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L’ESPOSIZIONE GENERALE ITALIANA DI TORINO, 1884.

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L’ESPOSIZIONE GENERALE ITALIANA DI TORINO, 1884.

§ 1. Il naturalismo nelle belle arti e la mostra ‘emozionale’ del Risorgimento.

Per l’esposizione di Torino del 1884, inaugurata il 26 aprile, l’ingegnere Camillo Riccio proseguì per la strada tracciata dall’esposizione universale di Parigi del 1855 volta cioè a mascherare la struttura portante dei vari padiglioni, costruiti nel vasto Parco del Valentino, con gli stili storici in modo tale da rendere immediatamente percepibile il carattere della merce esposta al loro interno; così se per l’ingresso principale su Corso Massimo D’Azeglio si fece ricorso allo stile di rappresentanza per eccellenza, il classicismo barocco francesizzante, per l’edificio delle Belle Arti si optò per l’architettura greca policroma262

.

L’esposizione di Torino non viene generalmente ricordata per la mostra di arte contemporanea, bensì per quella dell’arte antica e per le varie attrazioni alle quali il comitato organizzatore pose una cura particolare263. Sono da ricordare infatti la mostra internazionale dell’elettricità che aveva permesso di illuminare per la prima volta elettricamente i viali dell’esposizione durante la sera e il Borgo e il Castello Medievale costruito, decorato e arredato in base al progetto dell’architetto Alfredo D’Andrade seguendo i modelli dell’architettura medievale piemontese del XV secolo, considerato da Camillo Boito come un museo didattico dove artigiani e operai potevano attingere il buon gusto dai modelli del passato in modo da contrapporsi all’eclettismo e alle “pompe del XIX secolo”264

.

L’arte contemporanea fu unanimemente considerata scarsa di opere nuove e priva di un vero e proprio capolavoro sia da parte della critica ufficiale sia da parte del pubblico; il motivo fu riconosciuto nel continuo susseguirsi delle manifestazioni espositive che si erano svolte negli ultimi quattro anni. L’esposizione torinese va allora considerata come una nuova occasione per riconfermare il progresso che l’arte aveva fatto sulla strada della pittura di genere e del naturalismo,

262

Riccio, 1884, pp. 38-39, 66-67; Picone Petrusa, Pessolano, Bianco 1988, pp. 92; Buscioni 1990, pp. 90-94; C. de Carli, Architettura

effimera di un’epoca: invenzione e rappresentazione, in Esposizione Nazionale di Milano 1881. Documenti e immagini cento anni dopo, 1991, p. 28.

263

Daneo 1886, pp. 106-107; A. Stella, Le esposizioni precedenti, in L’esposizione artistica nazionale illustrata di Venezia, 1887, pp. 42-44; La pittura in Italia. L’Ottocento, 1991, pp. 78-80.

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come già era accaduto in sordina a Torino nel 1880 e con maggiore forza a Milano nel 1881265, ma anche come il traguardo raggiunto da tali generi pittorici con il riconoscimento ufficiale da parte del Governo266; in tal modo la pittura di paesaggio e quella di genere, quali apripista della riforma pittorica basata sul vero, si confermarono i generi pittorici più presenti e apprezzati dal pubblico con la loro rappresentazione della realtà dura e drammatica delle classi povere, in particolare del mondo contadino267.

Gli artisti toscani figuravano soprattutto con dipinti rappresentanti vedute di particolari scorci cittadini e della campagna toscana animati o meno da personaggi intenti alle loro faccende quotidiane, privi tuttavia di quel carattere di diretta denuncia sociale riscontrabile per esempio nel Proximuus Tuus di Achille D’Orsi e ne L’erede di Teofilo Patini, esposti rispettivamente a Torino nel 1880 e a Milano nel 1881268.

265

A Torino nel 1880, nonostante la presenza dei rappresentanti della pittura di genere, molto richiesta dal mercato, aveva trionfato, dal punto di vista della critica ufficiale, il ‘convenzionalismo accademico’. L’anno successivo a Milano si constatava la provenienza accademica della maggior parte degli espositori e, leggendo i commenti che Cesare Cantù fece sui dipinti esposti, si nota che l’obiettivo richiesto all’arte è ancora l’ “ammaestrare … eccitare nobili ed umani sentimenti” cfr. Esposizione nazionale in

Milano nel 1881. Belle Arti. Catalogo Ufficiale illustrato, 1881; C. Romusi, L’esposizione di Belle Arti, in L’Esposizione italiana del 1881 in Milano illustrata, 1881, pp. 74-75; Le esposizioni precedenti, in L’esposizione artistica nazionale illustrata di Venezia, 1887,

pp. 18-19, 26-27; C. Marsan, Le belle arti educatrici, in Esposizione nazionale di Milano 1881. Documenti e immagini cento anni

dopo, 1981; M. Mimita Lamberti, L’esposizione nazionale del 1880 a Torino, in «Ricerche di storia dell’arte», n. 18, 1982, pp. 39-51;

Picone Petrusa, Pessolano, Bianco 1988, pp. 89-90. 266

Luigi Chirtani infatti aveva affermato che l’esposizione del 1884 “colla decisione della Commissione superiore governativa, chiude un periodo della storia della pittura moderna in Italia e proclama l’avvenimento ufficiale della scuola del rinnovamento contemporaneo in pittura”, in modo da “influire sul gusto del pubblico … aiutando gli innovatori nell’impresa di far capire al pubblico, traviato da un’arte invecchiata e stantia, la superiorità di quell’arte che ai dì nostri ha trovato nel paesaggio i più elevati mezzi d’espressione”. Di seguito il Chirtani aveva riportato l’elenco dei dipinti acquistati dal Governo cfr. L. Chirtani, L’Esposizione

Nazionale del 1884 a Torino. I quadri scelti dal Governo, in «L’Illustrazione Italiana», n. 20, 1884, pp. 318-319.

267

Si legge in un articolo de «La Nazione» che “I più bei quadri … sono tra i paesaggi e le scene di vita campestre e marinaresca anche se la folla se la dice poco col paesaggio senza figura … che preferisce fermarsi … davanti a certi brutti quadri che rappresentavano per esempio un episodio della catastrofe di Casamicciola” cfr. T. Signorini, Del paesaggio e della sua influenza

nell’arte moderna, in «Gazzettino delle arti del disegno», 1968, n. 33, pp. 257-259, n. 34, pp.265-268; Daneo 1886, divisione I, arte

contemporanea, pp.106-107; B.Sperani, L’esposizione di Torino. Belle Arti. Paesaggi e paesisti, in «La Nazione», 20 giugno 1884, pp. 1-2; B. Sperani, L’esposizione di Torino. Belle Arti. Il capolavoro in «La Nazione», 10 luglio 1884, p. 2; L. Chirtani, L’Esposizione

Nazionale (a Torino). Ultima occhiata alla mostra artistica, in «L’Illustrazione Italiana», n. 44, 2 novembre 1884; Il Nuovo dopo la macchia, 2008, p. 15.

268

Sia il Proximus Tuus di Achille D’Orsi che L’Erede di Teofilo Patini sono conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. A Torino nel 1884 il dipinto di Patini fu esposto insieme a Vanga e latte, acquistato dal Ministero dell’Agricoltura dove tutt’oggi è conservato, mentre nel Veneto scoppiavano i primi moti agrari cfr. Picone Petrusa, Pessolano, Bianco 1988, p. 24; F. Cagianelli, Rapporti tra pittura e letteratura nella produzione di Lega e dei Tommasi sullo sfondo del Circolo

Artistico Fiorentino e del Circolo Filologico di Livorno, in Pittori in villa. Silvestro Lega e l’ambiente dei Tommasi a Crespina e dintorni,

1997, pp. 33-52; P. Nicholls, Il Naturalismo, in Italia in Pittura dei campi, 2002, p. 89; W. G., Omaggio a Teofilo Patini nel primo

centenario della morte (1906-2006), consultabile sul sito www.massoneriascozzese.it/storie_e_personaggi/omaggio_a_patini.pdf;

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Bruno Sperani, il corrispondente de «La Nazione», annunciò, non senza un certo orgoglio regionalistico, il successo dei toscani presso il pubblico torinese269, a differenza di quanto era accaduto a Torino tre anni prima270, grazie ad un raggiunto equilibrio di forma, colore e sentimento che era dato dal loro “fare (pittorico) più largo, più fluido alla maniera …” di Telemaco Signorini che in tale occasione aveva esposto il Ghetto di Firenze. L’opera, che s’inseriva nella via di definizione della veduta cittadina toscana intrapresa dal pittore fiorentino fin dalla fine degli anni Settanta, alla quale non erano estranei gli aggiornamenti prospettici effettuati nei suoi soggiorni francesi e inglesi, voleva essere una testimonianza visiva di uno dei quartieri storici del centro cittadino che, per ragioni di igiene e salute pubblica, sarebbero stati distrutti di lì a poco per lasciare spazio a soluzioni urbanistiche più moderne271.

Della prima generazione dei macchiaioli esponevano anche Lorenzo Gelati, Serafino de Tivoli con

A Marly272 e Odoardo Borrani con un’opera di genere ispirata ad una festività della campagna

toscana, La vigilia della sagra nella chiesa di Santa Monaca, una veduta di città, Rimini. La marecchia, e una pittura di interno della chiesa romana di Santa Maria della Vittoria rappresentante l’altare col gruppo berniniano de L’estasi di santa Teresa273

.

