto raffiorano, balenano, costituendo il principio di ogni stampo successivo, trovano un’altra grande affinità con la definizione che un altro studioso, Károly Kerényi, diede a sua volta dell’archetipo, inteso come ciò che dà l’impronta originaria.

Il celebre mitologo ungherese, il quale maturò con Jung un’alleanza negli interessi per le forme e figurazioni simboliche del mito, propone, rispetto allo stesso Jung, una definizione di archetipo che assume dei connotati del tutto particolari, rifacendosi a «una radice culturale fenomenologica che assume la forma archetipica a condizione originaria e intemporale dell’esistenza umana»340: una

vera e propria struttura costitutiva dell’esistenza.

Kerényi insiste sulla pertinenza del termine in relazione a realtà sovrasensibili, evocando con ciò la reminiscenza dell’idea di archetipo nell’interpretazione della scuola Neoplatonica, la quale aveva sollevato la questione circa il mondo sensibile, formato da impronte coniate su un modello originale e residente nella mente di Dio.

Anche per Kerényi dunque, come per Pavese, l’archetipo ha valenza di un “principio di ogni successiva impronta”. Scrive Pavese:

Ma il parallelo con l’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la spiaggia, sono oggetti reali tra i tanti, ma bensì il prato, la spiaggia come ci rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine. (Che poi in queste forme primordiali si siano ancora arricchite dei sedimenti successivi del ricordo, vale come ricchezza poetica ed è altra cosa dal loro significato originario)341.

Sovrapponendo diverse teorie, le speculazioni pavesiane circa la teoria mitica delle immagini che scaturiscono dai ricordi d’infanzia navigano in un mare ricco di suggestioni tra Jung, Kerényi e Platone, creando in questo modo un’esplosiva miscela di pensiero.

339 F. JESI, op. cit., p. 136.

340 C.G. JUNG-K. KERÉNYI, op. cit., p. 9.

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III.3. Jung incontra Kerényi: Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia

Nel 1941 lo psicologo svizzero Carl G. Jung e lo storico delle religioni Karoly Kerényi scrivono assieme un’introduzione allo studio scientifico del mito e della mitologia, pubblicato in Olanda con il titolo Einführung in das Wesen der Mythologie. Gotkindmythos, Eleusinische Mysterien342, tradotto successivamente da Angelo Brelich e pubblicato in Italia nel 1948 con il titolo di Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, attraverso la «Collana Viola» diretta da Pavese e de Martino.

Kerényi, forte della collaborazione e lunga amicizia con Jung, compose le sue ricerche sul Fanciullo divino e sulla Fanciulla divina nel contesto dei grandi misteri di Eleusi, inviandole come omaggio in anteprima a Thomas Mann, che a quel tempo si stava interessando al mito in virtù del ciclo biblico che stava componendo343.

Un’opera che nasce, dunque, da un incontro intellettuale tra uno storico delle religioni e uno psicologo, nella quale si intersecano la nozione junghiana di archetipo e quella di mitologema propria di Kerényi: il testo del mitologo ungherese si riferisce al Fanciullo divino, mentre quello di Jung è una sorta di commento psicologico.

Tuttavia, ammettere che vi sia una rapporto vincolante tra questo testo e la teoria degli stampi che Pavese maturò proprio in quel periodo non troverebbe una corrispondenza puramente cronologica: nonostante il libro venga infatti composto negli stessi anni dell’elaborazione della poetica pavesiana, lo scrittore piemontese, di fatto, conoscerà quest’opera solo durante la direzione della «Collana viola», sicuramente dopo il 1945.

In questo senso, le suggestioni junghiane nelle riflessioni di Pavese presero le mosse da un ben preciso Jung: quello de La psicologia analitica e l’arte poetica, il saggio contenuto all’interno de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna.

Una lettera inviata nel 1948 al classicista Mario Untersteiner, autore de La fisiologia del mito, con il quale Pavese condivise in quegli anni profondi interessi nel problema del mito, nonché un affettuoso rapporto di amicizia e stima reciproca344, denota l’attenzione di Pavese per l’opera di Jung-Kerényi:

342 Tradotto letteralmente: Introduzione all’essenza della mitologia. Mito del fanciullo eterno, Misteri eleusini,

Amsterdam, Pantheon.

