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3. Un metaromanzo 3.1 Il libro traversa la vita e va oltre

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3. Un metaromanzo

3.1 Il libro traversa la vita e va oltre

Sin dal suo esordio Timor sacro si presenta come un romanzo sulla

genesi del romanzo, ossia come un metaromanzo, una narrazione che assume come proprio oggetto l’atto stesso del raccontare, così da sviluppare un romanzo nel romanzo.

Ed è esattamente questo il tipo di racconto che costruisce Stefano Pirandello: del protagonista della sua opera, Simone Gei, vengono narrate la vita, le vicissitudini e le fatiche lavorative, ed è proprio in quest’ultima attività che si delinea il tratto fondamentale del metaromanzo. Simone Gei infatti è anch’esso uno scrittore tormentato e indeciso, alle prese con la stesura di un’opera di esaltazione del fascismo. Nella narrazione di Timor

sacro la storia di Gei si alterna a quella dell’albanese Selikdàr Vrioni

protagonista del romanzo nel romanzo. Entrambi gli scrittori (quello reale, Pirandello e quello fittizio, Gei) sentono l’importanza e, in qualche modo, il peso del libro che si apprestano a scrivere, che per ambedue è l’opera di “una vita”, quella a cui affidarsi per ottenere lo sperato successo e che necessita quindi di una gestazione lunga e travagliata.

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Come si è detto Pirandello lavorò per gran parte della sua vita a questo romanzo, perfezionandolo, limandolo e cercando di celare dietro i volti dei protagonisti una larga parte di autobiografismo; ed è ipotizzabile che anche l’eccesso di zelo compositivo che contraddistingue Simone Gei sia in qualche modo specchio del metodo compositivo di Pirandello, caratterizzato da continue smanie di revisionismo, modifica e innovazione. Va infatti tenuto presente il fatto che, in questo elaborato contesto l’autore di entrambi i romanzi è Stefano Pirandello, ed è possibile constatare come la sua scrittura appaia lievemente differente nei due casi; nel raccontare la storia di Selikdàr, essa risulta meno tormentata da sensi d’inadeguatezza e da inibizioni psicologiche e si avverte in maniera minore il peso dell’autobiografismo. Ne deriva una storia più fluida e piacevole, meno intricata e costellata di sentimenti complessi, in virtù della quale si potrebbe ipotizzare che, concentrandosi solo sulla storia dell’albanese, Pirandello avrebbe davvero ottenuto il successo sperato. Invece, il romanzo principale, quello che narra di Simone Gei, oltre ad essere intricato, a tratti oscuro e costellato di molteplici personaggi, sin dall’esordio appare profondamente influenzato dalla vita dell’autore il quale ne modella i protagonisti sulla base dei suoi precipui tratti caratteriali, narra situazioni tratte dal proprio vissuto familiare e sembra inoltre non riuscire a delineare soggetti estranei ai caratteri della sua cerchia personale.

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Timor Sacro attua una radicale eversione dei congegni narrativi, annullando i confini del testo che si dilatano fuori misura, prefigurando un finale aperto, spostando l’attenzione dalla trama alla progettualità, allo strenuo esercizio compositivo, nella ricerca ostinata di soluzioni appaganti per un romanzo che anela a trovare una forma definitiva. Missione impossibile sia per Stefano Pirandello, che per Simone Gei, che non di rado sentono pesare l’incognita del fallimento.

Il libro segue schemi fluidi, irti di svariate possibilità, tanto che la vicenda sembra rimanere nella più totale indeterminatezza. La stessa situazione è narrata con diversi registri, quasi a fare il verso alla ricerca, ai ripensamenti, ai tanti modi dello scrivere con cui l’autore stesso si confronta. Da tutto ciò scaturisce un romanzo difficile, spezzato, a tratti confusionario, con una molteplicità di personaggi che specialmente all’inizio sono ricondotti con difficoltà alla sfera dell’uno o dell’altro romanzo.

Nell’opera si erudisce il lettore anche su particolari tecnici e compositivi della storia, come ad esempio, nel caso di Simone Gei, l’indecisione sullo stile al quale affidare la sua narrazione. Egli tenta differenti stesure, spesso su consiglio del Macònio: un primo avvio di getto, volto ad assecondare i moti dell’immaginazione, una seconda stesura caratterizzata da un fare più equilibrato, disteso e maturo, una terza stesura ironica, poi una favolistica e,

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infine, quella che avrebbe dovuto garantire la fama alla sua opera, la stesura

maxima.