Tra i dipinti toscani Bruno Sperani cita in particolare le scene di vita quotidiana della campagna toscana dei pittori appartenenti alla seconda generazione dei macchiaioli piuttosto che quelli

269

Non altrettanto positiva, o comunque non priva di ombre e di luci, era l’analisi che Luigi Chirtani fece dei dipinti toscani, riconoscendo solo in Adolfo Tommasi colui che meglio di tutti dava le impressioni più vive della natura cfr. L. Chirtani, L’Esposizione

Nazionale (a Torino). Ultima occhiata alla mostra artistica, in «L’Illustrazione Italiana», n. 44, 2 novembre 1884, p. 274. Il passo

relativo ai pittori toscani si può leggere anche in Il Nuovo dopo la macchia, 2009, p. 139. 270

Maria Mimita Lamberti ritenne che l’insuccesso dei toscani a Torino nel 1880 era dovuto a cause esterne al campo pittorico vero e proprio, come la contrarietà degli artisti toscani ad accentrare le manifestazioni espositive a Roma sul modello francese cfr. A. Stella, Le esposizioni precedenti, in L’esposizione artistica nazionale illustrata di Venezia, 1887, pp. 42-44; M. Mimita Lamberti,

L’esposizione nazionale del 1880 a Torino, in «Ricerche di storia dell’arte», n. 18, 1982, pp. 37-54.

271

Il ghetto di Firenze del 1882 fu acquistato dalla Gallerina Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dove è conservato tutt’oggi, perché fu “ritenuta necessaria a documentare i progressi dell’arte italiana … tra istanze di realismo sociale e reazione spiritualista” cfr. B. Sperani, L’esposizione di Torino. Belle Arti, in «La Nazione», 19 giugno 1884; B. Sperani, L’esposizione di Torino. Belle Arti. La

giovine pittura toscana. I resistenti in «La Nazione», 20 luglio 1884, p.1; Americani a Firenze, 2012, pp. 263-264. Per la ricerca

pittorica che T. Signorini svolse in quella che Raffaele Monti definì “la definizione ufficiale della veduta cittadina toscana”, rappresentata dal Mercato Vecchio del 1882 vedi R. Monti, 1984, pp. 171-180; Il Nuovo dopo la macchia, 2009, p. 26; C. Sisi, Ore

toscane, in Americani a Firenze, 2012, pp. 73-74, scheda 64.

272

Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884, pp. 16-95; De Gubernatis 1903, pp. 179-180; A.M. Comanducci

cita De Tivoli Rive di un fiume a Marly le Roy e La Senna a Marly, esposta a Milano nel 1881 vedi Comanducci 1962, p. 612. 273

I dipinti di O. Borrani, L’Estasi di Santa Teresa, acquistato dalla regina Margherita all’esposizione di Firenze nel 1885, e Rimini. La

Marecchia, sono conservati a Firenze nella Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti cfr. Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884, pp. 16-95; De Gubernatis, 1906, p. 67-68; Odoardo Borrani, 1981, pp. 15, 304, tav. XXXVII; Contributo a Borrani, 1981, p. 83.

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dedicati alle calamità naturali che avevano colpito l’Italia negli anni precedenti, come il terremoto a Casamicciola nell’isola di Ischia nel 1883274, e l’inondazione che aveva colpito il Veneto nel 1882

raffigurato con un gesso bronzato dal giovane Giuseppe Norfini che suscitò l’ammirazione e le lodi da parte dei sovrani che lo acquistarono per 20.000 Lire275.

Interpreti della cosiddetta “pittura dei campi”, i fratelli Luigi e Francesco Gioli276

, Egisto Ferroni con Torna il babbo (fig. 1.1)277 e Niccolò Cannicci con La capra nutrice e Seminagione del grano

in Toscana278, seppero coniugare la tradizione pittorica toscana tre-quattrocentesca, caratterizzata

dall’alto rigore formale e basata sulla rappresentazione della realtà a loro contemporanea, già presa

274Il

tragico evento che aveva colpito l’isola d’Ischia il 28 luglio 1883 aveva fornito l’occasione per illustrare piccoli episodi di eroismo in circostanze drammatiche, come i dipinti del fiorentino Carlo Ademollo, Casamicciola. Concettina Gigante estratta dalle

macerie la notte del 30 luglio dai bersaglieri del 6 reggimento, esposto all’Accademia di Belle Arti di Firenze e annoverato tra i suoi

migliori lavori, e Una madre a Casamicciola del pugliese Saverio Altamura cfr. Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo

ufficiale, 1884, pp. 16-95; L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino illustrata, 1884, p. 315; V.Turletti, Esposizione nazionale. Belle Arti. Casamicciola, in «La Stampa. Gazzetta Piemontese», 17 giugno 1884, p. 2. Per C. Ademollo e V. Valentini, pittore di genere e di

ritratti vedi De Gubernatis 1903, p. 10; Comanducci 1962, p. 7. 275

L’alluvione che colpì l’arco alpino orientale tra il 16 e il 20 settembre 1882 fu immortalata nel drammatico gruppo in gesso bronzato del giovane fiorentino Giuseppe Norfini, iniziato alla pittura dal padre Luigi e successivamente studente presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Il bronzo, di proprietà della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, è in deposito alla Pinacoteca di Ascoli Piceno cfr. L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino illustrata, 1884, p. 313; L’esposizione di Torino.

Belle Arti, in «La Nazione», 30 aprile 1884, p. 2; B. Sperani, L’esposizione di Torino. Belle Arti. Il capolavoro, in «La Nazione», 10

luglio 1884, p. 2; Panzetta, 2003, pp. 653, 666. 276

I titoli dei quadri presenti nel catalogo ufficiale, Libeccio, Sulla strada maremmana e Cavallaro maremmano di Luigi Gioli,

Spaccapietre e Uva matura del fratello Francesco, testimoniano la produzione matura di quest’ultimo, compresa tra gli anni

Settanta e Ottanta e caratterizzata dai paesaggi agresti e dalla rappresentazione della vita dei campi, sicuramente influenzata dal viaggio che fece a Parigi nel 1875 e dalla pittura di Jules Breton e di Jules Bastien Lepage ma anche dal gusto verso il quale si andava orientando il mercato in quegli anni. In questa occasione anche il fratello minore Luigi, autodidatta in pittura, espose opere en plein air ambientate nella campagna toscana, come quello che Angelo De Gubernatis dichiarava essere uno dei suoi quadri più recenti,

Cavallaro Maremmano, “ove spicca sul davanti un bufalo abbandonato, che è reso come cosa viva” cfr. Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884; De Gubernatis 1903, pp. 230-231; Comanducci 1962, pp. 859-860; M. P. Winspeare, Cascina e la pittura macchiaiola. Per una lettura delle opere di Francesco e Luigi Gioli, in Cascina e la “macchia”, 1993, pp. 59-93; L.

Lombardi, Il Naturalismo in Toscana, in La pittura dei campi, 2002, pp. 61-62; Il Nuovo dopo la macchia, 2009, p. 19. 277

Torna il babbo (1883, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) di E. Ferroni fu realizzato nel periodo più

fecondo dell’artista toscano, prima della crisi causata dalla morte del secondogenito, ed è stato giudicato dalla critica come uno degli esiti più felici della sua parabola artistica. Le tre figure di tre quarti della giovane mamma e dei figli, ripresi in controluce nell’atto di salutare il ritorno del padre dai campi, erano giàstate utilizzate nel 1880 con Ecco il babbo,traduzione pittorica del gruppo scultoreo La madre che Adriano Cecioni aveva esposto a Torino nel 1880, dove già la figura paterna, assente, era annunciata dalla gioia dei familiari che lo attendevano cfr. Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884; A. Baldinotti, Il silenzio di Ferroni, in La pittura dei campi, 2002, pp. 53-54, scheda 20.

278

Laura Lombardi fa notare le affinità che dipinti come La seminagione del grano in Toscana di N. Cannicci (1882, Roma, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea) avevano con le opere dei pittori francesi ma anche con la pittura e la grafica inglese vittoriana, ancor più evidente ne La capra nutrice dove il soggetto evoca “oltre la matrice toscana ed il corrispettivo letterario delle novelle di Renato Fucini, il tono delle illustrazioni di maestri inglesi, quali Frederick Walker …, che alla solennità della pittura francese di Breton, Bastien Lepage o Lhermitte, avevano aggiunto una vena di patetismo gentile, insistendo sul tema dell’infanzia quale età di libertà e innocenza” cfr. Lombardi, 1995, tavv. 11, 15; L. Lombardi, Il Naturalismo in Toscana, in Pittura dei campi, 2002, pp. 66-69; N. Marchioni, Aspetti della diffusione del gusto anglosassone nella cultura artistica fiorentina del secondo Ottocento, in I giardini

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come base dai primi macchiaioli, con la pittura dei campi di Millet attraverso la mediazione delle opere di Jules Breton e Bastien Lepage279.