343 Cfr. T. MANN, Giuseppe e i suoi fratelli, F. Cambi(a cura di), Mondadori, Milano 2006.

344 Cfr. G. BERNABÒ, Dietro il velo di «Leucò»: Pavese, Untersteiner e il mito,«Atti della Accademia roveretana degli

Agiati», fasc. 1, 2009, pp. 269-295. Lo stesso Untersteiner ebbe dal 1940 al 1972 una lunga corrispondenza epistolare con Kerényi: Cfr. M. UNTERSTEINER-K. KERÉNYI, Due spiriti europei in un epistolario, D. Pieraccioni(a cura di), «Nuova Antologia», n. 2162, aprile-giugno, Firenze 1987, pp. 293-328.

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«Ha ricevuto il Jung-Kerényi? [Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Einaudi, 1948]. Le piace?»345.

E certo è vero che in questo «strano triangolo Jung-Kerényi-Mann»346, come lo definisce

Armanda Guiducci, «Pavese doveva rimanere irretito»347.

Colpiscono particolarmente le forti analogie e i parallelismi che intercorrono tra le teorie di questo testo e la poetica pavesiana: le energie intellettuali di due figure del calibro di Jung e Kerényi erano tali da attivare l’interesse e la ricerca di Pavese, in particolar modo per quanto riguarda la stesura, avvenuta tra settembre e novembre del 1949, del suo ultimo romanzo La luna e i falò, come ha ampiamente dimostrato Antonio Sichera348, il quale, nonostante sottolinei comunque l’aria freudiana che spira nelle opere pavesiane, sostiene che «quella di Pavese verso Jung (e Kerényi) fu una sorta di folgorazione»349.

I Prolegomeni si presentava come un libro innovativo, fortemente spirituale e antiaccademico: qui il mito viene presentato come forza viva e attuale, non come un concetto astratto e inabissato in un passato dimenticato.

La scienza del mito ci mette di fronte a una dimensione arcaica e fondativa di cui non siamo totalmente a conoscenza, a causa della mancanza di espressività dello spirito e del deposito mitologico che i moderni uomini hanno perduto senza riuscire a sostituirlo.

A questo proposito scrive Kerényi:

L’autentica mitologia ci è divenuta talmente estranea che noi, prima di gustarla, vogliamo fermarci a riflettere [...] Noi abbiamo perduto l’accesso immediato alle grandi realtà del mondo spirituale – ed a queste appartiene tutto ciò che vi è di autenticamente mitologico – , l’abbiamo perduto anche a causa del nostro spirito scientifico fin troppo pronto ad aiutarci e fin troppo ricco in mezzi ausiliari. Esso ci aveva spiegato la bevanda nel calice, in modo che noi, meglio dei bravi bevitori antichi, sapevamo già che cosa c’era dentro 350.

Il risvegliato interesse per il mito che coinvolse studiosi e medici come nel caso di Kerényi e Jung era fondamentalmente guidato dalla medesima convinzione: lo spirito scientifico moderno aveva privato l’uomo delle sue reali capacità di comprendere pienamente la realtà.

345 C. PAVESE, Lettere 1926-1950, cit., p. 593. 346 A. GUIDUCCI, op. cit., p. 279.

347 Ibid.

348 Cfr. A. SICHERA, op. cit., pp. 280-289. 349 Ivi, p. 272.

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D’altra parte Jung, nella scrittura dei Prolegomeni, a differenza della scuola psicoanalitica classica, non si limita a ricondurre il mito a espressione di uno stato psicopatologico che ricorre nell’uomo arcaico e moderno, ma tenta di mostrare «come nella natura puramente formale dell’inconscio si possano reperire le matrici universali dei temi mitologici che per la vastità e l’intensità del loro ricorrere debbono a ragione essere chiamati universali»351.

