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INTRODUZIONE Alterne vicende del cineromanzo all’interno dei film studies

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INTRODUZIONE

Alterne vicende del cineromanzo all’interno dei film studies

Gli studiosi di cinema hanno cominciato solo in anni relativamente recenti a interessarsi a quella strana forma culturale rappresentata dai cineromanzi.1 Considerati semplicemente come prodotti paraletterari “sottoculturali”, o come l’ultimo stadio della filiera di sfruttamento dei film (e dell’immaginario a essi legato) da parte dell’industria della cultura di massa, i cineromanzi sono stati per molto tempo ritenuti estranei alla pertinenza degli studi cinematografici e, in ogni caso, non bisognosi di particolari approfondimenti o specifiche cure conservative da parte degli enti preposti, come le biblioteche e gli archivi.2

La ragione principale della tradizionale “marginalità” del cineromanzo (e, più in generale, delle novellizzazioni) come oggetto di studio e di preservazione risiedeva con tutta probabilità soprattutto in ragioni contingenti, quali la fragilità dei materiali, la qualità spesso scarsa delle pubblicazioni, o l’enorme quantità di testate simili tra loro, che in alcuni periodi sembravano davvero moltiplicarsi in modo esponenziale.3 Tuttavia, come sottolinea giustamente Silvio Alovisio, quella sorta di “sospetto” teorico-storiografico che ha in passato afflitto il cineromanzo è stato in gran parte motivato dalla sua «natura ibrida» di fenomeno sospeso inesorabilmente in «un’indistinta terra di mezzo tra film e prodotto editoriale, tra visivo e verbale, tra immagine animata e immagine fissa, una terra a cui non si è mai riconosciuta una

1 Si è qui adottata la dicitura “cineromanzo” in modo conforme a come essa viene utilizzata all’interno del

catalogo della mostra realizzata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino con i materiali della collezione appartenente al regista Gianni Amelio (si veda: infra p. …). Per “cineromanzo” s’intenderà dunque il vero e proprio racconto fotografico composto a partire da un film. Le novellizzazioni diversamente realizzate (con l’ausilio, o meno, di fotografie) saranno definite “cineracconti”. Si veda: E. Morreale, Il sipario strappato. Introduzione ai cineromanzi, in Id. (a cura di), Gianni Amelio presenta: lo schermo di carta. Storia e storie dei cineromanzi, Museo Nazionale del Cinema-Il Castoro, Torino-Milano, 2007, p. 56, nota 1.

2 Con la vistosa eccezione della Biblioteca “Mario Gromo” del Museo Nazionale del Cinema di Torino, che,

grazie alle politiche della fondatrice Maria Adriana Prolo e dei suoi successori, aveva da sempre intuito la fondamentale importanza storica dei materiali diversi dal film. La Biblioteca “Mario Gromo” ha, tra l’altro, avviato già dagli anni Novanta un’opera di catalogazione e sistematizzazione del proprio patrimonio non filmico. Si veda: S. Alovisio, (a cura di), Cineromanzi. La collezione del Museo Nazionale del Cinema, Museo Nazionale del Cinema, Torino, 2007.

3 Per avere un’idea della vastità di questa produzione, basti pensare che, tra le riviste di questo tipo custodite

presso la Biblioteca “Mario Gromo”, solo per gli anni Cinquanta, ad esempio, si contano circa trenta testate. S. Pimpolo, La collezione di cineromanzi del Museo Nazionale del Cinema, in S. Alovisio, (a cura di), Cineromanzi. La collezione del Museo Nazionale del Cinema, op. cit., p. 30.

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reale legittimità»,4 né da parte dei film studies, né tantomeno nel campo degli studi letterari.5

Perciò, pur avendo avuto un vasto successo popolare e una certa rilevanza economica all’interno dell’industria dell’intrattenimento (soprattutto negli anni tra i Trenta e i Cinquanta), le trasposizioni dei film sulla carta stampata sono rimaste a lungo relegate nelle soffitte degli appassionati o, tutt’al più, hanno trovato una visibilità estremamente settoriale sui banchi dei mercatini dell’antiquariato e nell’ambito del collezionismo specializzato.