Adolfo Tommasi, considerato il miglior rappresentante della pittura naturalista toscana, scevra delle connotazioni veristiche al limite della protesta sociale e caratterizzata invece da un sentimento di partecipata comunione tra il ciclico passare delle stagioni e il faticoso lavoro del mondo contadino, presentò, tra gli altri, La malerba e Il fischio del vapore (fig. 1.2)280 che aveva suscitato un grande entusiasmo fin dal suo primo apparire alla promotrice fiorentina di quello stesso anno insieme a Passa il treno e Cutigliano, anch’essi riproposti a Torino.

Colui che tentò di abbandonare il rigoroso impianto formale e coloristico della tradizione toscana basata sulla verosimiglianza fu invece il giovane Ulvi Liegi che presentò tre studi dal vero caratterizzati da una pittura anticonvenzionale e vibrante nei tocchi veloci di colore281.

Accanto ai pochi dipinti di genere storico e letterario282 e a quelli sacri, quasi del tutto assenti, dei quali Bruno Sperani dichiarava la decadenza, si potevano trovare le opere dedicate alle battaglie risorgimentali e quelle raffiguranti gli aspetti quotidiani della vita militare come 1866! Linea di

279

Nel 1875 N. Cannicci, E. Ferroni, F. Gioli e G. Fattori si recarono a Parigi dove gli ultimi tre parteciparono al Salon e dove non mancò loro la possibilità di visitare la mostra dei pastelli di Millet, allestita all’Hotel Drouot, e il Musée du Luxembourg dove figurava Le soir di J. Breton del 1860 cfr. Monti 1985, pp. 9-10; R. Monti, Un’avventura toscana, in I postmacchiaioli, 1993, p. 9; A. Baldinotti, Il silenzio di Ferroni, in Pittura dei campi, 2003, pp. 41-60.

280

Malerba (1880, collezione privata) fu esposto alla Promotrice fiorentina nel 1880 mentre alla successiva esposizione di Torino fu

presentato Dopo la brina che suscitò scandalo per il soggetto trattato, incentrato sulla fuga prospettica di quattro filari di cavolfiore in un orto invernale. Il fischio del vapore del 1884 è conservato a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea cfr. De Gubernatis 1903, pp. 512-516; Monti 1985, pp. 15-17; I postmacchiaioli 1993, p. 13; F. Cagianelli, Rapporti

tra pittura e letteratura nella produzione di Lega e dei Tommasi sullo sfondo del Circolo Artistico Fiorentino e del Circolo Filologico di Livorno, in Pittori in villa, 1997, pp. 35-36; L. Lombardi, Il Naturalismo in Toscana, in Pittura dei campi, 2002, pp. 71-73; Il Nuovo dopo la macchia, 2009, p. 24.

281

Uno dei tre studi esposti, Lavandaie in tempo di pioggia, è stato identificato con il dipinto Lavandaie da Giuliano Matteucci e da Raffaele Monti, per la presenza degli ombrelli aperti, stesi sulla corda in alto a destra per riparare una donna china sulla conca. Questo dipinto è sintomatico del periodo iniziale della carriera artistica di U. Liegi, in controtendenza rispetto alla pittura più “riflessiva” della seconda generazione dei macchiaioli. Già Guido Carocci, nel recensire alcuni studi dal vero che U. Liegi aveva esposto alla promotrice fiorentina del 1882, aveva individuato, seppur non condividendola, la caratteristica principale della sua pittura: un’impressione fugace realizzata con dissonanze spaziali e tonali e con un disegno che si allontanava dalla veromiglianza naturalista per avvicinarsi al disegno infantile cfr. I postmacchiaioli, 1993, pp. 15-18; E. Lazzerini, Dall’esposizione di Torino del 1880

alla prima Esposizione Internazionale di Venezia, il motivo della pittura locale attraverso la produzione di Lega e dei Tommasi, in Pittori in villa. Silvestro Lega e l’ambiente dei Tommasi a Crespina e dintorni, 1997, p. 17.

282

Tra i soggetti storici possiamo ricordare Il congresso di Pontida di Amos Cassioli, Papa Clemente VIII di Luigi Norfini e Galileo

minacciato della tortura del livornese Carlo Chelli che lavorò su commissione del conte de Larderel per la realizzazione delle copie

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battaglia di Giovanni Fattori (fig.1.3)283, Campo militare e Partenza dei volontari livornesi di

Cesare Bartolena, esposto nel padiglione del Risorgimento284.

La costruzione di quest’ultimo s’inseriva in un periodo in cui l’interpretazione e la rappresentazione del Risorgimento stavano perdendo l’entusiasmo e i significati etici che avevano motivato i pittori-soldato nella prima metà del XIX secolo per entrare nel periodo della disillusione e della conseguente mitizzazione del recente passato. Per la mostra sul periodo di rinascita politica dell’Italia fu realizzato un apposito padiglione per il quale fu scelto “il severo ed elegante” stile del risorgimento dell’arte, quello rinascimentale. La facciata si presentava infatti con un porticato finestrato, sovrastato da un attico decorato con medaglioni circolari su cui erano dipinti “i sommi italiani che illustrarono la nostra patria”, da Petrarca a Michelangelo, da Ferruccio Ferrucci a Galileo Galilei. Il tutto culminava con lo stemma centrale sabaudo affiancato da due leoni, recanti una tavola con iscritte le date ‘1821-1884’, e replicato nei due scudi posti ai piedi delle due statue classiche laterali rappresentanti la Libertà e l’Indipendenza285

.

Alla mostra intervennero molte città italiane con documenti e oggetti, di proprietà pubblica e privata, che, selezionati dai comitati locali e legati ai protagonisti più o meno noti della vita politica, militare e culturale che avevano contribuito a cacciare i governi stranieri e ad unificare l’Italia, furono sistemati in modo tale da coinvolgere emotivamente i visitatori senza criteri scientifici di allestimento se non quello di non smembrare le raccolte private, come nel caso della ‘vetrina dei fratelli Savio’ che conteneva gli oggetti e le lettere appartenenti alla baronessa Olimpia Rossi-Savio,

283

Del dipinto di G. Fattori 1866! Linea di battaglia, spedito dall’artista livornese alla fine di giugno del 1884 a Torino e in un primo momento acquistato dal Ministero della Pubblica Istruzione su segnalazione di Ferdinando Martini, si parla nelle lettere che il pittore livornese scrisse al Martini tra l’estate del 1884 e il gennaio del 1885 cfr. Tempia 1884; B. Sperani, L’esposizione di Torino.

Belle Arti. Il sentimento religioso nella pittura, in «La Nazione», 6 luglio 1884, pp. 1-2; Colasanti 1923, p. 88; La galleria nazionale di arte moderna in Roma, 1923, p. 88; Giovanni Fattori. Epistolario edito e inedito, 1997, pp. 283-285, 291; Giovanni Fattori tra epopea e vero, 2008, pp. 108-119.

284

Per Campo militare di C. Bartolena vedi Comanducci 1962, pp. 126-127, mentre per La partenza dei volontari livornesi vedi

Museo Civico Giovanni Fattori, 1994, p. 22.

285

Riccio 1886, pp. 72-73;Daneo 1886, pp. 44-45; Tempia 1884, p. 19; F. D., Il tempio del Risorgimento, in L’Esposizione Italiana del

1884 in Torino illustrata, 1884, n. 8 pp. 9-62; R. Guerri, L’Esposizione generale di Torino del 1884 e la costruzione del mito del Risorgimento, in Risorgimento. Mito e realtà, 1992, pp. 24-25; La ‘religione’ della patria, 1994, p. 22.

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una delle tante protagoniste del dibattito politico e culturale degli anni precedenti la seconda guerra d’indipendenza, che vide la morte dei suoi due figli maggiori nelle battaglie meridionali del 1860286

. Un’esposizione teatrale e scenografica che veicolava una visione conciliatorista, monarchica-moderata del Risorgimento che dalla celebrazione pietistica dei martiri laici della libertà e dell’esercito culminava con quella del Pater Patriae, la cui statua bronzea, non a caso, dominava il salone centrale del padiglione287. Solo così la mostra era in grado di coinvolgere emotivamente un pubblico eterogeneo il cui tasso di analfabetismo era ancora di poco superiore al 50%, creando quindi un ampio consenso alle ragioni che avevano portato alla nascita del regno288: Raffaello Barbiera, redattore dell’ «Illustrazione italiana», riferì infatti che le classi sociali più povere, come la classe contadina o l’emergente classe operaia, frequentarono in maggior numero il padiglione del Risorgimento rispetto alle classi più abbienti289.

Tra i quadri esposti dai pittori toscani figuravano la Battaglia di San Martino di Luigi Norfini, l’allora direttore del Regio Istituto di Belle Arti di Lucca (1875-’97), e L’eccidio della famiglia Tavani-Arquati (fig. 1.4) di Carlo Ademollo. Il primo, il cui bozzetto, La collina di San Martino del 1874, è conservato nel Museo Nazionale di Palazzo Mansi a Lucca, fu commissionato da Vittorio Emanuele II insieme alla Battaglia di Palestro, e rappresenta l’attacco decisivo che l’esercito sardo-piemontese portò all’ala destra austriaca il 24 giugno 1859, rientrando così tra la serie dei soggetti

286

La mostra del Risorgimento fu aperta al pubblico il 4 maggio 1884, dopo 5 giorni dall’inaugurazione dell’esposizione (29 maggio) e, nel caso di alcune città, risultò il punto di partenza per la costituzione dei futuri Musei del Risorgimento cfr. Cronaca

dell’Esposizione, in L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino, 1884, n. 1, p. 6; L’esposizione di Torino. L’inaugurazione, in «La

Nazione», 29 aprile 1884; L’esposizione di Torino. La mostra del risorgimento italiano, in idem, 5 maggio 1884, p. 2.