È in questo senso che, secondo Mario Trevi, «i Prolegomeni rappresentano, da parte di Jung, una tappa precisa nella lunga e faticosa formulazione definitiva del concetto di inconscio collettivo e delle strutture formali che gli competono»352.

Il mito non corrisponde, secondo il medico, all’archetipo, ma è il prodotto del suo operare: per Jung il mito ha la sua origine intemporale in una struttura formale dell’inconscio collettivo.

Nei Prolegomeni il racconto mitologico di Kerényi si snoda principalmente intorno ai misteri di Eleusi. I myoumenoi, cioé gli iniziati, sono coloro che chiudono gli occhi ed entrano nell’oscurità per uscire dalla luce: essi hanno la fortuna di entrare a far parte dell’atmosfera sacra di Eleusi, cogliendo un nuovo significato dell’esistenza. A differenza degli uomini comuni, infatti, i quali si abbandonano al ciclo inesausto della vita e della morte senza riuscire a cogliere alcun senso, gli iniziati affrontano la vita con un sentimento di gioia e serenità: essi non temono la fine della loro personale esistenza proprio perché consapevoli di questo destino sovraindividuale di vita, morte e rinascita.

Al centro dei grandi misteri eleusini vi è poi un evento rituale determinante: la nascita del Fanciullo divino dal grembo di una Kore, cioé una figura idealemente parallela a lui, la Fanciulla divina.

Il Fanciullo divino che compare nell’inno omerico ad Hermes, nel mito di Zeus e di Dioniso rappresenta, secondo la ricostruzione di Kerényi, un mitologema fondamentale della mitologia universale.

Per lo storico delle religioni ungherese il mitologema non è altro che l’elemento basico ed essenziale della mitologia:

La mitologia è un’arte come la poesia e partecipe essa stessa della poesia (le sfere delle due si intersecano), un’arte con un singolare presupposto materiale. Esiste un materiale particolare che determina l’arte della mitologia: un’antica massa di materiale tramandata in racconti ben conosciuti che tuttavia non escludono ogni ulteriore modellamento, - “mitologema” è per essa il miglior termine greco [...] La mitologia è il

351 Ivi, p. 6.

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movimento di questa materia: qualcosa di solido e tuttavia mobile, materiale e tuttavia non statico, bensì, suscettibile di trasformazioni353.

La storia delle religioni, dell’arte e delle civiltà in generale, sviluppatasi presso diversi popoli anche lontanti tra loro nel tempo e nello spazio, può essere intesa nel suo pieno significato, secondo Kerényi, solamente se le diverse storie non vanno lette come un’accozzaglia di dati allineati sul filo della cronologia, ma debbono essere valutati come risultati di certe “costanti”: nel mitologema si ritrovano divinità di ogni cultura, da quella greca a quella finnica, dall’indica alla giudaico-cristiana, le cui storie devono essere lette come un mutamento fra ciò che permane costante 354.

Nel caso del Fanciullo divino questo si rivela, nei suoi tratti costanti, come un trovatello abbandonato, spesso affetto da più o meno gravi problemi fisici che lo rendono zoppo, fino al punto di apparire quasi come un mostro.

Egli viene dal mare, nel senso che sorge dall’elemento originario, la culla di ogni elemento: si pensi ad Apollo, nato nell’isola di Delos e dio a cui è sacro il delfino che connette l’acqua del mare al tempio di Delfi; a Zeus bambino, cresciuto tra le ninfe dell’acqua nell’isola di Creta.

Per lo stesso Dioniso il mare rappresenta il principale rifugio nel quale è nutrito da Thetys e da Ino; infine Hermes, fanciullo dell’acqua e del mare nel suo inestricabile legame simbolico con Afrodite. Il Fanciullo è caratterizzato generalmente da un tormentato rapporto sia con il padre, spesso assente o comunque nemico del Fanciullo stesso, sia con la madre: pur dotato della figura materna, infatti, questa scompare nel momento esatto del manifestarsi del Fanciullo.