Tipicamente metaromanzeschi sono anche i dialoghi tra Simone e il figlio Jacopo aventi come oggetto la genesi del romanzo su Selikdàr; come già detto, il primogenito era il principale interlocutore del padre, oltre ad essere colui al quale lo scrittore si affidava per la lettura dei suoi progressi, delle perplessità e dal quale accettava (talvolta con un po’ di rammarico) le critiche:

«Jacopuccio disse: “Ma scusa, papà: e il Macònio? Avevi cominciato il capitolo col Macònio. Dov’è? Lo sto aspettando”. “Non si capisce che tutte queste cose avvengono sotto il suo influsso?”

“ Mi rincresce disingannarti: non si capisce”. “Be’ troverò il modo, mi verrà. Avevo in mente, figurati, di far coesistere tre quattro inverosimiglianze sbalorditive, e da questi lampi far sorgere come un fantasma quello che chiamo il Macònio […]”.

E intanto cambiava il foglio sulla macchina da scrivere».55

O ancora:

«Ora, ecco la prima impressione di Jacopo, che aveva allora quattordici anni: […] “Temo che cadiamo nell’eccesso opposto, d’andare troppo a rilento.” Rimpiangeva insomma le prime movenze impetuose del racconto in quella forma del primissimo avvio, di cui egli era stato l’unico lettore e sostenitore appassionato, quasi compartecipe.

[…] “ Il bene che farà questo libro, papà”!

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[…] Il padre respinse però l’obiezione: lui sentiva così, pieno di fede in quel favoleggiare, e a condursi diversamente gli sarebbe parso di venire obbligato alla cosa più orribile di tutte: quella di “fare altro” ».56

Anche prima di morire l’ultimo desiderio di Jacopo era rivolto all’opera paterna, la sua preoccupazione più grande era infatti che il padre la portasse a compimento, non facendosi distogliere dai dubbi della madre e da quelle fisiologiche difficoltà che la stesura di un romanzo porta sempre con sé:

«Scrivi il tuo libro, papà! Il nostro libro: devi, sai, devi».57

All’inizio del libro Simone Gei è intento a scrivere con l’unica indecisione tra le diverse stesure possibili, ma un’analessi ci presenta lo scrittore impegnato in un differente soggetto e convinto a cambiare idea da un amico scrittore, Duccio Ruffani di Vastogiardi, che alletta Gei attraverso la descrizione di una storia che avrebbe potuto esaltare il contemporaneo regime fascista e garantirgli quindi l’agognato successo. A questo proposito, risulta interessante osservare come all’interno del romanzo pirandelliano venga descritta minuziosamente la genesi del romanzo fittizio, l’abbozzo della sua trama e il particolare che l’idea non sia venuta allo stesso autore ma ad un personaggio finora estraneo alla narrazione.

«”Be’: il soggetto che fa per te - sparò due giorni dopo Ruffani-, te l’ho trovato io! Di una naturalezza unica, addirittura un caso vero, pensa! È un pezzo grosso della Dreda, sì un

56 Ivi, p. 157 57 Ivi, p.237

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collaboratore di Galidoni, col quale sono entrato in rapporto per ragioni d’ufficio, e ora siamo in piena confidenza. –E domandava all’amico se per caso non ne avesse già sentito parlare: un Albanese, dal nome esotico.

[…] Appena lo aveva conosciuto: una rivelazione! Subito aveva pensato all’amico scrittore. –Eè eaè, il tipo stesso! Vedrai! Ne sono sicurissimo, vedrai che personaggio ti può diventare!».58

Ruffani fa leva su un intimo desiderio di Gei, quello di avvicinarsi alla gloria che, a detta dell’amico, avrebbe certamente ottenuto compiacendo il regime con questo romanzo:

«Un uomo così, tu non ne hai mai incontrati. E questa è materia tua! Non ti stupire. Tu finora hai avuto troppi ritegni. Ma devi deciderti, se vuoi quella reale affermazione che tutti ci aspettiamo da Simone Gei! Più spazio! Fuori dei soliti giretti! La vita di famiglia, via… La tua fantasia ha bisogno d’affrontare il grande soggetto: un bel soggetto avventuroso! Purché rientri nei tuoi temi, e questo, ci rientra perfettamente!».59

