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1. MICROSCOPIO ELETTRONICO A SCANSIONE (SEM)

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Appendice

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II

1. MICROSCOPIO ELETTRONICO A SCANSIONE (SEM)

1.1. CENNI STORICI

I principi che sottendono al funzionamento del microscopio elettronico a scansione (SEM) sono stati originariamente formulati da H. Stintzing nel 1929 che ne provò la fondatezza teorica. Il primo prototipo di SEM venne realizzato da M. von Ardenne nel 1938 ed il primo SEM commerciale è stato costruito e distribuito dalla Cambridge Instrument Company, Inc. agli inizi degli anni ’60.

Lo strumento può essere sinteticamente definito come un laboratorio operante ad un elevato valore di vuoto nel quale un opportuno campione viene fatto interagire con un fascio elettronico ad alta energia. Dalle modificazioni provocate nella struttura atomica del preparato dall’elettrone primario, vengono originati e raccolti numerosi segnali utilizzabili per la formazione di immagini relative alla struttura morfologica del campione ed alla sua composizione chimico-fisica.

Il SEM è uno strumento molto diffuso per l’osservazione morfologica delle superfici; esso consente di ottenere immagini ingrandite (da 10x a 100.000x) della superficie (anche irregolare) di un campione con elevata risoluzione (fino a 5 mm) e profondità di campo (effetto tridimensionalità), superiori al microscopio ottico. Il SEM può utilizzare per la formazione dell’immagine una varietà di segnali che integrino l’informazione morfologica con quella composizionale del campione in esame (ad es. sfruttando il segnale a raggi X).

1.2. ELEMENTI COSTITUTIVI DI UN SEM

Il SEM è composto da diverse unità, o sistemi (figura 1), ciascuno deputato a svolgere una specifica funzione, ma al tempo steso intrinsecamente connesso agli altri. In sintesi il SEM è costituito da:

1 - Una sorgente di illuminazione (cannone elettronico);

2 - Un sistema di condensazione del fascio;

(3)

III

3 - Un sistema di scansione del fascio elettronico sul campione;

4 - Una camera portacampione;

5 - Un sistema di rivelazione del segnale;

6 - Un sistema di registrazione dell’immagine;

7 - Un sistema di vuoto.

Fig. - 1: Schema tipico di un microscopio SEM

(4)

IV

1.2.1. Sorgente di illuminazione

Essa consiste essenzialmente di:

1 - Sorgente elettronica o cannone elettronico, 2 - Lenti di focalizzazione

3 - Bobine di deflessione del fascio elettronico .

La sorgente elettronica è fondamentale per la risoluzione strumentale e quindi deve essere scelta in base al tipo di analisi che devono essere effettuate. Le osservazioni di routine richiedono l’utilizzo di un filamento di tungsteno sagomato a V, mentre osservazioni più “mirate” necessitano di una sorgente maggiormente costosa come sorgenti a esaboruro di lantanio o a emissione di campo (figura 2).

Fig. - 2: Disegno di un filamento di W e di esaboruro di lantanio

Il potere risolutivo del microscopio dipende anche dall’angolo di apertura

del fascio incidente; esiste quindi la necessità di interporre tra la sorgente di

illuminazione ed il campione in esame un sistema di lenti condensatrici. Il

sistema di focalizzazione è costituito da due o tre lenti elettromagnetiche poste

(5)

V

in serie; quella inferiore immediatamente vicina al campione viene convenzionalmente chiamata “obiettivo”. Le lenti elettromagnetiche sono costituite da un nucleo cilindrico di ferro dolce contenente un avvolgimento di spire di rame e raffreddato esternamente mediante una camicia a circolazione di acqua. Quando una corrente viene fatta passare attraverso l’avvolgimento, automaticamente si forma un campo magnetico con direzione parallela all’asse della lente. Poiché il campo magnetico formatosi non garantirebbe in ogni suo punto la stessa intensità e simmetria, viene adattato all’interno della lente un pezzo polare che concentra in un segmento di pochi millimetri l’intensità del campo. In questi pezzi polari, con direzione trasversale all’asse della colonna, vengono inseriti dei diaframmi che hanno lo scopo di limitare l’utilizzazione del fascio elettronico alla sua parte centrale. Tali aperture possono essere fisse o mobili. Nel SEM le aperture mobili vengono inserite all’altezza dell’ultima lente di focalizzazione e sono generalmente costituite da dischi o lamine forate di platino o molibdeno con fori di diametro variabile tra 100 e 500 micrometri.

Nel SEM l’interazione fascio primario – campione avviene punto a punto, allo scopo di poter ricavare segnali sequenziali da zone spaziali estremamente limitate. Per questo motivo occorre un dispositivo che permetta di effettuare una scansione del pennello elettronico focalizzato dal sistema di lenti elettromagnetiche. Questo sistema di scansione, normalmente collocato prima dell’espansione polare dell’obiettivo, è costituito da due coppie di bobine elettromagnetiche che permettono la deflessione del fascio elettronico secondo l’asse X. Per realizzare l’esplorazione di un’area e non solamente di una linea del preparato, viene inoltre considerato l’impiego di altre due coppie di bobine ortogonali alle precedenti che permettono lo spostamento del pennello elettronico anche lungo l’asse Y.

1.2.2 Il sistema di rivelazione e di trasferimento del segnale

Può essere convenzionalmente considerato costituito dalla camera del

preparato e dai vari rivelatori di segnale .

(6)

VI

1.2.3. La camera del preparato

Viene considerata una delle parti più importanti del SEM, in quanto consiste fondamentalmente nel laboratorio di interazione del fascio elettronico – campione. Posta al termine della colonna elettronica. All’interno presenta il dispositivo goniometrico del preparato, costituito da un tavolino spostabile meccanicamente con movimenti micrometrici di traslazione lungo gli assi X,Y,Z e di rotazione attorno all’asse Z e di inclinazione rispetto alla normale costituita dal pennello elettronico. I movimenti vengono effettuati dall’operatore manualmente agendo su opportuni comandi situati esternamente e collegati mediante organi di trasmissione operanti a tenuta di vuoto .