Il Catalogo degli oggetti esposti nel Padiglione del Risorgimento Italiano, pubblicato in quattro volumi dal 1886 al 1894, così come quelli delle commissioni cittadine espositrici, sono invece suddivisi secondo la tipologia (Medagliere, Oggetti, Documenti, Bibliografia) e la cronologia del materiale inviato; anche ne «La Nazione» del 7 maggio 1884, si legge infatti che “la mostra è disposta per ordine di città a gruppi cronologici” cfr. Nel tempio del Risorgimento, in L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino, 1884, pp. 266-268; L’Esposizione di Torino. La mostra del Risorgimento Italiano, in «La Nazione», 5 maggio 1884, p. 2; Catalogo degli

oggetti esposti. Oggetti, 1888; La ‘religione della patria’, 1994, p. 28; Guetta 2007, pp. 87-91. Per la biografia della baronessa

Olimpia Rossi-Savio vedi Bertolo 2011, pp. 86-100. 287

L’Esposizione di Torino. Il Pantheon del Risorgimento italiano, in «La Nazione», 7 maggio 1884, p. 2; Nel tempio del Risorgimento,

in L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino, 1884, pp. 259-260; Tempia 1884, p. 20; Catalogo degli oggetti esposti nel padiglione del

Risorgimento italiano, 1888, parte 2, oggetti, p. 7.

288

La percentuale è riferita all’anno 1881 cfr. G. Vigo, Gli italiani alla conquista dell’alfabeto, in Fare gli italiani, tab. 4, p. 51; R. Guerri, L’Esposizione generale di Torino del 1884 e la costruzione del mito del Risorgimento, in Risorgimento. Mito e realtà, 1992, p. 26.

289 «

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88

di battaglie eseguiti dai pittori-soldato, come fu il Norfini che era solito affermare che “l’artista deve abituare l’occhio e la mano ad afferrare e a riprodurre la prima impressione del vero…”290

. Il dipinto di Ademollo s’inserisce all’interno della celebrazione dei martiri della patria che in questo caso è dedicata a Giuditta Tavani, la trasteverina rimasta uccisa in seguito all’attacco degli zuavi al lanificio di Giulio Ajani dove si trovava insieme al marito Francesco Arquati, al figlio Antonio ed altri patrioti lì riunitisi per organizzare una sommossa affinché Roma insorgesse contro il potere temporale di Pio IX291. Tra i patrioti uccisi spicca il gruppo della famiglia Arquati e in particolare quello di Giuditta e del figlio, giacenti esanimi in un lago di sangue, illuminato dalla luce esterna che entra nella stanza da sinistra292.

Come già aveva preannunciato la prima esposizione nazionale di Firenze, nella scultura prevalsero le opere di ‘genere’ con un proliferare di statue e statuette muliebri e infantili, oggetti consoni per l’arredamento interno o esterno di una casa borghese ma fortemente osteggiati dalla critica all’esposizione di Milano del 1881293

. La Toscana, in questo senso, non faceva eccezione sia con i giovani artisti sia con quelli più anziani come Ulisse Cambi che presentava due statuette in marmo Mandolinista e La sposa novella e Adriano Cecioni, scultore, pittore e critico d’arte che aveva tradotto il realismo pittorico dei macchiaioli nella scultura fin dagli anni Sessanta294.

290

Luigi Norfini partecipò alla battaglia di Curtatone e Montanara durante la prima guerra d’indipendenza, abbandonando gli studi accademici che aveva intrapreso a Firenze; la sua affermazione sul modo di porsi degli artisti nei confronti della pittura fu ricordata in occasione della sua commemorazione nella città natale da Luigi de’ Servi, uno dei suoi più noti allievi. La battaglia di San Martino di L. Norfini è conservato nel Palazzo Reale di Torino dove si trovano anche La battaglia di Palestro e La visita di Vittorio Emanuele

al castello di Brolio cfr. De Gubernatis 1903, pp. 334-335; Dizionario illustrato dei pittori, 1970, pp. 22-32; La battaglia di San Martino, 1874; Luigi Norfini. Artista e uomo, 1925, p. 2; Arrighi 1950, in particolare p. 7; Luigi de’ Servi. Ritratto d’artista, 2001, p.

120; Mazzanti 2011, p. 119. 291

Il dipinto di C. Ademollo del 1880 è conservato a Milano presso il Museo del Risorgimento.L’episodio e i morti sono tutt’oggi ricordati da un’epigrafe su cui troneggia il piccolo busto di Giuditta, in via della Lungaretta 97, Roma. L’epigrafe fu posta dai cittadini del rione di Trastevere e dalla Società Operaia Centrale di Roma nel decimo anniversario del fatto, il 25 ottobre 1877, e fu presentata nel padiglione del Risorgimento nel 1884. La commemorazione del tragico evento iniziò sotto l’amministrazione del mazziniano Ernesto Nathan (1901-1913) finché nel 1929 l’epigrafe non fu nascosta. Fu riscoperta dopo la Liberazione insieme alla cerimonia commemorativa ripresa dal sindaco Ugo Vetere (1981-’85) fino ai giorni nostri cfr. Bertolo 2011, pp. 296-302;

www.uaar.it/news/2006/10/17/ottobre-cerimonia-per-139esimo-anniversario-della-morte-giuditta-tavani-arquati/. 292

L’eccidio della famiglia Ajani, in L’esposizione del 1884 in Torino illustrata, 1884, p. 86. Un’altra versione del dipinto, conservata

in una collezione privata, è stata esposta alla mostra di Seravezza del 2010 cfr. Italia sia! Fatti di vita e d’arme del Risorgimento

italiano, 2010, p. 2010.

293

Mimita Lamberti 1982, p. 40. 294

Di A. Cecioni è noto appunto il Suicida (1866, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna), gesso eseguito durante il suo soggiorno napoletano tra il 1863 e il 1867 che a Firenze non trovò il sussidio finanziario necessario per la sua trasposizione in marmo, e Bambino con gallo (1868, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna) che ebbe un discreto successo al Salon parigino

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89

L’unica opera acquistata dal Governo fu L’inondazione del Veneto di Giuseppe Norfini (fig. 1.5) che aveva ottenuto il consenso generale grazie all’espressione di paura e dolore scolpita soprattutto nel volto della madre che tenta disperatamente di portare in salvo se stessa e il figlio, alle dimensioni monumentali dell’opera che la ponevano a confronto con i grandi maestri del passato e alla capacità di resa della morbidezza della pelle295.

Fig. 1.1. E. Ferroni, Torna il babbo. 1883, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

del 1870. A Torino nel 1884 presentò un ritratto di donna in marmo e una scultura in terracotta, Rebecca cfr. Esposizione Generale

italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884; Panzetta 2003, pp. 194, 212.

295

L’opera di Giuseppe Norfini, conservata presso la Pinacoteca di Ascoli Piceno come deposito della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nel catalogo è denominata “Un episodio dell’inondazione del Veneto”. L’apprezzamento per il modellato era tanto più sentito dal momento in cui il mercato di allora sembrava essere “… (schiacciato) dalla mania invadente delle statuine microscopiche, dai gruppetti lillipuziani …”, come faceva notare un articolo del «Fieramosca» riportato in De Gubernatis 1903, pp. 333-334; Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884; Panzetta 2003, pp. 653, 662.

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90

Fig. 1.2. A. Tommasi, Il fischio del vapore. 1884, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Fig. 1.3. G. Fattori, 1866! Linea di battaglia. 1884, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

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§ 2 – L’eclettismo nelle arti applicate.

Secondo Camillo Boito le arti applicate peccavano per eccessiva commistione di stili e testimoniavano forme di alto artigianato incline al virtuosistico e al bizzarro, destinate ad un mercato medio-alto296.

A vent’anni dalla prima esposizione nazionale l’oreficeria italiana, secondo quanto affermava Edoardo Daneo, compilatore della relazione generale dell’esposizione, era avvicinabile alle Belle Arti soprattutto in determinate lavorazioni, come lo sbalzo e la cesellatura in argento e in ferro ageminato, l’incisione su cammeo, su gemme e sulle pietre dure e nell’arte del mosaico dove era rispettata l’antica tradizione artigianale. Riscontrava invece una produzione seriale, ormai sulla via dell’industrializzazione in quelle opere che, destinate all’uso quotidiano, erano rivolte ad un mercato più diversificato, tra le quali cita “l’argenteria da tavola … i servizi in metallo galvanizzato” e gli arredi ecclesiastici dove, evidentemente, l’applicazione delle recenti tecniche elettro-chimiche, come la galvanoplastica e la galvanostegia, aveva affiancato, in parte sostituendola, la lavorazione artigianale297.

