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3 Il microscopio elettronico e la microanalisi

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Academic year: 2021

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3 Il microscopio elettronico e la microanalisi

3.1 Il SEM

Nonostante le differenze riguardanti il potere di risoluzione e l’applicazione tecnicostrumentale dei fenomeni che riguardano la formazione e la visualizzazione dell’immagine, il SEM presenta tuttavia notevoli analogie con il convenzionale microscopio ottico a riflessione.

Il microscopio elettronico a scansione può essere definito, molto sinteticamente, come un laboratorio operante a un elevato valore di vuoto e nel quale un opportuno campione viene fatto interagire con un fascio elettronico a elevata energia. Dalle modificazioni provocate nella struttura atomica del preparato dall’elettrone primario, vengono originati e raccolti numerosi segnali, utilizzabili per la formazione di immagini relative alla struttura morfologica del campione e alla sua composizione chimico-fisica.

A grandi linee, il principio di funzionamento di un SEM può essere così riassunto: un fascio elettronico, generato da una opportuna sorgente, viene focalizzato da un sistema di lenti elettromagnetiche e mandato a esplorare secondo punti e linee sequenziali la superficie di un preparato. Il segnale, generato a seguito dell’interazione prodotta, viene raccolto da un opportuno rivelatore e trasferito alla griglia di controllo di un oscilloscopio a raggi catodici (CRT). La modulazione prodotta permette di regolare l’intensità del fascio elettronico dell’oscilloscopio stesso in funzione della quantità di segnale ricevuto, ottenendo un’immagine corrispondente sullo schermo del CRT. Poiché il trasferimento sequenziale del pennello elettronico sul preparato viene prodotto da un generatore di scansione che contemporaneamente agisce in modo sincrono sull’avvolgimento di deflessione del fascio elettronico dell’oscilloscopio, esiste perfetta corrispondenza tra il segnale proveniente dal campione e l’immagine ottenuta sullo schermo. Il sistema che genera e trasferisce il fascio elettronico primario e il campione stesso devono essere posti in un elevato valore di vuoto a seguito delle proprietà intrinseche degli elettroni veloci.

In relazione ai principi costitutivi e di funzionamento, è possibile sinteticamente elencarne le caratteristiche e le possibilità applicative:

¾ Requisiti del campione: frammenti di materiale entro un’estesa gamma dimensionale (da pochi mm3 sino all’ordine di grandezza dei cm3).

¾ Informazioni ottenibili: relative, nel modo principale di impiego, alla superficie del campione, con la formazione di immagini di aspetto tridimensionale.

¾ Sistema illuminante: sorgente ottenuta da un filamento di tungsteno riscaldato sotto vuoto.

Focalizzazione del fascio mediante lenti magnetiche ed esplorazione della superficie del campione secondo una serie sequenzìale di linee.

¾ Sistema di formazione dell’immagine: non esistono lenti magnetiche al di fuori di quelle utilizzate per la focalizzazione del fascio. L’immagine viene ottenuta sulla superficie di un tubo a raggi catodici, mediante elaborazione elettronica del segnale proveniente dal campione.

¾ Sistema del vuoto: deve essere in grado di garantire l’ottenimento di valori di vuoto dell’ordine di 10-4- 10-6 torr. È generalmente costituito dall’accoppiamento di pompe meccaniche e pompe a diffusione o di sistemi turbomolecolarì.

¾ Formazione del contrasto: in rapporto all’intensità del segnale rappresentato dall’emissione di elettroni secondari si notano sullo schermo fosforescente del tubo a raggi catodici punti immagine di diversa intensità luminosa. L’intensità di emissione secondaria varia nei diversi punti del campione in rapporto alle caratteristiche di superficie e al diverso orientamento dei suoi particolari rispetto al detector di raccolta, in funzione dell’angolo di incidenza del fascio elettronico primario.

¾ Limite di risoluzione: è determinato principalmente dal diametro del fascio elettronico che esplora il campione e inoltre anche dalle caratteristiche superficiali del preparato.

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Le caratteristiche esaminate si riferiscono alle modalità operative più comunemente attuate. Esiste, infatti, la possibilità di ottenere, mediante opportuni accessori strumentali, ulteriori informazioni sulla struttura dei campioni (microanalisi a raggi X, elettroni retrodiffusi, catodoluminescenza ecc.).

Lo strumento disponibile commercialmente è in grado di offrire elevatissime prestazioni, al punto che i fattori che tuttora limitano lo sfruttamento completo delle potenzialità della microscopia elettronica sono rappresentate prevalentemente dal mancato adeguamento delle tecniche di allestimento del materiale al progresso strumentale. L’altissimo grado di vuoto che si raggiunge durante un’analisi comporta il fatto che il campione utilizzabile per l’osservazione deve essere necessariamente disidratato (in realtà è prevista la possibilità, con l’impiego di particolari accessori, di poter esaminare campioni allo stato idratato e congelato). Per questo motivo quasi tutte le metodiche necessarie alla preparazione di campioni esaminabili in microscopia elettronica prevedano una fase di allontanamento dell’acqua dal campione stesso.

3.1.1 Caratteristiche costruttive del microscopio elettronico a scansione

I principi che sottendono al funzionamento del microscopio elettronico a scansione (SEM) sono stati originariamente formulati da H. Stintzing nel 1929 che ne provò la fondatezza teorica. Il primo prototipo di SEM venne realizzato da M. von Ardenne nel 1938 e il primo SEM commerciale è stato costruito e distribuito dalla Cambridge Instrument Company, Inc. agli inizi degli anni ‘60.

Attualmente disponiamo dì una vasta gamma di SEM, diversificati a seconda dell’estrazione bio- medica o fisica e delle esigenze specifiche del singolo operatore.

Il SEM può essere definito, molto sinteticamente, come un laboratorio operante a un elevato valore di vuoto e nel quale un opportuno campione viene fatto interagire con un fascio elettronico a elevata energia. Dalle modificazioni provocate nella struttura atomica del preparato dall’elettrone primario, vengono originati e raccolti numerosi segnali, utilizzabili per la formazione di immagini relative alla struttura morfologica del campione e alla sua composizione chimico-fisica.

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Figura 3-1: Schema di funzionamento del microscopio elettronico a scansione. Il segnale originato

dall'interazione del fascio elettronico con il campione viene trasferito all'elettrodo di controllo di un oscilloscopio a raggi catodici (CRT).

A grandi linee, il principio di funzionamento di un SEM può essere così riassunto (Figura 3-1): un fascio elettronico, generato da un’opportuna sorgente, viene focalizzato da un sistema di lenti elettromagnetiche e mandato a esplorare, secondo punti e linee sequenziali, la superficie di un preparato. Il segnale, originato a seguito dell’interazione prodotta, viene raccolto da un opportuno rivelatore e trasferito alla griglia di controllo di un oscilloscopio a raggi catodici (CRT). La modulazione prodotta permette di regolare l’intensità del fascio elettronico dell’oscilloscopio stesso in funzione della quantità di segnale ricevuto, ottenendo un’immagine corrispondente sullo schermo del CRT. Poiché il trasferimento sequenziale del pennello elettronico sul preparato viene prodotto da un generatore di scansione che contemporaneamente agisce in modo sincrono sull’avvolgimento di deflessione del fascio elettronico dell’oscilloscopio, esiste perfetta corrispondenza tra il segnale proveniente dal campione e l’immagine ottenuta sullo schermo. Il sistema che genera e trasferisce il fascio elettronico primario e il campione stesso devono essere posti in un elevato valore di vuoto, a seguito delle proprietà intrinseche mostrate dagli elettroni veloci.

A scopo didattico, il SEM può essere considerato come uno strumento composto da diverse unità o sistemi, ciascuno deputato a svolgere una specifica funzione ma al tempo stesso intrinsecamente connesso agli altri.

Possiamo in questo modo considerare il SEM costituito da:

• un sistema di illuminazione del campione;

• un sistema di rivelazione e di trasferimento del segnale;

• un sistema di produzione e di registrazione dell’immagine;

• un sistema del vuoto.

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3.1.2 Il sistema di illuminazione del campione

Consiste essenzialmente della sorgente elettronica o cannone elettronico, delle lenti di focalizzazione e delle bobine di deflessione del fascio elettronico.

