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Capitolo 1 La rovina dello Stato in Spinoza

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Capitolo 1

La rovina dello Stato in Spinoza

1. Premessa

Sebbene Spinoza non dedichi capitoli specifici alla dissoluzione dello Stato, la tematica della decadenza affiora in diversi luoghi dei suoi scritti. Il dissolvimento dello Stato può essere descritto accuratamente o soltanto accennato: in entrambi i casi, l’attenzione del filosofo è rivolta non tanto all’inevitabile processo di dissoluzione dei corpi politici, quanto piuttosto ai possibili rimedi, agli interventi politici che possono essere messi in atto per salvare lo Stato dalla sua rovina. È attraverso la lente delle soluzioni e dei rimedi per prevenire il crollo che si analizzano le pagine del Trattato teologico-politico e del Trattato politico, che costituiscono l’oggetto d’indagine di questo capitolo.

Nel pensiero di Spinoza la storia degli ebrei occupa un posto di rilievo come esempio di fondazione dello Stato. In queste pagine viene ricostruita, per sommi capi, la storia della Respublica Hebraeorum, prendendo avvio dalla genesi delle sue istituzioni, dopo l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto. L’attenzione è rivolta a esaminare le ragioni profonde della decadenza e a mettere in luce i meccanismi che, dall’interno, conducono alla dissoluzione dello Stato. Dal caso ebraico il filosofo di Amsterdam estrae dei principi politici validi universalmente, spostando così l’attenzione dal caso particolare al piano più generale della teoria dello Stato.

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In questo capitolo, si analizza il machiavelliano “ritorno ai principi” alla luce del pensiero di Spinoza. Nel Trattato politico Spinoza esamina, sulla scia di Machiavelli, le cause di dissoluzione dello Stato, proponendo dei rimedi per salvarlo dalla crisi e valutandone l’efficacia. Dopo aver ragionato su questo tema, si esaminano i fattori che favoriscono la stabilità dello Stato, validi per qualsiasi forma di governo. Nell’ultimo paragrafo si pongono le questioni dell’eternità e della durata dello Stato, su cui Spinoza non sempre ha una posizione definita.

2. La storia della Respublica Hebraeorum: genesi e sviluppo

Nel capitolo XVII del Trattato teologico-politico, Spinoza narra la storia degli ebrei prendendo avvio dall’uscita del popolo dall’Egitto1. Una volta liberati dal giogo egiziano, gli ebrei rientrano in possesso del proprio diritto naturale e possono scegliere: o mantengono il proprio diritto, oppure se ne privano, trasferendolo a un altro individuo. Di fatto, la situazione in cui vengono a trovarsi gli ebrei nel deserto è paragonabile alla condizione dello stato di natura2. Su consiglio di Mosè, gli ebrei decidono di trasferire il proprio diritto a Dio, in modo da evitare di trasferirlo a una suprema potestas mortale. Spinoza descrive in tal modo il primo patto3, in cui gli ebrei si privano liberamente,                                                                                                                

1 Per la storia dello Stato ebraico in Spinoza si veda S. ZAC, Spinoza et l’état des Hébreux, in Speculum Spinozanum 1677-1977, Routledge and Kegan Paul, Londra 1977, pp. 543-571; cfr. anche G. SACCARO BATTISTI, Sistemi politici del passato e del futuro nell’opera di Spinoza, «Giornale critico di filosofia italiana», VIII, 1977, 3-4, pp. 506-549.

2 È Spinoza stesso a puntare l’attenzione su questa condizione. Cfr. B. SPINOZA, Tractatus theologico-politicus, [1670], ed. italiana a cura di Pina Totaro, Bibliopolis, Napoli 2007, (da qui in avanti indicato con la sigla: TTP), cap. XVII, p. 406.

3 Si consideri brevemente il primo patto, stipulato all’unanimità (nel TTP Spinoza ricorre all’espressione “uno clamore”). Gli ebrei promettono di obbedire ai comandamenti divini: l’alleanza è, infatti, la promessa con cui gli ebrei si vincolano al volere divino. Il patto è espressione di una volontà, che segna una cesura netta fra stato di natura e società politica, pur trattandosi di una società politica agli esordi. Dio

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senza essere costretti né minacciati, del proprio diritto naturale, trasferendolo a Dio. In un primo momento si riuniscono al cospetto di Dio per ascoltare i suoi comandi, ma, atterriti dall’udire la voce divina, si presentano a Mosè, chiedendogli di ascoltare le parole di Dio e di riferirle loro. Gli ebrei si impegnano così ad obbedire e ad eseguire ciò che Dio avesse detto a Mosè. Con queste parole, gli ebrei abrogano il primo patto e trasferiscono a Mosè il loro diritto naturale di consultare Dio e di interpretare i suoi ordini. La stipulazione del primo patto, all’atto pratico, si dimostra insufficiente4. Gli ebrei, infatti, non trasferiscono il loro diritto naturale a nessun mortale, ma tutti egualmente si privano del loro diritto e dichiarano di rispettare i decreti divini; da ciò segue che tutti, dopo questo patto, rimangono perfettamente uguali tra loro: nessun individuo si eleva al di sopra degli altri con il titolo e la dignità di sovrano, poiché il diritto viene affidato a Dio. Anche dopo il primo patto, rimane il problema dell’effettiva amministrazione del potere: in questa circostanza Spinoza descrive il passaggio dal primo al secondo patto. Con l’espressione “secondo patto” si intende il trasferimento del diritto naturale a Mosè, che si pone come termine medio fra Dio e il popolo. Rimane ferma l’obbedienza da parte dei membri del popolo, ma cambia il soggetto cui si deve obbedire: prima a Dio, poi a un mortale5. Dopo il secondo patto, infatti, Mosè rimane il                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

ha stretto un’alleanza con gli ebrei soltanto dopo aver manifestato la sua potenza con i miracoli che hanno condotto il popolo fuori dall’Egitto. Il motivo portante dell’impegno degli ebrei è la speranza nella potenza di Dio, che è presso di loro con la promessa di conservarli nell’avvenire, come ha già fatto in passato. Se gli ebrei trasferiscono il loro diritto naturale a vantaggio di Dio, quest’ultimo, proteggendo il suo popolo, si assume il compito di attuare le condizioni necessarie alla sua esistenza.

4 Hobbes sostiene che non si possa stipulare un patto con Dio, senza una mediazione. Cfr. T. HOBBES, Leviatano, a cura di Raffaella Santi, Bompiani, Milano 2001, I, cap. XIV, §23, p. 227: «Fare un patto con Dio è impossibile, a meno che non ci sia una mediazione, come quando Dio ci parla o con una rivelazione sovrannaturale o tramite i suoi luogotenenti, che governano sotto di lui e in suo nome. Altrimenti, infatti, non sappiamo se i nostri patti vengono accettati oppure no».

5 Occorre soffermarsi brevemente sulle motivazioni che conducono alla stipulazione del secondo patto. La ragione addotta da Spinoza consiste nello spavento degli ebrei nel momento in cui si accostano a Dio. La paura, dunque, sarebbe il motivo che spinge gli ebrei a radunarsi presso Mosè. A questo motivo si aggiunge una motivazione pratica, nella misura in cui il popolo ebraico, una volta trasferito il proprio jus a Dio, non sa come gestire effettivamente l’amministrazione del potere. A ben guardare, al termine del patto, gli ebrei hanno tutti lo stesso diritto di partecipare all’amministrazione dello Stato, di consultare

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solo promulgatore e interprete delle leggi divine; soltanto Mosè ha il diritto di consultare Dio, di comunicare al popolo i responsi divini e di costringerlo ad eseguirli.