Il corrispondente femminile del Fanciullo è la Kore, ovvero la fanciulla divina:

Zeus, Apollo, Dioniso, Hermes, Asklepios ed Herakles – tutti possono essere considerati come sviluppi di un Fanciullo mitologico che, originariamente, riuniva in sé generatore e generato. La stessa idea, sotto l’aspetto del destino femminile, appariva ai Greci ugualmente in una figura simile a un bocciolo. Ciò che in essa vi era comune con il bocciolo, si esprime già nel fatto che essa si chiamava per lo più semplicemente Kore: la dea “fanciulla” 355.

A prendere le sembianze della Fanciulla vi sono le divinità greche di Pallade Atena, Persefone, Hekate, Demetra ed Artemide.

353 Ivi, p. 15.

354 Cfr. K. KERÉNYI, Rapporto con il divino e altri saggi, F. Cicero(a cura di), Bompiani, Milano 2014, p. 149. 355 C.G. JUNG-K.KERÉNYI, op. cit., p. 58. Corsivo dell’autore.

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La lettura analitica di Jung ha lo scopo di dare un significato psicologico attuale al mitologema di Kerènyi: quello che conta, per Jung, è che il fanciullo rappresenti «l’aspetto “infanzia” precosciente dell’anima collettiva»356.

Nella rilettura di Jung viene messo in risalto un soggetto in cerca d’identità357: il passato riportato

alla luce dalle storie di Kerényi ci riguarda poiché è dentro di noi, da ricercare in una chiave esistenziale e spirituale. Il lavoro d’incorporazione che Jung traccia a questo punto risulta come una guarigione spirituale per approdare verso quella pienezza che solo l’integrazione personale può dare.

È la strada per raggiungere il Sè attraverso il processo d’Individuazione junghiano, che è anche e soprattutto un processo di maturazione: il recupero della tradizione sepolta ed essenziale coincide con la formazione di una soggettività finalmente integrata, nella quale l’Io cosciente viene incluso in una nuova personalità della quale anche l’inconscio collettivo e i suoi archetipi fanno parte.

In quest’opera Pavese dovette scorgervi molti punti di contatto con il suo personale travaglio artistico, in particolare nel nesso tra mito e maturazione358.

Le storie mitiche di Kerényi, secondo la rilettura di Jung, potevano essere orientate nella direzione della ricerca della pienezza, attraverso il processo di maturazione della personalità: per Pavese « entrare nel mito – scrive Sichera – , scandagliarlo, voleva dire in ultima analisi compiere un viaggio affascinante e avventuroso dentro se stessi, la cui posta era l’integrazione individuale»359.

356 Ivi, p. 122. Corsivo dell’autore. 357 Cfr. A. SICHERA, op. cit., p. 279. 358 Cfr. Ivi, p. 273.

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III.4. Mentalità primitiva e immaginazione mitica. In principio fu Vico ?

In passato ci fu un autore, tra gli altri, che ebbe l’intuizione geniale che il mito e le favole fossero qualcosa di più di un racconto: si tratta del filosofo Giambattista Vico, che all’interno della cultura illuminista europea era rimasto una figura piuttosto isolata.

A grandi linee si può affermare come il significato del pensiero vichiano vada a collocarsi nelle origini del metodo umanistico, della corrente antipositivistica e anticartesiana.

Il filosofo, nella sua opera La scienza Nuova, tracciò un parallelismo tra i fanciulli e l’età iniziale dei lontani primordi: Vico aveva presentato le sue tesi sulle ipotesi riguardanti gli uomini primitivi sulla base empirica dell’osservazione del comportamento fantastico dei fanciulli.

Cesare Pavese lesse La Scienza Nuova per la prima volta nel 1938, ma sarà a partire dal 1943 che riscoprirà nuovamente il filosofo, rintracciando nella sua opera le linee guida per sistemare la tendenza poetica fondata sul ricordo-ritorno e trovando la soluzione nel vagheggiamento del’infanzia.

Pavese, rifacendosi all’etnografia, stabiliva ora una nuova lettura di Vico, imperniando sul mito la propria concezione della poesia e proclamandone l’importanza culturale.

Perchè si tratta di una lettura nuova? L’interpretazione romantica-idealistica aveva sistemato il pensiero vichiano esclusivamente in relazione alla fondazione della scienza estetica.