1.2.4 Segnali utilizzati dal SEM

L’analisi attraverso il SEM viene effettuata grazie all’impatto di un fascio elettronico primario, accelerato da valori di tensione compresi tra 1 e 50 kV, interagendo con un materiale subisce principalmente due diverse modificazioni:

1 - Diffusione elastica, consiste in una variazione direzionale senza apprezzabile perdita energetica dovuta ad un urto di tipo elastico con il nucleo dell’atomo incontrato;

2 - Diffusione anelastica, riferibile a diminuzione energetica senza apprezzabile variazione di direzione, dovuta ad urti di tipo anelastico con il nucleo oppure con gli elettroni orbitali dell’atomo incontrato.

In un campione massivo tutti i segnali (tranne quello proveniente dagli elettroni retrodiffusi) utilizzati per la formazione di un’immagine vengono originati da fenomeni di diffusione anelastica.

I vari segnali che sono generati dall’interazione della colonna di elettroni

incidenti con la superficie del campione stesso, va a contatto con la superficie

del campione stesso, schematizzati nella figura numero 3, sono: elettroni

secondari, elettroni retrodiffusi, catodoluminescenza, elettroni Auger e

radiazioni X.

(7)

VII Fig. - 3: Differenti segnali generati dal campione del fascio elettronico

Una parte degli elettroni incidenti, detti anche elettroni primari, vengono riflessi con un urto prevalentemente elastico mantenendone l’energia iniziale:

essi prendono il nome di elettroni a bassa perdita di energia (LLE).

Gli elettroni primari che interagiscono al solido in modo anelastico perdono la loro energia, trasferendola agli elettroni degli orbitali esterni degli atomi del preparato; ciò provoca, a seguito del trasferimento di energia cinetica, l’allontanamento degli stessi elettroni di valenza. Questi ultimi possono diffondere verso la superficie ed una frazione di essi può sfuggire all’esterno qualora il fenomeno che li ha generati sia avvenuto ad una profondità non superiore ai 10 nm; questi elettroni, di energia molto bassa (qualche decina di eV) sono detti elettroni secondari (SE). Gli elettroni secondari sono convenzionalmente indicati come quelli con energia minore di 50 eV, che costituiscono la quasi totalità di degli elettroni di bassa energia; gli elettroni a bassa perdita danno luogo nella distribuzione al picco per E = eU (con e = energia del fascio incidente, U = potenziale di accelerazione). Questi elettroni sono il segnale più frequentemente utilizzato per lo studio della morfologia di superficie di un campione.

Gli elettroni retrodiffusi o “backscattered” (BSE) sono originati da

fenomeni di diffusione elastica e più precisamente da collisioni a piccolo

parametro d’urto che intervengono tra l’elettrone incidente ed il nucleo

dell’atomo bombardato. Quando l’angolo di diffusione risulta essere maggiore di

90° si ha retrodiffusione: in questo caso l’energia posseduta dall’elettrone

(8)

VIII

emergente è molto simile come valore a quella dell’elettrone incidente, se l’evento è avvenuto in zone superficiali o immediatamente sottosuperficiali. In ogni caso l’energia tipizzante di questi elettroni è sempre superiore al valore di 50 eV (valore massimo di quelli secondari) e sono tutti quelli con energie comprese tra 50 eV e l’energia E degli elettroni primari; anche questi elettroni retrodiffusi possono generare degli elettroni secondari in seguito ad urti anelastici. Gli elettroni “backscattered” forniscono delle informazioni di tipo compositivo o morfologico relative a zone volumetriche del campione profonde alcuni micron. Il numero di elettroni raccolti dal rivelatore è funzione dell’angolo di incidenza del fascio elettronico primario e della posizione spaziale del rivelatore stesso. In funzione dell’angolo di emissione, è possibile distinguere principalmente tre diversi tipi di BSE:

1. Gli elettroni riflessi ad elevato angolo che sono quelli che emergono dalla superficie a seguito di urti avvenuti con angoli di deviazioni maggiori o uguali a 90°; sono principalmente elettroni che provengono da zone profonde e che forniscono informazioni sulla composizione atomica degli strati più interni del campione;

2. Gli elettroni riflessi a basso angolo sono quelli che emergono dal campione dopo avere subito deviazioni angolari inferiori a 90°.

L’immagine corrispondente ottenuta è relativa a dettagli superficiali topografici ed ha una elevata risoluzione.

3. Gli elettroni a bassa perdita energetica sono quelli che, a seguito dell’interazione del fascio primario incidente in modo fortemente obliquo alla superficie del campione, riemergono dopo aver subito perdite energetiche di poche centinaia di eV. L’immagine cosi ottenuta associa ad una risoluzione particolarmente elevata un elevatissimo rapporto segnale/disturbo.

Le radiazioni X. Esse sono provocate dalla formazione di elettroni

secondari a livello degli orbitali atomici interni del campione (orbitali K,L,M

ecc…). A seguito dell’interazione, l’atomo si ionizza e ritorna nelle condizioni

originali di equilibrio mediante il trasferimento da un livello orbitale più esterno di

un altro elettrone, che occupa il posto vacante assumendo la configurazione

(9)

IX

energetica caratteristica del nuovo livello di appartenenza e liberando contemporaneamente il surplus di energia posseduta sottoforma di un fotone X od anche di un elettrone. Il primo processo è detto “fluorescenza X”, mentre il secondo è noto come “emissione di elettroni di Auger”; sia i raggi X che gli elettroni di Auger emessi hanno delle energie caratteristiche degli atomi da cui provengono e possono essere quindi utilizzati per ottenere delle informazioni sulla composizione chimica del campione.

La Catodoluminescenza. Viene raccolta la radiazione luminosa che determinate molecole emettono a seguito dell’interazione con un fascio elettronico ad elevata energia. Il fenomeno è basato sulla conversione di una piccola parte dell’energia incidente in radiazione elettromagnetica di lunghezza d’onda compresa tra l’ultravioletto e l’infrarosso.

Infine, se il campione è sufficientemente sottile, gli elettroni retrodiffusi, di energia elevata, provengono da profondità molto superiori a quelle a cui hanno origine gli elettroni e sono in grado di attraversarlo, si avranno dunque degli elettroni trasmessi.