Per comprendere i motivi che hanno causato il declino dello Stato degli ebrei, occorre analizzare l’amministrazione del potere dopo la morte di Mosè. Alla sua scomparsa si accompagna la costruzione di un nuovo equilibrio di forze e poteri all’interno dello Stato ebraico. Il sommo pontefice diventa interprete di tutte le leggi divine e può riferire i responsi divini, non a suo piacimento, ma su richiesta dell’imperator o del summum concilium. Egli ha inoltre il compito di supplicare Dio a vantaggio del popolo e di educare i cittadini6. Il sommo pontefice è scelto all’interno della tribù dei Leviti; su indicazione di Mosè stesso, il primo pontifex è Aronne e il suo successore è il figlio Eleazaro. Dopo la morte di Eleazaro, nessuno ha il diritto di eleggere il pontefice e all’elezione subentra la successione ereditaria dal padre al figlio. Mosè nomina suo fratello Giosuè imperator, cioè comandante supremo dell’esercito. Egli può consultare Dio, anche se con alcune limitazioni7, può convertire i comunicati del pontefice in decreti ufficiali, può scegliere i capi dell’esercito, nominare gli ambasciatori all’estero e decidere con potere assoluto sulla pace e sulla guerra. Quella dell’imperator è una carica transitoria, poiché, non essendo stabilita una regola di successione, dopo la morte di Giosuè, questa carica decade.

Il popolo ebraico è suddiviso in tribù. A capo di ciascuna tribù viene eletto un princeps; probabilmente assume la carica di princeps il più anziano fra tutti i seniores, che sono gli anziani delle familiae che compongono ciascuna tribù. La carica di capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  capo-  

Dio e di ricevere e interpretare le leggi. In tal modo, la presenza diretta dell’autorità divina sembra sfumare nell’illusorio.

6 TTP, cap. XVII, p. 423: «A ciò si aggiunga che all’intero popolo fu prescritto di riunirsi ogni sette anni in una determinata località, per apprendervi le leggi dal sommo sacerdote».

7 A differenza di Mosè, Giosuè può consultare Dio non in privato nella propria tenda, ma per mezzo del sommo pontefice e non su qualsiasi materia, ma solamente in ambiti non ancora codificati. Cfr. TTP, cap. XVII, p. 415.

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tribù è attribuita non per diritto di sangue, ma secondo il criterio dell’età; al princeps spetta l’amministrazione del potere, limitatamente alla propria tribù. Dopo la morte di Giosuè, ogni tribù diventa autonoma dal punto di vista politico e amministrativo8. Le funzioni dei principi sono distinte: essi possono consultare Dio a proposito della gestione della propria tribù, ma sempre mediante il sommo pontefice; essi, inoltre, devono comandare il proprio esercito, fondare le città e fortificarle, istituire i giudici di ogni città, combattere i nemici dello Stato, decidere gli affari della pace e della guerra. Tranne la tribù dei Leviti, tutte le altre hanno un’equa porzione di terra da gestire. All’interno del quadro organizzativo dello Stato ebraico, la tribù dei Leviti costituisce un’eccezione rispetto alle altre tribù, poiché non possiede l’esercito, non ha diritto di proprietà della terra, non ha potere civile, ma amministra il potere religioso. Dopo la morte di Mosè, i poteri vengono divisi e si può sostenere, a ragione, che Mosè abbia scelto «degli amministratori, e non dei dominatori dello Stato»9. La stabilità dello Stato degli ebrei si fonda sulle capacità mosaiche di previsione e di organizzazione di istituzioni durature. Scegliendo non un unico detentore del potere, ma diversi amministratori del tempio e delle città, Mosè dimostra di voler costruire un sistema politico equilibrato, fatto di pesi e contrappesi. Nel Trattato teologico-politico Spinoza ribadisce:

                                                                                                               

8 TTP, cap. XVII, pp. 417-19: «Fu dunque per questo motivo che Mosè scelse i capi delle tribù, ovvero affinché, dopo la divisione dello Stato, ciascuno provvedesse alla propria parte, cioè a consultare Dio tramite il sommo sacerdote, in merito ai problemi della propria tribù, a prendere il comando della propria milizia, a fondare e fortificare città, a insediare giudici in ognuna di esse, ad aggredire il nemico del proprio Stato particolare, e ad amministrare assolutamente tutti gli affari della guerra e della pace». 9 TTP, cap. XVII, p. 415. Spinoza spiega: «Infatti, [Mosè, ndr] non attribuì a nessuno il diritto di interpellare Dio, in solitudine e dovunque, e conseguentemente a nessuno attribuì l’autorità, che egli invece aveva, di promulgare e di abrogare le leggi, di decidere della guerra e della pace, di eleggere gli amministratori tanto del Tempio quanto delle città: uffici, questi, che sono propri di chi detiene la suprema autorità».

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É sufficiente che io abbia mostrato che nessuno, dopo la morte di Mosè, svolse tutti gli uffici di una suprema autorità. Infatti, dal momento che tutte le decisioni non dipendevano da un solo uomo, né da un solo concilio, né dal popolo, bensì alcune erano di competenza di una sola tribù, altre delle restanti, e sempre con pari diritto, ne consegue con grande chiarezza che, a partire dalla morte di Mosè, lo Stato non fu monarchico, né aristocratico, né popolare, ma (come abbiamo detto) teocratico10.

Per spiegare i fondamenti dello Stato teocratico, Spinoza attribuisce un ruolo decisivo al Tempio, che rappresenta il cuore della Respublica Hebraeorum11. Costruito a spese dell’intero popolo, il Tempio è di diritto comune, affinché tutti possano egualmente interpellare Dio12. La confederazione delle tribù di Israele poggia sulla condivisione del Tempio. Inoltre, l’obbedienza dei cittadini a Dio costituisce un saldo vincolo dello Stato teocratico13, tanto che, anche in guerra, il comandante supremo di tutte le tribù è scelto e indicato da Dio. La milizia cittadina impedisce o limita gli abusi di potere da parte dei capi che, non potendo assoldare milizie mercenarie, non possiedono gli strumenti per opprimere il popolo. A costituire un punto di forza dell’organizzazione dello Stato ebraico è l’equa distribuzione della terra fra le tribù, sulla cui importanza ha insistito principalmente Petrus Cunaeus14 nel suo De Republica Hebraeorum15, pubblicato a                                                                                                                

10 TTP, cap. XVII, p. 421. Sulla costituzione di uno Stato teocratico per mano di Mosè Spinoza insiste anche in TTP, cap. XVII, p. 413.

11 Su questo punto si veda D. DI CESARE, De Republica Hebraeorum. Spinoza e la teocrazia, «Teoria», XXXII, 2012, 2, p. 224.

12 TTP, cap. XVII, p. 413.

13 Cfr. TTP, cap. XVII, pp. 421-423: «Tutti i cittadini dovevano giurare fedeltà a Dio, loro supremo giudice, al quale soltanto avevano promesso assoluta obbedienza in tutto».

14 Petrus Cunaeus (1586-1638) nasce nei Paesi Bassi, si forma all’Università di Leida, dove studia greco ed ebraico. Approfondisce anche lo studio del latino e del diritto. Nel 1614 ottiene la cattedra di politica e diritto a Leida. Ormai noto a livello internazionale in qualità di ebraista e studioso di diritto e politica, Cunaeus prende parte al Sinodo di Dordrecht (1618-1619), dove viene costretto a discolparsi per alcune tesi contenute nelle sue opere.

15 Il De Republica Hebraeorum, stampato presso gli Elzevier, è un’opera che riscuote enorme successo, tanto da essere riedita più volte: a Leida nel 1631, ad Amsterdam nel 1665, a Lipsia nel 1696, solo per citare alcuni esempi. La diffusione del testo a livello europeo è testimoniata anche dalle traduzioni che

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Leida nel 1617. La tesi dell’ebraista olandese è che vi sia un nesso inscindibile tra la distribuzione della terra in parti eguali e la stabilità dello Stato e, in particolare, che la legislazione agraria consenta allo Stato ebraico di mantenere la stabilità sociale16.