3.1.2.1 La sorgente elettronica

La scelta della sorgente elettronica è critica al fine della risoluzione strumentale e quindi deve essere accuratamente valutata dall’operatore che si accinge ad acquistare un nuovo strumento in funzione delle personali esigenze applicative. Osservazioni di routine si gioveranno di un economico sistema di illuminazione (filamento di tungsteno sagomato a V), mentre osservazioni

“più mirate”, quali ad esempio reazioni di immunomarcatura con oro colloidale di 1-18 nm di diametro, necessitano di una sorgente, maggiormente costosa, caratterizzata da particolare brillanza e coerenza, quali sorgenti a esaboruro di lantanio o a emissione di campo. Quest’ultima sorgente sarà, infine, una scelta obbligata per quegli operatori che studiando aree particolari, quali la microanatomia cellulare, i cromosomi o i virus, necessitano di particolare risoluzione.

Tra le varie caratteristiche delle sorgenti elettroniche impiegate in microscopia elettronica, due assumono particolare importanza:

• la diffusione di energia, rappresentata dal diametro del disco di confusione dovuto al coefficiente di aberrazione cromatica delle lenti. Tale parametro varia in relazione alle modalità operative della sorgente;

• la luminosità (brightness), indicata dalla quantità di corrente che può essere concentrata in un dato diametro del fascio elettronico considerato in termini spaziali e cioè definito da un angolo solido. La luminosità di un fascio elettronico rappresenta praticamente la densità di corrente per unità angolare.

In microscopia elettronica tre fondamentali tipi di sorgente vengono utilizzati:

• catodi di tungsteno;

• catodi di esaboruro di lantanio (LaB6);

• catodi a emissione di campo.

Possedendo caratteristiche costruttive e operative diverse, soprattutto riguardo alla luminosità del fascio elettronico prodotto, verranno esaminate singolarmente con particolare attenzione a quest’ultima proprietà.

3.1.2.1.1 Catodi di tungsteno

Costituiscono la più diffusa sorgente elettronica utilizzata, per la loro facilità di costruzione e per il fatto che operano in modo soddisfacente alla pressione di 10-4 torr e con potenze di riscaldamento non superiori a 3-4 watt. La loro vita operativa varia da 20 a 60 ore, in relazione alle corrette o meno modalità di saturazione; la luminosità è di circa 5x104 A/cm2 ster. a 20 kV, con una corrente totale di 100-200 microampères e un diametro a cross-over di circa 50 micron.

Un tipo particolare di questi catodi è il cosiddetto “filamento puntiforme” di tungsteno,. in grado di produrre luminosità più elevate. Alcuni inconvenienti riscontrabili nell’uso di tali filamenti sono rappresentati dal fatto che possono operare solamente a valori di pressione di almeno 10-5 torr e che la temperatura di riscaldamento necessaria per una massima emissione provoca una notevole evaporazione di metallo dagli stessi, con conseguente drastica diminuzione della loro durata e notevole contaminazione del cannone elettronico. Nelle condizioni operative ottimali la loro luminosità può raggiungere, al kilovoltaggio esemplificativo di 20 kV, il valore di 5 x 105 A/cm2 ster.

3.1.2.1.2 Catodi di esaboruro di lantanio

Questi catodi, formati essenzialmente da cristalli di LaBB6 variamente sagomati, associano a un’elevata luminosità una bassa diffusione di energia. Per il loro funzionamento vengono richiesti valori di vuoto costanti e superiori a 10 torr; questo non preclude la loro utilizzazione sui -5

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microscopi dotati dei convenzionali O-ring elastici, ma in questo caso tali guarnizioni richiedono un’estrema pulizia e una frequentissima manutenzione. I catodi di questo tipo sono dotati di una luminosità di 10 A/cm ster. a 20 kV.2

3.1.2.1.3 Catodi a emissione di campo

Producono la più alta luminosità associata alla minima diffusione di energia; sono però molto costosi richiedendo per il loro impiego una particolare elaborazione del cannone elettronico. I catodi, formati da una spiralina ottenuta dalla corrosione elettronica di un singolo cristallo di tungsteno, hanno tipiche dimensioni comprese tra 20 e 200 nanometri. Tale catodo viene posto in relazione con due anodi successivamente spaziati; la differenza di potenziale applicata tra il cristallo di tungsteno e il primo anodo controlla la corrente di emissione che viene immediatamente accelerata a un potenziale massimo dall’azione del secondo anodo. I due anodi funzionano praticamente come una lente convergente elettrostatica; la forza del campo presente sulla superficie del catodo è così elevata (107 V/cm) che rende trascurabili gli effetti di carica spaziale e la densità di corrente raggiunge i 106 A/cm2. In pratica è possibile ottenere luminosità dell’ordine di 107 A/cm2 ster. a 20 kV, con diffusione di energia trascurabile.

Le seguenti difficoltà operative devono essere considerate nell’utilizzazione di Catodi a emissione di campo.

• Un ultra alto vuoto (maggiore di 10-9 torr) risulta indispensabile per ottenere un’emissione stabile; questo richiede l’impiego di guarnizioni metalliche nella camera del cannone elettronico e inoltre sistemi di evacuazione speciali.

• La finissima spirale del catodo può essere facilmente distrutta da scariche elettriche; per questo motivo viene richiesto un sistema accuratissimo di isolamento della sorgente elettronica.

Essendo la sorgente di dimensioni ridottissime, il diametro del fascio elettronico assume valori molto piccoli; occorre quindi evitare vibrazioni o interferenze magnetiche nella regione catodica, che si ripercuoterebbero amplificate in corrispondenza del campione.

3.1.2.2 Le lenti di focalizzazione

Il potere risolutivo del microscopio elettronico dipende anche dall’angolo di apertura del fascio incidente; esiste quindi la necessità di interporre tra la sorgente di illuminazione e il campione in esame un sistema di lenti condensatrici notevolmente più efficaci di quanto non rappresenti il solo cilindro di Wehnelt. Nei microscopi elettronici a scansione moderni troviamo un sistema di focalizzazione costituito da due o tre lenti elettromagnetiche poste in serie; quella inferiore, immediatamente vicina al campione, viene convenzionalmente denominata “obiettivo”.

Le lenti elettromagnetiche sono costituite da un nucleo cilindrico di ferro dolce contenente un avvolgimento di spire di rame e raffreddato esternamente, nella massima parte dei casi, mediante una camicia a circolazione di acqua. Quando una corrente viene fatta passare attraverso l’avvol- gimento, automaticamente si forma un campo magnetico con direzione parallela all’asse della lente.

Poiché il campo magnetico formatosi non garantirebbe in ogni suo punto la stessa intensità e simmetria (a causa della notevole lunghezza e della non perfetta omogeneità del nucleo cilindrico di ferro dolce), viene adattato all’interno della lente un pezzo particolare denominato “pezzo polare”, che concentra in un segmento di pochi millimetri l’intensità del campo. Questo pezzo, essendo costruito con materiali conduttivi a elevatissimo grado di purezza, garantisce per quanto possibile la perfetta simmetria del campo magnetico, presupposto di base per limitare al massimo le eventuali aberrazioni che potrebbero formarsi. In modo particolare prenderemo in esame il fenomeno dell’astigmatismo, essendo questo il difetto che praticamente interesserà l’operatore nel corso delle sue osservazioni al microscopio elettronico.

È materialmente impossibile, a causa dei difetti di fabbricazione degli avvolgimenti magnetici e delle piccole quantità di impurezze presenti comunque nei pezzi polari, ottenere una lente con

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distanza focale uguale in ogni punto dei due ipotetici assi trasversali x e y. La conseguenza pratica di questa disomogeneità si tradurrà nella riproduzione su piani diversi degli elettroni provenienti da questi punti. La lente che presenta questo difetto viene chiamata “astigmatica” e i due punti x e y vengono convenzionalmente fissati tra di loro a 90°.È comunque possibile (apportando una va- riazione al campo magnetico e conseguentemente alla lunghezza focale della lente in corrispondenza di uno dei due assi, mediante l’impiego di particolari dispositivi chiamati

“stigmatori”) far sì che i due piani di riproduzione x’ e y’ si formino alla stessa altezza.

Figura 3-2: Sostituzione dell'apertura finale della lente obbiettivo.