Fig. - 4: Spettro energetico degli elettroni emessi comprendente elettroni secondari (E≤50eV), elettroni a bassaperdita di energia LLE (perdita di poche centinaia di eVrispetto

all’energia E degli elettroni primari), elettroni retrodiffusi (E≥50eV) ed elettroni Auger.

Le emissioni indotte dal fascio incidente provengono in generale da

volumi di materiale molto diversi a seconda del segnale considerato: ad

(10)

X

esempio gli elettroni retrodiffusi, di energia elevata, provengono da profondità molto superiori a quelle da cui hanno origine gli elettroni secondari, la cui bassa energia gli consente solo brevi percorsi (figura 5).

Fig. - 5: Profondità di generazione dei segnali di elettroni secondari, retrodiffusi, Auger e fotoni X

1.2.5 Rivelatori per i vari tipi di segnali

Il rivelatore di elettroni secondari (figura 6) è formato da una gabbia di Faraday,

polarizzata a +200 V rispetto al campione, che attira gli elettroni secondari che

vengono successivamente accelerati verso un elemento scintillatore ricoperto

da un sottile strato di alluminio e mantenuto a circa +10 kV. Con l’energia così

acquisita gli elettroni sono in grado di produrre fotoni nello scintillatore; questi

vengono a loro volta rivelati da un fotomoltiplicatore, la cui uscita modula

l’intensità del CRT. Il sistema di rivelazione rivela anche una parte degli elettroni

retrodiffusi: mentre gli elettroni secondari vengono convogliati nella loro totalità

verso il rivelatore, solo una modesta frazione degli elettroni retrodiffusi sono

emessi entro l’angolo solido sotteso dallo scintillatore.

(11)

XI Fig. - 6 - Schema di un rivelatore di elettroni secondari

Per gli elettroni retrodiffusi vengono oggi utilizzati dei rivelatori a stato

solido posti immediatamente sotto la lente dell’obiettivo, il più vicino possibile

all’asse elettronico (figura 7). Il rivelatore a stato solido è uno speciale diodo al

silicio a barriera superficiale, un semiconduttore sagomato a forma di anello e

presentante una giunzione p-n realizzata per diffusione planare. Quando

elettroni energetici entrano nel semiconduttore si creano delle coppie elettrone-

lacuna che, separate dal campo elettrico dalla giunzione, vengono raccolte da

opportuni elettrodi situati sulla faccia opposta del dispositivo dando luogo ad un

impulso di corrente. Usando due rivelatori di questo genere, disposti

simmetricamente ai due lati del fascio, e sommando o sottraendo i relativi

segnali, è possibile separare il contrasto dovuto alla morfologia da quello

dovuto alla composizione. Essendo un campione reale costituito da varia

composizione, associata a superfici ricche di morfologia, l’uso del segnale

somma o differenza permette di accentuare l’una componente sopprimendo

l’altra e viceversa. Per evitare la formazione di una corrente indesiderata a

seguito dell’interazione con elettroni secondari o con fotoni dell’infrarosso, la

superficie esposta del semiconduttore viene ricoperta con un sottile strato di

oro. L’elettrone backscattered possiede energia sufficiente a superare tale

(12)

XII

barriera frenante ed a produrre un notevole numero di coppie e conseguentemente un segnale elettrico di ampiezza accettabile. Il rivelatore, mostrando una risposta proporzionale all’energia dell’elettrone incidente, risulta inoltre in grado di operare una discriminazione composizionale, particolarmente idonea all’esecuzione di osservazioni microanalitiche.

.

Fig. - 7: Schema di una coppia di rivelatori a stato solido per elettroni retrodiffusi

1.2.6 Immagini generate dai vari tipi di segnali

Immagini da elettroni secondari (SEI). Gli elettroni secondari hanno

un’energia massima di 50 eV e la loro distribuzione in energia presenta un

picco fra 1,3 e 2,5 eV nella maggior parte dei metalli, seguito da una discesa

verso valori molto bassi ed energie superiori a 10 eV. Gli elettroni secondari

sono originati da elettroni primari e da quelli retrodiffusi (figura 8). I primi,

penetrando nel campione producono elettroni secondari in seguito ad un urto

anelastico con gli elettroni esterni degli atomi. I secondi, dopo aver subito

deflessioni in seguito a collisioni singole o multiple, possiedono ancora

sufficiente energia per allontanare elettroni orbitali prima di emergere in

superficie .

(13)

XIII Fig. - 8: Esempi di produzione di elettroni secondari sia da parte di un elettrone primario

che da un elettrone retrodiffusi.

Gli elettroni secondari prodotti da elettroni retrodiffusi sono distribuiti su di una superficie molto ampia, corrispondente a quella con emergenza degli elettroni riflessi; però la loro densità di corrente è solitamente bassa, per cui risoluzione nell’immagine con SE è limitata essenzialmente alla distribuzione spaziale degli elettroni secondari generati dagli elettroni del fascio incidente.

L’immagine SE, oltre all’elevata profondità di campo, è quella che dà la massima risoluzione, usualmente indicata come risoluzione dello strumento stesso. In un SEM si può arrivare circa 5 nm.

Immagini da elettroni retrodiffusi (BSE). Queste immagini sono ottenute raccogliendo gli elettroni che fuoriescono dal campione con una energia superiore a 50 eV. Essi sono gli elettroni che all’interno del campione hanno subito un urto elastico a grande angolo, o più urti di tipo elastico o anelastico.

Gli elettroni retrodiffusi contengono informazioni legate sia alla densità del

campione (e quindi composizione chimica) che alla sua morfologia e

provengono da profondità massime di alcuni µm. Il rendimento di produzione

degli elettroni retrodiffusi presenta inoltre una notevole dipendenza dal numero

atomico medio del campione (figura 9); infatti nei campioni a basso numero

atomico è superiore la profondità di penetrazione dell’elettrone, così che la

diffusione multipla ha luogo all’interno del campione ed il numero di elettroni

retrodiffusi è piccolo, mentre in campioni ad alto numero atomico il libero

(14)

XIV

cammino medio tra due urti successivi è piccolo ed aumenta quindi la possibilità di diffusione, singola e multipla, vicino alla superficie.