La breve ricostruzione della storia dello Stato ebraico, affrontata in queste pagine, serve ad illustrare le fondamenta su cui è costruito lo Stato degli ebrei. Questa descrizione è imprescindibile se si vogliono comprendere i motivi della decadenza e, in particolare, i meccanismi che agiscono in profondità e che portano lo Stato ebraico dapprima a vacillare, poi a crollare definitivamente17.

3. La decadenza dello Stato ebraico

Nel capitolo XVII del Trattato teologico-politico, dopo aver descritto la storia dell’antico Israele, Spinoza ricerca le cause che hanno condotto lo Stato ebraico alla rovina. Il filosofo di Amsterdam scarta la fierezza e la disobbedienza del popolo come possibili cause del declino dello Stato degli ebrei, trovando questa spiegazione troppo debole, poiché non è possibile dimostrare come il popolo ebraico fosse, per natura, più

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

vengono preparate: una traduzione inglese (Londra, 1653), una olandese (Amsterdam, 1682) e una francese (Amsterdam, 1705).

16 È proprio per evitare i rischi e le minacce di uno Stato instabile che vengono introdotte le leggi agrarie, le quali, garantendo un grado maggiore di aequalitas, estirpano alla radice le condizioni di sperequazione e preservano i valori morali che caratterizzano la comunità.

17 Va notato che gli ebrei si mantengono anche senza uno Stato, uniti dall’odio delle altre nazioni nei loro confronti. Cfr. TTP, cap. III, p. 103: «Né deve minimamente stupire che siano sopravvissuti, benché dispersi per tanti anni senza uno Stato, dal momento che si isolarono da tutte le altre nazioni al punto di attirarsi l’odio di tutti, e ciò non solo per i loro riti esteriori – riti opposti a quelli delle altre nazioni -, ma anche per il segno della circoncisione, che essi osservano con grande scrupolo religioso».

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fiero o più disobbediente delle altre popolazioni18. L’origine della degenerazione dello Stato è ricondotta da Spinoza a un episodio biblico:

Per intendere rettamente queste parole e la causa della distruzione dello Stato, si deve notare che il primo proposito fu di affidare tutto il sacro ministero ai primogeniti, e non ai Leviti (cfr. Numeri 8,17), ma dopo che tutti, a eccezione dei Leviti, ebbero venerato il vitello d’oro, i primogeniti furono ricusati e tenuti per immondi, mentre i Leviti vennero scelti a prenderne il posto (Deuteronomio 10,8). Quanto più rifletto su questa sostituzione, tanto più essa mi spinge a esclamare, per dirla con Tacito, che, in quel momento, Dio non si prese cura della loro sicurezza, ma del loro castigo19.

Prima dell’adorazione del vitello d’oro, l’amministrazione degli offici sacri è affidata, secondo la volontà divina, ai primogeniti di ciascuna famiglia delle tribù israelitiche. In tal modo Dio dà segno della volontà di preservare la comunità di Israele riunendola attorno ai primogeniti che, da un lato, detengono un legame di sangue con le rispettive famiglie di provenienza e, dall’altro, consentono di rafforzare il sentimento di appartenenza alla comunità, in quanto tutte le tribù partecipano, in egual misura, al ministero delle funzioni sacre. L’episodio idolatrico fa da spartiacque fra questa fase, contrassegnata dal favore divino, e una seconda fase, contraddistinta, invece, da un intento divino punitivo. In un secondo momento, il ministero delle funzioni sacre viene conferito ai membri di una sola delle tribù israelitiche, ai Leviti20. I Leviti vanno a                                                                                                                

18 È in questa sede che Spinoza spiega come «la natura non crea davvero nazioni, bensì individui». (TTP, cap. XVII, p. 432).

19 TTP, cap. XVII, p. 435.

20 Spinoza adduce due luoghi biblici per documentare il passaggio del ministero delle funzioni sacre dai primogeniti ai Leviti. Cfr. Numeri 8, 15-18: “Dopo, i leviti verranno a fare il servizio nella tenda del convegno; tu li purificherai e li presenterai come un’offerta fatta con la rituale agitazione; poiché mi sono tutti dediti tra gli Israeliti, io li ho presi con me, invece di quanti nascono per primi dalla madre, invece dei primogeniti di tutti gli Israeliti. Poiché tutti i primogeniti degli Israeliti, tanto degli uomini quanto del

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costituire una casta sacerdotale, mantenuta a spese delle restanti tribù, a capo della quale è collocato Aronne, fratello di Mosè21. Se è vero che Aronne dispone del potere di interpretare le leggi divine, non ha, tuttavia, il diritto di imporle; questo limite indica che il suo potere non è assoluto. Lo stesso vale per l’intera tribù di Levi che, sebbene amministri gli offici sacri, è priva del potere politico. Tuttavia, questo limite non è sufficiente a placare l’invidia diffusa tra i membri delle restanti tribù, dovuta al fatto che i Leviti non sono legati ad essi con vincoli di sangue, come sarebbe stato nel caso in cui l’intento di affidare il ministero ai primogeniti fosse stato rispettato22. Spinoza mette in luce gli effetti disgreganti di una simile situazione, specialmente quando, in momenti di estrema difficoltà, il popolo è incline ad affrancarsi dal culto divino e a rivolgersi a nuovi culti:

Se lo Stato fosse stato organizzato secondo il proposito originario, il diritto e il rango sarebbero sempre stati eguali per tutte le tribù e tutto si sarebbe svolto nella massima sicurezza. Chi, infatti, avrebbe voluto violare il sacro diritto dei propri consanguinei? Chi avrebbe preferito altra cosa, diversa dal rafforzare i propri consanguinei, fratelli e genitori, nella pietà religiosa? Cos’altro, infine, se non attendere da loro i divini responsi?                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

bestiame, sono miei; io me li sono consacrati il giorno in cui percossi tutti i primogeniti nel paese d’Egitto. Ho preso i leviti invece di tutti i primogeniti degli Israeliti”. Deuteronomio 10, 8: “In quel tempo il Signore prescelse la tribù di Levi per portare l’Arca dell’alleanza del Signore, per stare davanti al Signore al suo servizio e per benedire nel nome di lui, come ha fatto fino ad oggi”. (La Sacra Bibbia, CEI-UECI, Roma 1974, p. 125; p. 163).

21 TTP, cap. XVII, pp. 413-415: «Come cortigiani e amministratori di questa reggia divina furono scelti i Leviti: come loro capo supremo, invece, e quasi secondo dopo Dio re, fu scelto Aron (fratello di Mosè), cui succedevano legittimamente i suoi figli. Questi quindi, come più vicino a Dio, era il sommo interprete delle leggi divine e colui che trasmetteva al popolo i responsi dell’oracolo divino e che, infine, rivolgeva suppliche a Dio per il popolo. E se avesse avuto, oltre a ciò, anche il diritto di imporle, nulla lo avrebbe differenziato da un monarca assoluto; ma egli ne era privo, e l’intera tribù di Levi fu assolutamente destituita di potere pubblico, tanto da non avere, con le altre tribù, parte alcuna di territorio onde poter almeno vivere; si stabilì che fosse invece mantenuta dal resto del popolo, ma in modo tale che fosse sempre tenuta nel massimo onore dalla comune plebe, come la sola tribù consacrata a Dio».

22 TTP, cap. XVII, p. 435: «Ne seguirono continui mormorii e poi l’insofferenza (specialmente quando si alzavano i prezzi dell’annona) di dover mantenere degli uomini oziosi, malvisti, e neppure congiunti loro da vincoli di sangue».