La fortuna storico-critica di cineromanzo e affini comincia in Italia con l’inizio degli anni Novanta, come conseguenza indiretta di una sostanziale trasformazione dell’orizzonte teorico all’interno del quale si muovevano le discipline cinematografiche e, in particolare, gli studi sullo spettatore.

Già a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’assunto di base dell’approccio semiotico-psicanalitico e delle teorie del dispositivo6 (ovvero l’assoluta centralità del film e la pressoché totale «autarchia del dispositivo tecnico e testuale nella costruzione del senso e nella definizione dell’esperienza di visione»)7 viene gradualmente messo in discussione: sotto la spinta di stimoli interni al dibattito scientifico,8 e anche in reazione alle pressioni “esogene” ingenerate dalle radicali trasformazioni che il cinema stesso stava subendo all’interno del sistema dei media, il modello di uno spettatore come puro prodotto testuale comincia a cedere il passo a nuovi sviluppi teorici. Mentre, cioè, l’idea di immedesimazione immersiva (con tutto il suo portato di ontologizzazione e testualizzazione dello spettatore) è resa

4 S. Alovisio, (a cura di), Cineromanzi. La collezione del Museo Nazionale del Cinema, op. cit., p. 11.

5 Nell’ambito degli studi letterari e storico-artistici, le due forme culturali più prossime al cineromanzo, il

fotoromanzo e il fumetto, erano state investite del valore di oggetto di studio già a partire dagli anni Sessanta e Settanta, se non altro in una prospettiva storico-sociologica. Si veda: infra, pp. …

6 Si vedano, tra gli altri: J-L. Baudry, L’Effet cinéma, Albatros, Parigi, 1978; F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film

e il suo spettatore, Bompiani, Milano, 1986; T. de Lauretis e S. Heath, The Cinematic Apparatus, Macmillan, Londra, 1980; T. de Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema, Macmillan, Londra, 1984; C. Metz, Le Signifiant imaginaire. Psicoanalyse et cinéma, UGE, Parigi, 1977, trad. it. Cinema e psicoanalisi, Marsilio, Venezia, 1980; L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», 16, 1975, trad. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf», 8, luglio-settembre 1978.

7 M. Fanchi, Bibliografia ragionata. Le tappe del dibattito e i principali contributi teorici e di ricerca, in M.

Fanchi ed E. Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema in Italia 1930-1960, op. cit., p. 265.

8 Per la discussione di alcune cruciali questioni teoriche riguardanti la relazione tra testo e contesto, si veda: R.

Eugeni, Il testo sociale, in Film, sapere, società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico, Vita e Pensiero, Milano, 1999, pp. 109-153; per un’accurata descrizione degli sviluppi delle teorie sullo spettatore, si veda: M. Fanchi, Spettatore, Il Castoro, Milano, 2005. Si vedano inoltre: M. Fanchi e A. Sainati (a cura di), Al cinema. Spettatore, spettatori e pubblico, «Comunicazioni Sociali», 2, maggio-agosto 2001; L. Williams (a cura di), Viewing Positions: Ways of Seeing Film, Rutgers University Press, New Brunswick, 1997 (1995).

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obsolescente dalla diffusione del consumo domestico di film e dalla conseguente riconsiderazione della centralità della sala come cardine dell’esperienza di visione, in ambito speculativo prendono corpo nuove metodologie interdisciplinari che considerano il cinema all’interno di contesti (storici, culturali, mediali, intertestuali) più ampi.

