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Alla base del postmoderno troviamo dunque la sfiducia verso i metaracconti che hanno caratterizzato la modernità e ne hanno determinato il fallimento: Auschwitz ne è l’esempio più tragico, emblematico e inquietante:

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CONCLUSIONI

Il filosofo francese Jean-François Lyotard, nella Condizione postmoderna.

Rapporto sullo stato di potere del 1979, si occupa delle grandi ideologie, che egli definisce, «grandi narrazioni» (grands récits), quasi a sottolinearne il carattere di

«favole per adulti». Con queste espressioni Lyotard indica le sintesi teoriche attraverso cui la modernità ha cercato di offrire una legittimazione filosofico-politica del sapere e, le definisce anche «metaracconti» per sottolinearne il carattere universale e riflesso, cioè il loro procedere oltre le narrazioni particolari.

Alla base del postmoderno troviamo dunque la sfiducia verso i metaracconti che hanno caratterizzato la modernità e ne hanno determinato il fallimento: Auschwitz ne è l’esempio più tragico, emblematico e inquietante:

non sono miti, nel senso di favole […]. Certo, come i miti esse mirano a legittimare istituzioni e pratiche sociali e politiche, legislazioni, etiche, modi di pensare. A differenza dei miti, tuttavia, non cercano questa legittimità in un atto originale, ma in un futuro in cui si vuole l’avvento […] in un’idea di realizzare.

Questa idea (di libertà, di ‘lumi’, di socialismo ecc.) ha un valore legittimante perché è universale. Essa orienta tutte le realtà umane e conferisce alla modernità il modo che le è caratteristico: il progetto.

In letteratura, le prime opere postmoderniste sono pubblicate intorno agli anni Sessanta, quando gli autori non sono ancora in grado di definirsi in maniera organica;

preso in prestito dal contesto architettonico, il termine Postmodernism indica le costruzioni di architetti come Portmann, Portoghesi e Rossi, che si differenziano nettamente dai canoni dell’architettura modernista. Una significativa definizione di postmoderno, per quanto riguarda l’ambito prettamente letterario, si trova nelle Postille al Nome della rosa di Umberto Eco, in cui l’autore, partendo dall’analisi del modernismo, spiega il contesto culturale in cui quest’ultimo acquista il prefisso post:

l’avanguardia si avvale di un atteggiamento critico e distruttivo che, nella sua ansia

fanatica per il nuovo, spinge a liberarsi dal peso morto del “già stato” e si propone di

distruggere e sfigurare il passato, fino ai limiti estremi della tela strappata, della

pagina bianca e del silenzio; la risposta postmoderna al moderno, di cui

l’avanguardia è l’espressione più significativa, consiste nella convinzione che, non

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potendo annullare il passato, si debba rivisitarlo, seppure non in modo falsamente innocente, ma ironico. La storia viene saccheggiata, perché considerata un repertorio di forme, che una volta riprese, possono essere mescolate, rielaborate e manipolate secondo la tecnica del pastiche e della «parodia bianca»,

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la quale non è altro che un pastiche che, privato dell’intento di aggredire e ironizzare, vuole divertire.

Se per gli scrittori statunitensi la letteratura non è altro che un materiale fra tanti, per i postmoderni italiani si colloca al centro della riflessione, dal momento che «il mondo esiste solo nella e per la finzione».

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Rispetto alle intenzioni dei principali autori modernisti, i postmoderni ne sviluppano di proprie in maniera antitetica:

secondo Angelo Gugliemi la letteratura postmoderna italiana deve essere a-dialettica, a-storica e a-ideologica, perché deve rispondere, in primo luogo, alle esigenze del pubblico, a favore della piacevolezza e del divertimento, che sono espressione della volontà democratica di creare un’arte godibile e accessibile a tutti. L’uso del pastiche crea l’effetto di smarrimento dell’io, il quale, assumendo diverse voci, si dissolve per ricostruirsi in più “persone”, tutte diverse dall’autore. La sensazione di disorientamento è inevitabile e si declina in una delle immagini più usate in questo periodo: il labirinto, che a partire dalla produzione di Borges diventa sempre più frequente nelle opere postmoderne, tra le quali quelle di Calvino, Manganelli. I tre autori, ognuno a suo modo, entrano in contatto con l’esperienza della Neoavanguardia e del Gruppo 63, ma successivamente elaborano e reinventano il proprio stile alla luce di suggestioni differenti.