Pavese, riferendosi polemicamente a Benedetto Croce, si opporrà pubblicamente proprio a questa definizione scrivendo: «Qualcuno ha interpretato il pensiero vichiano nel senso che la novità di quella scienza fosse essenzialmente la scoperta della categoria estetica. Non ne siamo convinti»360.

Valorizzando la «prima volta», la dimensione dell’infanzia come l’unica età che conta veramente, Pavese, andando sempre più a ritroso, giunge adesso allo studio della vita dell’uomo arcaico, stimolato dagli studi e dalle ricerche in campo etnologico. Il punto di partenza del suo pensiero parte proprio dalle ricerche sugli uomini primitivi:

Risalendo il cammino della civiltà di qualunque popolo vediamo le sue varie espressioni di vita colorirsi sempre più di miticità, finché viene il momento che nulla più si fa né si pensa nell’ambito della tribù che non dipenda da un modello mitico. Che cosa significa questo dipendere? Le varie usanze quotidiane e festive, il linguaggio, le tecniche, le istituzioni e le passioni, tutto si modella su fatti accaduti una volta per sempre, su divini schemi che

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in un senso non soltanto temporale sono all’origine di ogni attività – qualcosa per accadere ha bisogno di essere già accaduto, d’essere stato fondato fuori dal tempo. Il mito è ciò che accade-riaccade infinte volte nel mondo sublunare eppure è unico, fuori del tempo, così come una festa ricorrente si svolge ogni volta come fosse la prima, in un tempo che è il tempo della festa, del non-temporale, del mito. Prima che la favola, vicenda meravigliosa, il mito fu una semplice norma, un comportamento significativo, un rito che santifica la realtà. E fu anche l’impulso, la carica magnetica che sola poté indurre gli uomini a compiere opere361.

Proprio in relazione alle discussioni etnologiche circa la mentalità alogica dei primitivi, esclusivamente mistica, Pavese ritiene che Vico ci abbia visto più chiaro di tutti, definendolo «l’inventore della questione»362: nel saggio intitolato Il mito, lo scrittore parla di Vico come di colui

che ha individuato nel mito la rappresentazione della prima forma poetica quale momento espressivo iniziale, riportando questo passo tratto dal secondo libro della Scienza nuova: «..I primi uomini, come fanciulli del genere umano, non essendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a ciascun suo genere somiglianti...»363.

Quelli che Vico chiama universali fantastici, per Pavese corrispondono ai miti e «in essi i fanciulli, i primitivi, i poeti (tutti coloro che non esercitano la “umana filosofia”) risolvono la realtà, sia teoretica che pratica»364.

Vico aveva teorizzato un periodo originario vissuto dalle genti, denominato “età degli dei”: si trattava di un periodo regolato dalla sapienza poetica e amministrato da governi divini, che trovava negli oracoli, espressi esclusivamente in versi, le proprie regole comportamentali.

I poeti-teologi erano gli unici interpreti di questa legge: essi si esprimevano, secondo Vico, in una lingua muta, poiché segreta, la quale rappresentava la prima vera forma di sapienza.365

La necessità di dare nomi alle cose significa spiegarle, cioé sistemare la realtà in un ordine di pensiero; Vico avrebbe così scoperto che tutta l’esistenza dei primitivi è modellata sul mito: le

361 Ivi, p. 315.

362 Ivi, p. 316. 363 Ibid. 364 Ibid.

365 G.B. VICO, La Scienza Nuova, Fratelli Melita, Roma 1987, p. 141: «[...] cotal primo parlare, che fu de’ poeti teologi,

non fu un parlare secondo la natura di esse cose (quale dovett’essere la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui iddio concedette la divina onomathesia, ovvero imposizione de’ nomi alle cose secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare animato per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine».

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favole sono i generi fantastici attraverso cui si esprimevano i primi uomini, e le mitologie erano il vero linguaggio delle favole.

Pavese si trova così di fronte a una storia costituita da un momento originario e iniziale immersa in un’atmosfera sacrale carica di mistero, in cui la poesia rivelatrice dei segreti della realtà rappresenta il documento fondamentale per l’interpretazione della storia del genere umano.