Riprendendo il discorso sui pezzi polari, diremo che in essi, con direzione trasversale all’asse della colonna, vengono inseriti diaframmi che hanno lo scopo di limitare l’utilizzazione del fascio elettronico alla sua parte centrale. Tali aperture possono essere fisse o mobili, con possibilità di introduzione ed estrazione mediante opportuni comandi utilizzabili anche per il loro allineamento rispetto all’asse del fascio elettronico. Nel SEM le aperture mobili vengono inserite all’altezza dell’ultima lente di focalizzazione (Figura 3-2) e sono generalmente costituite da dischi o lamine forate di platino o di molibdeno, con fori di diametro variabile da 100 a 500 micron. L’utilizzazione di un formato dell’apertura rispetto a un altro è funzione del tipo di osservazione che si desidera eseguire. Occorre infatti ricordare come tale fattore fisico, influenzante l’apertura angolare del fascio di illuminazione sul preparato, influisca sia sulla risoluzione che sulla profondità di campo dell’immagine ottenuta. La scelta può essere effettuata in rapporto alla distanza di lavoro (altro parametro correlabile alla risoluzione e alla profondità di campo) impiegata e all’angolo di inclinazione del preparato; praticamente il più delle volte si ricorre a un compromesso, utilizzando un formato medio, che permette di ottenere una risoluzione accettabile accoppiata a una discreta profondità di campo.

3.1.2.3 Le bobine di deflessione del fascio elettronico primario

A differenza del microscopio elettronico a trasmissione, in cui il fascio elettronico illumina nello stesso istante tutta la zona del preparato dalla quale verrà ottenuta l’imagine, nel SEM l’interazione fascio primario-campione avviene punto a punto, allo scopo di potere ricavare segnali sequenziali da zone spaziali estremamente limitate. Per questo motivo occorre un dispositivo che permetta di effettuare una scansione del pennello elettronico focalizzato dal sistema di lenti elettromagnetiche precedentemente descritto. Questo sistema di scansione normalmente collocato prima dell’espansione polare dell’obiettivo è costituito da due coppie di bobine elettromagnetiche che permettono la deflessione del fascio elettronico secondo l’asse x. Per realizzare l’esplorazione di un’area e non solamente di una linea del preparato, viene inoltre considerato l’impiego di altre due coppie di bobine, ortogonali alle precedenti, che permettono lo spostamento del pennello elettronico anche lungo l’asse y. Questo tipo di configurazione, denominata “pre-lens double deflection”, permette di ottenere un campo magnetico uniforme in prossimità dell’asse ottico e viene realizzato

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in modo tale da non provocare interferenze sull’obiettivo o aberrazioni sul fascio elettronico primario.

Il sistema di scansione, collegato con temporaneamente sia alle bobine di deflessione inserite sulla colonna che a quelle corrispondenti dell’oscilloscopio a raggi catodici, viene generalmente corretto elettronicamente per evitare che vengano introdotte, durante le operazioni di deflessione, delle variazioni della tensione di accelerazione del fascio primario e della distanza focale dell’obiettivo, che si ripercuoterebbero come variazioni dell’ingrandimento finale dell’immagine ottenuta sullo schermo del CRT. In alcuni modelli di SEM il sistema di deflessione viene realizzato utilizzando bobine poste non all’interno della lente di focalizzazione finale, ma immediatamente al di sotto di essa. Nonostante questo sistema preveda alcuni vantaggi (deflessione del fascio secondo angoli molto ampi e minori effetti di interazione tra i campi magnetici delle bobine e quello de1l’obiettivo), la sua utilizzazione limita notevolmente lo spazio disponibile per l’installazione di rivelatori di segnale (disposiivi a stato solido, spettrometri per radiazioni X ecc.), normalmente collocabili tra la parte terminale inferiore dell’obiettivo e il campione stesso.

3.1.3 Il sistema di rivelazione edi trasferimento del segnale

Può essere convenzionalmente considerato costituito dalla camera del preparato e dai vari rivelatori di segnale.

3.1.3.1 La camera del preparato

Viene considerata una delle parti più importanti del SEM, in quanto consiste fondamentalmente nel laboratorio di interazione fascio elettronico-campione. Posta al termine della colonna elettronottica, deve essere di dimensioni sufficientemente ampie per potere contenere i dispositivi di spostamento del campione e i relativi rivelatori di segnale.

Il dispositivo goniometrico del preparato è costituito da un apposito tavolino spostabile meccanicamente con movimenti micrometrici di traslazione lungo gli assi x, y e z, di rotazione attorno all’asse z e di inclinazione rispetto alla normale costituita dal pennello elettronico. Salvo alcuni casi particolari (automatizzazione delle traslazioni), i movimenti vengono effettuati dall’operatore manualmente, agendo su opportuni comandi situati esternamente e collegati, mediante precisissimi organi di trasmissione operanti a tenuta di vuoto, al tavolino stesso. I goniometri degli strumenti a elevate prestazioni sono del tipo cosiddetto “eucentrico”, poiché permettono di mantenere inalterata la posizione del punto di interazione del preparato rispetto al fascio elettronico primario indipendentemente dai movimenti di rotazione e di inclinazione eseguibili.

In alcuni strumenti dedicati a studi in alta risoluzione la camera del preparato viene ricavata all’interno della lente obiettivo. Tale configurazione consente di sfruttare solo le componenti altamente localizzate del segnale da elettroni secondari (SE-1, SE-2) a scapito di una certa flessibi- lità del sistema.

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3.1.3.2 Segnali e rivelatori

Prima di intraprendere la descrizione dei più comuni rivelatori utilizzati in microscopia elettronica a scansione, analizzeremo brevemente quali siano i principali segnali disponibili in campo biologico per la formazione di un’immagine (Figura 3-3).

Figura 3-3: Segnali generati nel microscopio elettronico a scansione.

Un fascio elettronico primario, accelerato da valori di tensione compresi tra 1 e 50 kV, interagendo con un materiale subisce principalmente due diverse modificazioni:

• diffusione elastica, consistente in una variazione direzionale senza apprezzabile perdita energetica, dovuta a un urto di tipo elastico con il nucleo dell’atomo incontrato;

• diffusione anelastica, riferibile a diminuzione energetica senza apprezzabile variazione di direzione, dovuta a urti di tipo anelastico con il nucleo oppure con gli elettroni orbitali dell’atomo incontrato.

In un campione massivo tutti i segnali (tranne quello proveniente dagli elettroni retrodiffusi) utilizzati per la formazione di un’immagine vengono originati da fenomeni di diffusione anelastica.

3.1.3.2.1 Gli elettroni secondari (SE)

È il segnale più frequentemente utilizzato per lo studio della morfologia di superficie di un campione. L’interazione del fascio elettronico primario con gli elettroni degli orbitali esterni degli atomi del preparato provoca, a seguito di trasferimento di energia cinetica, l’allontanamento degli stessi elettroni di valenza. L’elettrone espulso, denominato “elettrone secondario”, presenta un’energia compresa tra 0 e 50 eV (con un valore energetico medio di circa 4 eV) e ha possibilità di emersione superficiale, qualora il fenomeno che lo ha generato sia avvenuto a una profondità non superiore a 10 nanometri.

3.1.3.2.2 Gli elettroni retrodiffusi (BSE)

Gli elettroni retrodiffusi o “backscattered” sono originati da fenomeni di diffusione elastica e più precisamente da collisioni a piccolo parametro d’urto che intervengono tra l’elettrone incidente e il nucleo dell’atomo bombardato. Quando l’angolo di diffusione risulta essere maggiore di 90°si ha retrodiffusione (backscattering): in questo caso l’energia posseduta dall’elettrone emergente è molto simile come valore a quella dell’elettrone incidente, se l’evento è avvenuto in zone superficiali o immediatamente sottosuperficiali. In ogni caso l’energia tipizzante questi elettroni è sempre superiore al valore di 50 eV (valore massimo di quelli secondari). Gli elettroni backscattered for- niscono informazioni di tipo compositivo o morfologico relative a zone volumetriche del campione profonde alcuni micron. Il numero di elettroni raccolti dal rivelatore è funzione dell’angolo di incidenza del fascio elettronico primario e della posizione spaziale del rivelatore stesso. In funzione dell’angolo di emissione, è possibile distinguere principalmente tre diversi tipi di BSE:

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• elettroni riflessi a elevato angolo. Sono quelli che emergono dalla superficie a seguito di urti avvenuti con angoli di deviazione maggiori o uguali a 90°. Sono principalmente elettroni che provengono da zone profonde e che forniscono informazioni relative alla composizione atomica degli strati interni del campione

• elettroni riflessi a basso angolo. Sono quelli che emergono dal campione dopo avere subito deviazioni angolari inferiori a 90°. In questo caso il fascio elettronico primario è stato fatto incidere obliquamente alla superficie e il rivelatore deve essere predisposto per raccogliere solo un ristretto angolo solido di elettroni emergenti. L’immagine corrispondente ottenuta è relativa a dettagli superficiali topografici e possiede generalmente elevata risoluzione;

• elettroni a bassa perdita energetica. Sono quelli che, a seguito dell’interazione del fascio primario incidente in modo fortemente obliquo alla superficie del campione, riemergono dopo avere subito perdite energetiche di poche centinaia di eV. La discriminazione nella raccolta di questi elettroni viene normalmente effettuata mediante interposizione di un opportuno filtro energetico, regolato in modo tale da lasciare passare solo il segnale rappresentato da quegli elettroni che associano alla minore deflessione una minore perdita energetica. L’immagine così ottenuta associa a una risoluzione particolarmente elevata un elevatissimo rapporto segnale/disturbo.