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Se, poi, il diritto di amministrare le cose sacre fosse stato uguale per tutte le tribù, esse sarebbero state per questo di gran lunga più unite tra loro: nulla, anzi, vi sarebbe stato da temere se l’elezione stessa dei Leviti avesse avuto una causa diversa dall’ira e dalla vendetta23.

Il riferimento all’ira divina spiega il rovesciamento dello scopo delle leggi che, originariamente istituite per salvare il popolo, sono introdotte per punirlo24. Tuttavia, l’instabilità strutturale dello Stato ebraico non passa soltanto metaforicamente attraverso l’ira di Dio, ma viene ricondotta da Spinoza al principio per cui se si toglie l’eguaglianza, si toglie la libertà25. Mediante l’elezione dei Leviti, che si ergono sopra le altre tribù, viene stravolto il principio egualitario che dovrebbe stare a fondamento dello Stato ebraico. Questo sconvolgimento causa un’inarrestabile disgregazione dello Stato e riduce il sentimento di unità consolidato dal vincolo della religione26. Già nella fase della spartizione della terra fra le tribù israelitiche, il fatto che i Leviti non possiedano il terreno e debbano essere necessariamente mantenuti dalle altre tribù contribuisce a spezzare l’aequalitas fra i membri del popolo e a incrinare la struttura statale. Questa è la premessa del processo di disgregazione che condurrà la Respublica Hebraeorum alla rovina: un motivo ben più grave sarà all’origine della definitiva distruzione dello Stato degli ebrei.

                                                                                                               

23 TTP, cap. XVII, pp. 435-437.

24 TTP, cap. XVII, p. 435: «Non mi meraviglierò mai abbastanza del fatto che nell’animo divino albergasse un’ira tale da far sì che Egli stabilisse le leggi stesse (le quali mirano, sempre e soltanto, all’onore, alla salvezza e alla sicurezza dell’intero popolo) con l’intenzione di vendicarsi e allo scopo di punire il popolo, sì da far sembrare le Sue leggi non tanto leggi – cioè la salvezza del popolo – quanto pene e castighi».

25 È un principio che Spinoza ribadisce nel Trattato politico (d’ora in avanti indicato con la sigla TP), a cura di Paolo Cristofolini, ETS, Pisa 2011. Cfr. TP, X, 8, p. 225: «È certo che l’eguaglianza, tolta la quale si perde necessariamente la comune libertà, non si può in alcun modo conservare non appena vengono decretati per diritto pubblico onori particolari a qualche uomo di riconosciuto valore».

26 Su questo punto insiste S. VISENTIN, La libertà necessaria. Teoria e pratica della democrazia in Spinoza, ETS, Pisa 2001, p. 146. La rottura dell’aequalitas è evidenziata anche da L. S. FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, Beacon Press, Boston 1958, p. 132.

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4. Il collasso dello Stato

Nelle ultime pagine del capitolo XVII del Trattato teologico-politico, Spinoza descrive il processo di degenerazione che conduce lo Stato ebraico alla sua dissoluzione. La classe sacerdotale rappresentata dai Leviti, ancorandosi ai suoi privilegi, si trasforma in una casta e un solco sempre più profondo divide la tribù di Levi dalle restanti tribù di Israele. Si creano in tal modo le condizioni per una ribellione a Mosè, poiché molti si convincono che il legislatore abbia stabilito tutto a suo arbitrio e non per mandato divino. Molti iniziano a credere che Mosè abbia voluto privilegiare la propria tribù di origine – essendo Mosè un Levita – eleggendola tra le altre e conferendo al fratello Aronne il diritto al sommo sacerdozio. Il malcontento si diffonde tra il popolo, lacerando il tessuto sociale. In rapida successione, si scatenano delle ribellioni a Mosè27, tacciato di ergersi al di sopra del popolo illegittimamente, spezzando in tal modo l’eguaglianza:

Perciò essi si recarono da lui in concitato tumulto, gridando che tutti erano egualmente santi, e che lui si elevava illegittimamente al di sopra degli altri. Né poté in alcun modo placarli, ma, in seguito a un prodigio che fu segno della sua fede, tutti i ribelli perirono: ne sorse una nuova e generale sollevazione di tutto il popolo, poiché si credette che i ribelli fossero morti non per giudizio di Dio, ma per opera di Mosè, il quale alla fine placò – dopo un grave flagello, o una pestilenza – il suo stanco popolo, ma con tanta durezza che tutti avrebbero preferito morire piuttosto che vivere28.

                                                                                                               

27 Sono le ribellioni della tribù di Core, descritte in Numeri, 16. Cfr. L. S. FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., p. 132.

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Mosè assiste alle rivendicazioni di eguaglianza da parte dei ribelli, che lamentano una divergenza tra la volontà di Dio e le azioni compiute da Mosè. Il Legislatore, in altre parole, agirebbe a suo arbitrio, in modo del tutto irrispettoso della volontà divina. Le rivendicazioni di eguaglianza da parte dei membri del popolo sono un segnale manifesto del fatto che, all’interno delle istituzioni statali, si è incrinato un meccanismo, che ha dato origine a un diffuso malcontento. Anche dopo che Mosè è riuscito a placare le ribellioni29, queste non sembrano destinate a finire:

Ne nacquero importanti mutamenti, una grande permissività in ogni cosa, un lusso e un’indolenza per cui tutto prese a peggiorare, fin quando, dopo esser stati spesso assoggettati, essi infransero del tutto il diritto divino e pretesero un re mortale, sì che la sede del potere non fosse più il Tempio, ma la corte, e tutte le tribù fossero concittadine non già sulla base del diritto divino e del sommo sacerdozio, ma relativamente ai re30.

In questo brano Spinoza descrive il passaggio dallo stato teocratico allo stato monarchico, corrispondente al momento in cui gli ebrei richiedono a Dio di essere governati da un re, al pari degli altri popoli31. Non soltanto nello stato monarchico non cessano le rivolte, ma addirittura ha inizio, al suo interno, un processo di

                                                                                                               

29 Nonostante la rivolta venga repressa da Mosè con il massacro dei sediziosi, la frattura è ormai insanabile, tanto che Spinoza scrive: «Perciò in quel momento era stata piuttosto spenta la sollevazione che inaugurata la concordia» (Ibidem).

30 Ibidem.

31 Questo episodio è narrato nell’ottavo capitolo del primo libro di Samuele. Gli ebrei, recatisi da Samuele, richiedono un re mortale, al pari delle altre nazioni. Samuele, seguendo le parole di Dio, avverte il popolo delle pretese che il re potrebbe far valere, una volta giunto al potere, ma il popolo non dà ascolto agli avvertimenti e rimane ancorato alla sua convinzione, fino a quando non viene accontentato da Dio, che concede un re mortale.

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degenerazione32. Questo declino si genera gradualmente, in particolare nel passaggio tra i primi re e i loro successori. Se i primi re, pur non detenendo un potere assoluto, sono soddisfatti della loro posizione, i loro figli, che giungono al trono per diritto di successione, tentano di spezzare i limiti imposti alla loro autorità, in modo da detenere il potere in termini esclusivi. Il diritto legislativo è nelle mani del sommo sacerdote, che custodisce e interpreta le leggi, e l’amministrazione delle cose sacre è gestita dai Leviti. Di conseguenza, i re, al pari dei sudditi, sono limitati dalle leggi, non potendo abrogarle né emanarne di nuove. Come dice Spinoza, da questi limiti si evince che i re sono costretti a ospitare «uno Stato dentro lo Stato»33. È il potere religioso dei Leviti a rappresentare l’imperium in imperio, che rende precario il governo dei re. Per scongiurare questa situazione, i re permettono di dedicare templi ad altri dei, in modo tale da non dover interpellare i Leviti, che, con il loro potere, mettono in crisi la struttura statale. È proprio nella fase monarchica che proliferano i falsi profeti, perché i re incitano gli uomini a profetare nel nome di Dio, al fine di recuperare dei profeti ‘partigiani’ da contrapporre a quelli ritenuti veri. Questi falsi profeti, a loro volta, attendono il momento opportuno per tentare di impadronirsi del potere a danno del monarca. Questa instabile situazione può trovare un esito infelice, quando i profeti tentano di togliere di mezzo il tiranno senza eliminare le cause profonde della tirannide34.