Calvino, prima nelle Cosmicomiche e poi nella produzione della stagione combinatoria che porta all’iper-romanzo, mostra di superare la modernità, prendendo le distanze dalla neoavanguardia, la quale, tuttavia, lo ha influenzato e incuriosito.

Quest’ultimo aspetto è uno degli elementi che lo avvicinano alla letteratura postmoderna insieme ad una certa nostalgia per la favola che lo accompagnerà per tutta la vita e coincide con il rifiuto del romanzo. L’influenza della fiaba nella produzione calviniana appare una costante e risponde sia all’ideale narrativo dell’autore (secondo cui la scrittura deve essere leggera, rapida, esatta, visibile e molteplice), sia alle influenze dell’ambiente culturale e ad una precisa vocazione,

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JAMESON 2007, p. 41.

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DONNARUMMA 2014, p. 35.

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individuata precocemente da Pavese a partire dal primo romanzo di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno.

In questo periodo le teorie di Propp gettano una nuova luce sui racconti fiabeschi, che vengono concepiti come una gamma di funzioni liberamente combinabili e quindi sottoposte a numerose manipolazioni e risemantizzazioni; nel Castello dei destini incrociati, ogni personaggio si racconta attraverso le carte di un mazzo di tarocchi, le cui immagini, di volta in volta, subiscono una atto di risignificazione e mai di invenzione. L’autore non deve far altro che impiegare la propria immaginazione, per disporre in maniera inedita una serie di funzioni sempre uguali, che costituiscono la grammatica della fiaba. Il ruolo dell’autore è fortemente screditato e, alla luce delle teorie di Barthes, con cui Calvino entra in contatto, è ragionevole riferirsi ad un tipo di scrittura in cui il ruolo autoriale scompare, a favore di una scrittura che produce se stessa in maniera autoreferenziale. Inoltre, Calvino ha un rapporto ambiguo con il romanzo e sia Il Castello sia Se una notte d’inverno un viaggiatore non possono essere definiti tali: specialmente nel primo l’autore si allontana dal romanzo realistico, il novel, perché inserisce molti elementi fiabeschi che lo avvicinano piuttosto al romance; nel secondo, invece, Calvino tenta di mettere da parte se stesso e il proprio stile, per far emergere le possibilità intrinseche della scrittura, la sola in grado di cambiare la nostra percezione del mondo, poiché non viene dopo di esso, ma pone l’esistenza delle cose. Egli prova ad emanciparsi dal proprio stile, in quanto espressione della propria soggettività, per creare un’enciclopedia dei possibili narrativi e impiega il pastiche, per imitare differenti generi e creare dieci incipit, i cui titoli, letti in successione, formano una frase di senso compiuto che, per dirla con Propp, rievoca il Racconto archetipo, da cui tutte le storie anno avuto origine. In Se una notte, Calvino pone il termine romanzo solo per metterlo in discussione, poiché ritiene che questo genere non abbia più alcuna presa sul mondo e sulla realtà: egli, infatti, propone un finale scontato che rimanda alle modalità narrative tipicamente fiabesche.

Nelle Cosmicomiche tenta di sbarazzarsi dei limiti del romanzo realista per

«recuperare quella vocazione alla prosa che giudica propria della tradizione italiana».

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Egli tenta di trovare una strada del tutto originale nel contesto culturale

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fortemente massificato, in cui si trova a lavorare, così fa «decantare e stilizzare un repertorio mitologico narrativo comune a lui e al suo pubblico»,

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attingendo ai fumetti e alla fantascienza. Le indagini narratologiche lo spingono a recuperare le forme brevi che rispondono tanto alle esigenze narrative dell’autore (espresse nelle Lezioni americane), quanto al desiderio di evasione dalle costrizioni del romanzo;

Calvino è animato da «una sorta di nostalgia per la favola» che nelle Cosmicomiche tenta di colmare. Qui, sebbene i racconti mitici traggano ispirazione da un immaginario scientifico, si celebra il trionfo della letteratura, che, minacciata, risponde enfatizzando le proprie peculiarità; infatti, «la letteratura può dire qualcosa del mondo, quanto più parla di se stessa».

