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risulta pertanto essere comprensivo di un numero di diagnosi e condizioni cliniche con un’ampia variabilità individuale.

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1-INTRODUZIONE

La schizofrenia, il disturbo bipolare e il disturbo schizoaffettivo, sono delle complesse ed invalidanti malattie psichiatriche per le quali l’eziologia e la patogenesi sono il risultato dell’interazione di multipli fattori genetici e ambientali con possibili comuni meccanismi sottostanti. Spesso si manifestano con episodi psicotici caratterizzati da un’alterazione dei processi percettivi, cognitivi, affettivi e del giudizio di realtà. L’esperienza soggettiva della psicosi, così come riportata dai pazienti, consiste di allucinazioni uditive, visive, idee deliranti spesso di tipo persecutorio e una generale disorganizzazione comportamentale, del carattere e delle capacità di relazionarsi e di impegnarsi intellettualmente con conseguenze devastanti sulla possibilità di realizzazione degli individui. Nessuno di questi sintomi, tuttavia, è specifico della schizofrenia o esclusivo di una sola diagnosi. Il termine descrittivo “psicosi”

risulta pertanto essere comprensivo di un numero di diagnosi e condizioni cliniche con un’ampia variabilità individuale.

In un recente forum tra esperti ricercatori e clinici veniva posta la seguente domanda:

“Is there anything, in the mass of biological data on schizophrenia and depression, which promises to become in the

foreseeable future of any usefulness for everyday clinical

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practice?”

( M. Maj , 2011)

Infatti, nonostante l’abbondante ricerca, la diagnosi e la classificazione dei disturbi dello spettro schizofrenico, del disturbo bipolare e del disturbo schizoaffettivo, è esclusivamente basata su segni e sintomi o sulla descrizione del comportamento riportata dai pazienti stessi o valutata dagli operatori. La valutazione quantitativa e standardizzata dei criteri diagnostici è affidata esclusivamente a scale cliniche o interviste strutturate. Non sono disponibili, al momento attuale, strumenti diagnostici di laboratorio o di imaging. In altre discipline mediche, come l’oncologia e recentemente anche la reumatologia, l’utilizzo di biomarcatori per propositi diagnostici è stato invece dimostrato, testato ed è attualmente disponibile.

Inoltre, anche la scelta del trattamento e la prognosi sono spesso basate sull’esperienza clinica soggettiva o sul trial clinici vincolati da una normativa molto rigida e che non sempre riflettono la reale pratica clinica.

Eppure 100 anni (Kraepelin, 1896. Van Os and Kapur, 2009) di ricerca nel

campo delle psicosi maggiori, schizofrenia e disturbo bipolare hanno prodotto

un’enorme quantità di dati. I motivi per cui questi dati non hanno avuto un

riscontro concreto nella pratica clinica sono molteplici. La caratterizzazione

fenotipica della schizofrenia o del disturbo bipolare potrebbero essere

inadeguati, molti dati di genetica e imaging hanno riportato risultati in comune

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tra le due psicosi maggiori mettendo in discussione la originaria dicotomia Kraepeliniana (Fischer et al., 2009) e rafforzando la necessità da parte dei ricercatori clinici di studiare delle entità cliniche o dimensioni al posto delle tradizionali diagnosi descrittive di tipo categoriale. I disturbi psichiatrici sono molto complessi, come sono complesse le strutture cerebrali che rappresentano, tanto che hanno bisogno di essere scompostI in entità più semplici, ognuna delle quali potrebbe essere spiegata da alcuni dei vari modelli finora proposti.

Una diagnosi raggiunge una utilità clinica quando consente di ottimizzare il trattamento e quando permette di prevedere il decorso e la prognosi di un disturbo. Questi obiettivi vengono raggiunti tanto più la classificazione delle patologie si avvicina e si sovrappone ai sottostanti meccanismi biologici (Owen, 2011).

Un possibile approccio per raggiungere questo obiettivo è la ricerca di

“biomarcatori” definiti come correlati molecolari di una patologia che possono essere usati come strumenti diagnostici, ma possono anche rivelare i meccanismi biologici che sottendono una determinata entità clinica (Schwartz and Bahn, 2008).