3.1.3.2.3 La catodoluminescenza (CL)

Viene raccolta la radiazione luminosa che determinate molecole emettono a seguito dell’interazione con un fascio elettronico a elevata energia. Il fenomeno è basato sulla conversione di una piccola parte dell’energia incidente in radiazione elettromagnetica di lunghezza d’onda compresa tra l’ul- travioletto e l’infrarosso. La raccolta di una frazione monocromatica dello spettro di emissione consente di localizzare le sostanze che presentano tale proprietà.

3.1.3.2.4 Le radiazioni X

Sono radiazioni provocate dalla formazione di elettroni secondari a livello degli orbitali atomici interni del campione (orbitali denominati K, L, M ecc., partendo da quelli più prossimi al nucleo atomico e andando verso la periferia). A seguito dell’interazione, l’atomo si ionizza e ritorna nelle condizioni originali di equilibrio mediante il trasferimento da un livello orbitale più esterno di un altro elettrone, che occupa il posto vacante assumendo la configurazione energetica caratteristica del nuovo livello di appartenenza e liberando contemporaneamente il surplus di energia posseduta originariamente sotto forma di un fotone X. Se, ad esempio, l’elettrone secondario fosse espulso dal livello K e il suo posto fosse successivamente occupato da un elettrone del livello L, il fotone X emesso verrebbe caratterizzato dal valore energetico corrispondente a EL-EK (valori energetici dei rispettivi livelli orbitali L e K). La vacanza elettronica venuta a crearsi nel livello L sarebbe annullata da un ulteriore elettrone proveniente dal livello M, con conseguente nuova emissione di radiazione X caratterizzata dal valore energetico EM-EL. Risulta pertanto intuitivo dedurre come, in ogni atomo sottoposto a un singolo iniziale evento ionizzante, possano prodursi numerose transizioni orbitali (chiaramente in relazione al numero dei livelli energetici tipizzanti l’atomo in esame) equivalenti alla formazione di uno spettro di radiazioni X, identificante l’elemento sottoposto al fenomeno di interazione.

A parte quelli sopracitati, altri tipi di segnale originatisi dall’interazione di un fascio elettronico con un campione possono essere rivelati. Alcuni di essi (corrente di campione, elettroni Auger, contrasti magnetici ecc.) non verranno esaminati, interessando soprattutto il campo applicativo della scienza dei materiali, altri (elettroni trasmessi) verranno diffusamente trattati in un’altra parte del testo.

Qualunque sia il tipo di segnale emesso dal campione, occorre disporre di un opportuno rivelatore idoneo alla sua raccolta e al trasferimento a un sistema in grado di tradurlo in un’immagine visibile.

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3.1.4 Il sistema di produzione e di registrazione dell’immagine

Da quanto finora descritto, abbiamo realizzato come il segnale finale da cui deve essere prodotta un’immagine visibile sia costituito essenzialmente da una corrente elettrica; vediamo pertanto come sia possibile ottenere da un flusso di elettroni un’immagine di tipo fotonico. Vengono impiegati a tal fine oscilloscopi a raggi catodici basati su principi operativi simili a quelli dei comuni cinescopi del familiare apparecchio televisivo.

Un oscilloscopio a raggi catodici (CRT) è essenzialmente costituito da una sorgente che produce un fascio di elettroni e da un sistema anodico che lo accelera e lo invia a uno schermo ricoperto con una sostanza fosforescente, dotata della proprietà di emettere fotoni a seguito dell’interazione elettronica prodotta. Lo schermo normalmente di forma rettangolare, può essere identificato dalle due dimensioni b e h, rapportabili rispettivamente alla base e all’altezza. Prendendo in esame la prima linea superiore b dello schermo e scendendo per tutta l’altezza h fino ad arrivare all’ultima linea della base stessa, possiamo capire come sia mentalmente possibile suddividere tutta la dimensione relativa all’altezza h in un numero di linee successive, di lunghezza equivalente alla dimensione b. Il numero praticamente ottenibile di tali linee (lines/frame) definisce la possibilità dì suddivisione dell’intero schermo in linee immagine, vale a dire la frequenza con cui il pennello elettronico dell’oscilloscopio può passare dalla prima all’ultima ipotetica linea b. La successione sequenziale della formazione di tali linee luminose è controllata da opportune bobine di deflessione che operano assieme a quelle già descritte per il sistema dì deflessione del fascio elettronico primario sul campione. È infine possibile variare, agendo su opportuni comandi del generatore dì scansione, il tempo necessario al pennello elettronico per effettuare un intero passaggio, eseguito punto dopo punto, di una linea completa (line/time). Poiché il generatore di questo movimento di scansione del CRT è lo stesso di quello impiegato per effettuare l’esplorazione del preparato in esame, risulta evidente come a ogni punto immagine ottenuto sullo schermo televisivo corrisponda un univoco punto del campione stesso.

Se l’oscilloscopio viene fatto funzionare senza contemporaneamente sottoporre il preparato all’interazione con il fascio elettronico, potremo rilevare come sullo schermo televisivo vengano visualizzate le linee sequenziali a luminosità costante e relative all’intensità di emissione della sorgente elettronica dell’oscilloscopio stesso. Tuttavia, tra la sorgente elettronica e lo schermo del CRT, possiamo rilevare come sia inserita una griglia di controllo, che è praticamente un elettrodo di modulazione elettronica. Se tale griglia non viene eccitata, il pennello elettronico può passare inalterato e fermarsi a riprodurre come punti e linee luminose sullo schermo. Se, viceversa, alla griglia viene applicato un potenziale elettrico si verificherà, a seguito del campo di forza formatosi, una diminuzione dell’intensità del flusso elettronico, che si tradurrà nella formazione sullo schermo di punti dotati di minore luminosità rispetto ai precedenti. Se, infine, il campo elettrico applicato sarà sufficientemente elevato, il flusso elettronico risulterà talmente indebolito che non permetterà di formare sullo schermo alcuna luminosità.

In funzione, pertanto, delle variazioni di potenziale applicate alla griglia di controllo, risulterà possibile visualizzare punti immagine di diversa intensità. Poiché la corrente impiegata per modulare il campo elettrico della griglia di controllo è quella proveniente dal segnale raccolto e amplificato da diversi punti del campione, si otterranno sullo schermo del CRT punti immagine a diverso contrasto.

Risulterà possibile, agendo su opportuni comandi di amplificazione (gain, black level), aumentare tali differenze e quindi variare in modo elettronico, in funzione delle proprie specifiche esigenze, la qualità del contrasto dell’immagine ottenuta.

Normalmente, in un SEM, sono disponibili almeno due CRT. Il primo, a elevata e persistente fosforescenza, viene impiegato per l’osservazione generica del campione e per la scelta della zona o del particolare di interesse; il secondo, dotato di elevata risoluzione serve per la registrazione dell’immagine, essendo direttamente collegabile a una camera fotografica.

La qualità della micrografia ottenibile, oltre a dipendere necessariamente dalla risoluzione intrinseca dello schermo televisivo, può tra l’altro essere posta in relazione anche con i punti

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immagine (pixel) in cui è possibile dividere l’intera area dello schermo stesso e inoltre con le differenze di intensità del segnale proveniente dai punti campione. Poiché tali parametri sono direttamente collegabili sia ai valori di lines/frame che a quelli relativi al tempo in cui il fascio primario staziona su di un piano del preparato, occorre, nell’esecuzione della ripresa fotografica, scegliere opportune condizioni operative (ad esempio, 1000 lines/frame, 128 msec.; 2000 lines/fra- me 32 msec.).