Nel Trattato teologico-politico Spinoza mette in luce come il ruolo esclusivo riservato ai Leviti li conduca a un abuso di potere. Dopo la fase monarchica, i sommi                                                                                                                

32 F. DEL LUCCHESE, Tumulti e indignatio, cit., p. 206, ritiene che il passaggio allo stato monarchico abbia innescato un’esplosione del conflitto, che produce una crisi irreversibile per il popolo ebraico. 33 TTP, cap. XVII, p. 439.

34 Cfr. il giudizio di Spinoza, TTP, cap. XVIII, p. 439: «Non c’era dunque fine alla discordia e alle guerre civili: le cause per cui si violava il diritto divino restavano sempre le stesse, e nemmeno potevano essere eliminate, se non distruggendo, con esse, l’intero Stato».

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sacerdoti usurpano il diritto civile, acquisendo un potere assoluto35. La rovina dello Stato ebraico culmina nell’atto di usurpazione da parte dei Leviti, che rappresenta l’esito inevitabile di un equilibrio già spezzato. Spinoza imputa la dissoluzione dello Stato degli ebrei al venir meno dell’equilibrio tra i poteri e all’usurpazione del diritto del principato da parte dei sommi sacerdoti36. Tuttavia, non è per caso che i pontefici hanno congiunto nelle loro mani potere sacerdotale e potere politico, trasformando un regno teocratico in un regno clericale37. Dopo l’esodo dall’Egitto, gli ebrei fondano, con il primo patto, una teocrazia, vale a dire un governo di Dio sulla terra38. Quando il potere politico, oltre a quello spirituale, si concentra nelle mani dei sacerdoti, la teocrazia ebraica si trasforma in una ierocrazia, un sistema politico incentrato sul potere della classe sacerdotale. Fin dall’origine dello Stato ebraico esistono, latenti, le condizioni della sua decadenza, insite in un vizio delle istituzioni politiche, ossia nell’instaurazione di un sacerdozio esclusivo per la tribù di Levi: da qui si origina il circolo vizioso che conduce allo sgretolamento dello Stato. L’usurpazione costituisce il colpo finale dato a un organismo politico che già ha perso la sua stabilità, perché cova al suo interno l’esistenza di un altro Stato.

L’intera questione della dissoluzione si risolve, a mio avviso, nell’idea per cui il vizio è interno allo Stato stesso. La crisi dello Stato ebraico non è imputabile a guerre o nemici esterni, bensì a una problematica che, dall’interno, corrode l’intera struttura statale. Un concetto del tutto equivalente si ritrova nella prefazione al De Republica Hebraeorum di Petrus Cunaeus. L’olandese è convinto che la stabilità dello Stato derivi                                                                                                                

35 È quello che Spinoza chiama “secondo stato”, definendolo soltanto l’ombra del primo stato ebraico. Cfr., ad esempio, TTP, cap. XVII, p. 441.

36 D. DI CESARE, De Republica Hebraeorum. Spinoza e la teocrazia, «Teoria», XXXII, 2012, 2, p. 225. Di Cesare ritiene che lo Stato ebraico sia stabile finché i poteri si mantengono separati; il crollo dello Stato è imputato al fatto che ‘verga’ e ‘spada’ ricadono nella stessa mano.

37 Su questo punto ha insisito S. ZAC, Spinoza et l’état des Hébreux, cit., pp. 563-564.

38 Sebbene l’interregno mosaico possa costituire – apparentemente – un allontanamento dalla disposizione originaria, in realtà, non si sfocia in un governo monarchico, perché Mosè non nomina alcun successore.

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dalla concordia civile e che la dissoluzione di uno Stato si origini da una debolezza interna. Cunaeus ritiene che i primi nemici dello Stato siano i cittadini stessi:

Ita enim est profecto, plena hostibus ea respublica est, in qua cives plurimi, possessionibus avitis nudati, priscas fortunas votis expetunt39.

Più che le minacce esterne, spesso sono le ambizioni e i desideri dei cittadini a mettere a rischio la stabilità dello Stato. Le discordie interne, inoltre, avvantaggiano il nemico. L’attenzione dell’olandese si rivolge anche ai Romani, i quali, consapevoli del fatto che l’instabilità è profondamente connessa ai dissidi interni allo Stato, se ne avvantaggiano al fine di sottomettere nuove popolazioni, facendo perno proprio sugli elementi disgreganti interni allo Stato40.

Trattando dei motivi prevalentemente interni della crisi dello Stato Spinoza avrà modo di ammonire nel Trattato politico che «i pericoli maggiori per la cittadinanza vengono sempre dai cittadini piuttosto che dai nemici esterni»41. Della validità di questo principio «è testimone lo Stato dei Romani, mai vinto dai nemici, ma tante volte vinto, e

                                                                                                               

39 P. CUNAEUS, De Republica Hebraeorum (The Commonwealth of the Hebrews), a cura di Lea Campos Boralevi, Centro Editoriale Toscano, Firenze 1996, p. 17. La traduzione italiana è mia: «Infatti, la verità è che è pieno di nemici quello Stato in cui moltissimi cittadini, privati dei loro antichi possedimenti, aspirano nei loro desideri alle fortune di un tempo».

40 P. CUNAEUS, Praefatio, op. cit., p. 14: «Raro fortuna invidiam suam populo uni in alterius perniciem commodat, nisi prius ille, turbatis domi rebus, vitia ipse sua suasque vires regere nesciat. Sane quidem Romani, versutissimi mortales, quos Marcus Tullius vere ait, sociis defendendis terrarum omnium esse dominos factos, praeclare intellexerunt, ad convellendas aliorum respublicas nihil sibi posse a divino numine majus praestari, quam motus quosdam hujusmodi, dissensionesque foederatarum gentium»; la traduzione italiana è mia: «Raramente la fortuna presta la propria invidia ad un popolo per la rovina di un altro, a meno che prima questo, turbate le cose all’interno, non sappia governare i suoi vizi e le sue forze. Certamente, infatti, i Romani, uomini astutissimi, che Marco Tullio dice, secondo verità, che tramite la difesa dei loro alleati sono diventati signori di tutte le terre, compresero nel modo più chiaro che per distruggere un altro Stato, nessun aiuto poteva esser dato loro, da parte della potenza divina, se non certi moti di questo genere e dissensi di popoli alleati».

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orribilmente vessato, dai suoi stessi cittadini»42. Oltre a ciò, il tema della concordia civile, centrale per Cunaeus, assume un ruolo importante anche nel pensiero di Spinoza43. I motivi di discordia possono causare l’indebolimento dello Stato o la disgregazione del tessuto sociale, ogni qualvolta si presentino; mentre la concordia costituisce, per qualsiasi Stato, un ideale da raggiungere.