Quasi un anno dopo che Simone aveva iniziato la stesura del romanzo,

Ruffani si presenta a casa sua con la pretesa di appurare i progressi del libro; dopo averlo letto però egli esprime le sue perplessità all’amico scrittore, soprattutto in merito ai lunghi tempi di stesura necessari a Gei. Quest’ultimo rimane abbastanza colpito dalle parole dell’amico e soprattutto viene preso dallo sconforto immaginando che se, come gli prospettava Ruffani, il libro non fosse più stato utile alla propaganda del regime, lui non avrebbe ottenuto la fama sperata. Così, come succederà

58 Ivi, pp. 92-93 59 Ivi, P. 94

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anche un’altra volta, Gei viene colto dal desiderio di abbandonare il progetto e dedicarsi ad altro, ma a farlo desistere sarà la moglie Lora, che, seppur inizialmente contraria a questo soggetto, sprona il marito a portarlo a termine.

«E i suoi fogli presero a risollecitarlo. Senz’accorgersene si riconcentrò a leggere per conto suo: il racconto tornava a parergli nient’affatto male; a scorsa d’occhio la lettura procedeva spedita».60

La forma metaromanzesca si riscontra anche all’interno dell’opera di Simone Gei; ad un certo punto del romanzo infatti Cesira, la moglie di Selikdàr, esasperata dal comportamento apatico del marito, decide di suggerirgli la stesura di una lettera con la quale avrebbe dovuto mettere definitivamente fine al rapporto con la madre (e quindi rinunciare a compiere la vendetta che lo aveva angustiato per la maggior parte della sua esistenza), mediante un «matricidio per lettera». Anche Selikdàr tenta diverse stesure prima di approdare a quella definitiva; il contenuto delle lettere è sempre lo stesso: egli informa la madre di non poter andare in Albania a trovarla, le ribadisce il suo affetto e quello della sua famiglia e la invita a fare una visita in Italia. Ciò che differenzia le stesure è invece la forma: la prima è più sincera nella formulazione del contenuto, priva di giri di parole arriva direttamente al punto, ma, allo stesso tempo, appare più

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formale («Cara madre»), inoltre questa prima lettera è molto più corta della seconda, in quanto l’autore sente immediatamente l’inadeguatezza dello scritto e decide di sostituire il foglio e ricominciare; la seconda stesura ha un incipit più familiare («Cara mamma»), ma presenta un contenuto molto più incentrato sulla retorica:

«Quello che conta, cara mamma, sono i sentimenti, i sentimenti che vanno dritti da un cuore a un altro come uccelli al nido volando, e non le cose materialmente, le persone di una famiglia che per ritrovarsi sono obbligate a lunghi viaggi difficoltosi e sovente irrealizzabili».61

O ancora:

«Ora, badando ai sentimenti, se c’è al mondo uno che sia rimasto figlio di sua madre, questo sono io rispetto a Voi, santissima mia genitrice. Signora mia, Voi siete la mia stella polare, da quel cielo eterno che più non si consuma, quale oggi mi appare la nostra antica vita di madre e figlio […].

Dal cielo che fu dimora nell’età felice, si stacca chi viene a vivere in terra. Ma la vista del cielo accompagna il cammino. Voi, siete questo cielo».62

Sarà proprio quest’ultima la forma definitiva che Selikdàr conferirà al suo scritto, impegnato nell’immaginare un colloquio diretto e intimo con la madre, fatto di toni accesi e rancori inespressi, un dialogo per la prima volta alla pari, privo di ruoli e di quella soggezione che egli aveva sempre nutrito nei confronti della propria genitrice.

61 Ivi, p. 282 62 Ivi, pp. 283-284

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Mentre è intento a scrivere questa parte del romanzo su Selikdàr, anche Simone Gei, insieme al suo personaggio, intavola un immaginario colloquio con il padre e, ipotizzando di riallacciare i rapporti con lui, pensa di «farla finita» col suo romanzo e di abbandonarne la stesura per dedicarsi ad un nuovo libro avente per soggetto la sorella Gisa e di rimando l’intera storia familiare. Il racconto su Selikdàr lo impegna molto, ma è ormai chiaro che non sarà quel romanzo a recargli il successo sperato, quindi perché non concentrarsi su qualcosa che avrebbe almeno migliorato i rapporti familiari?