1.1 La Proteomica

“Proteomica” è un termine coniato nella metà degli anni 90 all’interno del

contesto più ampio della “genomica” (Wilkins et al., 1996). Il termine

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proteoma indica tutte le proteine espresse da un genoma: da qui la proteomica può essere definita come lo studio di tutte le proteine espresse in un dato organismo, tessuto o cellula (Choudhary et al., 2004). Come la

“transcriptonomica”, che valuta l’intera espressione dell’mRNA, anche la proteomica viene considerata un metodo di ricerca in grado di generare ipotesi a posteriori.

L’analisi diretta delle proteine presenti in una cellula offre vantaggi che vanno oltre quelli ottenuti dall’approccio genomico, in quanto gli studi sul genoma non danno informazioni precise sui livelli delle proteine nella cellula e non possono rilevare le possibili modificazioni post-traduzionali che determinano la funzione delle proteine e che risultano particolarmente importanti nella trasduzione del segnale (spesso i segnali sono trasmessi proprio da modificazioni post- traduzionali delle proteine come la fosforilazione) (Godovac-Zimmermann et al., 1999. Imam-Sghiouar et al., 2002 ).

Il proteoma è infatti un’entità dinamica poichè cellule di uno stesso organo esprimono proteine differenti ed anche lo stesso tipo di cellule in condizioni diverse (età, malattia, ambiente) esprime proteine diverse.

A causa della diversità delle proteine si sono sviluppate varie tecnologie

proteomiche che integrano metodi biologici, chimici ed analitici: la principale

tecnologia utilizzata è la spettrometria di massa (MS), accoppiata con metodi di

separazione delle proteine (Phizicky et al., 2003).

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La MS è una tecnica altamente sensibile e versatile per lo studio delle proteine:

è utilizzata per quantificare le proteine e per determinarne sequenza, massa e informazioni strutturali (in particolare modificazioni post-traduzionali, come glicosilazioni o fosforilazioni) (Pandey et al., 2000).

Il successo nell’identificazione della proteina, comunque, dipende dalla preparazione del campione e dal tipo di spettrometro di massa utilizzato. La combinazione della MS, per l’identificazione proteica, con l’elettroforesi bidimensionale (2-DE), come tecnica separativa ad alto potere risolutivo, è il metodo classico e più utilizzato (Herbert et al., 2001).

Negli ultimi anni la proteomica, grazie anche allo sviluppo di nuove tecniche di spettrometria di massa e alla disponibilità di sequenze genomiche, è progredita con crescente interesse nel mondo scientifico: al momento è usata come un moderno strumento nella scoperta di farmaci, per la determinazione di processi biochimici implicati nelle malattie, per monitorare processi cellulari, per caratterizzare sia i livelli di espressione che le modifiche post-trasduzionali delle proteine, per ricercare differenze tra fluidi biologici o cellule di soggetti sani e malati e per identificare biomarcatori di una malattia e possibili candidati per l’intervento terapeutico.

1.2 Elettroforesi bidimensionale (Figura I)

L'elettroforesi bidimensionale (2-DE) è il metodo “classico” e maggiormente

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usato per separare, visualizzare, quantificare ed identificare centinaia di proteine a seconda del loro punto isoelettrico e peso molecolare, in un singolo gel, partendo da campioni di complesse miscele proteiche estratte da cellule, tessuti o altri campioni biologici. In proteomica sono stati messi a punto protocolli per l’identificazione degli spot su 2-DE gel con la matrix-assisted laser desorption/ionization time of flight mass spectrometry MALDI come metodi di routine (Jimenez et al.,1998 ).

Questa tecnica, introdotta nel 1975 da O’Farrel e Klose, separa le proteine in due step distinti:

1) la 1° dimensione, Iso-Elettro Focusing (IEF), separa le proteine secondo il loro punto isoelettrico (pI); per questo passaggio è stata importante l’introduzione, alla fine degli anni ’80, delle strip di gel a gradiente di pH immobilizzato (IPG strip), che hanno aumentato notevolmente la risoluzione e la riproducibilità degli esperimenti;

2) la 2° dimensione, l’elettroforesi su gel di poliacrilammide (SDS-PAGE),

separa le proteine secondo il peso molecolare (PM). Con questa tecnica si

possono separare migliaia di proteine, anche quelle che differiscono per un solo

amminoacido o per piccole differenze di pI e/o PM, ed ogni spot ottenuto

corrisponde ad una singola specie proteica. Per una buona elettroforesi

bidimensionale e essenziale un’appropriata preparazione dei campioni: il

processo dovrà risultare in una completa solubilizzazione, disaggregazione,

denaturazione e riduzione delle proteine del campione.