Tuttavia il persistente prevalere della manualità nella lavorazione orafa può probabilmente spiegare la scelta della dislocazione del padiglione dell’oreficeria alle spalle del colonnato semicircolare della scultura invece che all’interno di quello delle industrie manifatturiere. La struttura classicheggiante di tale padiglione era costituita da un portico greco con colonne dipinte in giallo e rosso e dava accesso al salone centrale, sede dell’esposizione dei lavori di nichelatura d’argento, di cesellatura e di oreficeria antica, e a due sale adiacenti illuminate da lucernari che presentavano,

296

Picone Petrusa, Pessolano, Bianco 1988, p. 94. 297

La galvanoplastica, la produzione in serie di oggetti realizzata grazie al procedimento elettrolitico, mediante la precipitazione dei metalli su un modello, e la galvanostegia, ovvero l’arte di dorare o coprire di altri metalli la superficie di un qualunque metallo, sostituirono la tecnica della placcatura e la velenosa doratura a mercurio apartire dal 1840. La galvanoplastica, sviluppatasi in particolare a Firenze con la Società galvanoplastica, diretta da Edoardo Clifenti, se da un lato estese la possibilità di acquistare i prodotti artistici ad un mercato più ampio, dall’altra fu accusata del decadimento dell’arte poiché, a causa della facilità con cui si potevano riprodurre le forme più elaborate, gli orafi rinunciarono a sperimentare forme nuove cfr.Daneo 1886, p. 150; G. Bucco,

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nella sala di destra, i prodotti della gioielleria e dell’oreficeria moderna, in quella di sinistra i lavori in filigrana, a mosaici, in pietre e i coralli298.

Tra i centododici espositori solo cinque, provenienti da Firenze e tutti premiati, rappresentavano la Toscana ribadendo quanto già rilevato dal Boselli nella sua relazione sull’attività orafa in Italia che vedeva il primato di Milano “con novantacinque fabbricatori di oreficeria e gioielleria fine, tre fabbricanti di sole catene d’oro, dodici fabbricanti di argenteria e otto di oreficeria falsa che danno lavoro a milleduecento operai”, mentre Firenze poteva contare su quaranta fabbriche con trecentoventi operai delle quali sette lavoravano nel settore della gioielleria, sei in quello dell’argenteria e la maggioranza in quello delle montature in mosaico e nell’oreficeria d’argento299

. Il giornale dell’esposizione, pubblicato dalla casa editrice Sonzogno, cita solo Enrico Rinaldini di Firenze tra gli orefici-gioiellieri toscani che si erano presentati a Torino300; fabbricante di gioielleria artistica e di fantasia, il Rinaldini, che sarà presente anche all’esposizione internazionale di Liverpool del 1886, dove le sue argenterie saranno le uniche ad emergere, e a quella italiana di Londra del 1888 con la riproduzione di “lavori etruschi”301, ricevette la medaglia d’argento.

298

L’Esposizione italiana del 1884 in Torino illustrata, 1884, pp. 27, 254-255; Riccio 1884, p. 67.

299

L’orafo all’esposizione, in L’Esposizione italiana del 1884 in Torino illustrata, 1884, p. 30.

300

Tra gli orefici è da ricordare Giuseppe Brisighelli di Udine, interprete del revival rinascimentale nella ripresa dei motivi decorativi e delle tecniche artistiche come l’agemina, il niello e lo smalto, nonché produttore di oggetti di produzione corrente realizzati in galvanoplastica e galvanostegia, tecniche di cui aveva appreso l’uso in Francia. Al suo soggiorno torinese, 1884-1901, è datato un album di disegni rappresentante tutta la sua produzione improntata al gusto eclettico, nella quale prevalse lo stile neorinascimentale cfr. Edo, L’Oreficeria, in L’Esposizione italiana del 1884 in Torino, 1884, p. 254; G. Bucco, Orefici udinesi del XIX

secolo, in Ori e tesori d’Europa. Mille anni di oreficeria nel Friuli Venezia Giulia, 1992, pp. 384, 398-399; G. Bucco, Le tecniche orafe in Italia nel XIX secolo fra tradizione e progresso tecnologico, in Gioielli in Italia. Temi e problemi del gioiello italiano tra XIX e XX secolo, 1996, p. 31; Lenti, Bergesio 2005, pp. 42-43.

Giuseppe Franconeri di Napoli, gioielliere di Casa Savoia, fu invece un grande interprete del gusto naturalistico e un assiduo sperimentatore di gioielli smontabili dei quali si dava un’ampia campionatura all’esposizione di Torino del 1884 cfr. Edo,

L’Oreficeria, in L’Esposizione italiana del 1884 in Torino, 1884, p. 254; G. Bucco, Le tecniche orafe in Italia nel XIX secolo fra tradizione e progresso tecnologico, in Gioielli in Italia. Temi e problemi del gioiello italiano tra XIX e XX secolo, 1996, p. 40; Lenti,

Bergesio 2005, p. 111.

L’altra ditta orafa napoletana presente a Torino era quella di Giuseppe Knight che produceva principalmente gioielli ispirati a manufatti pompeiani che furono affiancati da altri di gusto naturalistico apportato dal figlio Carlo, come la collana con pendente, realizzata con rose di brillanti intrecciate, riprodotta sul giornale dell’esposizione cfr. Edo, L’Oreficeria, in L’Esposizione italiana del

1884 in Torino, 1884, p. 254; Lenti, Bergesio 2005, pp. 147-148.

Una collezione di gioielli in stile archeologico erano esposti dalla rinomata bottega romana dei Castellani che in questa occasione si presentava però fuori concorso, e da Luigi Pierret cfr. Edo, L’Oreficeria, in L’Esposizione italiana del 1884 in Torino, 1884, p. 255; Lenti, Bergesio 2005, pp. 222-223.

301

Il Rinaldini non viene invece citato nel giornale dell’esposizione pubblicato da Roux e Favale. La sua bottega era situata in via Maggio 6 e nell’ Indicatore del 1881 e del 1882 viene indicato come specializzato nella tecnica del niello cfr.Indicatore generale della città di Firenze: amministrativo, commerciale, artistico, industriale e stradale, Firenze, 1881-1884; L’orafo all’esposizione, in L’Esposizione italiana del 1884 in Torino illustrata, 1884, p. 30; Torino e l’esposizione italiana del 1884: cronaca illustrata della

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La tipologia dei prodotti di “bisotteria artistica” da lui esposti era ampia, si potevano trovare le minuterie da ornamento per signore e gli oggetti di uso comune come calamai e specchietti, tra i quali fu apprezzato uno di forma ovale da mano per la sobrietà ornamentale di un “filettino … in oro sul nero dell’ossido”. Nella seconda metà del XIX secolo l’uso di dorare o di applicare la tecnica dell’agemina dorata sull’oggetto ossidato, facilitata dalle nuove tecniche elettro-chimiche, veniva fatto abitualmente, soprattutto nei manufatti ispirati allo stile rinascimentale, per accentuare il contrasto cromatico dei metalli302 che, nel caso del Rinaldini, doveva dare risultati piuttosto soddisfacenti vista la lucentezza con cui erano apprezzati i suoi lavori grazie ad un procedimento di ossidazione di sua creazione invidiatogli anche dagli stranieri303.

Lo specchio ovale testimonia il gusto eclettico diffuso in Italia in epoca umbertina: il tralcio di fiori che ne orna il retro è l’unico elemento naturalistico inserito all’interno di una struttura che ricorda lo stile Neoclassico-Direttorio per gli elementi che la costituiscono, come la colonna scanalata con capitello decorato da elementi fitomorfi, il plinto con i quattro medaglioni circolari rappresentanti profili umani archeologizzanti e l’aquila ad ali spiegate su cui s’innesta la superficie ovale dello specchio304 (figg. 2.1, 2.1a).

La disposizione asimmetrica del tralcio floreale che, seguendo la linea curva dello specchio, crea un certo movimento nello spazio, così come il suo decorativismo calligrafico possono ricordare, sebbene a grandi linee, gli elementi ornamentali giapponesi che negli anni Ottanta furono raccolti nei volumi di Thomas William Cutler, A grammar of Japanese Ornament and Design pubblicato nel 1880 (fig. 2.1b)305, e di George Ashdown Audsley, The Ornamental Arts of Japan del 1882, nei

esposizione nazionale-industriale ed artistica del 1884, 1884; Esposizione italiana di Londra, 1888, sezione B, argenteria, oreficeria

ecc, categoria B, lavori in argento e gioielleria; Capitanio 1996, p. 157; Lenti, Bergesio 2005, p. 242. 302

G. Bucco, Le tecniche orafe in Italia nel XIX secolo fra tradizione e progresso tecnologico, in Gioielli in Italia. Temi e problemi del

gioiello italiano tra XIX e XX secolo, 1996, p. 32.

303

Edo, L’oreficeria, inL’Esposizione italiana del 1884 in Torino, 1884, p. 255; Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884, classe XI, lavori da orefice e gioielliere, categoria I, preparazione e lavorazione di metalli preziosi; Premi conferiti agli espositori secondo le deliberazioni della giuria, 1884; G. Bucco, Le tecniche orafe in Italia nel XIX secolo fra tradizione e progresso tecnologico, in Gioielli in Italia. Temi e problemi del gioiello italiano dal XIX al XX secolo, Venezia 1996, pp. 25-32.