3.1.5 Il sistema del vuoto

Il sistema del vuoto di un microscopio elettronico è deputato a rimuovere l’aria e gli altri gas presenti all’interno della colonna, in quanto un flusso elettronico con le caratteristiche richieste può esistere solamente in determinate condizioni di vuoto. La maggiore quantità di gas possibile deve essere tolta, altrimenti le eventuali molecole rimaste potrebbero causare diversi inconvenienti (interagire con gli elettroni del fascio primario provocandone instabilità; combinarsi, ossidandolo e accorciandone la vita, col filamento; condensarsi sul campione provocandone la contaminazione).

Prima di iniziare la descrizione del sistema del vuoto è opportuno chiarire alcuni aspetti della terminologia impiegata a tal proposito in microscopia elettronica. Il vuoto viene misurato impiegando le unità di misura della pressione e più precisamente il torr (equivalente alla pressione di un millimetro di mercurio). Il termine “alto vuoto” viene impiegato per indicare valori compresi tra 10-3 e 10-6 torr, mentre i termini “basso vuoto” e “pre-vuoto” si riferiscono a valori compresi tra 10 e 10-2 torr.

Per la realizzazione dell’alto vuoto richiesto, possono essere utilizzati diversi sistemi di evacuazione. Tralasciando la descrizione dei principi di funzionamento delle pompe ioniche (per lo più impiegate in strumenti richiedenti ultra alto vuoto, perché funzionanti con sorgenti particolari di illuminazione), descriveremo particolarmente il sistema basato sull’accoppiamento di due diversi tipi di pompe. Le prime sono di tipo meccanico, funzionanti a pressione atmosferica e capaci di raggiungere valori di basso vuoto; le seconde sono del tipo a diffusione a vapori di olio o di mercurio, funzionanti solo a partire da valori già ridotti di pressione e capaci di raggiungere valori di alto vuoto.

Le pompe meccaniche o rotative producono, con la rotazione di un cilindro eccentrico o mediante l’impiego di pistoni, un flusso continuo di gas che viene compresso e scaricato, tramite aperture valvolari, all’esterno. La tenuta viene assicurata da un velo di olio e quindi il vuoto realizzabile non può mai essere superiore alla tensione di vapore dell’olio impiegato. I valori di vuoto ottenibili oscillano tra 10-1 e 10-3 torr.

Figura 3-4: Rappresentazione schematica di una pompa a diffusione. Le molecole di olio, salendo verso l'alto e condensando sulle pareti raffreddate da una circolazione di acqua, provocano la discesa delle molecole di aria sul fondo del corpo della pompa.

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Le pompe a diffusione (Figura 3-4) sono basate sul principio che le molecole di un gas possono essere sottratte a un ambiente facendole interagire con un opportuno flusso di molecole di un altro gas. La realizzazione pratica viene ottenuta facendo evaporare un olio e provocandone la successiva condensazione sulle pareti interne di un recipiente cilindrico, mediante l’impiego di una serie di elementi riflettori sagomati a ombrello. Il flusso di ricaduta di tali molecole condensate è tale da far diffondere le poche molecole di aria ancora presenti, dopo la preliminare evacuazione effettuata dalla pompa rotativa, all’interno della colonna e di attirarle nel corpo della pompa stessa. Per evitare la contaminazione del preparato e delle pareti interne della colonna da parte di eventuali molecole di olio che potessero sfuggire dal corpo della pompa, possono essere impiegate trappole di condensazione raffreddate con azoto liquido e poste tra la colonna e il corpo della pompa stessa.

L’adattamento di questo sistema misto dì pompaggìo al microscopio elettronico viene realizzato nel modo seguente. Le due pompe, mediante un sistema di condotti e di valvole, possono essere collegate tra di loro oppure singolarmente alla camera del microscopio. Dopo un periodo iniziale di 20-30 minuti, necessario per il riscaldamento del fornello della pompa a diffusione, inizia il ciclo del vuoto. La pompa rotativa viene collegata alla colonna per effettuare la fase di pre-vuoto;

realizzato questo, si inserisce la pompa a diffusione che completa l’evacuazione, rimanendo infine collegata alla colonna anche durante le successive fasi di osservazione del preparato. La pompa rotativa, in quest’ultima fase, viene fatta aspirare su di una riserva di vuoto collegata al fondo della diffusione,in modo tale da assicurare lo scarico all’esterno delle residue molecole di aria che dal microscopio vengono raccolte nel corpo della pompa a diffusione stessa.

Negli strumenti moderni, tutto il ciclo del vuoto viene realizzato automaticamente, dopo aver inizialmente inserito un apposito comando.

Risulta inoltre possibile, sempre automaticamente e in qualsiasi momento, fare entrare aria nel microscopio per le operazioni di introduzione del preparato, di sostituzione del filamento o di manutenzione, e ripristinare, in tempo breve, le condizioni richieste di alto vuoto.

3.2 La spettrometria EDX (Energy Dispersive X-ray Spectrometri)

Sebbene il microscopio elettronico sia stato sviluppato e utilizzato per gran tempo soprattutto per ottenere informazioni riguardanti la morfologia del campione esaminato, esso, com’è noto, è uno strumento ben più versatile: l’interazione tra il fascio di elettroni e il campione genera infatti tutta una gamma di segnali che possono essere utilizzati per ottenere dal campione informazioni di tipo compositivo.

Uno dei segnali più comunemente utilizzati a questo scopo è senza dubbio l’emissione di raggi X e l’insieme delle tecniche attraverso le quali si analizza tale emissione, per ottenere mediante il microscopio elettronico una descrizione del contenuto elementale di microvolumi di campione, va sotto il nome di microanalisi a raggi X (XRMA).

I principi fisici che sottostanno alla microanalisi a raggi X (e che verranno brevemente discussi nel paragrafo successivo) sono noti da molto tempo, ma il primo strumento con cui la microanalisi potesse effettivamente essere affrontata fu sviluppato solo nel 1951 da Castaing. L’avanzamento tecnologico più rilevante è comunque degli anni ‘60, quando vennero sviluppati i rivelatori per raggi X a semiconduttore (descritti nel paragrafo “Strumenti per la microanalisi a raggi X”), che sono tuttora il tipo di rivelatore maggiormente utilizzato dalla microanalisi a raggi X.

Queste furono estremamente rare agli inizi, ma crebbero in maniera notevole negli anni ‘70, dopo il pionieristico lavoro di Hall e collaboratori a Cambridge [Gupta, 1993], la tecnica è oggi di routine in molti laboratori.

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3.2.1 Principi della microanalisi a raggi X

Quando elettroni veloci bombardano un campione, entrano nello stesso e possono interagire con gli atomi contenuti in tutta una regione (Figura 3-5), detta volume di interazione.

Figura 3-5: Diagramma schematico della diffusione laterale degli elettroni che penetrano nel campione. È evidenziato il diverso grado di risoluzione ottenibile in campioni sottili e massivi.

Com’è noto, gli atomi sono composti da un nucleo (costituito da neutroni e protoni) circondato da elettroni orbitali. Questi possono occupare specifiche zone dello spazio circostante il nucleo, caratterizzate da un livello energetico medio, e denominate shell (termine anglosassone che lette- ralmente significa “guscio”) o nuvole elettroniche. Gli elementi pesanti hanno numerosi elettroni orbitali, raggruppati in diverse shell: la più vicina al nucleo (shell K) è quella corrispondente a una minore energia, le successive (denominate con lettere progressive dell’alfabeto L, M, N ecc.) cor- rispondono infatti a livelli energetici via via più elevati.

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Figura 3-6: Illustrazione schematica di una struttura atomica semplificata e dei processi di interazione tra atomi ed elettroni della microsonda.

Tra gli elettroni incidenti e gli atomi del campione hanno luogo fondamentalmente due tipi di interazione (Figura 3-6) in grado di generare fotoni X.

Ionizzazione dell’atomo con emissione di un elettrone dagli orbitali interni (K, L, M ecc.). L’atomo è così energicamente instabile e si diseccita tramite decadimento di un elettrone appartenente a un orbita-le superiore, il quale va a occupare la lacuna formatasi: il salto energetico, sperimentato da questo elettrone nella transizione si traduce nell’emissione di un fotone X di energia uguale al salto stesso. Questo processo determina una lacuna in un orbitale ancora superiore, per cui si ha un’ulteriore transizione di un elettrone a questo livello lasciato libero, con emissione di un nuovo fotone X di energia diversa dal precedente e uguale a questo nuovo salto e così via. L’insieme di queste transizioni tra livelli atomici dà dunque luogo a un insieme di raggi X distribuiti secondo uno spettro discreto di energie (Figura 3-7) dette righe caratteristiche di quell’elemento, in quanto ne riflettono appunto la struttura atomica.