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Prima dimensione

L’IEF è un metodo elettroforetico che separa le proteine secondo il loro punto isoelettrico (pI); si utilizzano come supporti delle strip di gel di poliacrilammide. Le proteine sono molecole anfotere: presentano carica netta positiva, negativa o nulla a seconda del pH dell’ambiente in cui si trovano. La carica netta di una proteina è data dalla somma di tutte le cariche positive e negative delle catene laterali e dei terminali amminico e carbossilico degli amminoacidi che la costituiscono.

Il punto isoelettrico e il valore di pH al quale la carica netta della proteina è

zero. Le proteine sono cariche positivamente a pH minori del loro pI e

negativamente a pH maggiori. In un gradiente di pH, sotto l’influenza di un

campo elettrico, le proteine si muovono fino alla posizione nel gradiente alla

quale la loro carica netta è nulla; ad esempio una proteina con carica positiva

migrerà verso il catodo, riducendo progressivamente la sua carica positiva,

mentre si muove attraverso il gradiente, finchè non raggiunge il suo pI. Questo è

l’effetto focusing dell’IEF, che concentra le proteine ai loro pI e permette di

separarle sulla base di piccole differenze di carica. La risoluzione del campione

è determinata dall’ampiezza del gradiente di pH e dalla forza del campo

elettrico. Si utilizzano comunemente voltaggi alti (oltre 1000 V): quando le

proteine hanno raggiunto la posizione finale nel gradiente di pH, nel sistema c’è

un piccolo movimento ionico che risulta in una corrente finale molto bassa

(sotto 1 mA). L’IEF effettuato in condizioni denaturanti dà la più alta

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risoluzione ed i risultati migliori.

Strip

Originariamente il metodo prevedeva l’utilizzo di tubi di gel di poliacrilammide con gradienti generati da miscele di anfoliti, piccoli polimeri anfoteri che, sotto l’influenza di un campo elettrico, migrano e si allineano secondo i pI, dando un gradiente continuo. A causa delle limitazioni e dei problemi di questi supporti, sono stati sviluppati dei gel a gradiente di pH immobilizzato (IPG): sono creati incorporando covalentemente un gradiente di gruppi acidi e basici nel gel di poliacrilammide. Per le strip sono utilizzate molecole ben caratterizzate, monomeri di

acrilammide legati ognuno ad un singolo gruppo basico o acido. Le strip IPG sono prodotte su supporti in plastica usando due soluzioni: una miscela acida ed una basica di monomeri di acrilammide (entrambe contenenti inoltre bisacrilammide e catalizzatori). Le concentrazioni dei gruppi nelle due soluzioni determinano il range di pH del gradiente prodotto.

I gel sono poi lavati, disidratati e tagliati a strisce. In commercio si trovano strip (Amersham Biosciences, Sigma, etc.) di varie lunghezze (7-11-13-18-24 cm) e con vari intervalli di pH (3-10; 4-7; 6-11; 6-9; 3,5-4,5; etc), lineari (L) e non lineari (NL). L’uso delle strip IPG aumenta la riproducibilità e la qualità dei risultati.

Seconda dimensione

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Dopo l’IEF si passa all’SDS-PAGE, una tecnica elettroforetica che separa i polipeptidi secondo la massa molecolare, utilizzando gel di poliacrilammide. Il sodio dodecil solfato (SDS) è un detergente anionico che in soluzione acquosa stabilizza le molecole proteiche denaturate formando attorno ad esse un guscio di solvatazione (1,4 g SDS/g proteine) che genera micelle dotate della stessa carica elettrica. In questo modo la specifica carica elettrica di una catena polipeptidica viene mascherata dalle cariche negative presenti sulle micelle formate dalle molecole di SDS ed ogni aggregato solubilizzato, proteina-SDS, viene a presentare identica carica negativa per unità di massa. Le particelle anioniche si spostano nel gel di acrilammide, che agisce da setaccio molecolare, separandosi in base al loro peso molecolare mentre migrano in direzione dell’anodo.