In una prospettiva di questo tipo, si comincia (soprattutto in area anglosassone)9 a considerare l’“uso” dei film e la loro ridiscorsivizzazione nel sociale come elementi assolutamente determinanti nel funzionamento del processo comunicativo messo in atto dai testi, facendo in alcuni casi vacillare, oltre alla tradizionale idea di spettatore, anche la stabilità di costrutti teorici consolidati, come ad esempio la nozione stessa di genere cinematografico.10 Specularmente, s’intravede nel cinema una potente chiave d’accesso alla conoscenza delle formazioni sociali e identità collettive a esso legate e alla verifica storica delle loro trasformazioni.11 Per dirla con Francesco Casetti, cioè, il cinema «si presenta come una messa in forma negoziata delle istanze che circolano nello spazio sociale. Il cinema negozia per mettere in forma, e mettendo in forma negozia; lo fa per cercare dei compromessi, ma facendolo provoca anche una ri-articolazione dei concetti preesistenti».12 Questo doppio movimento (di andata e ritorno, di assunzione e di riproposizione) del cinema verso il sociale trova un’importante formalizzazione concettuale e un fondamentale supporto

9 Nell’ambito dei cultural studies e sulla scorta dell’influente articolo di Stuart Hall, Encoding/Decoding, in S.

Hall, D. Hobson, A. Lowe, P. Willis (a cura di), Culture, Media, Language. Working Papers in Cultural Studies, 1972-79, Hutchinson, Londra, 1980, pp. 128-138 (l’articolo è un estratto parzialmente rivisto del testo: S. Hall, Encoding and Decoding in the Television Discourse, University of Birmingham, Centre for Contemporary Cultural Studies, Birmingham, 1973).

10 La nozione di genere cinematografico è stata ridefinita e resa “fluida” anche grazie all’approccio

semantico/sintattico/pragmatico messo a punto da Rick Altman. Si veda: R. Altman, Film/Genre, BFI, Londra, 1999, trad. it., Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004. Si veda inoltre: F. Casetti, Film Genres, Negotiation Processes and Communicative Pact, in L. Quaresima, A. Raengo, L. Vichi (a cura di), La nascita dei generi cinematografici, atti del V Convegno Internazionale di Studi sul Cinema (Udine, 26-28 marzo 1998), Udine, Forum, 1999, pp. 23-36; R. Eugeni e L. Farinotti (a cura di), Territori di confine. Contributi per una cartografia dei generi cinematografici, «Comunicazioni Sociali», 2, maggio-agosto 2002.

11 Aprendo così anche nuove strade alle ricerche afferenti all’ambito della storia sociale e alla storia dei media.

Per il solo panorama italiano, si vedano, tra gli altri: G. P. Brunetta, Buio in sala. Cent’anni di passioni dello spettatore cinematografico, Marsilio, Venezia, 1989; F. Casetti e M. Fanchi, Esperienze mediali. Mass media e mondo di vita negli anni ’50 e negli anni ’90, Centro Studi San Salvador, Venezia, 1996; F. Casetti ed E. Mosconi, Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico (1900-1950), Carocci, Roma, 2006; M. Fanchi, Identità mediatiche. Televisione e cinema nelle storie di vita di due generazioni di spettatori, Franco Angeli, Milano, 2002; M. Livolsi (a cura di), Schermi e ombre. Gli italiani e il cinema nel dopoguerra, La Nuova Italia, Firenze, 1988; E. Mosconi, L'impressione del film. Contributi per una storia culturale del cinema italiano 1895-1945, Vita e Pensiero, Milano, 2006; P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Pratiche, Parma, 1995.

12 F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano, 2005, p. 278. Corsivo

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metodologico proprio nella nozione di negoziazione,13 un paradigma teorico che, nelle parole di Mariagrazia Fanchi,

sottrae […] la visione all’universalità e all’astrattezza del modello dello spettatore posizionato e la situa in un preciso contesto storico e, insieme, permette di aprire la fruizione a una più ampia gamma di possibilità che valorizzano il contributo del testo e l’apporto del fruitore e danno conto della specificità dei modi con cui ogni soggetto “corrisponde” alla proposta del film.14

È in uno scenario di questo tipo che acquista un’inedita importanza tutto l’insieme allargato delle forme “paratestuali” legate al cinema, intese come «luoghi privilegiati della dimensione pragmatica dell’opera»15, ovvero come “posizioni” ottimali dalle quali osservare proprio quelle pratiche negoziali che sono alla base delle differenti “specificità di modi” con cui i diversi spettatori (o i diversi pubblici) “corrispondono” agli stimoli forniti dal cinema e dai film.