Ma dallo studio di Vico, Pavese è soprattutto interessato a una dimensione di poesia pura che rivela il reale, e al fatto che essa fondi le sue radici nel mondo contadino.

Il 19 agosto 1944 lo scrittore annota: «Quel che t’incanta in Vico è l’aggirarsi perpetuo tra il selvaggio e il contadinesco, e i loro sconfinamenti reciproci, e la riduzione di tutta la storia a questo germe»366.

Bisogna tenere bene a mente l’origine campagnola dello scrittore e il fatto che la sua infanzia e fanciulezza è legata in modo indissolubile al contatto fisico con la campagna piemontese, agli usi e costumi, alla mentalità del lavoro contadino. Questi primi contatti, vere e proprie scoperte, hanno costituito le prime decisive impronte “mitiche” nel suo animo.

Lo scrittore è decisamente attratto dalla prospettiva vichiana secondo cui la verità dell’uomo è da ricercare nell’origine dei tempi, e all’interno delle forme secondo cui questa verità si enunciava, cioé i miti e le favole espressi attraverso la forma poetica, unico strumento in grado di garantire questa operazione di recupero. E ciò, per Vico, poteva accadere solamente attraverso il mondo contadino e la vita dei campi: a guidare Pavese verso Vico, secondo Armanda Guiducci, è quindi «la nuova esigenza di “traslare” il selvaggio, di introvertirlo a dimensione intima, colta [...]»367.

Pavese legge Vico, lo studia, lo annota copiosamente368: il suo obiettivo, come di consueto, è quello

di recuperare i momenti di verifica delle conclusioni a cui è giunto attraverso l’infaticabile ricerca poetica e letteraria.

James Hillman, esponente di scuola junghiana, in un saggio intitolato Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia junghiana, sostiene che vi siano dei punti di contatto così netti e precisi tra il filosofo e lo psicologo tali da poter considerare Vico proprio come un precursore dell’orientamente junghiano.

Il ragionamento di Hillman si basa principalmente su due punti: il primo parallelismo con Jung riguarda l’aspetto del pensiero e del linguaggio.

366 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 288. 367 A. GUIDUCCI, op. cit., p. 295.

368 Cfr. M.BRUNETTA, Il tempo dell’essere: Vico e il neo-umanesimo di Pavese, «Annali di Ca’ Foscari», XXXIV, 1-2,

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L’idea vichiana secondo cui il genere umano si sarebbe evoluto secondo successivi stadi di coscienza appare di portata rivoluzionaria se lo si pone in relazione al pensiero statico medioevale e alla filosofia cartesiana.

Nelle teorie di Vico le intersezioni tra i problemi teorici del linguaggio e i problemi della prassi pedagogico-linguistica sono molteplici: egli aveva postulato l’origine di un linguaggio costituito da elementi basilari espressi nel senso comune, nelle massime, nella saggezza popolare, definito «linguaggio mentale comune a tutte le nazioni»369.

Il secondo parallelismo riguarda l’elaborazione del pensiero metaforico e il concetto di fantasia espresso attraverso la dottrina dei caratteri poetici. «Per Vico – scrive Hillman – questo tipo di pensiero era primario, come è primario per Jung il pensiero fantastico»370.

Si è visto come, per la psicologia junghiana, all’interno dei complessi inconsci il fattore dell’immaginazione giochi un ruolo fondamentale: attraverso la creazione di immagini si costituisce l’unico collegamento con il mondo esterno. L’evoluzione della mente umana consiste proprio nel passaggio da una fase di assoluta indistinzione all’emergere delle immagini: è questo il motivo per cui Jung assegna all’immaginazione il posto di prima capacità ad essersi evoluta nell’uomo.

Quelli che Vico chiama universali fantastici, cioè le immagini universali dei miti, secondo Hillman sono dei veri e propri caratteri poetici che corrispondono all’archetipo junghiano: la dottrina vichiana dei caratteri poetici «offre degli appigli a sostegno di una terapia basata sugli archetipi: il carattere poetico – eroe, dio (o dea) – assume un ruolo di struttura psichica di riferimento cui possiamo rapportare gli eventi per definirli e per stabilire in quale misura rispondano ai loro archetipi [...]»371.