Inoltre questo nuovo progetto aveva ottenuto il pieno appoggio da parte della moglie Lora, ma non completare la storia di Selikdàr significava abbandonare l’idea di rappresentare le loro vite “ a specchio”, di espiare in qualche modo quella colpa che Simone sentiva di avere, e inoltre avrebbe costituito un’inadempienza alla promessa fatta in punto di morte al figlio Jacopo di scrivere il libro che avevano progettato insieme.

A differenza di Selikdàr, Simone abbandonerà il suo proposito di chiarire su carta il proprio conflitto familiare, decidendo di proseguire con la stesura del romanzo che verrà comunque abbandonato sul finire di Timor Sacro; dopo aver iniziato la stesura «maxima», ossia quella definitiva, Gei opta nuovamente per un soggetto differente, lasciando tronca e priva di finale la

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storia dell’albanese, per tornare pieno di nuovi propositi al soggetto a cui stava lavorando all’inizio del romanzo pirandelliano:

«La vera storia era la prima! E la forza ch’essa ripigliava da questa sua coerenza sbalorditiva fu tanta da fargli addirittura riaffiorare le parole- cenere, da tanti anni – con cui cominciava il primo getto del romanzo: “ Alla Patria nostra il merito di questa storia vera. E lode a noi! Il solo fatto che sia accaduta è un segno della nostra grandezza”».63

Emerge dunque ancora un nuovo progetto con un conseguente cambiamento di temi e soggetti, un romanzo patriottico questa volta, che complica ulteriormente la fitta rete di trame, passi, autori e stesure, facendo apparire il romanzo di Stefano Pirandello quasi come una sorta di matrioska contenente ogni volta un racconto differente. Risulta abbastanza arduo stabilire se questo sia il punto di forza o di maggiore debolezza del romanzo; certo è che la lettura non viene in alcun modo facilitata da un simile tipo di struttura, continuamente frammentata e a tratti confusionaria.

Nel terzo capitolo del romanzo, la narrazione in prosa cede il passo alla composizione poetica: si tratta di alcuni versi che Simone inserisce all’interno di un racconto fatto a Lora, relativo ai giorni del loro primo incontro a Viareggio:

«Poche le creature belle.

Non più numerose di quelle dell’arte, le Immagini. E tutto il resto della gente siamo,

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81 o amata, consolati, ma senza altra cura. Non per piacere alla vista, insomma! E allora che tu sia brutta, o amata, è opinione di gente distratta

che il tuo stesso cuore adotta umiliato. Ma io che vedo meglio, io ti vedo quale tu pure sai

quando la vita che sveli rende grata la tua presenza

e “come sei bella”, dice il mio cuore ammirato».64

Questi versi costituiscono un tentativo da parte di Stefano Pirandello di cimentarsi con il genere lirico; il loro significato è perfettamente funzionale al tema della narrazione in quanto si afferma che Lora pur non essendo propriamente di bell’aspetto, è dotata di grandi qualità morali che il fidanzato-poeta rivede in lei.65 Pirandello era stato nel corso della sua carriera anche autore di una raccolta di liriche intitolata Le Forme, uscita nel dicembre 1942 e distribuita a partire dal febbraio 1943 sempre presso l’editore Bompiani; la raccolta confermava la propensione dell’autore a dar voce al suo mondo interiore.

64 Ivi, pp. 122-123 65

Per il tema dell’aspetto fisico di Lora cfr. anche p. 120: «Ma lo faceva anche per accostarsi segretamente a lei, alla Girard che, in felicissima, più di lui si angustiava d’esser brutta. Miserella e troppo nera e veramente tutta ossa. Una che con quelle ossa respinge!».

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Da quanto detto si evince che più che raccontare una storia Stefano Pirandello affronta la questione del processo dello scrivere; il romanzo parlando di sé stesso diventa autoreferenziale, in grado non solo di sottolineare la distanza fra realtà e finzione, ma di dare la sensazione della vanità di ogni tentativo di commisurare l’una con l’altra. Lo scrivere in questo caso non consiste più nel raccontare una storia, ma nel dire che la medesima storia si racconta; la lettura risulta dunque un viaggio continuamente interrotto e ripreso per altre vie.

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3.2 Il linguaggio

La prosa di Stefano Pirandello è abbastanza complessa e intricata e potrebbe essere, per certi versi, considerata un altro degli aspetti che contribuiscono a rendere ardua la lettura di Timor Sacro. L’impressione che ha il lettore è quella di un linguaggio che si caratterizza per l’associazione di termini contraddittori, in uno stile aspro e contorto, ricco di similitudini e metafore, con continui riferimenti a concetti filosofici e a immagini dotte.