Fig. - 9: Coefficiente di retrodiffusione (rapporto tra il n° di elettroni retrodiffusi rispetto al n° di elettroni incidenti) in funzione del numero atomico Z del campione

Immagini da raggi X. Selezionando i fotoni corrispondenti alla radiazione caratteristica di un particolare elemento, e utilizzando tale segnale per modulare in luminosità il monitor di osservazione, risulta possibile ottenere una mappa elementare che mostra la distribuzione spaziale dell’elemento nel campione.

Immagini da elettroni Auger. Il segnale degli elettroni Auger è utilizzato per lo

studio delle superfici, in quanto il segnale proviene da uno strato molto sottile

(0,5 ÷ 25 nm) della superficie. Il grado di vuoto richiesto è di 10

-7

÷ 10

-8

Pa.

(15)

XV

Una sintesi delle informazioni ottenibili con i vari segnali emessi viene riassunta nella tabella 1.

Tab. - 1: Sintesi della informazioni ottenibili con i vari segnali.

Tipi di Immagine

Informazioni Principali

Strumenti e Detectors

Risoluzio

ne (nm) Fattori Critici

Elettroni Secondari

Struttura superficiale, distribuzione potenziale, campo

magnetico

Scintillatore –

detector PMT 10 – 30 Rapporto S/N

Elettroni Backscattered

Composizione, topografia, campo

magnetico, stato cristallino

Detector a coppia di Semiconduttori

- -

Elettroni Trasmessi

Composizione, stato cristallino

Scintillatore –

detector PMT 5-10

Sezione della Sonda, rapporto S/N Elettroni

Assorbiti

Composizione, topografia

Amplificatore di

corrente 0,1 – 1 Rapporto S/N

Elettroni Auger

Distribuzione dei diversi elementi della

superficie

Microscopio elettronico a scansione

Auger

- -

Catodoluminesc enza

Luminescenza visibile

ed infrarossa Detector PMT 0,3 – 1

Profondità di penetrazione,

rapporto S/N Raggi X

Distribuzione degli elementi

Spettrometro a

raggi X 0,3 – 1

Profondità di penetrazione,

rapporto S/N

Forza Elettromotrice

Distribuzione della forza elettromotrice

nei semiconduttori

Amplificatore di forza elettromotrice

- -

(16)

XVI

1.2.7. Il Sistema di Produzione e di Registrazione dell’immagine

Il segnale da cui deve essere prodotta un’immagine visibile è costituito essenzialmente da una corrente elettrica. Da un flusso di elettroni si ottiene dunque un’immagine di tipo fotonico tramite l’utilizzo di oscilloscopi a raggi catodici, basati su principi operativi simili a quelli dei comuni cinescopi dell’apparecchio televisivo.

Un oscilloscopio a raggi catodici (CRT) è essenzialmente costituito da una sorgente che produce un fascio di elettroni e da un sistema anodico che lo accelera e lo invia ad uno schermo ricoperto da una sostanza fosforescente, dotata della proprietà di emettere fotoni a seguito dell’interazione elettronica prodotta. Lo schermo, normalmente di forma rettangolare, può essere identificato dalle due dimensioni d e h, rapportabili rispettivamente alla base ed all’altezza. Prendendo in esame la prima linea superiore b dello schermo e scendendo per tutta l’altezza h fino ad arrivare all’ultima linea della base stessa, possiamo capire come sia mentalmente possibile suddividere tutta la dimensione relativa all’altezza h in un numero di linee successive, di lunghezza equivalente alla dimensione b. il numero praticamente ottenibile di tali linee definisce la possibilità di suddivisione dell’intero schermo in linee immagine, vale a dire la frequenza con cui il pennello elettronico dell’oscilloscopio può passare dalla prima all’ultima ipotetica linea b. La successione sequenziale della formazione di tali linee luminose è controllata da opportune bobine di deflessione. E’ possibile variare, agendo su opportuni comandi del generatore di scansione, il tempo necessario al pennello elettronico per effettuare un intero passaggio, eseguito punto dopo punto, di una linea completa. Poiché il generatore di questo movimento di scansione del CRT è lo stesso di quello impiegato per effettuare l’esplorazione del preparato in esame, è evidente come ad ogni punto immagine ottenuto sullo schermo televisivo corrisponda un univoco punto del campione stesso.

Normalmente, in un SEM, sono disponibili almeno due CRT. Il primo, ad

elevata e persistente fosforescenza, viene impiegato per l’osservazione

generica del campione e per la scelta della zona o del particolare di interesse; il

(17)

XVII

secondo, dotato di elevata risoluzione, serve per la registrazione dell’immagine, essendo direttamente collegabile a una camera fotografica.

1.2.8. Il Sistema del Vuoto

Il sistema del vuoto di un microscopio elettronico è deputato a rimuovere l’aria e gli altri gas all’interno della colonna, in quanto il flusso elettronico con le caratteristiche richieste può essere solmente in determinate condizioni di vuoto.

La maggior quantità di gas deve essere tolta, altrimenti le eventuali molecole rimaste potrebbero causare diversi inconvenienti interagendo con gli elettroni del fascio primari provocandone instabilità; combinarsi, ossidandolo e accorciandone la vita con il filamento; condensarsi sul campione provocandone la contaminazione.

L’analisi che è stata effettuata nell’esperimento di laboratorio è stata svolta applicando un alto vuoto che è un valore intermedio tra i 10

-3

e 10

-6

torr.

Per la realizzazione dell’alto vuoto possono essere utilizzati diversi sistemi di evacuazione che comprendono pompe ioniche, pompe turbomolecolari, e sistemi che usano l’accoppiamento tra pompe meccaniche, funzionanti a pressione atmosferica, che creano il basso vuoto e pompe a diffusione a vapori di olio o di mercurio, funzionanti solo a partire da valori di pressione gia bassi e capaci di raggiungere pressioni di alto vuoto.

Le pompe meccaniche producono con la rotazione di un cilindro eccentrico o mediante l’uso di pistoni, un flusso continuo di gas che viene compresso e scaricato, tramite aperture valvolari, all’esterno. La tenuta è assicurata da un velo di olio e quindi il vuoto realizzabile non può mai essere superiore alla tensione di vapore dell’olio impiegato. I valori ottenibili di vuoto oscillano tra 10

-1

e 10

-3

torr.