304

L’oreficeria, inL’esposizione italiana del 1884 in Torino, 1884, pp. 255, 300; Donaver, Dabbene 1989, p. 15.

305

Nella sua pubblicazione T.W. Cutler, architetto inglese, non pone dei principi di grafica come aveva fatto Owen Jones con

Examples of Chinese Ornament del 1862, ma analizza le caratteristiche dell’arte giapponese, scevra della rappresentazione del vero,

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quali i motivi decorativi, decontestualizzati e privati dei loro originari significati, fornivano da modello per la produzione artigianale e industriale europea, affiancandosi così ai manufatti giapponesi che erano giunti in Europa tredici anni prima306.

Se fino agli anni Novanta del secolo scorso permaneva il giudizio che in Italia la moda del giapponismo si era diffusa con un certo ritardo307 e attraverso la mediazione di nazioni come la Francia308 e l’Inghilterra309, la mostra allestita a Firenze, in diversi ambienti di Palazzo Pitti, ha invece sviluppato quegli approfondimenti sulla ricezione dell’arte giapponese in Italia che erano già stati avvertiti come necessari da alcuni studiosi americani alla fine degli anni Settanta del XX secolo310.

Anche in Italia non mancarono gli incontri diretti con i manufatti giapponesi che servirono da motivi ispiratori per gli artisti e gli artigiani fin dalla metà dell’Ottocento; in particolare, in Toscana

G. A. Audsley col suo volume che riproduceva oggetti d’arte giapponese per rendere visibile l’equivalenza che esisteva in tali manufatti tra “arte” e “decorazione” cfr. F. Morena, I repertori d’arte dell’estremo oriente nelle raccolte di incisioni inglesi della fine

del XIX secolo, in «DecArt», n. 2, 2004, pp. 138-140, 145-156.

306

La prima grande mostra di arte giapponese fu allestita all’esposizione universale di Parigi del 1867 anche se nella capitale francese l’arte giapponese era già oggetto di discussione nella Società di Jing-Lar cfr. L. Crusvar, La maschera, l’onda e la danzatrice.

Il mito della grafica giapponese, in Il sentiero dei mille draghi, 1981, pp. 76-79;Il simbolismo dei fiori che caratterizzava la cultura giapponese è ricordato in Wichmann 1981, pp. 86-89;D. C. Fuchs, Frederick Stibbert e il Giapponismo, in Draghi e peonie, 1999, pp. 24-27; Colle 2007, pp. 122-126.

307

Marco Fagioli ha riconosciuto la prima rappresentazione della Madama Butterfly di Giacomo Puccini al Teatro della Scala nel 1904 come l’evento decisivo per la formazione del gusto del japonisme moderno e del collezionismo delle stampe nipponiche in Toscana, anche se rappresentazioni teatrali ‘giapponesizzanti’ si tennero fin dalla metà degli anni Ottanta del XIX secolo, prima fra tutte Iris di Pietro Mascagni che debuttò al Teatro Costanzi di Roma alla fine del 1898 cfr. M. Fagioli, L’ukiyoe. Fortuna e

collezionismo in Toscana, in Firenze, il Giappone e l’Asia Orientale, 2001, pp. 399-400; M. Beccatini, Influenza della cultura giapponese sul teatro italiano, in Giappone, terra d’incanti. Giapponismo, 2012, pp. 248-249.

308

A Parigi si cominciò a discutere di arte giapponese agli inizi degli anni Sessanta e tra coloro i quali diffusero tale arte si possono ricordare, oltre al gruppo degli Impressionisti, i fratelli Goncourt che valorizzarono la xilografia giapponese, e il decoratore e ceramista Félix Braquemond che manifestò l’influenza del pittore giapponese Hokusai nel servizio di porcellana realizzato per Eugène Rousseau nel 1867. Se inizialmente il giapponismo non era che un fenomeno di élite, negli anni Ottanta si trasformò in un fenomeno di massa; nell’ultimo ventennio del XIX secolo erano infatti molto diffusi i pendenti, di produzione francese, realizzati in smalto champlevé che riproponevano motivi naturalistici giapponesizzanti su fondi azzurri. Alcuni di questi di forma circolare e ovale, dai colori vivaci, sono stati illustrati in una tavola dell’album dell’orafo parigino Hippolyte Vaubourzeix cfr. Mascetti 1984, p. 3; Lenti 1998, p. 29; Giapponismo: una moda europea, in Flavia Arzeni 1987, pp. 11-54, in particolare per l’Italia vedi pp. 41-51. 309

In Inghilterra l’interesse verso l’arte giapponese si orientò soprattutto verso le imitazioni orafe dei prodotti nipponici, che cominciarono a circolare tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del XIX secolo, e sugli aspetti tecnici della lavorazione. Lia Lenti fa notare come a causa delle regole sulla marchiatura alle quali erano vincolati gli orafi inglesi, essi “dovettero modificare la tecnica originaria (giapponese), imitando le sfumature con l’uso di leghe auree di colori diversi o di bagni galvanici”. Tali tecniche furono note anche in Italia visto che furono descritte dal designer milanese di gioielli, Camillo Bertuzzi, impiegato in una bottega orafa londinese dagli inizi degli anni Settanta, ai nipoti Vincenzo Melchiorre e Luigi Rolandi che avevano una bottega orafa a Valenza in Piemonte cfr. Giapponismo: una moda europea in Flavia Arzeni 1987, pp. 34-35; Lenti 1998, pp. 65-68. Per la fabbrica Melchiorre e C. si può leggere L. Lenti, Il liberty, rinnovamento dello stile e dei modelli nella gioielleria italiana del primo novecento.

La “fabbrica di oreficerie e gioiellerie Melchiorre e C., in Gioielli in Italia. Temi e problemi del gioiello italiano dal XIX al XX secolo,

1996, pp. 107-111. 310

V. Farinella, “Questo seduttore implacabile”. Vie del Giappone nella cultura figurativa italiana, in Giappone, terra d’incanti.

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il giapponismo si era presentato nella prima metà degli anni Sessanta in ambito pittorico per poi svilupparsi ulteriormente a partire dal 1865, in seguito alla ripresa dei rapporti commerciali tra il Giappone e l’Europa311

. Ben tre volte, nel giro di un decennio, Firenze fu protagonista diretta e indiretta degli scambi diplomatici con la nazione nipponica: nel 1866 l’antropologo Enrico Hillyer Giglioli ritornò dalla prima missione del governo italiano in Oriente con diversi oggetti e fotografie dei luoghi visitati, mentre due successive delegazioni giapponesi soggiornarono a Firenze nel 1867 e nel 1873 durante i viaggi diplomatici in Europa. Inoltre, fin dal 1869 l’antiquario della corte Sabauda, Janetti, aveva aperto una bottega nel capoluogo toscano che, dalle cronache dell’epoca, risultava essere una delle più fornite della regione per quanto riguardava i prodotti giapponesi e cinesi, alla quale fece riferimento anche Frederick Stibbert per la sua collezione di manufatti, armi e armature nipponiche, aperta al pubblico nel 1887312.

Tra i vari oggetti della collezione è presente una Coppa risalente alla seconda metà del XIX secolo dove un albero di ciliegio si staglia sullo sfondo dorato, assecondando con i suoi rami la linea curva della coppa313.

La bottega orafa Canocchi e Chiari314 fu premiata con la medaglia di bronzo per gli articoli appartenenti alla cosiddetta ‘oreficeria fantasia’ il cui sviluppo nel capoluogo toscano, ipotizzato come uno dei centri italiani specializzati nella produzione di oreficeria classicheggiante, era dovuto alle creazioni di Camillo Bertuzzi, designer di gioielli e direttore artistico presso i fratelli Marchesini dal 1871 al 1877315.

311

Il primo dipinto ‘giapponista’ è L’Alzaia di Telemaco Signorini (1864) cfr. Farinella, “Questo seduttore implacabile”. Vie del

Giappone nella cultura figurativa italiana, in Giappone, terra d’incanti. Giapponismo, 2012, pp. 22-23; M. Becattini, Il contesto culturale per la nascita del Giapponismo in Toscana, in idem, pp. 34-37.

312

Il negozio Janetti era consigliato da Pietro Coccoluto Ferrigni per chi fosse alla ricerca di oggetti giapponesi di qualità cfr. D. C. Fuchs, Frederick Stibbert e il Giapponismo, in Draghi e peonie. Capolavori della collezione giapponese, 1999, pp. 24-26.

M. Becattini, Il contesto culturale per la nascita del Giapponismo in Toscana, in Giappone, terra d’incanti. Giapponismo, 2012, pp. 34-45, nota 23.

313

D. C. Fuchs, Frederick Stibbert e il Giapponismo, in Draghi e peonie. Capolavori della collezione giapponese, 1999, tav. 32. 314

Gli orefici P. Canocchi e G. Chiari sono menzionati tra i gioiellieri, orefici e argentieri di Firenze nell’Indicatore del 1884 e in quello del 1883 con bottega in borgo San Jacopo ma non in quelli del 1882 e 1881 cfr. Indicatore generale della città di Firenze:

amministrativo, commerciale, artistico, industriale e stradale, Firenze, 1881-1884.