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Come Calvino, Manganelli rifiuta in maniera ancor più perentoria il romanzo e impiega «con sicurezza provocatoria altri generi letterari, dal trattato al racconto fantastico, incrociandoli in un’unica struttura che, mentre li assembla, lascia a ciascuno spazi circoscritti e riconoscibili».

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Manganelli riprende e rielabora numerosi generi, tra cui la fiaba, perché vede in essi un campionario di regole e codici da recuperare con il pastiche: «all’idolo della novità si sostituisce la libertà vigilata del riassemblaggio». È per mezzo della moltiplicazione dei filtri intertestuali e della molteplicità dei testi menzionati che Manganelli realizza la «morte dell’autore» e «il sistematico depistaggio ai danni del lettore: depistaggio ottenuto dalla coazione alla digressione, da una dissipazione della voce autoriale, con effetto, tuttavia, di

“alleggerimento fantasmatico”».

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Manganelli si avvale più frequentemente del pastiche, rispetto alla parodia, grazie alle suo carattere più ambiguo; esso gli permette di attingere alla letteratura passata per ricombinarla: «il mondo è già stato scritto, le storie sono già state raccontate, le parole migliori sono già state usate. Non resta che ripetere, poiché l’unica possibilità di creazione (lo affermava già Saussure nel Corso di linguistica generale) è la combinazione del già dato».

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Le manipolazioni dell’autore assumono tratti manieristi che mostrano una letteratura con la necessità di reinventarsi, ma che, chiudendosi in

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Ivi. p. 35-36.

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Ivi. p. 52.

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DONNARUMMA 2014, p. 33.

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ARGENTO 2012, p. 12.

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DONNARUMMA 2014, p. 34.

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sé, valorizza la propria autoreferenzialità. Manganelli, infatti, è consapevole che «le uniche modalità di sopravvivenza in un mondo che altrimenti ti ignora o ti annienta»

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sono la letteratura come menzogna, poiché non può essere altro che finzione, e l’autore come fool, sottolineandone il carattere ludico. Questo aspetto metaletterario, definito da Donnarumma «feticismo per la letteratura»,

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è una caratteristica tipica del postmoderno italiano e in Manganelli emerge in maniera preponderante: la letteratura è considerata l’unico strumento in grado di accedere ad una realtà apparente e frivola che risulta incomprensibile. Quindi, per i postmoderni italiani […] il centro della riflessione è proprio la letteratura, satura della sua tradizione e di un prestigio ormai insostenibile», tanto che Manganelli, in Hilarotragoedia, mostra che «il mondo esiste solo nella e per la finzione».

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Lo stesso ruolo autoriale, nelle pagine di Hilarotragoedia, aleggia come un fantasma; Manganelli ritiene che le parole, come i racconti, si generino autonomamente, in modo indipendente dall’autore, la cui presenza diventa non necessaria, come quella del soggetto: «ecco che il testo si autoproduce; la scrittura dà luogo ad un testo dove non c’è più la voce autoriale che dirige la tessitura del discorso, dove il linguaggio si libera di un soggetto che deve manifestarsi nell’enunciazione, con la sua ideologia, il suo sapere, il suo stile e perviene dunque a restituire la struttura complessa di un significante affrancato dalle gerarchie.

L’enunciazione narrativa che dall’io dello scrittore si è riversata nel linguaggio assorbe così, oltre che la molteplicità delle sfumature del mondo, anche il soggetto che parla; il soggetto che si perde come un oggetto nella propria scrittura».

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Il lettore deve astenersi dalla volontà di estrarre un senso dal testo, ma, piuttosto, deve perdersi nel gioco delle parole, accedendo così alla letteratura.