Le pompe a diffusione sono invece basate sul principio che le molecole

di un gas possono essere sottratte a un ambiente facendole interagire con un

opportuno flusso di molecole di un altro gas. In pratica viene fatto evaporare un

olio e provocandone la successiva condensazione sulle pareti interne di un

recipiente cilindrico. Il flusso di ricaduta di tali molecole condensate è tale da far

(18)

XVIII

diffondere le poche molecole di aria ancora presenti. Per evitare la contaminazione del campione da parte di molecole di olio, possono essere presenti delle trappole di condensazione raffreddate con azoto liquido e poste tra la colonna ed il corpo della pompa stessa.

1.3. CENNI SUL FUNZIONAMENTO DEL SEM 1.3.1. Filamenti Termoionici

Il filamento di maggiore impiego usato come sorgente di elettroni è il filamento di tungsteno, costituito da un filo di W ripiegato a forma di V, con un raggio di curvatura di circa 100 µm; per la formazione del fascio elettronico vengono utilizzati gli elettroni emessi in prossimità della punta per effetto termoionico. Ad alte temperature (prossime alla temperatura di fusione) un elevato numero di elettroni acquista energia sufficiente a superare l’energia superficiale E

w

(chiamato lavoro di estrazione) ed a produrre una corrente sufficientemente elevata per impieghi pratici.

L’emissione degli elettroni è regolata dalla legge di Richardson che esprime la densità di corrente di elettroni J

c

(A· cm

2

) emessa da un materiale per effetto termoionico del vuoto:

J

c

= A T

2

exp (- E

w

/kT)

Dove A è una costante legata alle caratteristiche del materiale del catodo, T é la temperatura di emissione alla punta del catodo (°K), k è la costante di Boltzman, Ew è il lavoro di estrazione (per il tungsteno vale 4,5 eV).

I filamenti di W, alla temperatura di esercizio T di 2700 ÷ 2900 °K, emettono una

corrente J

c

di circa 1,75 A· cm

2

e la durata di esercizio del filamento, con vuoto

di 10

-3

Pa è di circa 50-80 ore.

(19)

XIX

1.3.2. Formazione del fascio elettronico sonda

Quando al filamento viene applicato un elevato potenziale negativo, riscaldato da una corrente, un flusso di elettroni viene generato per emissione termoionica sulla punta del filamento stesso, e accelerato dalla differenza di potenziale esistente tra il filamento e l’anodo stesso. Contemporaneamente viene applicato al cilindro di Wehnelt una differenza di potenziale, rispetto all’anodo, negativa di qualche centinaio di volts. A questo punto la differenza di potenziale fra filamento Wehnelt ed anodo forma una lente elettrostatica catodica che crea, focalizzando gli elettroni, un’immagine un immagine del filamento in un’area, da cui emerge il fascio elettronico; le lenti elettromagnetiche poste a valle operano una successiva riduzione del fascio. Il fascio elettronico emergente dal cannone elettronico (figura 10) avrà una lunghezza d’onda λ di:

λ = 1,226 · E

0-1/2

(nm) indicando con E

0

l’energia in eV degli elettroni emessi.

Fig. - 10: Schematizzazione di un cannone elettronico autopolarizzante

(20)

XX

Ponendo I

b

la corrente totale del fascio, d

0

il suo diametro, la massima densità di corrente J

b

al cross over sarà data da:

J

b

= 4 · I

b

/ π · d

02

La formula precedente rappresenta la massima densità di corrente che potrebbe raggiungere la superficie del campione, se non vi fossero perdite (aberrazioni delle lenti elettroniche, dei diaframmi,…) lungo la colonna elettronica.

Per limitare le aberrazioni si tende a ridurre l’angolo solido formato dal fascio: la grandezza che tiene conto di questa riduzione è la brillanza (β), definita come densità di corrente per unità di angolo solido (A cm

-2

sr

-1

):

β = ∆I / (∆S · ∆Ώ) = J / πα

2

= 4 · I

b

/ (πd

0

α

0

)

2

Dove α

0

è il semiangolo del cono di raggi che convergono per formare il cross-over, (figura 11).

Fig. - 11: Definizione di brillanza del cannone β = J / ∆Ώ, dove J = ∆I /∆S è la densità di

corrente e α l’apertura angolare

(21)

XXI

La massima brillanza (che varia al variare della tensione di accelerazione) si può ottenere regolando opportunamente la polarizzazione di Wehnelt.

Per ottenere la sonda elettronica sul campione occorre che il flusso di elettroni al cross-over venga assottigliato e focalizzato sul campione: ciò è compito delle lenti elettromagnetiche che costituiscono la colonna ottica. La figura successiva (figura 12) rappresenta uno schema tipico di colonna elettro- ottica a tre lenti, tra cui due condensatrici ed una obiettivo, a partire dal cross over fino al punto in cui la sonda di elettroni colpisce il campione.

.

(22)

XXII Fig. - 12: Schema di una colonna elettroottica dal cross-over alla focalizzazione del

fascio sul campione

Il fascio, generato dal cannone elettronico, lascia il cross-over con un

diametro d

0

ed una apertura angolare (divergenza) α

0

ed entra nella lente

successiva (lente condensatrice n°1) con direzione parallela all’asse ottico, e

viene messo a fuoco in un punto la cui distanza dal centro della lente viene

(23)

XXIII

chiamata distanza focale. Tale distanza, proporzionale alla tensione di accelerazione, dipende dall’intensità e dalla forza del campo magnetico lungo l’asse ottico della lente.

La lente condensatrice n°1 crea un’immagine rimpicciolita del cross-over, concentrando il fascio elettronico su di una macchia in un punto prossimo al proprio fuoco, con diametro d

1

ed un divergenza α

1

. La lente condensatrice n°2 si comporta come la precedente, creando un‘immagine rimpicciolita della macchia in d

1

, concentrando il fascio elettronico su d

2

con una divergenza α

2

. La lente obiettivo si comporta in modo simile alle precedenti, ma dovendo produrre uno spot più piccolo risulta più sensibile alle aberrazioni e quindi più critica.