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Figura 3-7: Spettro teorico del rame con evidenziate le principali linee caratteristiche e l'emissione di background a esse sovrapposta

Se un segnale da raggi X è conseguenza della ionizzazione di un orbitale K viene detto linea K.

L’elettrone che va a colmare la lacuna può provenire però da un orbitale L, nel qual caso il segnale è designato come Ka, oppure da un orbitale M, nel qual caso il segnale viene chiamato Kb. Analogamente possono essere definiti i segnali conseguenti a ionizzazione degli orbitali L o M.

Sebbene la complessità dello spettro dei raggi X aumenti all’aumentare del numero atomico (Z), ogni elemento possiede uno spettro discreto ben preciso, attraverso il quale è dunque possibile identificare la presenza dell’elemento stesso nel campione.

Èevidente da quanto descritto che la prima condizione perché si produca radiazione X caratteristica di una data shell è che l’energia degli elettroni incidenti sia maggiore di un valore minimo Ec, detto energia critica di ionizzazione per quella shell e che rappresenta l’energia minima necessaria a espellere un elettrone appartenente a quel livello.

Gli elettroni della nuvola K richiedono in genere maggior energia di quelli appartenenti alla shell L, che ne richiedono di più di quelli appartenenti alla M e così via. Inoltre, a parità di shell considerata, E, aumenta all’aumentare del numero atomico.

Dato, poi, che la generazione di raggi X caratteristici è un processo in due fasi (ionizzazione e transizione radiativa), è chiaro che l’intensità di emissione X ottenibile dipenderà dal numero di tali eventi che effettivamente avviene.

Il numero di ionizzazioni per atomo prodotte dal bombardamento elettronico è esprimibile mediante un parametro detto sezione d’urto di ionizzazione (Q),che dipende fondamentalmente dal rapporto tra l’energia del fascio incidente (E0) ed Ec, e raggiunge un massimo quando E0, è di alcune volte superiore all’energia critica di ionizzazione [Morgan, 1985].

Non tutte le ionizzazioni verificatesi risulteranno tuttavia in un’emissione di raggi X: l’energia espressa durante alcune transizioni provoca infatti l’espulsione di altri elettroni dagli orbitali più esterni (elettroni Auger) anziché l’emissione di raggi X. La probabilità di ottenere radiazione X dal processo di ionizzazione è espressa da un parametro chiamato resa di fluorescenza (w), la quale dipende fortemente dal numero atomico ed è maggiore quanto più pesante è l’elemento in questione.

C’è anche un’Interazione anelastica dell’elettrone con il nucleo dell’atomo. Gli elettroni del fascio vengono cioè decelerati dal campo coulombiano che circonda il nucleo e questa perdita di energia si

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traduce anch’essa in un’emissione di fotoni X. Lo spettro risultante però è uno spettro continuo che si estende dall’energia E, del fascio incidente fino a zero e costituisce una sorta di background (detto anche continuum) sovrapposto all’emissione caratteristica data dalle specie atomiche presenti nel campione (Figura 3-7).

L’intensità della radiazione X emessa da un campione in seguito al bombardamento elettronico dipende, tuttavia, non solo dalle caratteristiche fisiche dell’interazione tra gli elettroni incidenti e gli atomi del materiale fin qui descritte, ma anche da alcune condizioni in cui essa avviene e legate alla natura del campione. In particolare vanno distinte due situazioni fondamentali.

Campioni massivi (al cui interno il fascio incidente viene arrestato), nei quali l’intensità della radiazione emessa dipende sia dalla radiazione X primaria generata dall’interazione degli elettroni del fascio con gli atomi del materiale, che da altri due fenomeni non trascurabili. Può innanzitutto verificarsi assorbimento di parte della radiazione primaria prima che questa possa emergere dal campione. Fotoni X primari che passano attraverso il materiale possono infatti interagire con gli elettroni degli atomi incontrati ed essere assorbiti. Se la loro energia era superiore all’energia critica di ionizzazione di quell’elemento l’assorbimento del fotone X primario si tradurrà a sua volta nella produzione di raggi X secondari, fenomeno detto .fluorescenza secondaria. Come si discuterà successivamente tutti questi eventi vanno considerati ai fini di una corretta analisi dell’emissione X rilevata da campioni massivi.

Campioni sottili, caratterizzati dal fatto che il fascio incidente viene trasmesso attraverso il campione con perdita trascurabile di energia media. Inoltre i raggi X generati emergeranno completamente dal campione senza praticamente subire assorbimento. Quando ciò si verifica, l’intensità dei raggi X osservata dipende soltanto dal numero di atomi per unità di volume del campione, dall’energia del fascio, e dai parametri Q e w prima descritti ed è a essi direttamente proporzionale.

La condizione di campione massivo o sottile determina anche la risoluzione spaziale della microanalisi a raggi X.

Come mostrato in Figura 3-5, in un campione sottile la risoluzione spaziale dipende primariamente dal diametro del fascio incidente [Goldstein et al., 1977], mentre in campioni massivi l’interazione tra fascio e materiale avverrà in un volume (tipicamente a forma di pera) le cui dimensioni dipen- dono dall’energia del fascio e dalla densità specifica del materiale. In genere, dunque, la risoluzione spaziale ottenibile in campioni sottili sarà più elevata di quella raggiungibile in campioni massivi.

Vale la pena di sottolineare come i termini “sottile” e “massivo”, usati nel contesto della microanalisi a raggi X, non indichino tanto delle caratteristiche di spessore dimensionale del campione analizzato, quanto piuttosto la quantità di massa attraverso la quale il fascio elettronico e i raggi X emergenti devono propagarsi. In questo senso una sezione di materiale biologico può ad esempio essere dimensionalmente molto più spessa di un campione metallurgico e pur tuttavia uniformarsi al concetto di campione “sottile”, oppure uno stesso campione può comportarsi come

“sottile” se irradiato con un fascio a 100 kV e come massivo” per fasci accelerati a tensioni più basse.

3.2.2 Strumenti per la microanalisi a raggi x

Da un punto di vista strumentale l’attrezzatura per la microanalisi a raggi X è costituita fondamentalmente da 3 parti: il sistema di formazione del fascio (o microsonda elettronica), il sistema di rivelazione dei raggi X e il sistema per l’analisi dell’emissione ottenuta.

3.2.2.1 Sistema di formazione della microsonda

Il fascio elettronico utilizzato come microsonda è generato dal microscopio elettronico. I requisiti che si richiedono allo strumento per il suo utilizzo in campo analitico riguardano fondamentalmente la capacità di generare fasci caratterizzati da alta intensità e stabilità di corrente e da piccoli diametri, al fine di ottenere la massima risoluzione spaziale possibile.

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Ciò può essere ottenuto con la maggior parte dei moderni microscopi elettronici scansione, anche se le prestazioni migliori si ottengono con sistemi dedicati a scopi analitici, generalmente basati su un SEM equipaggiato con sorgenti elettroniche ad alta luminosità come filamenti in LaB6 o, meglio ancora, catodi a emissione di campo e concepiti per operare sotto il controllo di un calcolatore (mi- crosonde elettroniche automatizzate).

3.2.2.2 Sistemi di rivelazione dei raggi X

Per rivelare i raggi X possono essere usate due tecniche (Figura 3-8).

Spettrometria a dispersione di lunghezza d’onda (WDS), che sfrutta le caratteristiche ondulatorie dei fotoni X. Gli spettrometri WDS moderni (Figura 3-9) sono costituiti da un cristallo (il cui reticolo cristallino avrà un certo passo d) e da un contatore di fotoni.

Il cristallo è costruito curvo in modo che la sua superficie stia su una circonferenza di raggio R (cerchio di Rowland) sulla quale sono disposti anche il campione e il contatore. La geometria è tale che quando i raggi X provenienti dal campione incidono sul cristallo solo quelli aventi lunghezza d’onda che soddisfa la legge di Bragg:

( )

Θ

=

d sin

n λ 2

vengono riflessi sul contatore. La lunghezza d’onda riflessa dal cristallo può essere variata cambiando l’angolo Q, cioè ruotando il rivelatore.