Il cineromanzo, considerato quindi essenzialmente nella sua natura di paratesto cinematografico, cioè come «modo di prolungare o sostituire le visioni della sala cinematografica con una lettura fatta a casa propria»,16 guadagna pertanto il proprio valore di oggetto di studio proprio in virtù di questa sua operatività quale banco di prova della ridiscorsivizzazione sociale dei film: traccia documentaria di letture spettatoriali possibili e fonte insostituibile per ricostruire la memoria dell’esperienza cinematografica del passato.

In quest’ottica si situano alcune importanti ricerche sul rapporto tra cinema e paraletteratura, quali quelle condotte da studiosi come Raffaele De Berti, Ruggero Eugeni e Lucia Cardone,17 e l’interesse per il cineromanzo e le altre forme di

13 Si vedano, tra gli altri: F. Casetti, Communicative Negotiation in Cinema and Television, Vita e Pensiero,

Milano, 2002; C. Gledhill, Pleasurable Negotiations, in E. D. Pribram (a cura di), Female Spectators: Looking at Film and Television, Verso, Londra-New York, 1988, pp. 64-89, trad. it. Negoziazioni del piacere, in M. Fanchi, Spettatore, op. cit., p. 107-129; J. Mayne, Cinema and Spectatorship, Routledge, Londra-New York, 1993.

14 M. Fanchi, Spettatore, op. cit., p. 26.

15 G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degre, Seuil, Parigi, 1982, trad. it. Palinsesti. La letteratura

al secondo grado, Einaudi, Torino, 1997, p. 5.

16 R. De Berti, Dallo schermo alla carta. Romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici: il film e i suoi

paratesti, Vita e Pensiero, Milano, 2000, p. 69.

17 Si vedano, ad esempio: R. De Berti, I rotocalchi cinematografici e la casa editrice Vitagliano, in Id. (a cura di),

Il cinema a Milano dal secondo dopoguerra ai primi anni Sessanta, Vita e Pensiero, Milano, 1991, pp. 231-246; R. Eugeni e R. De Berti, La statura orizzontale. Il caso di «Novelle Film», «La scena e lo schermo», gennaio-giugno 1992, pp. 82-103;C. Belloni e R. De Berti, Il rapporto tra cinema e paraletteratura negli anni Cinquanta: il caso Majano, in F. Villa (a cura di), Cinema e cultura popolare nell’Italia degli anni Cinquanta,

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novellizzazione da parte di tre autorevoli istituzioni afferenti all’ambito della cultura cinematografica italiana. Nel 2004, infatti, la prestigiosa rivista «Bianco e Nero» dedica la sezione monografica del numero di gennaio-aprile proprio alla novellizzazione;18 l’anno successivo il “racconto del film” è l’argomento del Film Forum di Udine;19 nel 2007, il Museo del Cinema di Torino espone i cineromanzi della collezione personale del regista Gianni Amelio,20 e contestualmente svolge una fondamentale azione di promozione dello studio dei materiali conservati nel proprio archivio.