Il mito, la fiaba, dice Jung, ci aiutano a comprendere cosa sia un archetipo dal punto di vista psicologico:

All’uomo primitivo non importa quasi affatto conoscere la spiegazione oggettiva dei fenomeni evidenti; egli sente invece la perentoria necessità, anzi, meglio, la sua anima inconscia è invincibilmente portata a far risalire qualunque esperienza sensibile a un accadere psichico, All’uomo primitivo non basta veder sorgere e tramontare il sole: quell’osservazione esteriore deve costruire anche un “avvenimento psichico” [...] Tutti i fenomeni naturali mitizzati, come estate e inverno, fasi lunari, stagioni delle piogge, non sono affatto allegorie di quegli avvenimenti oggettivi, ma piuttosto

369 G.B. VICO, op. cit., p. 185.

370 J. HILLMAN, Plotino, Ficino, Vico precursori della psicologia junghiana, «Rivista di psicologia analitica», Vol. IV,

2, 1973, p. 15.

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espressioni simboliche dell’interno e inconscio dramma dell’anima che diventa accessibile alla coscienza per mezzo della proiezione, del riflesso cioé dei fenomeni naturali. La proiezione è così radicata che sono occorsi alcuni millenni di cultura per separarla, sia pure in una certa misura, dall’oggetto esterno372.

Così i processi della natura diventano espressioni simboliche dell’intimo inconscio, il quale si rende percepibile alla coscienza grazie alla proiezione, cioé al suo rispecchiarsi nei fenomeni naturali, proprio come nella participation mystique di Lévy-Bruhl: una proiezione psicologica che l’antropologo ebbe il merito di mettere in rilievo come una qualità caratteristica dell’uomo primitivo, e si tratterebbe, nelle parole di Jung, di «uno dei fenomeni psicologici più generali ed abituali»373.

A questo proposito scrive ancora il medico: «Non restano attaccate alla psiche le immagini delle tempeste, dei tuoni, dei lampi, della pioggia e delle nuvole, ma le fantasie emotive che suscitano»374.

E se Pavese aveva già riconosciuto che l’immagine della poesia deriva da un’interpretazione primitiva della realtà, in quello «scambio di qualità ed essenza», adesso tale meccanismo trasla verso l’esperienza soggettiva: la creazione poetica scaturisce dall’incontro di un “io” con il reale, «infinita complessità della vita»375:

Tutto quanto potevo concedere alla poesia pura risulta dalla unificazione estatica d’ogni poesia nell’attimo contemplativo. [...] Tutto si risolverà in un’illuminazione accesa da varii pensieri e dalle sensazioni intrecciate. [...] Per accorta o trasecolante che sia l’evocazione dei varii complessi fanstastici (le immagini racconto) ecco che si chiarisce come il soggetto non sia il processo logico-fantastico di una mente, ma sempre ancora ciò che quella mente pensa e sente376.

Più in generale, Hillman pone Vico in relazione a Jung sulla scia della psicologia intuizionista, definita verstehende, sviluppata successivamente da personaggi come Dilthey, Jaspers e Cassirer: tutte letture che avevano nutrito le riflessioni di Pavese sul simbolo e sul mito.

372 C.G. JUNG, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, cit., pp. 18-19.

373 ID., L’uomo arcaico, in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, cit., p. 162. 374 Ivi, p. 118.

375 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 59 376 Ivi, pp. 54-55.

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E Pavese, secondo Armanda Guiducci, si avvicinò moltissimo proprio alle idee di Ernst Cassirer377.

Il filosofo tedesco aveva definito l’uomo come uno straordinario animale simbolico: ciò che rende umano l’uomo biologico è proprio la sua attitudine e capacità di creare simboli.