Nel punto di impatto del fascio sul campione, trascurando le aberrazioni, la corrente di sonda, il suo diametro e l’angolo di convergenza α sul campione sono tra di loro collegate da una relazione del tipo

i = α

2

· d

2

· B

Dove B è una costante che tiene sia conto della brillanza che dell’energia degli elettroni incidenti.

1.3.3. Risoluzione e profondità di campo

La Risoluzione o limite di un SEM è determinata dal diametro del fascio elettronico sul campione.

Il diametro effettivo d

p

è dato dalla somma, in quadratura, del diametro ottenuto dalla focalizzazione del fascio da parte dell’obiettivo con i contributi d

s

, d

c

, d

d

causati rispettivamente dall’aberrazione sferica, cromatica (che però è la meno influente) e di diffrazione, ovvero:

d

p

= ( d

2

+ d

s2

+ d

c2

+ d

d2

)

½

derivando questa relazione rispetto all’apertura α si ottiene l’apertura ottimale

che da la miglior combinazione di diametro (d

minimo

) e corrente (i

massima

) incidenti,

dal tipo do campione e dal modo di operare.

(24)

XXIV

La risoluzione effettiva sull’immagine, oltre ad essere determinata dal diametro del fascio, è legata anche al tipo di segnale impiegato e al rapporto segnale/rumore. Quando infatti la sonda di elettroni colpisce la superficie del campione, gli elettroni stessi, penetrando al suo interno, vengono diffusi; la sezione della sonda aumenta, con il peggioramento della risoluzione.

L’aumento della sezione della sonda dipende dall’energia degli elettroni incidenti, dal tipo di campione (numero atomico) e dal modo di operare. E’

necessario che il livello del segnale sia più alto del rumore. Il livello del segnale dipende dalla tensione di accelerazione, dalla corrente della sonda e dal tipo di campione, mentre il livello di rumore a sua volta dipende dal tipo di campione, dal rivelatore usato e dal modo di operare. Per migliorare il rapporto Segnale/Rumore viene aumentata la corrente di sonda che causa un aumento del diametro finale nel punto di impatto, peggiorando quindi la risoluzione.

Cambiando invece il tipo di sorgente, in termini di massima brillanza disponibile, è possibile migliorare il rapporto S/N ottenendo più elevate correnti di sonda a parità di diametro finale.

La profondità di campo è definita come l’intervallo, misurato lungo l’asse

ottico, entro il quale il preparato può essere spostato senza che la sua

immagine appaia andare fuori fuoco. Una grande profondità di campo è

ovviamente molto utile quando si osservano oggetti tridimensionali e superfici

irregolari o ricche di dettagli superficiali. Nel SEM le profondità di campo, a

parità di ingrandimento, sono almeno cento volte maggiori che in un

microscopio ottico a causa delle grandi aperture angolari utilizzate in

quest’ultimo strumento. Spesso in un SEM occorre giungere ad un

compromesso fra profondità di campo e risoluzione, riducendo α a valori non

più ottimali per la risoluzione. Occorre quindi adattare di volta in volta le

condizioni di lavoro al tipo d’informazione desiderato per ottenere il miglio

compromesso.

(25)

XXV

1.3.4. Preparazione del Campione per il SEM

Per poter essere osservati al Sem, negli strumenti convenzionali, ad alto vuoto, i campioni devono essere conduttivi o resi tali da un sottile strato metallico: i campioni non conduttivi tenderebbero a caricarsi elettricamente causando distorsioni dell’immagine e perdita nella risoluzione. Per le osservazioni morfologiche dei campioni non conduttivi, il rivestimento (metallizzazione) più adatto consiste in un film di Au che viene depositato mediante sputtering ionico.

La scelta dell’Au è dovuta alla sua elevata efficienza di emissione di elettroni secondari, con conseguente vantaggio nel rapporto segnale/rumore. Il rivestimento di Au non è adatto se si devono fare delle microanalisi X quantitative su campione, a causa dell’assorbimento da parte del rivestimento dei fotoni X. In questi casi si usa un rivestimento di C che è trasparente per i fotoni X emessi dal campione.

Nei SEM di recente introduzione è possibile sia l’osservazione di campioni non metallizzati che di campioni umidi od oleosi. Ciò è reso possibile grazie all’introduzione in camera portacampione di gas (aria o azoto) o vapore acqueo, i cui ioni consentono la “neutralizzazione” della carica elettrostatica negativa che si accumula sulla superficie del campione.

Nel caso di danno termico dovuto alla permanenza del fascio elettronico

sul campione, è consigliabile operare su campioni di dimensioni ridotte per

favorire la dissipazione del calore verso il portacampione. Nel caso di un utilizzo

di campioni organici è necessario farli seccare prima di sottoporli all’analisi in

modo tale da evitare il movimento del campione durante l’analisi dovuto alla

deformazione termica del campione biologico dovuta alla persistenza del fascio

su di esso.

(26)

XXVI

1.4. MICROANALISI A RAGGI X

1.4.1 La Microsonda Elettronica

L’interazione tra il fascio elettronico ed il campione genera tutta una gamma di segnali che possono essere utilizzati per ottenere dal campione informazioni di tipo compositivo. Uno dei segnali più comunemente utilizzati a questo scopo è l’emissione di raggi X e l’insieme delle tecniche attraverso le quali si analizza tale emissione, per ottenere mediante il microscopio elettronico una descrizione del contenuto elementare di microvolumi di campione, va sotto il nome di microanalisi a raggi X.

Il primo strumento con cui la microanalisi potesse essere affrontata fu sviluppato nel 1951 da Casting. L’avanzamento tecnologico più rilevante, però risale agli anni ’60, quando vennero sviluppati i rivelatori a raggi X a semiconduttore, che sono oggigiorno il tipo di rivelatore maggiormente utilizzato, specialmente nelle applicazioni biologiche della microanalisi a raggi X. Questo tipo di analisi fu estremamente rara agli inizi, ma crebbe molto negli anni ’70, dopo il lavoro di Hall e collaboratori a Cambridge (Gupta, 1993) ed oggi è una tecnica di routine.

1.4.2 Principi della Microanalisi a raggi X

Quando elettroni veloci bombardano un campione, entrano nello stesso e

possono interagire con gli atomi contenuti in tutta la regione, detta volume di

interazione (figura 13).