L’SDS-PAGE consiste in quattro step:

1) preparazione del gel di 2° dimensione;

2) equilibratura delle IPG strip;

3) posizionamento delle strip sul SDS-gel;

4) elettroforesi.

Visualizzazione dei risultati

Molti metodi possono essere utilizzati e le caratteristiche richieste sono: alta

sensibilità, ampio range di quantificazione, compatibilità con la spettrometria di

massa, bassa tossicità.

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I metodi più comunemente utilizzati sono:

SILVER STAINING: molto sensibile (1 ng); è un processo multi-step che utilizza vari reagenti. Si trova in commercio in kit. Con protocolli modificati, che omettono glutaraldeide e formaldeide dalla soluzione di nitrato d’argento, il metodo diventa compatibile con la spettrometria di massa;

COOMASSIE STAINING: è circa 50-100 volte meno sensibile (30-50 ng) della colorazione all’argento. Si può utilizzare il Coomassie blue R-250, che è un metodo semplice basato su due sole soluzioni, una colorante ed una decolorante, o il Coomassie colloidale G-250 che mostra una maggiore sensibilità.

Le immagini dei gel vengono poi acquisite tramite scanner ed analizzate al computer con software appositi per analizzare complessi campioni proteici separati con l’elettroforesi bidimensionale: un esempio e il software Amersham Biosciences ImageMasterTM 2D Elite. E’ cosi possibile individuare proteine mancanti o modificate, quantificare gli spot proteici ed i cambiamenti nell’espressione proteica in diversi campioni (come controlli vs patologici) (Wilkins et al., 1997).

Gli spots possono essere identificati tramite Spettrometria di Massa.

1.3 Spettrometria di massa (figura IV).

Acquisizione Maldi TOF-TOF, ricerca database e criteri per l'identificazione

delle proteine.

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Durante gli anni passati la matrix-assisted laser desorption/ionization time of flight mass spectrometry (MALDI-TOF-MS o in breve MALDI) è diventato un potente e diffuso strumento analitico utilizzato in molti campi scientifici.

E’ una tecnica basata sul trasferimento delle molecole in fase gassosa, attribuendo loro una carica: essenziale è “incastrare” queste molecole in una struttura di acidi organici deboli, di struttura cristallina, detta matrice. Dopo l’esposizione ad un raggio laser (λ 337 nm), le molecole di analita incastrate sono trasformate in fase gassosa (desorption) e ionizzate dalla matrice che agisce da donatore di protoni. La matrice è quindi responsabile della ionizzazione, facilita la desorption e previene la decomposizione degli analiti.

La matrice è scelta in modo che assorba fortemente l’energia del raggio laser alla lunghezza d’onda alla quale gli analiti presentano solo un debole assorbimento. Dopo la ionizzazione e la desorption, le molecole cariche sono accelerate all’interno di un campo elettrico, acquistando un’energia cinetica fissa. Il rapporto massa/carica (m/z) è misurato dal “tempo di volo” (time of flight), in quanto gli ioni arrivano al detector secondo il rapporto m/z (figura IV).

Il detector converte l’energia cinetica delle particelle in arrivo in segnale

elettrico. Sia ioni che particelle neutre dotate di energia cinetica passano

attraverso la zona di volo alla cui fine è posto un dinodo. Quest’ ultimo

rappresenta una speciale superficie capace di emettere una corrente di elettroni

in risposta all’urto con una particella dotata di energia cinetica. A causa di una

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differenza di potenziale positiva, la corrente elettrica giunge ad un secondo

dinodo e causa un rilascio di corrente amplificata. Si ottiene uno spettro di

massa che rappresenta una mappa dell’abbondanza relativa degli ioni prodotti in

funzione del rapporto m/z. Le informazioni di peso molecolare e di sequenza

ottenute dall’analisi dello spettro di massa possono essere inserite in un database

per identificare le proteine. La quantità minima di campione necessaria per

l’analisi dipende dalla purezza del campione e di solito è nell’ordine di poche

picomoli. Il vasto range di massa letto, tra 1 e 300 kDa, l’alta accuratezza e la

sensibilità rendono il MALDI un metodo d’elezione per l’analisi di tutti i tipi di

biomolecole (proteine, acidi nucleici, carboidrati) (Bonk et al., 2001). in

combinazione con l’elettroforesi bidimensionale (e con i database di proteine) il