Oltre alla temperie culturale condivisa e agli assunti teorici di partenza, una caratteristica che accomuna questi studi e manifestazioni è il periodo storico entro il quale si muovono le singole indagini e i vari studi di caso, periodo che solitamente si estende dagli anni Dieci fino ai primi anni Sessanta (con particolare attenzione agli anni Trenta, Quaranta e soprattutto Cinquanta). La ragione di questa sorta di “sbarramento” temporale è chiaramente ravvisabile nella peculiare posizione di centralità all’interno del reticolo intermediale che il cinema occupava nei decenni in questione e nella stretta relazione che i film intrattenevano con il pubblico popolare, come fondamentale riferimento per l’immaginario e imprescindibile viatico di costruzione identitaria (ovviamente fatte salve le specificità legate alle diverse epoche, ai ceti sociali, ai generi sessuali, agli squilibri tra Nord e Sud, e così via).21 In virtù di questa singolare collocazione, il cinema aveva impostato, per forza di

«Comunicazioni sociali», 2-3, aprile-settembre 1995; R. De Berti, Film e cineromanzi, in R. De Berti e E. Mosconi (a cura di), Cinepopolare. Schermi italiani degli anni Trenta, «Comunicazioni sociali», 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 615-633; Id., Dallo schermo alla carta, op. cit.; Id., Il cinema fuori dallo schermo, in L. De Giusti (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume XIII – 1949/1953, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2003, pp. 116-129; Id., I rotocalchi illustrati, in O. Caldiron (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume V – 1934/1939, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2006, pp. 512-520; R. Eugeni, Lo sguardo rosa. «Le ragazze di Piazza di Spagna» (Luciano Emmer, Italia, 1952), «Senso» (Luchino Visconti, Italia, 1954) e le loro versioni nella rivista «Novelle Film», in Film, sapere, società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico, op. cit., pp. 67-89; L. Cardone, Con lo schermo nel cuore. Grand Hotel e il cinema (1946-1956), op. cit.; Ead., «Noi donne» e il cinema. Dalle illusioni a Zavattini (1944-1954), ETS, Pisa, 2009.

18 R. De Berti (a cura di), La novellizzazione in Italia. Cartoline, fumetto, romanzo, rotocalco, radio, televisione,

«Bianco e Nero», LXV, 548/1, 2004.

19 A. Autelitano e V. Re (a cura di), Il racconto del film/Narrating the Film, atti del XII Convegno Internazionale

di Studi sul Cinema (Udine/Gorizia, 8-10 marzo 2005), Forum, Udine, 2006.

20 E. Morreale (a cura di), Gianni Amelio presenta: lo schermo di carta. Storia e storie dei cineromanzi, op. cit. 21 Ad esempio, per una più complessa articolazione della nozione di “popolare” in relazione al cinema nel

Secondo Dopoguerra e le implicazioni di questa problematizzazione a livello teorico e storiografico, si veda: M. Fanchi, Accoppiamenti giudiziosi. Gli studi culturali e il problema della periodizzazione, in E. Biasin, R. Menarini, F. Zecca (a cura di), Le età del cinema/The Ages of Cinema, atti del XIV Convegno Internazionale di Studi sul Cinema (Udine/Gorizia, 20-29 marzo 2007), Forum, Udine, 2008, pp. 55-62.

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cose, un «rapporto dialettico con gli altri apparati di comunicazione di massa»,22 la stampa in particolare. Se da una parte, infatti, il cinematografo rappresentava il serbatoio mitico di volti, storie e modelli che informavano e nutrivano le pagine dei rotocalchi, dall’altra queste stesse riviste svolgevano un ruolo importantissimo «di amplificazione e, insieme, di contenimento, di orientamento del processo sociale di costruzione di senso»23 rispetto ai film, contribuendo a delineare e fortificare quell’equilibrio tra “vecchio e nuovo”, determinato dalla continua mediazione tra tensione verso la modernità e richiamo della tradizione, che caratterizzava la cultura popolare24 nell’epoca in questione. In tal senso, allora, l’interesse degli studiosi per forme culturali come i cineromanzi (e, in generale, per i paratesti cinematografici) è legato a questa loro funzione indiziaria nel processo di messa a fuoco della «definizione di alcune risorse che vengono costruite, diffuse, messe a disposizione degli attori sociali per la costruzione qualitativa dei propri percorsi di consumo mediale e, per questa via, della propria identità»,25 all’interno di un panorama (inter)mediale ancora fortemente centralizzato (pur nelle sue sfaccettature e “diramazioni”) come quello cha ha caratterizzato il nostro Paese fino alla metà circa degli anni Sessanta.