Manganelli gioca con le favole, in maniera originale, poiché le riprende per descrivere il disordine del mondo. La Documentazione detta del disordine delle favole presenta un mondo privo di qualsiasi logica reale, i personaggi che lo popolano sono tanto noti quanto tipizzati, permettendo all’autore di manipolarli al punto da collocare, per esempio, un complotto dietro la fiaba di Cenerentola. I

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Ivi. p. 34.

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Ivi. p. 34-35.

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Ivi. p. 35.

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racconti recuperati sono numerosi e il loro combinarsi crea un effetto di disorientamento volto ad evocare lo smarrimento dell’autore di fronte ad una realtà che gli appare incomprensibile e che tenta di prescindere. Egli, non a caso, si serve delle fiabe più conosciute, da Cenerentola a Biancaneve, dalla Bella addormentata nel bosco a Barbablù per modificarle ed estrapolare solo gli elementi che hanno precise connotazioni psicanalitiche, tanto che, come le fiabe, anche la materia junghiana è concepita come un repertorio di funzioni. La forma del racconto si ripiega su stessa, viene sabotata dallo stesso autore, il quale evidenzia l’impossibilità postmoderna di raccontare e di dire la verità. Si ha una scrittura, o meglio una riscrittura, del tutto autoreferenziale che lascia alternative e possibilità tanto al racconto, quanto alla letteratura stessa (anche Manganelli, come Calvino, è affascinato dalle teorie di Propp). Tuttavia, diversamente da quanto avviene nel gioco, in cui le norme, una volta stabilite, valgono in assoluto, nella prassi letteraria manganelliana le regole vengono continuamente infrante: sono flessibili al fine di rinnovare il gioco linguistico. «L’homo ludens, portavoce dell’enigma, ama il nonsense, consegna un discorso eccitato e paradossale che segue alla totale ricomposizione e decomposizione della logicità, della razionalità, della oggettività della realtà e della stessa semanticità del linguaggio. È così che Manganelli istituisce una nuova grammatica fondata sul nonsense, come accade in Hilarotragoedia».

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La metafora del gioco di Manganelli interpreta l’ambito letterario in due modi diversi:

da una parte la letteratura è oggetto autosufficiente e privo di legami con la realtà, dall’altro come un universo, che dal proprio nucleo si espande continuamente.

Manganelli, inoltre, assimila agli scacchi (gioco tanto ludico quanto speculare) lo stesso atto della scrittura e Paolone sostiene che «se l’operazione non è inedita – lo stesso Manganelli denuncia altrove il debito contratto con il prediletto Lewis Carroll – è interessante notare come nel discorso l’ingresso nella dimensione speculare comporti un mutamento di prospettiva: lo scacchista (lo scrittore) è impedito all’uso consueto del pensiero e delle mani, quindi deve rinunciare a giocare; deve farsi giocare, è parte di un gioco […], fa parte del gioco […], non è fuori dalla scacchiera, […] per cui egli viene trasformato dal gioco, è giocato dal gioco».

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Ivi. p. 52.

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PAOLONE 2002, pp. 14-15. Le parole di Manganelli citate da Paolone sono contenute in Discorso

dell’ombra e dello stemma, p. 46.

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Alla produzione di pseudoromanzi, Malerba affianca una serie di libri e raccolte destinati ai bambini e ai ragazzi, senza mai perdere il contatto con la realtà che lo circonda. Egli scrive favole, storie e storiette, per l’infanzia, ma dai contenuti che parlano soprattutto agli adulti. Nelle Galline pensierose, per esempio, l’autore opera una straniante decontestualizzazione: gli animali del pollaio, proverbialmente stupidi, pensano e si comportano come gli uomini, sì che l’ironia domina ogni singolo episodio. Le fiabe di Malerba uniscono sogno e stupore allo sberleffo e all’ironia e i racconti, che hanno per protagonista Mozziconi, ne sono un esempio.