(27)

XXVII Fig. - 13: Diagramma schematico della diffusione laterale degli elettroni che penetrano

nel campione

Gli atomi sono composti da un nucleo e circondati da elettroni orbitali.

Questi possono occupare specifiche zone dello spazio circostante il nucleo, caratterizzate da un livello energetico medio, e denominate shell o nuvole elettroniche. Gli elementi pesanti hanno numerosi elettroni orbitali raggruppati in diverse shell: la più vicina al nucleo (shell K) è quella corrispondente a minore energia, le successive, denominate con le lettere progressive dell’alfabeto corrispondono a livelli energetici più elevati.

Tra gli elettroni incidenti e gli atomi del campione hanno luogo fondamentalmente due tipi di interazioni in grado di produrre fotoni X:

1. Ionizzazione dell’atomo 2. Interazione anelastica

1- La ionizzazione dell’atomo implica emissione di un elettrone dagli

orbitali interni. L’atomo è così energicamente instabile e si de eccita tramite

decadimento di un elettrone appartenente ad un orbitale superiore, il quale va

ad occupare la lacuna formatasi. Il salto energetico, sperimentato da questo

elettrone nella transizione si traduce nell’emissione di un fotone X di energia

uguale al salto stesso. Questo processo determina una lacuna in un orbitale

superiore, per cui si ha una ulteriore transizione di un elettrone a questo livello

lasciato libero, con emissione di un nuovo fotone X con energia diversa dal

precedente e così via. Si crea cosi dall’insieme di queste transizioni di un

insieme di raggi X distribuiti secondo uno spettro discreto di energie dette righe

(28)

XXVIII

caratteristiche di quell’elemento, in quanto ne riflettono la struttura atomica.

L’energia dei fotoni emessi dipende dal numero atomico dell’elemento (figura 14):

Fig. - 14: Energie dei fotoni emessi per eccitazione dei livelli K,L ed M in funzione del numero atomico.

Sebbene la complessità dello spettro dei raggi X aumenti all’aumentare del numero atomico (Z), ogni elemento possiede uno spettro discreto ben preciso, attraverso il quale è possibile identificare la presenza dell’elemento stesso nel campione.

La prima condizione perché si produca radiazione X caratteristica di una data shell è che l’energia degli elettroni incidenti sia maggiore di un valore minimo E

c

detto energia critica di ionizzazione per quella shell e che rappresenta l’energia minima necessaria per espellere l’elettrone.

Il numero di ionizzazioni per atomo prodotte dal bombardamento

elettronico è esprimibile mediante un parametro detto sezione d’urto di

ionizzazione (Q), che dipende dal rapporto tra l’energia del fascio incidente (E

0

)

ed E

c

e raggiunge un massimo quando E

0

è di alcune volte superiore all’energia

critica di ionizzazione. Inoltre per avere l’emissione di un fotone X di una data

(29)

XXIX

energia E

f

deve essere utilizzato un fascio di energia E

0

= 1,5 E

f

, che corrisponde alla massima sezione d’urto di ionizzazione dell’atomo.

2- Interazione anelastica dell’elettrone con il nucleo dell’atomo. Gli elettroni del fascio vengono cioè decelerati dal campo coulombiano che circonda il nucleo, e questa perdita di energia si traduce anch’essa in una emissione di fotoni X. Lo spettro risultante però è uno spettro continuo che si estende dall’energia E

0

del fascio incidente fino a zero e costituisce una sorta di background (detto continuum) sovrapposto all’emissione caratteristica data dalle specie atomiche presenti nel campione.

L’intensità della radiazione X dipende dalle caratteristiche fisiche dell’interazione, ma anche da alcune condizioni in cui essa avviene e legate alla natura del campione. In particolare è necessario distinguere tra campioni massivi, al cui interno il fascio incidente viene arrestato, e campioni sottili, caratterizzati dal fatto che il fascio incidente viene trasmesso attraverso il campione con perdita di energia trascurabile. La condizione di campione massivo o sottile determina anche la risoluzione spaziale della microanalisi a raggi X. In un campione sottile la risoluzione spaziale dipende primariamente dal fascio incidente, mentre in campioni massivi l’interazione tra fascio e materiale avverrà in un volume le cui dimensioni dipendono dall’energia del fascio e dalla densità specifica del materiale. Dunque la risoluzione spaziale ottenibile in campioni sottili sarà più elevata di quella ottenibile in campioni massivi.

I raggi X caratteristici sono generati entro il volume di materiale

interessato dalla diffusione elettronica la cui forma dipende dal numero atomico

e la cui profondità dipende dall’energia E

0

degli elettroni incidenti (figura 15). La

risoluzione spaziale in microanalisi è quindi principalmente legata a questi due

fattori. Il diametro del fascio è ininfluente per la risoluzione spaziale in campioni

massivi.

(30)

XXX Fig. - 15: Variazione del volume di generazione X in funzione: a) dell’energia del fascio

elettronico incidente e b) del numero atomico.

1.4.3 Strumenti per la microanalisi a raggi X

Da un punto di vista strumentale l’attrezzatura per la microanalisi a raggi X è costituita fondamentalmente da tre parti:

1. Il sistema di formazione del fascio (o microsonda elettronica);

(31)

XXXI

2. Il sistema di rilevazione dei raggi X;

3. Il sistema per l’analisi dell’emissione ottenuta.

1- Il fascio elettronico utilizzato come microsonda è generato dal microscopio elettronico. Lo strumento deve generare fasci caratterizzati da alta intensità e stabilità di corrente e da piccoli diametri, al fine di ottenere la massima risoluzione spaziale possibile.

2 - Per rilevare i raggi X possono essere utilizzate due tecniche che sono la Spettrometria a dispersione di lunghezza d’onda (WDS) e la Spettrometria a dispersione di energia (EDS) (figura 16).