5. Dal particolare all’universale: la validità di alcuni principi politici

Dopo aver descritto il processo degenerativo che ha condotto alla distruzione dello Stato degli ebrei, Spinoza riconosce che dal caso ebraico si possono ricavare alcuni principi politici validi universalmente. L’intento spinoziano che emerge da queste riflessioni risponde al tentativo di mostrare come si possano ridurre i motivi di tensione e instabilità all’interno delle istituzioni statali e come si possa mantenere la stabilità, che è la solida base su cui deve poggiare uno Stato duraturo. A fronte della crisi esemplificata dal caso ebraico Spinoza insiste sulla centralità della preminenza del potere civile su quello religioso. Convinto che sia dannoso «concedere ai ministri di culto qualche diritto di emanare decreti o di trattare gli affari dello Stato»44, Spinoza                                                                                                                

42 TTP, cap. XVII, p. 405.

43 TP, V, 2, p. 79: «E pertanto lo stato migliore è quello nel quale la vita umana trascorre nella concordia e i cui diritti si conservano inviolati». La concordia viene definita in termini precisi da Spinoza in TP, V, 5, p. 81: «Quando dunque diciamo che il migliore stato è quello in cui gli uomini passano la vita nella concordia, intendo parlare non solo di quella vita umana che è data dalla circolazione del sangue e dalle altre funzioni comuni a tutti gli animali, ma a quella che si definisce in base alla ragione, vera virtù e vita della mente». Una riflessione sulla centralità di questa definizione è contenuta in P. CRISTOFOLINI, L’uomo libero. L’eresia spinozista alle radici dell’Europa moderna, ETS, Pisa 2007, p. 71. Il valore della concordia per uno Stato è ribadito anche in B. SPINOZA, Etica, ed. critica e trad. it. di Paolo Cristofolini, ETS, Pisa 2010, IV, proposizione XL, p. 281: «Le cose che contribuiscono alla comune socievolezza, ovvero che fanno sì che gli uomini vivano nella concordia, sono utili, mentre sono cattive quelle che introducono la discordia nella cittadinanza».

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ritiene che i sacerdoti possono dare responsi divini solo su richiesta dei principi o dei concilii45. Il problema della commistione fra potere civile e potere religioso si fa più vivo nei casi di usurpazione: nel momento in cui i ministri religiosi usurpano il potere, mirano a ricercare la gloria personale; così facendo, i sacerdoti corrompono la legge mosaica introducendo nuovi decreti e svuotando la religione di significato. La corruzione della religione manda rapidamente in crisi l’intera costruzione dello Stato degli ebrei46, che ha nella religione il suo fondamento47. L’insegnamento che Spinoza trae dalla storia ebraica, con l’intento di estenderlo alle altre istituzioni politiche, è la necessità della preminenza del potere civile su quello religioso come motivo di stabilità dello Stato48.

Spinoza insiste sui pericoli derivanti dall’elezione di un re da parte di un popolo non abituato a vivere in una monarchia. Una situazione di questo genere sarebbe intollerabile sia per il popolo sia per il monarca: da un lato, i sudditi non sopporterebbero un potere così invadente, dall’altro, il re non riconoscerebbe i diritti del popolo che fossero istituiti da un’istanza di minore autorità rispetto alla propria. Questo insegnamento è tratto dalla diretta esperienza dello Stato degli ebrei, per cui il passaggio dallo stato teocratico allo stato monarchico si è rivelato foriero di devastazioni e guerre                                                                                                                

45 TTP, cap. XVIII, p. 445.

46 Simbolo della crisi è anche la divisione in sette, conseguente all’usurpazione dei Leviti. Cfr. TTP, cap. XVIII, pp. 445-447: «[…] non possiamo in alcun modo dubitare che il servilismo dei sommi sacerdoti e la corruzione della religione e delle leggi (nonché l’incredibile moltiplicarsi di queste) abbiano fornito ottimi e frequenti stimoli al sorgere di contrasti e liti che non fu mai possibile sedare. Infatti, quando gli uomini cominciano a disputare nell’ardore della superstizione, non potranno mai rappacificarsi se il magistrato aiuta una delle due parti in causa, ma si divideranno inevitabilmente in sette».

47 Introducendo la religione nello Stato, Mosè svolge un’operazione tutta politica, volta al mantenimento del patto sociale. Su questo punto ha insistito M. A. ROSENTHAL, Why Spinoza chose the Hebrews: the exemplary function of prophecy in the Theological-political Treatise, «History of Political Thought», XVIII, 2, 1997, p. 225.

48 Non si tratta soltanto di tenere separati potere spirituale e potere temporale, ma di sostenere la preminenza del secondo sul primo. Su questo tema Spinoza si mostra in linea con l’erastianesimo, la dottrina che afferma che lo Stato ha diritto di intervenire negli affari della Chiesa e di imporre la sua volontà. Il termine, coniato a metà del XVII secolo, si collega alla figura di Thomas Erastus, teologo e medico svizzero, vissuto nel Cinquecento, noto per aver messo in evidenza, in occasione di una controversia, il diritto dello Stato di intervenire nelle questioni ecclesiastiche.

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civili49. Prima del governo dei re, il popolo è disposto a prendere le armi per difendere la pace del regno e la propria libertà, mentre sotto il governo monarchico il popolo si ritrova a combattere numerose guerre, intestine ed esterne, per la gloria e il prestigio del re50. D’altro canto, prosegue Spinoza nel suo ragionamento, è altrettanto dannoso per la stabilità di uno stato monarchico eliminare il re, anche qualora questo si riveli un tiranno. Spinoza insiste su questo punto, perché è avvenuto che il popolo abbia cambiato spesso il tiranno, senza mai estirpare le cause della tirannide e che non sia riuscito a sostituire il governo monarchico con un’altra forma statuale51. Infatti, se un popolo, abituato a vivere sotto l’autorità regia, elimina un tiranno, dovrà eleggere un nuovo re, il quale, a sua volta, se vuole mantenere il potere e non regnare precariamente, dovrà costringere il popolo a non commettere più un tale delitto e, nel fare questo, sarà obbligato vendicare la morte del predecessore e, inevitabilmente, a seguirne le orme52. Si crea così un circolo vizioso, che Spinoza vede all’opera nel caso inglese:

Un terribile esempio di questa verità lo ha dato il popolo inglese, che cercò dei pretesti sulla base dei quali eliminare il monarca sotto la parvenza del diritto; ma, una volta eliminato il re, al popolo riuscì tutto, meno che di mutare forma di governo, e, dopo molto spargimento di sangue, si giunse a salutare – con un nome differente (quasi che il problema fosse stato soltanto una questione di nomi) – un nuovo monarca, il quale non poteva in nessun modo preservarsi se non sterminando completamente la stirpe regale, uccidendo gli amici del re o quelli sospetti di amicizia con lui, e turbando con la guerra l’ozio della pace – favorevole alle espressioni di malcontento – affinché la plebe,                                                                                                                

49 TTP, cap. XVIII, p. 447: «Finché fu il popolo a governare, inoltre, si ebbe […] una sola guerra civile […]. Ma dopo che il popolo, niente affatto abituato ai re, ebbe trasformato la primitiva forma dello Stato in monarchia, non vi fu quasi più fine alle guerre civili, e divamparono battaglie così atroci da superare in fama tutte le altre».

50 TTP, cap. XVIII, p. 449. 51 TTP, cap. XVIII, p. 453. 52 Ibidem.

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occupata e preoccupata dai nuovi eventi, distogliesse il pensiero dal regicidio. Tardi dunque il popolo si accorse di non aver fatto nient’altro, per il bene della patria, che violare il diritto del legittimo re, peggiorando sotto ogni aspetto la situazione. Perciò decise, quando fu possibile, di tornare sui suoi passi e non si fermò finché non vide ogni cosa ristabilita nella condizione precedente53.

Il bilancio negativo rappresentato dal caso inglese dimostra che non è la forma di governo a dover essere modificata, quanto piuttosto sono le cause del malgoverno a dover essere estirpate54. La riforma dello Stato passa attraverso un’operazione radicale, consistente nell’identificare le cause della tirannide per sradicarle, e non attraverso modifiche superficiali55: altrimenti, il tirannicidio si rivela nella sua inutilità56.