Come l’autore dichiara in un’intervista, il suo obiettivo è mettere in imbarazzo i piccoli lettori, sconcertarli con i paradossi e far capire loro che il mondo è strano e pieno d’inganni: addestrarli fin da bambini a diffidare dei conformismi istituzionali e dei modelli confezionati, a vedere il lato ridicolo delle cose. Per quanto creda nell’immortalità delle fiabe antiche, Malerba ritiene che lo scrittore moderno non possa far altro che scrivere fiabe moderne, appunto, comportandosi esattamente come gli anonimi favolisti antichi, che mettevano in scena principi e castelli, quando principi e castelli erano ben presenti nella vita del loro tempo, parlavano di streghe quando le streghe, pur non esistendo, venivano bruciate sui roghi, parlavano di lupi quando i lupi erano un pericolo per chi attraversava un bosco, «mentre oggi sono protetti dal WWF e da altre società ecologiche». Dunque, i protagonisti delle favole moderne devono essere le automobili, le autostrade e gli aerei, i grattacieli, i supermercati e i computers, «così come in quelle antiche si viaggiava in carrozza, a dorso di un mulo e si filava la lana con il fuso e la canocchia.

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Secondo l’autore, se la modernità fornisce i temi, la postmodernità influenza la scelta del genere: la scelta della favola risponde al rifiuto del romanzo e offre all’autore gli strumenti per attuare lo straniamento e la decontestualizzazione. La verità e la realtà hanno a che fare con l’opera di Malerba solo apparentemente, perché centrale nei suoi racconti è proprio l’impossibilità della verità e della comunicazione, sabotate attraverso diversi espedienti. «La verità non è mai verosimile», scrive Malerba nelle pagine dedicate ad Andersen e contenute nella raccolta postuma il Diario delle delusioni: «proprio perché esige verosimiglianza, la verità è sempre una ‘trappola’. E questa meccanica

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del senso basta romperla per scoprirla illusoria».

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Malerba rompe la macchina romanzo e si mette decisamente sulla strada della pura invenzione che oziosamente crea non opere di realtà, ma inoperosi congegni di fantasia. Le brevi narrazioni di Malerba sembrano quasi stare al romanzo come il giocattolo sta al modello adulto: il trenino sta al treno – per dire – come la storietta sta al romanzo. «La civiltà, alla quale Malerba ha criticamente opposto la sua libertà d’invenzione, è invecchiata sottomettendosi a questo futuro programmato con l’illusione di durare e ha smarrito il piacere del presente sensibile dell’immaginazione e del desiderio. I personaggi di Malerba, nei romanzi e nei racconti, nelle favole e nelle storiette, non si sono mai fatti amministrare da questa logica e, per sopravvivere, hanno improvvisato calcolatissime acrobazie linguistiche in cui l’antica arguzia è evoluta in purissima demenza gallinacea».

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In un’intervista Menechella chiede a Malerba cosa pensi dell’etichetta di postmoderni, affibbiata tanto a lui quanto a Manganelli, per la comune avversione al realismo e la tendenza verso la letteratura fantastica, l’autore risponde:

In Italia Romano Luperini e Francesco Muzzioli mi hanno definito postmoderno. Negli Stati Uniti è uscito da poco un libro di JoAnn Cannon intitolato Postmodern Italian Fiction. The Crisis of Reason in Calvino, Eco, Sciascia, Malerba. Il postmoderno è una categoria abbastanza generica, ma utile per tracciare una mappa letteraria e per impostare un discorso critico. Per quanto mi riguarda sento maggiori affinità con Calvino che con Manganelli che definirei piuttosto un manierista o un neo-barocco. Ma anche queste sono etichette generiche se non sostenute da un discorso critico. [PV, p. 140]

Nei suoi libri per bambini e per ragazzi, Malerba ha fatto ampio uso del nonsense per i più piccoli e del paradosso e del paralogismo per gli adulti; infatti la cosa essenziale in questo tipo di letteratura è la capacità di divertire e stimolare i fanciulli a leggere la realtà al di là delle convenzioni fornite dalle istituzioni educative e dai mezzi della grande comunicazione: «meglio avere un branco di caproni dialettici che un gregge di pecore dogmatiche». [PV, p. 123]

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SEBASTIANI

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Ibid.