Figura 3-8: Microscopio elettronico a scansione equipaggiato con sistema di rilevazione EDS e WDS

Ogni spettrometro, in genere, contiene più cristalli di diversa spaziatura reticolare, in modo da coprire l’intervallo di lunghezze d’onda più ampio possibile. Si usano in genere cristalli naturali come il LiF (l corte), sali dell’acido ftalico (KAP, RAP, TAP) per l medie e lunghe, pseudocristalli come lo stearato di Pb (PbSt) per le l ancora più lunghe. Recentemente sono stati introdotti, in alternativa a questi ultimi, i film multistrato, costituiti da sottili strati alternati di un elemento pesante e di uno più leggero (ad es. W/Si o Ni/C), depositati per sputtering o evaporazione

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su substrati levigati. L’elemento pesante costituisce il film diffrangente, quello più leggero il film spaziatore.

Si tratta di un approccio che presenta alcuni vantaggi, quali un’ottima risoluzione in termini di energia (1-10 eV), un buon rapporto picco/background e la possibilità di rivelare anche elementi leggeri (Z > 4). E tuttavia evidente dalla descrizione che può essere rivelata da questo sistema solo una lunghezza d’onda alla volta e che l’efficienza di raccolta dei raggi x è bassa a causa del piccolo angolo di rivelazione, cosicché sono necessarie correnti intense del fascio elettronico per l’analisi WDS, il che può danneggiare il campione. Per questi motivi questa strategia di rivelazione dei raggi X è oggi meno utilizzata.

Spettrometria a dispersione di energia (EDS), che sfrutta invece i fenomeni di interazione tra i fotoni X e un opportuno materiale. Il rivelatore è costituito infatti (almeno nelle versioni più diffuse) da un cristallo semiconduttore di Si(Li) (di dimensioni inferiori ai 10 mm) mantenuto in alto vuoto e alla temperatura dell’azoto liquido. Come illustrato in Figura 3-9, il cristallo è rivestito a entrambe le estremità con uno strato conduttivo in oro. Tra questi due strati viene mantenuta un’alta differenza di potenziale (750-1000 V). Il cristallo è isolato dal vuoto del microscopio da una sottile (~ 8 pm) finestra di berillio per evitare contaminazioni e schermare gli elettroni retrodiffusi e la luce eventualmente prodotta per catodoluminescenza. Quando un fotone X entra nel rivelatore, la sua energia induce nel cristallo la formazione di coppie elettrone-lacuna che, in presenza del campo elettrico applicato alle due facce del rivelatore, danno luogo a un impulso di corrente di intensità proporzionale all’energia del fotone stesso. Tali segnali generati dai raggi X incidenti sono molto piccoli e quindi vanno amplificati da un’apposita elettronica.

Figura 3-9 a: Schema di uno spettrometro a cristallo secondo Johasson per analisi WDS. b: Diagramma schematico del rilevatore a Si(Li) per analisi EDS.

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Dato che il processo di generazione di cariche nel semiconduttore da parte dei raggi X è un processo statistico, vi saranno raggi X di una determinata energia che genereranno un po’ più corrente di quanto ci sì aspetti e altri, della stessa energia, ma che ne genereranno un po’ meno.

Pertanto, sebbene una particolare linea caratteristica sia monocromatica, nel detector essa darà origine a un insieme di segnali che, in termini di energia, si distribuiscono con una certa ampiezza (un picco) attorno all’energia della linea stessa. Tale larghezza dipende in parte dalla fisica del processo, in parte dalla qualità del detector stesso. Si definisce convenzionalmente come risoluzione spettrale del rivelatore l’ampiezza a metà altezza (FWHM) del picco generato dalla linea K del Mn.

Valori di risoluzione intorno a 130-140 eV definiscono un rivelatore di buona qualità.

Questa modalità di rivelazione dei raggi X consente dunque di acquisire tutto il range di energie durante un’unica sessione di analisi con un’efficienza di raccolta direttamente proporzionale all’angolo solido che il rivelatore forma rispetto al campione. Essa può dunque essere ottimizzata semplicemente variando tale angolo, senza dover agire sull’intensità del fascio elettronido.

Figura 3-10: Rappresentazione schematica della configurazione di un detector windowless.

Il rivelatore descritto non è tuttavia in grado di rivelare elementi più leggeri del Na (Z = 11), a causa della presenza della finestra di berillio in ingresso, che assorbe i raggi X meno energetici (E < 1 KeV). Se il vuoto del microscopio è elevato questa finestra può essere sostituita da un sottile film plastico coperto di alluminio e da un sistema di magnetini per deviare gli elettroni retrodiffusi. Essa può essere anche rimossa completamente (windowless detector) se il campione non è catodolumìne- scente. La rivelazione di elementi leggeri (quali il boro) diviene così possibile, anche se la criticità del sistema aumenta in modo significativo.

In tempi più recenti si sono messi a punto rivelatori che usano come cristallo germanio di alta purezza (HpGe) caratterizzati da maggiore efficienza di rilevazione e da maggior risoluzione, il che li potrebbe rendere particolarmente adatti allo studio di elementi leggeri in campioni delicati quali quelli biologici [Block-van Hoek e Pinxter, 1993].

Nei SEM i rivelatori vengono usualmente montati a un piccolo angolo rispetto al campione e una certa inclinazione di questo può essere necessaria ai fini di ottenere un segnale ottimale.

Un concetto importante relativo al sistema di rivelazione è quello di limite minimo rivelabile (MDL), detto anche limite di sensibilità. Esso esprime la frazione minima di massa di un elemento che il sistema microanalitico è in grado di rivelare. Tale quantità dipende fondamentalmente dal

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rapporto tra l’intensità dei picchi caratteristici dell’elemento e l’intensità del background. Tale limite può pertanto essere ottimizzato o aumentando l’intensità della microsonda o aumentando il tempo di analisi o minimìzzando il background.

Il MDL è ad esempio peggiore per sezioni idratate che per quelle disidratate, in quanto la disidratazione non influenza l’intensità caratteristica, ma abbassa il background (circa di un fattore 5).

Il limite di sensibilità è inoltre circa otto volte migliore usando la WDS rispetto all’EDS. Ciò a causa dell’alto ritmo di conteggio che tale rivelatore può sopportare, anche se, naturalmente, tale vantaggio si ha solo se anche il campione è in grado di reggere le alte intensità del fascio necessarie a generare alti livelli di emissione X.

Una comparazione più completa tra le due tecniche di rivelazione è la seguente:

WDS EDS

Elementi rivelabili Z > 4 Z > 11

Z > 5 (windowless) Limiti di rivelazione:

a. Volume (nm3) b. Massa (g) c. Conc. (ppm)

108 10-19

100

108 10-19

230

Efficienza dì raccolta (sterad) 0.001 0.01-0.1

Corrente minima di fascio (A) 10-8 10-10

Diametro utile minimo della sonda (nm) ~ 200 ~ 5 Massimo ritmo di conteggio (cts) ~ 500000 < 3000

Risoluzione spettrale (eV) 5 – 10 150 (a 5.9 eV)

Tempo diAcquisizione (minuti) 15 – 60 1 - 5

Artefatti Rari Numerosi

Tabella 3-1: Tabella riassuntiva delle caratteristiche WDS e EDS

3.2.2.3 Sistemi di analisi dell’emissione X

Il segnale amplificato proveniente dal rivelatore viene veicolato in un dispositivo detto analizzatore mutlicanale (MCA), il quale agisce come un convertitore analogico-digitale e partisce il segnale proveniente dall’amplificatore in canali discreti di energia la cui ampiezza è usualmente di 10 o 20 eV. I segnali dei raggi X vengono così distribuiti in base alla loro energia e si ottiene quello che viene chiamato spettro dei raggi X.

L’MCA è integrato in un sistema computerizzato che consente la visualizzazione dello spettro ottenuto su un monitor, la sua eventuale memorizzazione su disco, l’esecuzione, tramite appositi software, delle procedure di analisi dello spettro desiderate e la gestione dei risultati ottenuti.

3.2.3 Metodi della microanalisi a raggi x

Le possibilità offerte dai moderni sistemi microanalitici diventano sempre più estese e sofisticate.

La loro facilità d’uso e l’ampia disponibilità di validi software commerciali non deve tuttavia far perdere di vista i principali aspetti metodologici connessi con l’uso della XRMA e che saranno l’argomento del presente paragrafo.