Al di là di questa soglia, con l’esaurimento progressivo del cosiddetto film medio,26 capace di catalizzare l’interesse di un’audience estremamente variegata, e con l’evidente spaccatura generazionale e di gender causata dalla diffusione dello “spettacolo domestico” in determinate fasce sociali e nel pubblico femminile di talune zone d’Italia,27 si era infatti verificata una graduale settorializzazione del

22 M. Fanchi ed E. Mosconi, Introduzione. Concetti, chiavi di lettura e prospettive di ricerca, in Eads. (a cura di),

Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema in Italia 1930-1960, op. cit., p. 13.

23 Idem.

24 In generale, l’idea di cultura popolare espressa nel contesto della teoria della negoziazione è fortemente

debitrice verso la teoria dell’egemonia e gli studi neo-gramsciani, come quelli (già ricordati) condotti da Stuart Hall e Christine Gledhill. In particolare, «la teoria dell’egemonia ci permette di pensare alla cultura popolare come un insieme, “negoziato” di intenzioni e contro-intenzioni; sia dall’“alto” che dal “basso”, sia “commerciali” che “autentiche”; un equilibrio mobile di forze tra la resistenza e l’incorporazione». J. Storey, Cultural Theory and Popular Culture. An Introduction, Pearson Education Limited, Harlow, 2001, trad. it, Teoria culturale e cultura popolare. Un'introduzione, Armando, Roma, 2006, p. 122.

25 R. Eugeni, Lo sguardo rosa, op. cit., p. 89.

26 Si veda: L. Micciché, Aspettando Godot…, in Id., Cinema italiano degli anni ’70. Cronache 1969-1979,

Marsilio, Venezia, 1989 (1980), pp. 5-18.

27 Si vedano: F. Colombo, Foto di gruppo con terremoto. Lo scenario multimediale, in G. Canova (a cura di),

Storia del cinema italiano. Volume XI - 1965/1969, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, pp. 456-468; F. Casetti e M. Fanchi, Le funzioni sociali del cinema e dei media: dati statistici, ricerche sull’audience e storie di consumo, in M. Fanchi ed E. Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema in Italia 1930-1960, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, pp. 135-171; M. Fanchi, La trasformazione del consumo cinematografico, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume X - 1960/1964, op.

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consumo cinematografico, che aveva acquisito la fisionomia di una fruizione di nicchia e fortemente orientata per generi.28 Ciò che, almeno in linea generale, sembrava dunque venire meno era proprio la centralità del cinema nelle esperienze di vita degli spettatori (oltre che nel sistema dei media) e la sua capacità di intercettare le esigenze identitarie e i bisogni di “modernizzazione” di un pubblico trasversale (per età, genere sessuale e ceto): in un quadro di questo tipo, appare pertanto anche meno interessante e fruttuoso lo studio delle relazioni intertestuali e delle pratiche intermediali che hanno il film come ipotesto e nodo centrale. Se lo spettacolo cinematografico, cioè, non rappresentava più una forma di intrattenimento perfettamente in grado di interpretare i desideri e le aspirazioni di un pubblico autenticamente “popolare”, se i generi di profondità si erano trasformati in pura evasione per uno spettatore che cercava uno svago escapista piuttosto che uno specchio in cui ri-trovarsi, se anche la rete di relazioni in cui “quel” cinema era integrato assumeva l’aspetto di un’alleanza puramente commerciale tra settori “bassi” dell’industria culturale, sembrano allora decadere proprio i presupposti storico-metodologici che avevano motivato il recupero del cineromanzo come oggetto di studio all’interno del paradigma teorico cui si è poc’anzi accennato.