MALDI è particolarmente utilizzato per l’identificazione di spot proteici

(Langen et al.,1999) attraverso 2 approcci principali: la peptide-mass

fingerprinting (analisi della massa dei digeriti proteolitici) o la peptide

sequencing. I campioni, di solito, sono separati su un gel e gli spot proteici di

interesse sono tagliati e trattati con tripsina, un enzima in grado di rompere i

legami peptidici in cui è coinvolto un residuo di arginina o lisina; la miscela di

frammenti proteici (peptidi) ottenuta dopo digestione enzimatica è purificata e

sottoposta ad analisi di massa. La massa dei peptidi può essere misurata con

maggior precisione rispetto a quella delle proteine intatte. I peptidi danno

origine ad una library di masse molecolari derivate direttamente dalle proteine,

che possono essere identificate con tecniche computazionali e tramite l’utilizzo

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di database (Husi et al., 2001). Se la proteina non risulta presente nei database, è possibile ottenere informazioni sulla sequenza dal MALDI, con un protocollo di degradazione di Edman modificato: questo è un metodo comune per l’analisi della sequenza delle proteine, che utilizza ripetuti cicli di rottura dei singoli amminoacidi dal terminale amminico (tramite peptidasi) e successiva identificazione degli amminoacidi staccati con cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC). La miscela di peptidi è analizzata e la sequenza codificata tramite differenze di massa (peptide ladder sequencing).

1.4 Biomarcatori proteici: stato dell’arte

Negli ultimi 10 anni è cresciuto il numero di pubblicazioni che ha utilizzato le

metodiche di proteomica nella ricerca di biomarcatori per le maggiori sindromi

psichiatriche. Ad esempio una ricerca Pubmed che includa “schizofrenia e

proteomica” ha prodotto 62 articoli dal 2002 al 2009. Secondo alcuni Autori il

motivo di questo crescente interesse risiede nella possibilità, attraverso le

moderne tecnologie, di studiare contemporaneamente un grande numero di

proteine (Levin et al., 2010). Inoltre, le proteine costituiscono l’effettore

biologico realmente presente nella cellula e questo costituisce un vantaggio

rispetto alla alla genomica, ma anche rispetto alla transcriptonomica, che studia

l’espressione dell’intero mRNA, e che non prende in considerazione le ulteriori

modificazioni post-traduzionali che le proteine espresse subiscono e che sono in

grado di modificarne la funzione.(Gygi et al.,1999). L’evoluzione delle

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piattaforme di spettrometria di massa insieme alle tecnologie di separazione (vedi paragrafo) permette la misurazione e l’identificazione di migliaia di proteine in un unico esperimento. In questo modo i ricercatori possono monitorare l’espressione di proteine o gruppi di proteine in diversi campioni di pazienti o controlli alla ricerca di differenze da ricollegarsi alla diagnosi in esame. Un biomarcatore è quindi il correlato molecolare di una diagnosi.

Un’altra caratteristica che un biomarcatore dovrebbe possedere è il valore

predittivo, ovvero la possibilità di identificare una diagnosi precocemente

rispetto all’espressione clinica del disturbo. Questo ha un significato

particolarmente importante nelle psicosi dove è stato dimostrato che l’inizio

precoce di un trattamento è in grado di ridurre la disabilità a lungo termine

(McGorry and Gleeson, 2004). Tuttavia, finora, la ricerca di biomarcatori

proteici nella schizofrenia e nel disturbo bipolare ha prodotto scarsi risultati, con

risposte eterogenee e con bassa sensibilità. I motivi di questo iniziale insuccesso

sono molteplici (vedi paragrafo introduttivo), ma certamente la conoscenza dei

meccanismi fisiopatologici dei disturbi faciliterebbe lo studio di biomarcatori di

certa applicazione clinica. Un’altra importante caratteristica di un biomarcatore

è quindi quella di generare ipotesi sui meccanismi biologici alla base del

disturbo. I biomarcatori proteici possono essere studiati su diversi tessuti e fluidi

dell’organismo. Per le patologie psichiatriche molta ricerca ha utilizzato il

liquido cefalorachidiamo o il tessuto cerebrale post mortem (English et

al.,2011). Riteniamo tuttavia che, nell’ambizione di voler individuare un

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biomarcatore con valore diagnostico e rapida applicazione clinica, l’accessibilità del campione di tessuto su cui si effettua la misurazione debba essere una caratteristica prioritaria. Il siero, per contro, è un tessuto dell’organismo altamente accessibile che può essere raccolto con minimo disagio da parte del paziente (Chan et al., 2004). Inoltre, secondo molti Autori (Levin et al., 2009. Chan et al., 2004. Anderson et al., 2002. Hoffman et al., 2007) il proteoma sierico racchiude le informazioni più promettenti.