Il capitolo XVIII del Tractatus theologico-politicus si conclude ribadendo la necessità di preservare la forma dello Stato, perché «essa non può essere mutata se non a rischio della sua totale rovina»57. In quest’occasione Spinoza identifica il mutamento di regime con la rovina dello Stato, quasi che i due avvenimenti coincidano; come si avrà modo di vedere più avanti, in alcuni luoghi del Trattato politico, mutamento di forma e distruzione dello Stato vengono mantenuti distinti e vanno a costituire due fenomeni differenti.

                                                                                                               

53 TTP, cap. XVIII, p. 453.

54 A riprova della rilevanza di questo concetto, Spinoza torna a riflettervi anche nel Trattato politico, citando Machiavelli. Cfr. TP, V, 7, p. 83: «L’acutissimo Machiavelli ha ampiamente spiegato di quali mezzi si debba servire un principe trascinato dalla sola sete di dominio, per fondare e conservare uno stato; a qual fine, non appare ben chiaro. Ma se il suo fine era buono, come è da credersi di un uomo saggio, pare che sia stato quello di mostrare con quanta imprudenza molti cercano di levar di mezzo un tiranno senza essere in grado di eliminare le cause che fanno del principe un tiranno, ma anzi creandone di tanto maggiori quanto maggiori sono i motivi di timore che si prospettano al principe: per esempio, quando il popolo ha già prodotto manifestazioni di ostilità al principe e vanta il parricidio, quasi fosse una cosa ben fatta».

55 È la polemica, che si evince anche dal brano sul popolo inglese, per cui si mutano i nomi, ma non cambia la realtà dei fatti.

56  L’inefficacia del tirannicidio è legata all’incapacità di eliminare le cause della tirannide. Su questo punto ha insistito E. GIANCOTTI, La teoria dell’assolutismo in Hobbes e Spinoza, «Studia Spinozana», I, 1985, pp. 247-248. Cfr. anche F. DEL LUCCHESE, Tumulti e indignatio, cit., p. 208.

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6. Il machiavelliano ‘ritorno ai principi’ in Spinoza

Passiamo ora dal Trattato teologico-politico al Trattato politico, spostando l’attenzione da un caso singolo, cioè dal particolare Stato degli ebrei, a una riflessione di carattere generale sullo Stato nelle sue differenti forme di governo. Anche nel Tractatus politicus Spinoza si avvale di diverse formazioni storiche a sostegno delle sue tesi, non concentrandosi sull’analisi di un caso particolare58, ma impiegando diversi esempi storici per costruire una teoria generale dello Stato.

Una volta descritti i due modelli di stato aristocratico, quello centralizzato e quello federale, Spinoza apre il decimo capitolo del Trattato politico con l’indagine sulle cause di degenerazione degli stati aristocratici domandandosi «se essi possano, per qualche causa loro imputabile, distruggersi o trasformarsi in altro»59. Le cause della dissoluzione sono analizzate congiuntamente ai rimedi praticabili, vale a dire agli interventi politici attuabili, per salvare lo Stato dalla decadenza60. La principale causa di dissolvimento degli Stati è il naturale decadimento degli organismi che, al pari del corpo umano, talvolta hanno necessità di essere curati. Spinoza riprende, citando il primo capitolo del libro terzo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, il motivo machiavelliano del “ritorno ai principi”61.

Il ragionamento di Machiavelli, che poggia su una concezione organicistica                                                                                                                

58 Il passaggio dal particolare all’universale avviene non soltanto all’interno del TTP (si pensi al capitolo XVIII in cui si estrapolano principi politici validi dalla storia ebraica, descritta nel paragrafo precedente), ma anche dal TTP al TP.

59 TP, X, 1, p. 217.

60 È questo il punto chiave del ragionamento, sottolineato da V. MORFINO, Il tempo e l’occasione. L’incontro Spinoza-Machiavelli, LED, Milano 2002, p. 118. Su questo, si veda anche L. NOCENTINI, Il luogo della politica. Saggio su Spinoza, ETS, Pisa 2001, passim.

61 Gennaro Sasso sostiene che questo tema non sia ancora del tutto chiarito nella sua genesi. Cfr. G. SASSO, Introduzione a N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Rizzoli, Milano 2000, p. 23. Sulla questione del “ritorno ai principi” in Machiavelli si veda l’importante saggio di T. BERNS, Le retour a l’origine de l’état, «Archives de Philosophie», LIX, 1996, pp. 219-248.

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dello Stato, prevede che gli organismi politici siano soggetti all’alterazione, allo stesso modo dei corpi umani, che iniziano a decadere nell’istante stesso in cui vengono alla vita. Date queste premesse, è necessario introdurre metodi validi per superare la crisi e per progettare uno Stato duraturo. Per evitare che lo Stato si dissolva, Machiavelli si pone il problema del “ritorno ai principi”:

Il modo del rinnovargli è, come è detto, ridurgli verso e principii suoi. Perché tutti e principii delle sette e delle republiche e de’ regni conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione e il primo augumento loro. E perché nel processo del tempo quella bontà si corrompe, se non interviene cosa che la riduca al segno, ammazza di necessità quel corpo62.

Il ritorno ai principi può essere interpretato in chiave di rinnovamento: la bontà, citata in questo passaggio dei Discorsi, non è una qualità morale, bensì la forza espansiva che si ritrova in ogni essere che nasce e cresce. Nel principio si situa una forza, un’energia che è in grado di produrre trasformazione e, quindi, rinnovamento63. Il ritorno ai principi può essere causato da un accidente esterno o da una prudenza intrinseca64. Mentre l’accidente estrinseco è collegato alla Fortuna machiavelliana, la prudenza può derivare dalle buone leggi o da un uomo virtuoso. Entrambe le possibilità intrinseche sono desiderabili per Machiavelli, mentre la motivazione estrinseca è meno affidabile, perché dipende solo dal caso. A Roma, un esempio di accidente esterno è rappresentato dall’invasione dei Galli, che ha permesso la rinascita dello Stato romano, dando nuova linfa alla giustizia e alla religione, che avevano da tempo iniziato a corrompersi.

                                                                                                               

62 Discorsi, III, 1, p. 461.

63 Su questo punto cfr. F. RAIMONDI, L’ordinamento della libertà. Machiavelli e Firenze, ombre corte, Verona 2013, p. 33.

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Per quanto riguarda i motivi intrinseci, Machiavelli considera la creazione dei Tribuni della plebe nello Stato romano un buon esempio per spiegare il ritorno ai principi dovuto alle buone leggi. In particolare, il Tribunato della plebe svolge un ruolo decisivo per il mantenimento della Repubblica Romana, soprattutto perché, mediante la funzione di contrastare l’ambizione dei nobili, diviene la guardia della libertà65. Anche il dittatore, che simboleggia l’uomo virtuoso, rappresenta una buona soluzione per superare la crisi, anche se solo nelle situazioni emergenziali. Il dittatore assume i lineamenti di un riformatore, in grado di gestire le continue trasformazioni delle strutture politiche e di mantenere intatte le leggi. Machiavelli ritiene che «l’autorità dittatoria fece bene e non danno alla Republica romana»66 e al giudizio di coloro che imputano all’istituzione del dittatore la degenerazione della repubblica in tirannide, Machiavelli replica che è stata piuttosto la prolungazione del comando ad asservire Roma67. Se l’inconveniente causato dalla prorogatio imperii fosse stato identificato tempestivamente e opportune contromisure fossero state applicate, la Repubblica romana si sarebbe mantenuta libera più a lungo68.