315

Il termine ‘oreficeria fantasia’, usato nel catalogo ufficiale dell’esposizione, definiva quei manufatti che all’esecuzione virtuosistica, al contenuto d’arte e alle novità dei soggetti, caratteristiche tipiche della ‘bijouterie fantasie’ francese, univano la preziosità dei materiali utilizzati. Nella relazione dei giurati dell’esposizione milanese del 1881 si parla di “articolo d’argento di fantasia” all’interno della categoria “argenteria piccola” della classe della “gioielleria ed oreficeria fina” cfr. Esposizione industriale

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La collaborazione del Bertuzzi con i Marchesini aveva proposto al mercato nobiliare e borghese fiorentino e italiano le novità provenienti da Parigi e da Londra improntate al gusto eclettico, ma anche i nuovi generi che riprendevano, attualizzandolo, il repertorio decorativo manierista conosciuto come “genere artistico” o “alla Cellini” per il quale la bottega Marchesini aveva ottenuto la medaglia d’oro all’esposizione internazionale marittima di Napoli nel 1871316. L’aggiornamento

stilistico non fu abbandonato nemmeno dopo la partenza del Bertuzzi da Firenze nel 1878, ma fu portato avanti da Eugenio Marchesini anche se privilegiando una maggiore sobrietà, ispirata in particolare al gioiello tardo vittoriano piuttosto che al gusto naturalista giapponesizzante che si era sviluppato in Francia317.

Nella categoria ‘Preparazione e lavori di metalli preziosi’ figurava anche il battiloro Giusto Manetti che realizzava fogli d’oro e d’argento per i mobili il cui colore e la cui lucentezza erano particolarmente apprezzati a Parigi318.

Gli orefici Emilio Panerai e Luigi Ricci si erano specializzati invece nella produzione di bigiotteria realizzata con pietra turchese che, nonostante avesse superato il suo periodo d’oro da circa vent’anni, otteneva ancora buoni risultati alle esposizioni italiane ed estere, come in quella di Milano del 1881 dove il Panerai aveva ricevuto una menzione onorevole per i manufatti “d’argento

italiana del 1881 in Milano. Relazione dei giurati, 1881, p. 21; Esposizione Generale italiana in Torino. Catalogo ufficiale, 1884,

classe XI, lavori da orefice e gioielliere, categoria I, preparazione e lavori di metalli preziosi; L. Lenti, Gli album dei Marchesini.

Committenze aristocratiche e pubblico alto-borghese nell’Italia umbertina, in Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice. Materiali, opere, committenze, 2005, pp. 178-179; Lenti, Bergesio 2005, pp. 16-17, 97-99.

Per Camillo Bertuzzi vedi Lenti 1998; Lenti, Bergesio 2005, pp. 39-40. 316

Il 1871 risultò un anno molto importante per i Marchesini visto che in quell’anno, oltre alla medaglia d’oro all’esposizione di Napoli che rese la bottega fiorentina un’accanita antagonista della bottega romana dei Castellani, si data l’apertura del laboratorio “artistico-industriale” di via Tornabuoni 9 ad opera dei fratelli Eugenio e Odoardo e quella del negozio romano che, tenuto da Odoardo fino alla sua morte prematura nel 1877, diffuse lo stile “etrusco-raffaellesco” nella gioielleria degli anni Ottanta del XIX secolo. Le due nuove attività si andavano ad affiancare a quella del padre Niccola la cui bottega con annesso laboratorio si trovava sul Ponte Vecchio ai numeri 8 e 9 cfr. Indicatore generale della città di Firenze: amministrativo, commerciale, artistico, industriale e

stradale, Firenze, p. 170; Lenti 1998, pp. 35-60; L. Lenti, Gli album dei Marchesini. Committenze aristocratiche e pubblico alto-borghese nell’Italia umbertina, in Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice. Materiali, opere, committenze, 2005, pp. 169-179; E. Colle, Artigianato artistico e industrie a Firenze tra Ottocento e Novecento, in I giardini delle regine, 2004.

317

Del gioiello vittoriano sono stati individuati tre diversi periodi in base alle caratteristiche stilistiche dei gioielli. Il secondo periodo cha va dal 1860 al 1885 è il cosiddetto “periodo di lutto” durante il quale i gioielli si contraddistinsero per il loro colore scuro cfr.

Collezioni fiorentine di gioielli, s.a., p. 13.

I disegni che Camillo Bertuzzi realizzò per la manifattura orafa londinese Buller, Hutchinson and Co. dal 1871 costituiscono uno “dei repertori disegnativi più completi e rappresentativi del gusto e dei generi dell’oreficeria e della gioielleria inglese” degli anni Ottanta del XIX secolo cfr. Lenti 1998, p. 61;L. Lenti, Gli album dei Marchesini. Committenze aristocratiche e pubblico alto-borghese

nell’Italia umbertina, in Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice. Materiali, opere, committenze, 2005, pp. 180-183.

318

Esposizione industriale italiana del 1881 in Milano. Relazione dei giurati. Le arti usuali, 1882, sezione XXII, classi 42, 43, gioielleria

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98

con turchine incassate a pavé” e in quella di Torino nel 1884 dove il Ricci, fornitore di Casa Savoia, riconfermò il suo successo con i gioielli in turchine e mosaico anch’essi realizzati a pavé319.

Una parte dell’attività orafa che si svolgeva a Firenze era dedicata alla riproduzione di opere degli artisti del Cinquecento, tra i quali si può citare Benvenuto Cellini che, come si legge nell’Indicatore generale della città del 1887, venivano eseguite nella bottega di Ferruccio Donati che ottenne una menzione onorevole nella categoria ‘Oreficeria e argenteria’320

dove si distinse in particolare l’orefice milanese Eugenio Bellosio con varie opere, tra cui un piatto in argento, dal contro fondo in lamina di ferro, sbalzato e cesellato raffigurante la lotta tra i giganti e i nani321.

Come gli orefici anche i produttori fiorentini di opere in mosaico, dai piani di tavolo ai gioielli, furono tutti premiati a dimostrazione dell’abilità artigianale che in alcuni casi si associava all’aggiornamento stilistico della produzione secondo le teorie estetiche che Camillo Boito andava proponendo al fine di creare uno stile unitario che utilizzasse gli stili storici con una più attenta osservazione della natura322.

Tralci di diverse varietà di fiori caratterizzavano per esempio la produzione degli anni Ottanta dell’Opificio delle Pietre Dure, come quelli che costituiscono la serie delle sei formelle ellittiche

319

L’incastonatura a pavé consiste nell’incastonare le gemme le une vicine alle altre in modo da celare completamente il fondo metallico.Oltre ai gioielli realizzati in turchine Emilio Panerai aveva esposto anche manufatti di fantasia in argento bianco, ossidato e con ornamenti d’oro cfr. Esposizione industriale italiana del 1881 in Milano. Catalogo ufficiale, Milano, 1881; Esposizione

industriale italiana del 1881 in Milano. Relazione dei giurati. Le arti usuali, 1882, sezione XXII, classi 42, 43, gioielleria ed oreficeria

fina, p.19;Indicatore generale, 1884, gioiellieri, orefici e argentieri; Mascetti 1984, p. 36.

320

F. Donati viene indicato anche come intarsiatore in oro e in argento e come scultore in ferro con bottega in via Borgo Ognissanti 16 cfr. Indicatore generale della città di Firenze: amministrativo, commerciale, artistico, industriale e stradale, 1887, p. 192;

Capitanio 1996, pp. 152-153. 321

Eugenio Bellosio (1847-1927) fu allievo, all’età di soli quindici anni, di Giovanni Bellezza di Milano presso l’istituto Martinitt del capoluogo lombardo dove aveva trovato ospitalità dopo essere rimasto orfano. L’esposizione di Torino contribuì a diffondere la sua notorietà di abile e creativo cesellatore grazie alle opere di argenteria presentate. Nelle Civiche Raccolte di Arte Applicata di Milano è presente fin dal 1923 un piatto simile a quello presentato all’esposizione, il cui fondo è caratterizzato da un clipeo centrale con una testa di Medusa, della quale non parla il giornale dell’esposizione di Torino quando descrive il piatto rappresentante lo scontro dei giganti e dei nani, circondata dalla rappresentazione a rilievo della lotta tra i Centauri e i Lapiti. Tale manufatto, datato (1884) e firmato, è privo del vaso che viene citato dal giornale dell’esposizione insieme al piatto, e testimonia la rielaborazione dello stile neorinascimentale che Bellosio adottò soprattutto nell’argenteria a destinazione civile cfr. L’arte del cesello. Eugenio Bellosio, in

L’esposizione del 1884 in Torino, 1884, pp. 201-203; Zastrow 1993, pp. 263-266; O. Zastrow, Una inedita opera di argenteria nel contesto della geniale creatività di Eugenio Bellosio, in «Archivi di Lecco», n. 4, 2001, pp. 63-64, 69, 81.

322

Premi conferiti agli espositori secondo le deliberazioni della giuria, 1884; E. Colle, Gli ambienti e gli stili del vivere. Album 1860-1900, in Storia delle arti in Toscana. L’Ottocento, 1999, p. 218.