1.5 Letteratura Schizofrenia:

A causa della mancanza di efficaci modelli animali per la schizofrenia la ricerca di modelli patofisiologici e quindi biomarcatori diagnostici, si è concentrata su tessuti e fluidi cerebrali post-mortem. In pazienti con diagnosi di schizofrenia sono state analizzate, con varie metodiche di proteomica, nove regioni cerebrali e le principali alterazioni proteiche riscontrate riguardano il metabolismo energetico, dei fosfolipidi e degli oligodendrociti oltre all’omeostasi del calcio (Martins-de-Souza et al., 2010).

Huang et al. (2007) hanno analizzato il liquido cerebrospinale e il profilo proteomico in Patients Prodromal for Psychosis (PPP), mostrando che dal 36%

al 29% di pazienti con PPP mostrano uno specifico profilo

metabolico/proteomico. Comunque, la disregolazione biochimica mostrata nei

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pazienti PPP è al momento in grado di discriminare quali di questi pazienti andranno incontro ad una psicosi cronica. Livelli sierici dei marcatori infiammatori sTNRF1 e sTNRF2 sono stati riscontrati più elevati in pazienti schizofrenici cronici ricoverati rispetto ai controlli, anche se non è stata riscontrata una correlazione con la gravità della sintomatologia (Coelho et al., 2008). Dietrich-Muszalska and Olas (2007) hanno dimostrato che la proteina collagen-stimulated platelet aggregation era significativamente più bassa nei pazienti schizofrenici rispetto ai controlli sani. In un altro studio (Dietrich- Muszalska and Olas, 2005) l’attività dell’enzima piastrinico antiossidativo superossido dismutasi (SOD) e il livello del thiobarbituric acid reactive species (TBARS) è stato misurato come indicatore di stress ossidativo. I risultati suggeriscono una rafforzata generazione di reactive oxygen species e una attività significativamente più bassa dell’enzima SOD in pazienti schizofrenici confrontati con controlli sani. La lunghezza del telomero nei linfociti del sangue periferico (PBL) di individui con schizofrenia, è stato osservato essere significativamente ridotto. In uno studio di follow-up, Porton et al (2008) quantificò l’attività dell’enzima telomerasi in PBL riscontrandone una significativa diminuzione nei pazienti schizofrenici rispetto ai controlli sani. Un altro studio ha separato i fibroblasti dal sangue periferico di pazienti psicotici e controlli mostrando un alterato pattern proliferativo negli individui affetti (Wang et al., 2011).

In uno studio recente, il gruppo di Sabine Bahn ha utilizzato la metodica di

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spettrometria di massa SELDI per esplorare l’espressione del pattern proteico ottenuto da estratti linfocitari tra pazienti schizofrenici con minimo trattamento farmacologico e controlli sani. La metodica SELDI permette di identificare proteine a basso peso molecolare e in questo studio ha identificato una proteina corrispondente al gruppo delle alpha-defensine capace di discriminare i controlli dagli individui affetti (Craddock et al., 2008). Inoltre hanno poi analizzato direttamente tramite ELISA i livelli dell’alpha-defensina, in 21 gemelli monozigoti discordanti per schizofrenia e 8 paia di gemelli sani venne. Sia gli affetti che i soggetti sani risultarono avere una significativa elevazione dei livelli quando confrontati con la coppia dei gemelli sani.

Le recenti metodiche di separazione e identificazione delle proteine sono state applicate in uno studio multicentrico che ha reclutato un campione di pazienti psicotici all’esordio drug naive. Il profilo proteomico globale è stato confrontato con un gruppo di soggetti sani. In questa analisi, tutte le apolipoproteine sono risultate diminuite nel siero di pazienti schizofrenici, suggerendo un potenziale ruolo di questa famiglia di proteine, già studiata nelle malattie neurodegenerative, nella patogenesi della schizofrenia (Levin et al., 2010).