Tornando al Trattato politico, nell’indagine sui rimedi alla dissoluzione il filosofo di Amsterdam considera, in primo luogo, il dittatore:

                                                                                                               

65 Lo stesso ruolo viene attribuito da Machiavelli ai Censori e a «tutte l’altre leggi che venivano contro alla ambizione e alla insolenzia degli uomini» (Discorsi, III, 1, p. 463).

66 Discorsi, I, 34, p. 134.

67 Discorsi, I, 34, pp. 134-135: «Perché e’ non fu il nome né il grado del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l’autorità presa dai cittadini per la lunghezza dello imperio; e se in Roma fusse mancato il nome dittatorio ne arebbono preso un altro, perché e’ sono le forze che facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze».

68 Discorsi, III, 24, p. 529: «Se si considera bene il procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere state cagione della risoluzione di quella Republica: l’una furon le contenzioni che nacquono dalla Legge Agraria; l’altra la prolungazione degli imperii; le quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i debiti rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo e per avventura più quieto».

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Il primo rimedio che venne in mente per questo male fu di nominare ogni cinque anni per un mese o due un dittatore legittimato ad indagare, giudicare e decidere sul comportamento dei senatori e di qualunque funzionario, e di conseguenza in grado di ricondurre lo stato ai suoi principi69.

Nel passaggio in esame si profila il ruolo del dittatore, che esercita una funzione di controllo sui funzionari dello Stato e la cui carica è di durata limitata. Spinoza si mostra particolarmente cosciente dei rischi legati alla nomina del dittatore a data fissa; in tal caso, tutti gli uomini ambiziosi tenterebbero di raggiungere la carica, attratti dall’esercizio di un potere assoluto. Il dittatore va nominato, com’erano soliti i Romani, non a scadenza fissa, ma soltanto nelle situazioni di emergenza. A differenza di Machiavelli, Spinoza mostra le incertezze a proposito della figura dittatoriale, poiché l’istituzione del dittatore può provocare la trasformazione dello Stato da aristocratico a monarchico, dato che il potere dittatoriale, concentrandosi nelle mani di un solo individuo, diviene sinonimo di potere regio70.

Nel passare in rassegna i rimedi per evitare la dissoluzione dello Stato, Spinoza si richiama, sempre sulla scia di Machiavelli71, all’istituzione del Tribunato della plebe a Roma. A differenza del dittatore, dotato di una carica temporanea, i Tribuni della plebe sono perpetuamente in carica; eppure, secondo Spinoza, non riescono a tenere testa né al Senato né ai grandi uomini. Oltre a ciò, Spinoza vede in questa istituzione

                                                                                                               

69 TP, X, 1, p. 217.

70 TP, X, 1, p. 219: «In verità, essendo questo potere dittatoriale, in senso assoluto, un potere regio, lo stato può, non senza grave pericolo per la repubblica, trasformarsi a un certo punto in monarchico, anche se la cosa avvenga in un periodo di tempo quanto si voglia breve».

71 Morfino vede nei primi tre paragrafi del capitolo decimo del TP una ripresa diretta di Machiavelli. Cfr. V. MORFINO, Il tempo e l’occasione, cit., p. 118-120.

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una natura profondamente tumultuaria72, per cui ad ogni convocazione della plebe sembrava che i tribuni chiamassero «a una rivolta più che a un consiglio»73.

In alternativa alla dittatura e al Tribunato della plebe, Spinoza propone l’istituzione di un consiglio di sindaci. Il valore positivo che Spinoza attribuisce a questo consiglio si basa sulle sue caratteristiche specifiche. Il Syndicorum Concilium è composto da membri anziani74 in numero elevato, per evitare che si dividano tra loro lo Stato o prendano decisioni scellerate. Ai sindaci è inoltre vietato l’esercizio di altre funzioni pubbliche. Il consiglio è valutato in termini positivi da Spinoza perché incute paura soltanto ai malvagi, a differenza del dittatore che fa paura, indistintamente, a buoni e cattivi cittadini, perché detiene un potere assoluto75. Spinoza è consapevole che anche il consiglio dei sindaci abbia dei limiti: se è vero, infatti, che esso serve a preservare lo Stato dal mutare forma, vietando le trasgressioni alle leggi e ostacolando le attività criminose, è altrettanto vero che i sindaci non possono contrastare la cristallizzazione degli errori umani in vizi. Spinoza ha in mente, in special modo, i vizi che non possono essere vietati dalla legge, vale a dire i vizi connessi alla pace, in cui cadono gli uomini quando sono inoperosi. Questi vizi, con il tempo, possono condurre

                                                                                                               

72 Un accenno in tal senso non si trova solo nel TP, ma anche nel TTP, cap. XVIII, pp. 453-455: «Forse qualcuno obietterà, basandosi sull’esempio del popolo romano, che il popolo può facilmente eliminare il tiranno, ma io ritengo che la nostra tesi sia del tutto confermata da questo stesso esempio. Infatti, benché il popolo romano potesse molto più facilmente eliminare il tiranno e mutare forma di Stato (poiché il diritto di eleggere il re e il suo successore risiedeva nel popolo stesso, e poiché esso popolo, per quanto aizzato da uomini sediziosi e ribelli, non si era ancora abituato a obbedire a dei sovrani: ne aveva infatti uccisi tre dei sei che aveva avuto in precedenza), non fece tuttavia che eleggere, invece di uno solo, molti tiranni, i quali lo mantennero costantemente e sventuratamente impegnato in guerre esterne e intestine, fin quando il potere cadde nuovamente nelle mani di un monarca, mutando, come in Inghilterra, soltanto il nome».

73 TP, X, 3, p. 221.

74 A proposito dei sindaci Spinoza scrive che «la loro età deve essere quella in cui si preferisce la sicurezza del presente al pericolo delle novità». TP, X, 3, p. 221.

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lo stato alla rovina, poiché sono all’origine della corruzione dei valori su cui si fonda una società civile76.

Nel pensiero di Machiavelli, il “ritorno ai principi” può significare rinnovare la paura nell’animo degli uomini, come dimostra l’esempio dei Medici a Firenze77:

Dicevano a questo proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434 infino al 1494, come e’ gli era necessario ripigliare ogni cinque anni lo stato, altrimenti era difficile mantenerlo; e chiamavano ripigliare lo stato, mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel tempo battuti quelli che avevano, secondo quel modo del vivere, male operato78.

Il caso fiorentino illustra che la conservazione del governo comporta rinnovare la paura nell’animo degli uomini. Il metodo tratteggiato da Machiavelli è il ricorso alle balie, organismi ristretti che assumono ogni cinque anni pieni poteri, sospendendo le consuete procedure istituzionali e garantendo così alla casata medicea di assegnare le cariche pubbliche a uomini di fiducia. Il ricorso alle balie consente ai Medici di rafforzare il controllo sullo Stato, per tenere salde le istituzioni, come nel momento della presa del potere.

Il ritorno ai principi è stato interpretato come ritorno alla democrazia79. Questo genere di interpretazione permette di impostare un ragionamento sul mutamento delle forme di governo, che è un tema centrale nel Trattato politico.

                                                                                                               

76 TP, X, 4, pp. 221-223.

77 Su questo punto ha insistito F. DEL LUCCHESE, Tumulti e indignatio, cit., p. 220. 78 Discorsi, III, 1, p. 463.

79 È questa l’originale interpretazione proposta da A. TRUCCHIO, Il problema del ritorno alla democrazia: Spinoza lettore di Machiavelli, in Dopo Machiavelli/Après Machiavel, a cura di L. Bianchi, A. Postigliola, Liguori Editore, Napoli 2008, pp. 187-200; cfr. anche A. TRUCCHIO, Democrazia, insurrezione, esodo. Una riflessione sul limite della teoria politica di Baruch Spinoza, in Spinoza:

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