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3.2.3.1 Analisi qualitativa

L’analisi qualitativa mira a identificare gli elementi presenti nel campione oggetto dell’analisi senza giungere a una stima della loro quantità. Le fasi attraverso cui si giunge a tale risultato sono illustrate di seguito.

Definizione delle condizioni sperimentali. Va innanzitutto scelto il valore di tensione di accelerazione con cui generare la microsonda. A questo proposito va osservato che, come regola generale, campioni sottili vanno esaminati col più alto valore di tensione possibile, mentre valori bassi di tensione sono la scelta preferenziale nel caso di campioni massivi.

La ragione fondamentale per utilizzare alti valori di tensione nel caso di campioni sottili sta nel fatto che il rapporto picco/background aumenta con l’aumentare della tensione di accelerazione e rende quindi più agevole l’identificazione dei vari picchi caratteristici. All’aumentare della tensione, tuttavia, ciò che rapidamente diminuisce è la risoluzione ottenibile ed è questa la ragione fondamentale per non usare alti valori di tensione nel caso di campioni massivi.

Fissata la tensione di accelerazione si tratta poi di regolare la corrente del fascio fino a ottenere una produzione di raggi X ottimale. Questa condizione nella maggior parte dei rivelatori si raggiunge quando il detector rivela circa 2000 conte al secondo.

A tal fine un altro importante aspetto da considerare è la geometria dell’insieme campione- rivelatore. Generalmente il rivelatore è montato quanto più vicino possibile al campione e l’unica variabile che può essere modificata è l’inclinazione del preparato stesso, il quale può così essere ag- giustato in modo che il numero di raggi X generati che raggiunge il rivelatore sia quello ottimale.

Esecuzione dell’analisi. L’analisi può essere effettuata in “spot mode’, cioè posizionando il fascio finemente focalizzato sulla regione di interesse: in questo caso il diametro del fascio, e quindi il volume analizzato, sono indipendenti dall’ingrandimento utilizzato.

Alternativamente, nel caso il microscopio utilizzato possa operare in scansione è possibile lasciare che il fascio scandisca una piccola area di preparato.

Si lascia quindi per un certo tempo che il rivelatore raccolga i raggi X prodotti e venga costruito lo spettro. Va a questo proposito tenuto presente che, al fine di ottenere picchi che siano statisticamente significativi, cioè separabili dal background, è necessario accumulare nello spettro un numero di conte tale da soddisfare le condizioni imposte dalla statistica di Poisson, cioè almeno 20000 conte [Morgan, 1985].

Identificazione dei picchi. Il primo problema che si pone a questo punto è definire che cosa costituisce un picco caratteristico. Il criterio oggettivo utilizzato in genere per riconoscere la presenza di un picco è che la sua intensità superi il livello di background (misurato su entrambi i lati del presunto picco) di almeno 3 deviazioni standard.

Il passo successivo è quello di identificare i picchi così individuati, prendendo in considerazione le energie a essi corrispondenti. Bisogna ricordare sempre che a ogni elemento presente nel campione corrisponde una “famiglia” di picchi caratteristici, per cui se un elemento è presente nel campione, in linea di principio tutte le sue righe spettrali devono essere presenti. I moderni software per la microanalisi danno la possibilità di eseguire automaticamente tali operazioni fino a giungere a una proposta di identificazione degli elementi presenti nel campione. Specialmente in situazioni dì basse concentrazioni degli elementi o di bassa emissione X, tuttavia, tale risultato va considerato solo un ausilio all’identificazione dei picchi, che rimane responsabilità dell’operatore.

Al fine di raggiungere tale scopo è bene ricordare alcune linee guida [Lyman et al., 1990].

a. Si parte con i picchi caratteristici nelle zone dello spettro corrispondenti a energie più elevate. In tale regione infatti i picchi di una data famiglia (K, L, M) sono maggiormente separati e quindi risolvibili.

b. Si sceglie un picco di buona intensità: se tale linea è riconosciuta come la linea Kα di un elemento, allora deve essere accompagnata dalla linea Kβ avente circa il 10% di intensità. Se la linea è invece identificabile come linea L, devono essere presenti anche le altre linee L (di intensità decrescente) e la linea K corrispondente.

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c. Si passa al successivo picco di maggior energia non ancora identificato e si ripetono le fasi prima descritte fino a completamento dello spettro. Accade spesso che per elementi minori o presenti in tracce sia possibile rivelare solo una linea.

d. Qualora fosse necessario migliorare l’affidabilità dell’assegnamento dei picchi, può essere conveniente rianalizzare il campione aumentando il tempo di analisi per accumulare un numero maggiore di conte o utilizzando una più alta tensione di accelerazione per eccitare maggiormente le linee K.

Problemi e artefatti durante l’analisi. E fondamentale, ai fini di una corretta analisi, tener conto di un insieme di artefatti che possono influire su di essa. Tali problemi possono essere divisi in tre categorie fondamentali.

a. Artefatti dovuti al campione. I campioni biologici sono in genere piuttosto fragili e durante l’analisi sono esposti a una dose di elettroni molto elevata. Ciò induce nel materiale delle alterazioni, soprattutto nella componente organica: elementi come H, C, N e O possono infatti es- sere rimossi sotto forma di H2, CO2, NO2, metano e altri composti. Anche elementi volatili (come Hg, Br, I o Bi) possono essere persi durante l’irraggiamento. Tale perdita di elementi può essere ridotta (ma non completamente evitata) mantenendo il campione a bassa temperatura durante l’a- nalisi [von Zglinicki, 1993].

Un secondo problema che si può presentare è invece la contaminazione del campione con materiale estraneo che si deposita su di esso durante l’irraggiamento. Tale fenomeno, quando dovuto a sorgenti esterne al campione, può essere evitato tenendo l’area in cui è alloggiato il campione estremamente pulita e tenendo in funzione la trappola fredda anticontaminazione. Nella microanalisi biologica, tuttavia, la sorgente principale di contaminazione è il campione stesso, in quanto alcuni dei composti organici emessi dal campione per effetto dell’irraggiamento ricadono su di esso sotto forma di contaminanti. L’artefatto è dunque difficilmente eliminabile in maniera completa.

b. Artefatti prodotti dal detector. Durante il processo di conversione dell’energia dei raggi X in un impulso di carica, si possono creare delle situazioni che danno origine ad artefatti, che è necessario conoscere.

Quando il flusso di raggi X in arrivo è troppo elevato, può occasionalmente accadere che due impulsi arrivino al rivelatore nello stesso momento e non possano quindi essere distinti come due segnali separati. Essi pertanto verranno visti come un unico segnale di energia uguale alla somma delle energie dei due segnali originari. La maggior parte di questi picchi di somma viene eliminata dall’amplificatore, ma alcuni possono rimanere e apparire nello spettro, complicando l’analisi.

Un secondo tipo di artefatto presente nei rivelatori EDS sono i cosiddetti picchi di fuga del Si, dovuti all’eccitazione di raggi X nel silicio del detector da parte dei raggi X che incidono su di esso.

In tale processo i raggi X entranti perdono una quantità di energia pari a quella necessaria per l’eccitazione degli atomi di Si e ciò si traduce nella formazione di un piccolo picco satellite a un’energia di 1.74 keV inferiore a quella del picco principale: quando dunque in uno spettro viene individuato un piccolo picco prossimo (con energia inferiore di 1.74 keV) a un altro piuttosto intenso, si è certamente in presenza di un artefatto.

La forma dei picchi ottenuti, infine, deve essere controllata per verificarne l’aspetto gaussiano:

picchi di forma non simmetrica possono infatti derivare non solo dalla sovrapposizione di più picchi molto vicini ma anche da un artefatto noto come incomplete charge collection, più facilmente rilevabile per le radiazioni a bassa energia e dovuto a fotoni X che vengono assorbiti da regioni inattive del detector.

c. Artefatti prodotti dal microscopio. Lo spettro ottenuto può in certe condizioni non essere dovuto solo al campione in quanto tale, ma anche al materiale che lo circonda. Le sorgenti principali di radiazione estranea sono il retino nel caso di analisi di sezioni, il porta campione (Cu, Zn) e le parti del microscopio circostanti. Tali sorgenti vengono eccitate da elettroni non collimati o da elettroni diffusi dal campione o da elettroni retrodiffusi. È possibile eliminare alcune di queste sorgenti scegliendo materiali che non interferiscano con l’analisi sia per il supporto del campione

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