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eseguite tra il 1883 e il 1886 su disegni di Edoardo Marchionni, direttore dell’Opificio dal 1873, e quelli dei quattro portaritratti in marmo nero del Belgio datati al 1883323.

Le sei formelle, delle quali rimane incerta la destinazione d’uso, furono realizzate con diverse varietà di pietre dure, come il calcedonio di Volterra, i lapislazzuli, la rodonite, il porfido, il verde antico e i diaspri di Boemia e dell’Arno che compongono la decorazione floreale, costituita da un tralcio di gelsomini, di rose di macchia e di convolvoli sul tipico fondo nero dei lavori fiorentini (fig. 2.2)324.

L’Opificio come laboratorio di arte industriale stava vivendo il suo ultimo decennio di attività grazie all’ entusiastico aggiornamento sulle novità e sulle mode del tempo intrapreso dal Marchionni, in un periodo in cui le vendite dei prodotti e i finanziamenti ministeriali erano molto diminuiti tanto da rendere difficoltoso l’invio dei prodotti alle esposizioni universali. L’opera che testimonia questo difficile periodo della manifattura statale è il vaso in marmo nero del Belgio dove per la prima volta il lavoro di commesso fu utilizzato in una superficie curva e con motivi decorativi naturalistici realizzati in alto rilievo. Il vaso, la cui lavorazione era iniziata nel 1884 per essere poi proseguita fino agli inizi degli anni Novanta, rimase infatti allo stato di frammento fino al 1952 quando fu ricomposto per essere esposto al Museo dell’Opificio mantenendone le lacune e lasciandolo privo della parte terminale che era stata prevista a forma di corolla di fiore325.

Le teorie estetiche del Boito furono accolte con maggior successo anche dagli stabilimenti privati fiorentini come quello rinomato di Francesco Betti, citato quale fornitore di Casa Savoia, che espose

323

Per i portaritratti in marmo nero del Belgio è stato ipotizzato il nome di Edoardo Marchionni come autore dei disegni grazie all’analogia che questi hanno con gli esemplari conservati dagli eredi Marchionni e con le precedenti formelle cfr. Giusti, Mazzoni, Pampaloni 1978, tavv. 229-234, 378-381, pp. 300-301, 316.

324

L’uso del marmo nero del Belgio, tipico della produzione fiorentina seicentesca, fu ripreso dall’Opificio nel 1860 sia per il suo aspetto estetico sia per la sua scarsa durezza che facilitava la lavorazione, diminuendone il costo. Per la storia della formazione delle raccolte delle pietre dure dell’Opificio omonimo e per quella delle pietre dure medesime vedi A. Pampaloni Martelli, Le

raccolte lapidee dell’Opificio delle Pietre Dure, in Splendori di pietre dure, 1988, pp. 268-275. Per le caratteristiche fisiche e chimiche

si può consultare il portale scientifico di mineralogia on-line http://www.minerali.it/. 325

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100

tavole e piccoli quadri in mosaico innestando l’attenzione realistica al dato naturale sui modelli barocchi del ‘600326

.

La produzione di molti laboratori privati, tra cui quelli di Giovanni Ugolini, Giovanni Boncinelli e dei Montelatici, veniva apprezzata alle esposizioni nazionali ed internazionali e raggiungeva agevolmente i mercati europei e americani incontrando il favore del pubblico borghese per tutti gli anni Ottanta.

Giovanni Ugolini presentò la sua produzione comprendente i tavoli, a prezzi modici, e i prodotti minuti come gli album, i fermacarte, i quadretti con cornice e i gioielli, che gli stranieri di passaggio a Firenze erano soliti visitare nel suo negozio in via de’ Fossi 11 con annesso laboratorio327

. Anche per lui, come per il Betti, si può parlare di manufatti realizzati con motivi floreali, visto che nel 1881 ricevette la medaglia d’argento per un piano di tavolo decorato con una ghirlanda di rose e, con molta probabilità, di oggetti che riproducevano monumenti e opere rinascimentali fiorentine, come accadeva nelle botteghe dei mosaicisti romani della seconda metà del XIX secolo, specializzati nella tecnica della ‘filatura dello smalto’328

.

Giovanni Boncinelli si era aggiudicato la medaglia d’argento a Milano nel 1881 per l’assortimento di mosaici montati in oro e argento tra i quali emergeva una parure costituita da bracciale, orecchini e medaglione realizzati in marmo nero con ornamenti in calcedonio329.

La ditta dei mosaicisti Montelatici, rappresentata in questa occasione dai vari oggetti in mosaico che Giuseppe fabbricava e vendeva in Lungarno Corsini, aveva cominciato a riprodurre in pietre dure i

326

Francesco Betti era proprietario di due negozi in Borgognissanti e in Lungarno Nuovo 4 cfr. Indicatore generale della città di

Firenze: amministrativo, commerciale, artistico, industriale e stradale, 1884, p. 215; Chiarugi 1994, vol. 2, p. 420; Colle 2007, pp.

376-379, 412-413. 327

G. Ugolini fu premiato all’esposizione di Londra 1870, Forlì 1871 e Vienna 1873 cfr. Baciotti 1883, p. 67; Indicatore generale della

città di Firenze: amministrativo, commerciale, artistico, industriale e stradale, 1884, p.215.

328

Esposizione industriale italiana del 1881 in Milano. Relazione dei giurati. Le arti usuali, 1882, sezione XXII, classi 42, 43, gioielleria

ed oreficeria fina, pp. 25-27; Esposizione nazionale di Palermo. Catalogo generale, 1991, divisione VIII, classe 43, lavori in metalli fini, in leghe e in metalli finti, categoria unica; La oreficeria, in L’esposizione nazionale illustrata di Palermo, 1892, pp. 67,70. Per la produzione romana di micromosaici caratterizzata dai soggetti tratti dall’arte musiva antica, dalle vedute architettoniche, archeologiche e monumentali di Roma, dalle copie dei dipinti e degli affreschi celebri e dalle rappresentazioni naturalistiche e di genere popolaresco, come animali e contadine, e per la tecnica del micro mosaico romano vedi Micromosaics. The Gilbert

collection, 2000, in particolare le schede 178-179, 184, 186, 188, 191; Lenti, Bergesio 2005, pp. 190-193.

329

G. Boncinelli fu premiato a Parigi nel 1867, a Vienna nel 1873, a Santiago del Cile nel 1875, a Filadelfia nel 1876, ad Amsterdam nel 1877 e a Sidney nel 1879 cfr. Esposizione industriale italiana del 1881 in Milano.Catalogo ufficiale, Milano, 1881; Esposizione

industriale italiana del 1881 in Milano. Relazione dei giurati. Le arti usuali, 1882, sezione XXII, classi 42, 43, gioielleria ed oreficeria

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101

dipinti dei pittori naturalisti come aveva fatto Alfonso con Alla fontana di Egisto Ferroni330 (fig. 2.3). La ripresa di soggetti tratti dal mondo agricolo si ritrova anche in “un quadretto rappresentante un contadino a cavallo d’un asino su una strada di montagna tutta coperta di neve” per cui fu premiato a Milano nel 1881331.

Fig. 2.1. E. Rinaldini, Specchietto.

Tratta dal giornale dell’esposizione, Torino, 1884.

330

Il dipinto Alla fontana di E. Ferroni, conservato a Firenze presso la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, fu terminato nel 1879 e, data la coincidenza delle sue misure con quelle delle tele di formato verticale che decoravano il salone delle feste della villa di Frassineto presso Arezzo, rappresentanti immagini tratte dalla vita del mondo contadino, è stata ipotizzata una sua connessione con tale ciclo decorativo, anche se un velo di malinconia segna il dipinto rispetto alla solarità delle tele della sala cfr. A. Baldinotti, Il

silenzio di Ferroni, in Pittura dei campi. Egisto Ferroni e il naturalismo europeo, 2002, pp. 50-51.

331

Esposizione industriale italiana del 1881 in Milano. Relazione dei giurati. Le arti usuali, 1882, sezione XXII, classi 42, 43, gioielleria

ed oreficeria fina, pp. 25-27; Chiarugi 1994, p. 513; E. Colle, Gli ambienti e gli stili del vivere. Album 1860-1900, in Storia delle arti in

toscana. L’ottocento, 1999, p. 219; E. Colle, Artigianato artistico e industrie a Firenze tra Ottocento e Novecento, in I giardini delle regine, 2004, p. 118.

(22)

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Fig. 2.1a. E. Rinaldini, Specchietto (particolare) Fig. 2.1b. Riproduzione della tavola 42 del volume A

Grammar of Japanese Ornament and Design di T. W.

Cutler, tratta da «DecArt», n. 2, 2004, p. 152.

Fig. 2.2. Formella ellittica con gelsomini, rose di macchia e convolvoli. 1886, Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure.

Figura

Fig. 1.1. E. Ferroni, Torna il babbo. 1883, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Fig. 1.4.  C. Ademollo, L’eccidio della famiglia Tavani-Arquati. 1880, Milano, Museo del Risorgimento
Fig. 2.1. E. Rinaldini, Specchietto.
Fig. 2.1a. E. Rinaldini, Specchietto (particolare)   Fig.  2.1b.  Riproduzione  della  tavola  42  del  volume  A  Grammar  of  Japanese  Ornament  and  Design  di  T
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