Tra le caratteristiche principali di un simile tipo di scrittura spicca indubbiamente l’utilizzo di un periodare lunghissimo, ricco di incidentali che fanno perdere facilmente il filo del discorso; costituisce un valido esempio un passo tratto dal IV capitolo dal quale, tra l’altro, è possibile evincere anche il ricorso ad un linguaggio poco usuale di cui si parlerà in seguito:

«Nel suo linguaggio segreto l’espressione fare altro, non certo univoca, divenuta man mano applicabile a casi svariatissimi, sgorgava in genere dal grembo duro dell’avvenimento eteronomo, cotidiano-eteronomo: dove chi manca ai patti è la fonte stessa della norma è lei che contravviene, natura “matrigna” che, te, ti ha tradito proprio nel tuo innestarti in quell’ordinamento armonioso che la fa natura per tutti quanti gli altri della tua specie, quanto, nella stessa guisa, l’Autorità nell’atto in cui essa ti angaria prevaricando (il più vile di tutti, vile, tutto vile, il magistrato che cavilla) e proprio lì si sente e si gode autorità piena (sua, di lui carnale, maledetto) da cui siamo fomentati a uno stato latente di rivolta».66

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Una seconda peculiarità è l’uso continuo di espressioni tratte dal dialetto siciliano, sia nella costruzione della frase, in cui si trova spesso la collocazione del verbo alla fine, sia in alcune forme grammaticali tipiche:

«E ora l’anno è passato: la tregua solo un anno dura».67 «Solo come sono, resto. Disperato resto».68

«Tu? Un uomo? Tu sei un uomo! Statti cogli uomini!»69

La lettura del libro richiede spesso una sosta utile a fare l’analisi logica

del periodo e poi andare avanti, a causa della tendenza di Stefano Pirandello di avvalersi di un linguaggio a tratti filosofeggiante e astruso, che non rimane tuttavia sempre tale, dunque mentre il lettore è impegnato in un passo scorrevole e avvincente del romanzo viene bruscamente interrotto da periodi ingarbugliati e a tratti oscuri.

Ad esempio, nel VI capitolo si narra della stroncatura della stesura del romanzo di Simone Gei da parte di Duccio Ruffani; ad un certo punto Gei, nella solitudine della notte, è intento a riflettere sulla possibilità di continuare a lavorare alla stesura o abbandonare definitivamente il soggetto, ma si perde in considerazioni tanto intricate quanto oscure:

67 Ivi, p. 147 68 Ivi, p. 179 69

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«Mirare – come si dice? – una desidia, o inerzia stranamente paziente, e così calare, far calare di tono i suoi slanci al trascendere. Se desistesse? Vivere per se solo, senza più scomodarsi. Strascicare i piedi a un balconcino che da qualche parte doveva esserci in casa; s’assestava le lenti, chissà che in campo non venga a prodursi qualcosa dal mondo esterno, un richiamo da accogliere col distratto fischiettio (stonato) dell’indifferenza; eppoi colpetti sulla bocca, fitti, per imitare dagli stupidelli, a mezza voce, l’ululio di guerra dei pellerossa. Eppoi cacciare tanto di lingua e gonfia vibrante la gran pernacchia. Dato che gli veniva puncichio agli occhi. Il nostro libro lui non lo scriverà! Poiché è un fintone».70

Il passo fornisce anche un esempio della lunghezza e della tortuosità di alcuni periodi, della perdita delle certezze delle definizioni logiche e dello smarrimento dei sistemi di riferimento linguistici. Al contrario si sovrappongono vari linguaggi i quali creano un dedalo di strutture semantiche e sintattiche differenti.

Va, inoltre, sottolineata la ricorrente mancanza del discorso diretto e il frequente incorrere dell’autore in ripetizioni spesso volute come dimostrano i seguenti esempi:

«[…] chiedo scusa di aver guastato la serata. Livio usciva con eleganza dopo un cenno d’inchino».71

«Solo come sono, resto. Disperato, resto. Lo strazio, tutto mio, che farete nascere in questo corpo mio».72

«[…] occorre solo che tu non abbia timore, mai timore. Ti affiderai a me. Io sarò dolce dolce. Chiama in te il puro silenzio, il gran silenzio, non serve altro».73

70 Ivi, p. 233 71 Ivi, p. 175 72 Ivi, p. 179 73 Ivi, p. 199

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Tuttavia, la caratteristica più saliente della scrittura di Pirandello rimane il costante ricorso all’utilizzo di un linguaggio arcaico e desueto, probabile retaggio dei suoi studi giovanili prevalentemente classici; l’autore è solito utilizzare una mescidanza di termini colloquiali ed espressioni oscure o quasi del tutto cadute in disuso, che vengono collocate per lo più nei contesti di riflessione e lontane dai dialoghi. «Ribaldo», «trombonate», «drizzone», «antivedere», «sangue tepente», «brame belluine», «strologare», «d’oro rutilante formite», «tralignato», «ubbia» e «casa fidente» sono solo alcuni dei numerosissimi esempi che si potrebbero citare.