Il linguaggio, il pensiero, la cultura, sono tutte creazioni simboliche, dal momento che il bambino apprende in un modo che non è più “puro”, “natura”, ma modificato da simboli dell’uomo: è l’idea di Pavese, si è visto, secondo cui il bambino impara a riconoscere il mondo attraverso i segni delle cose: le parole, le vignette, i racconti. Le connessioni con Cassirer non devono quindi sorprendere. Scrive Armanda Guiducci:

Cassirer era stato il primo ad ampliare le nuove vedute sull’uomo primitivo in una in una nuova concezione dell’uomo in genere, secondo la quale per l’uomo moderno, erede di un passato storico lontano nel quale il mito aveva rappresentato l’unico modo possibile di conoscenza, l’arte esplica ancora pienamente quelle modalità che furono proprie della coscienza mitica378.

Mentalità primitiva, stato mentale della prima infanzia, inconscio dell’uomo civilizzato adulto, la partecipation mystique di Lévy-Bruhl, sono i campi d’indagine scientifica all’interno dei quali si muove Pavese per misurare le sue conclusioni poetiche: a lui, adesso, interessa il percorso individuale dell’uomo che si sviluppa secondo il primitivo senso e la fantasia dell’infanzia, fino a giungere alla ragione dell’età adulta.

Il contrasto tra mito, legato all’infanzia, e logos, alla maturità, inizia così a dispiegarsi.

377 Cfr. A. GUIDUCCI, op. cit., pp. 239-240. 378 Ibid.

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III.5. «Mito-unicità», «attimo estatico», irrazionale. Sull’orlo della memoria.

Appurato che il terreno privilegiato sul quale si muove Pavese è quello delll’infanzia, tesoro di scoperte e serbatoio di miti e di poesia, nella già citata lettera a Fernanda Pivano lo scrittore conclude scrivendo: «Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo»379.

Attraverso il mito Pavese cerca di condensare un complesso discorso storico e «una convinta poetica che su di esso si appoggia e si giustifica»380.

Durante l’infanzia le cose della realtà furono scoperte per la prima volta, furono cioé, scrive Pavese, «battezzate»381, mostrando in questo caso una coloritura “religiosa”.

Ciò che ha reso unico i luoghi dell’infanzia coinciderebbe con il «formarsi delle immagini trascendentali» e il ritorno all’infanzia non sarebbe altro che un modo per «saziare la sete del mito», cercando l’unicità e il «brivido religioso».382

D’altronde, è lo stesso Pavese a spiegare che al concetto di mito giunse «meditando appunto un fatto religioso»383:

Ci accadde di chiederci che cosa fosse per il fedele un santuario, in che cosa un sacro monte differisse per lui dalle altre colline – e la risposta fu precisa – : santuario è il luogo mitico dove è accaduto un giorno una manifestazione, una rivelazione del divino (tactus de coelo – c’è caduta la folgore); il luogo unico tra tutti, dove il fedele partecipa in qualche modo, con la presenza, col contatto, con la vista, all’unicità di quella rivelazione, la quale si moltiplica nel tempo, proprio perché avvenne la prima volta fuori del tempo, e fonda perciò tutta la realtà mitica del monte. Che cosa prova il fedele, al contatto con la sacra collina? Il tempo per lui si arresta, in un attimo vertiginoso egli contempla, sente l’unicità del luogo, simbolo incarnato della sua fede, nucleo centrale di tutta la sua vita interiore384.

379 C.PAVESE., Lettere 1924-1944, cit., p. 639. 380 Ibid.

381 ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 255. 15 giugno 1943: «L’infanzia non conta naturalisticamente,

ma come occasione al battesimo delle cose, battesimo che ci insegna a commuoverci davanti a ciò che abbiamo

battezzato [...]».

382 Cfr. Ivi, p. 258. 17 settembre 1943. : «Qui di nuovo si vede come il ritorno all’infanzia valga a saziare la sete del

mito [...], insomma, le “cose che hanno fatto unici i luoghi dell’infanzia” sono una cosa sola: il formarsi delle immagini trascendentali. Basta questo a sostituire il brivido religioso?». Corsivo mio.

383 ID., Il mito, in Saggi letterari, cit., p. 317. 384 Ibid.

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