È così che sui cineromanzi degli anni Sessanta e Settanta si è preferito stendere una sorta di “velo pietoso”, etichettando questi prodotti col marchio d’infamia della degenerazione di una forma culturale che aveva avuto in altri tempi la propria ragione d’essere. Non è chiaro se tale sistematica rimozione sia la conseguenza diretta dell’effettivo esaurimento della produttività economica e socio-culturale della novellizzazione dei film, oppure se non sia il frutto dell’ipostatizzazione di una particolare idea di cinema e di una precisa condizione del sistema dei media, l’una e l’altra storicamente determinate: in ogni caso gli unici contributi di una certa rilevanza dedicati a questa produzione si limitano a porre enfaticamente l’attenzione sul suo carattere residuale ed effimero. Ad esempio, nel contributo di Pina D’Acquisto sul catalogo della mostra della collezione Amelio (dall’eloquente

cit., pp. 344-357; Ead., Un genere di storia. Alcune considerazioni su storia di genere e storiografia del cinema, «La valle dell’Eden: semestrale di cinema e audiovisivi», anno IX, n. 19, luglio-dicembre 2007, pp.183-193.

28 Si vedano: R. C. Provenzano, La produzione e il consumo, op. cit.; V. Buccheri, I generi cinematografici: lo

specchio della mutazione, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano. Volume XII – 1970/1976, Marsilio-Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2008, pp. 29-43, e, nello stesso volume, D. Monetti, Verso la crisi produttiva, pp. 496-502; U. Rossi, Il pubblico del cinema, in L. Micciché, Il cinema del riflusso. Film e cineasti italiani degli anni ’70, op. cit., pp. 26-44, e, nello stesso volume, B. Torri, Industria, mercato, politica, op. cit.

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sottotitolo Gli ultimi fuochi del cineromanzo),29 si liquidano questi artefatti come esempi lampanti non soltanto dell’«agonia del cineromanzo» o della sua «decadenza»,30 ma anche e soprattutto del fatto che «il sistema dei media è saltato, non c’è più un circuito spettacolare, divistico, industriale (per quanto sui generis) che colleghi il cineromanzo al rotocalco femminile».31 In modo non dissimile, nell’accurata ricostruzione storica delle testate che compongono la collezione del Museo del Cinema di Torino, a cura di Silvia Spimpolo,32 la sezione dedicata agli anni Sessanta e oltre è significativamente intitolata Il declino del cineromanzo.33

In ogni caso, che si vogliano chiamare in causa nozioni come quelle di declino e decadenza, oppure che ci si limiti semplicemente a registrare l’estinzione commerciale del cineromanzo, è innegabile che tali prodotti siano, di fatto, scomparsi come forma culturale di diffusione popolare intorno alla metà degli anni Settanta.

La mia opinione in proposito, che cercherò seppure per sommi capi di motivare, è che invece questa particolare declinazione del cineromanzo sia interessante per almeno due motivi fondamentali.

Innanzitutto credo sia necessario considerare il cineromanzo anni Settanta non tanto come un epigono degenerativo del cineromanzo “classico”, quanto piuttosto alla luce di un sostanziale cambiamento del paradigma culturale di riferimento. In secondo luogo, credo sia interessante inserire questi testi all’interno di una cornice di studi di genere, in particolare come produzione di una sorta di sacca di resistenza di una cultura “al maschile” in un momento di forte problematicità e di crisi della mascolinità.

29 P. D’Acquisto, Ondata di calore. Gli ultimi fuochi del cineromanzo, in E. Morreale (a cura di), Gianni Amelio

presenta: lo schermo di carta. Storia e storie dei cineromanzi, op. cit., pp. 220-225.

30 Idem, p. 221. 31 Idem, p. 222.

32 S. Pimpolo, La collezione di cineromanzi del Museo Nazionale del Cinema, op. cit., pp. 21-37. 33 Idem, pp. 32-34.

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