Il linguaggio sembra inoltre risentire fortemente dello stile tragico caro a Stefano Pirandello, la cui produzione letteraria è incentrata per la maggior parte sulla stesura di tragedie, e la considerazione che Timor sacro è il romanzo di “una vita”, giustifica in qualche modo le sue scelte stilistiche; nella tragedia vanno infatti privilegiate le parole dotate di carica espressiva e il ricorso a complesse costruzioni sintattiche allo scopo di elevare il tono dei versi.

Sul piano stilistico l’autore mette in risalto la frammentarietà, grottesca ma forte, dell’umanità che vuole rappresentare, sul piano grammaticale sembra dare priorità all’espressione indisciplinata.

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All’interno di questa complessa e caleidoscopica varietà linguistica anche i personaggi del romanzo si esprimono in maniera differente a seconda della loro caratterizzazione; così ad esempio il Macònio, novantanovenne saggio e colto, utilizza un linguaggio più propriamente filosofico e moraleggiante; il suo ruolo è infatti quello di consigliere, ma i suoi discorsi si perdono spesso nei meandri della storia, della politica e, più semplicemente, dell’oscurità, egli ha sempre delle idee particolari da esprimere anche in merito a cose semplici che si mescolano puntualmente con astrazioni e esempi letterari:

« - Sempre ribatterei sulla pelle, quei seimilatrecentosettantuno chilometri che fanno il raggio di una sfera d’ugual volume della Terra. Guardate questa fotografietta (ne distribuiva in giro delle copie): ci si vede me, nudo nato, col braccio sul collo di ‘N Quarìt, lo scemo della tribù dei Boscimani, nudo nato anche lui. Mi è costata di solo viaggio un patrimonio.

Vedete che sembriamo gemelli? Mentre un Goethe che dal livello del mare sporge quanto lo Himalaia per un ottomila metri, sotto (quanto a profondità) chi non gli accorda in corrispondenza almeno un ottomila chilometri tutti suoi, di lui? […] Visto che l’uomo, lui solo è quello che ha la Terra per patria ideale di una irrefutabile storia documentata dall’archeologia, dal verum-factum dall’uomo di Neanderthal fino al mostricino del prossimo 1969mila quasi privo di gambe e rievolvente al feto quanto al testone -».74

Un altro personaggio fortemente caratterizzato anche dal punto di vista linguistico è Alì Sèqet, il monaco che diventa precettore di Selikdàr all’interno del monastero dei Betgascì; anch’egli era un vecchio saggio che

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non usciva mai dalla sua cella, vivendo circondato solo da migliaia di libri, finché Selikdàr non fece rinascere in lui il desiderio di insegnare. Il suo eloquio è caratterizzato da continui paragoni tratti dal mondo della scienza, dal mondo animale e dal trascendente, oltre che dall’amore e dall’abnegazione per lo studio e la cultura:

«Questo ragazzo veramente mi ridona l’esser mio tra noi, mi riporta tra quegli unici esseri sovrannaturali che, nel creato incapace di fingere e tutto naturale albero o stella, siamo noi uomini. Aver trovato uno che mi seguiti: è questo. Mentre io morivo tutto, come una bestia. Una bestia stranissima, sapiente: ma bestia».75

Nel labirinto di significati di Timor sacro si muovono dunque personaggi multiformi, che si incrociano nelle vie come se rappresentassero nel loro insieme un alter ego eclettico e contorto che cavalca le parole, private spesso del loro valore significativo.

In conclusione è ipotizzabile che la scelta linguistica di Pirandello sia legata alla convinzione che la letteratura non può essere specchio o testimonianza del reale, ed è velleitaria ogni identificazione tra vita e arte e nella certezza che la profondità si cela in superficie, nelle azioni consuete e banali del quotidiano.

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