Un unico studio molto recente ha messo a confronto pazienti con schizofrenia

con pazienti affetti da depressione secondo una metodica caso-controllo. Anche

in questo caso sono stati identificati una serie di analiti in grado di discriminare

le due classi e alcuni di questi appartengono a percorsi cellulari già ritenuti

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coinvolti nei meccanismi biologici della depressione e della schizofrenia (Domenici et al., 2010).

Disturbo bipolare:

Come per la schizofrenia, inizialmente gli studi di analisi delle proteine nel disturbo bipolare, sono stati condotti su tessuti cerebrali post mortem. I principali risultati mostrano: 1- alterazioni delle proteine che compongonoil citoscheletro, suggestive di un’alterazione dello sviluppo cerebrale; 2- alterazione dell’espressione di proteine coinvolte nel meccanismi di controllo del metabolismo energetico delle cellule (Novikova et al., 2006).

In uno studio in vivo su estratti da cellule mononucleate periferiche, è stato confrontato il profilo proteomico tra un gruppo di pazienti con disturbo bipolare in fase di eutimia e un gruppo di volontari sani. Sono stati identificati, con spettrometria di massa, circa 60 analiti in grado di discriminare le due classi.

Queste proteine erano coinvolte prevalentemente nel ciclo vitale delle cellule, e,

testate sul siero degli stessi pazienti, hanno determinato una riduzione globale

della sopravvivenza delle cellule. Questi risultati suggeriscono che i pazienti

con disturbo bipolare, anche in assenza di depressione o fasi di elevazione del

tono dell’umore in atto, manifestano un profilo proteico differenziale rispetto ai

soggetti sani, che modifica globalmente la funzione cellulare (Herberth et al.,

2011). Interessanti sono anche i primi studi che si prefiggono di individuare

differenze tra il profilo proteico di pazienti con disturbo bipolare in assenza di

ideazione suicidaria verso pazienti che hanno tentato il suicidio (Brunner et al.,

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2005).

In conclusione, negli ultimi anni la ricerca dei meccanismi biologici delle

patologie psichiatriche ha coinvolto lo studio delle proteine espresse dalle

cellule. La direzione delle prime investigazioni prevedeva lo studio di tessuti

cerebrali e in particolare delle aree ritenute coinvolte nella patogenesi dei

disturbi. Anche gli studi su fluidi periferici come il liquor e il siero, in pazienti

affetti, ha dato risultati promettenti, inaugurando un filone di ricerche non-

hypothesis-driven che permette, una volta riscontrate differenze significative tra

classi di patologie, di formulare delle ipotesi a posteriori. Il vantaggio di

studiare il siero e le cellule periferiche, tuttavia, consiste nella possibilità, data

l’accessibilità del campione e la sicurezza per il paziente, di utilizzare lo studio

delle proteine nella ricerca di biomarcatori diagnostici che possano identificare

precocemente il disturbo o una delle sue fasi cliniche e possano confermare o

smentire l’attuale classificazione nosografica. Sono infatti recentissimi i primi

studi che mettono a confronto classi di patologie diverse o la presenza/assenza

di specifiche dimensioni psicopatologiche, come ad esempio la suicidalità nella

depressione maggiore e nel disturbo bipolare. Riteniamo che quest’ultima

direzione di ricerca sia la più promettente. La ricerca di correlati molecolari di

dimensioni cliniche omogenee potrebbe superare le eterogeneità di

fenotipizzazione contenute nelle attuali diagnosi categoriali e allo stesso tempo

potrebbe individuare con elevata sensibilità e specificità degli analiti coinvolti

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nelle funzioni biologiche che sottendono specifiche entità cliniche.

L’obiettivo primario dello studio è di ricercare biomarcatori proteici presenti nei

linfociti di pazienti con disturbi psicotici (schizofrenia, disturbo bipolare,

disturbo schizoaffettivo, depressione maggiore con sintomi psicotici) in grado di

differenziare questa classe di pazienti da un gruppo di controlli con altre

diagnosi psichiatriche e senza anamnesi di disturbi psicotici.

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