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Per Calvino, Manganelli e Malerba il rifiuto del romanzo, tipicamente postmodernista, si risolve nel recupero della fiaba o della favola, le quali rispondono in primo luogo all’esigenza di prendere le distanze da una realtà labirintica e incomprensibile. Manganelli ripudia qualsiasi riferimento alla contemporaneità, a favore di un racconto che ripropone le favole ribaltando completamente sia i topoi dei personaggi, sia la funzione del racconto, per celebrare una letteratura che esalta e parla di se stessa; Calvino, così come fa Cosimo nel Barone rampante, prende le distanze dalla realtà e impiega la fiaba per assumere un punto di vista diverso e per parlare della storia e della società in maniera allegorica. I riferimenti alla quotidianità servono all’autore per creare un effetto comico che, oltre a divertire il lettore, vuole far emergere l’insensatezza dei pregiudizi e degli stereotipi che accomunano il nostro mondo e quello del «vecchio Qfwfq». Egli, infatti, non rinuncia mai completamente al ruolo dell’intellettuale organico, ma lo risemantizza di conseguenza al proprio contesto storico, così come Malerba. Anche quest’ultimo, infatti, recupera la favola con un intento tanto edificante quanto divertente: attraverso il nonsense e il paradosso vuole distruggere le convinzioni e le certezze fornite ai bambini dai genitori, dagli insegnati e dalla televisione, per mostrare loro una molteplicità di punti di vista, i quali forniscono ai giovani lettori sguardi inediti volti a creare lo spirito critico di un’intelligenza in formazione.

Tutti e tre gli autori, recuperando la fiaba e la favola, mirano a divertire i propri

lettori: il riso in Calvino è prodotto dal confronto fra la realtà di Qfwfq e la nostra

quotidianità, che crea un misurato effetto comico e ironico; in Manganelli dai

continui ribaltamenti dei ruoli e delle funzioni dei personaggi, i quali sono collocati

in un mondo altrettanto mutevole; in Malerba, dalla scelta dei suoi protagonisti, le

galline appunto, le quali agiscono e pensano come gli uomini, prudecendo continui

nonsense, paradossi e paralogismi. Nonostante il riso, tutte le storie non si

concludono mai con l’happy ending, proprio del genere: il protagonista delle

Cosmicomiche rimane sempre in sospeso, rassegnato o coinvolto in una situazione

ciclica dalla quale non si sa se e come ne uscirà; il finale della Documentazione

manganelliana sovverte drasticamente il principio del lieto fine o, almeno, lo

risemantizza, dal momento che il protagonista e il lupo si uccidono a vicenda e in

questo gesto concentrano tutto l’amore e l’affetto che non sono mai riusciti a provare

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e a esprimere; anche la sorte delle galline malerbiane non è del tutto positiva, perché come scrive l’autore nella favola centoquarantasei:

Una gallina che studiava le favole antiche disse alle compagne che tutte quelle che aveva letto finivano nello stesso modo: «E vissero felici e contenti». Tutte insieme andarono dall’autore di un libro intitolato Le galline pensierose e gli chiesero di proporre un finale adatto alle favole future sulle galline. L’autore si fece pensieroso e poi disse: «E vissero a lungo tenendosi il più possibile lontane dalle pentole». [GP, p. 79]

L’autore, che si fa pensieroso come le sue galline, lascia presagire la tragica e inevitabile sorte che spetta ad ognuna, impiegando una delle forme del riso a lui più care: la parodia. I tre autori hanno in comune almeno una delle modalità di recupero dei due generi, i quali sono concepiti come un repertorio di funzioni, temi e motivi liberamente combinabili attraverso l’uso del pastiche, che libera ogni autore della propria soggettività a favore di una scrittura autoreferenziale. Il contesto storico in cui scrivono Calvino, Manganelli e Malerba mostra una letteratura minacciata e attaccata da numerosi antagonisti, primi fra tutti la televisione e il cinema; essa, allora, non può far altro che servirsi di aiutanti magici, che le forniscono una nuova veste, la favola o la fiaba, in grado di attraversare i secoli, mantenendo la propria vitalità e attualità.

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