Fig. 16: Microscopio Elettronico a Scansione analitico equipaggiato con sistemi di rivelazione WDS ed EDS

3- Sistemi di analisi dell’emissione X. Il segnale amplificato proveniente

dal rivelatore viene veicolato in un dispositivo detto analizzatore

multicanale (MCA), il quale agisce come un convertitore analogico-

digitale e partisce il segnale proveniente dall’amplificatore in canali

discreti di energia la cui ampiezza è usualmente di 10 o 20 eV. I

segnali dei raggi X vengono così distribuiti in base alla loro energia e

si ottiene quello che viene chiamato spettro dei raggi X (figura 17)

(32)

XXXII Fig. 17: Spettro EDS ottenuto da un campione sottile. Sono facilmente visibili i picchi

(tipicamente di forma gaussiana) dei vari elementi presenti nel materiale

L’MCA è integrato in un sistema computerizzato che consente la visualizzazione dello spettro ottenuto su di un monitor, la sua eventuale memorizzazione su di un disco, l’esecuzione, tramite appositi software delle procedure di analisi dello spettro desiderate e la gestione dei risultati ottenuti.

1.5 TECNICHE PER RILEVARE I RAGGI X

Per quanto concerne la rilevazione dei raggi X, come detto in precedenza, possono essere utilizzate due tecniche:

1- WDS 2- EDS

1- La WDS sfrutta le caratteristiche ondulatorie dei fotoni X (figura 18).

Gli spettrometri WDS sono costituiti da un cristallo e da un contatore di fotoni. Il

cristallo è costruito curvo in modo che la superficie stia su di una circonferenza

di raggio R (cerchio di Rowland) sulla quale sono disposti anche il campione e il

contatore. La geometria è tale che quando i raggi X provenienti dal campione

(33)

XXXIII

incidono sul cristallo, solo quelli aventi lunghezza d’onda che soddisfa la legge di Bragg:

n λ = 2 d sin (Θ)

vengono difratti, con angoli diversi in funzione della lunghezza d’onda, sul contatore. La lunghezza d’onda riflessa dal cristallo può essere cambiata variando l’angolo Θ, cioè ruotando il rivelatore. Ogni spettrometro, in genere, contiene più cristalli di diversa spaziatura reticolare, in modo tale da coprire l’intervallo di lunghezza d’onda più ampio possibile, in quanto ogni cristallo è relativo ad un determinato intervallo di lunghezza d’onda. La radiazione X dispersa nelle sue componenti monocromatiche raggiunge poi un rivelatore (contatore proporzionale) che produce un impulso di tensione la cui ampiezza è proporzionale all’energia dei raggi X incidenti. Il segnale viene poi elaborato in una catena elettronica di conteggio.

Fig. - 18 Schema di uno spettrometro a cristallo secondo Johansson per analisi WDS

Questo è un approccio che presenta vantaggi come un’ottima risoluzione

in termini di energia (1-10 eV), un buon rapporto picco/background e la

possibilità di rilevare anche elementi leggeri (Z > 4). Tuttavia può essere rilevata

da questo sistema solo una lunghezza d’onda alla volta e che l’efficienza di

raccolta dei raggi X è bassa a causa del piccolo angolo di rivelazione, cosicché

(34)

XXXIV

sono necessarie correnti intense del fascio elettronico per l’analisi WDS il che può danneggiare il campione biologico.

2- L’EDS o spettrometria a dispersione di energia sfrutta i fenomeni di interazione tra fotoni X e un opportuno materiale. Il rivelatore è costituito da un cristallo semiconduttore di silicio drogato con litio (Si (Li)) di dimensioni inferiori a 10 mm, mantenuto in alto vuoto ed alla temperatura dell’azoto liquido (figura 19) e generalmente protetto da una finestra di berillio disposta davanti al rivelatore. Il cristallo è rivestito ad entrambe le estremità con uno strato conduttivo in oro. Tra questi due strati viene mantenuta un’alta differenza di potenziale (750-1000 V). Il cristallo è isolato dal vuoto del microscopio da una sottile (circa 8 µm) finestra di berillio per evitare contaminazioni e schermare gli elettroni retrodiffusi e la luce eventualmente prodotta per catodoluminescenza.

Quando un fotone X entra nel rivelatore, la sua energia induce nel cristallo la formazione di coppie elettrone-lacuna che, in presenza del campo elettrico applicato alle due facce del rivelatore, danno luogo ad un impulso di corrente di intensità proporzionale all’energia del fotone stesso. Tali segnali generati dai raggi X incidenti sono molto piccoli e quindi vanno amplificati da un’apposita elettronica. Gli elettroni prodotti dal rivelatore vengono raccolti e convertiti mediante un preamplificatore ed un amplificatore in un segnale elettrico di altezza proporzionale al numero di elettroniche lo hanno generato e quindi alla energia del singolo fotone.

Fig. - 19: Diagramma schematico del rivelatore s Si(Li) per analisi EDS

(35)

XXXV

Dato che il processo di generazione di cariche nel semiconduttore da parte dei raggi X è un processo statistico, vi saranno raggi X di una determinata energia che genereranno un po’ più corrente di quanto ci si aspetti e altri, della stesa energia, ma che ne genereranno un po’ meno. Pertanto, sebbene una particolare linea caratteristica sia monocromatica, nel detector essa darà origine ad un insieme di segnali che, in termini di energia, si distribuiscono con una certa ampiezza (un picco) attorno all’energia della linea stessa. Tale larghezza dipende in parte dalla fisica del processo, in parte dalla qualità del detector stesso.

Si definisce convenzionalmente come risoluzione spettrale del rivelatore l’ampiezza a metà altezza (FWHM) del picco generato dalla linea K del Mn.

Valori di risoluzione intorno a 130-140 eV definiscono un rivelatore di buona qualità.

Questa modalità di rivelazione dei raggi X consente dunque di acquisire tutto il range di energie durante un’unica sessione di analisi con un’efficienza di raccolta direttamente proporzionale all’angolo solido che il rivelatore forma rispetto al campione. Essa può dunque essere ottimizzata variando tale angolo, senza dovere agire sull’intensità del fascio. Questo tipo di rilevatore non è però in grado di rilevare elementi più leggeri del Na (Z = 11), a causa della presenza della fibra di berillio in ingresso, che assorbe i raggi X meno energetici (E < 1 KeV). Se il vuoto del microscopio è elevato questa finestra può essere sostituita da un sottile film plastico coperto di alluminio e da un sistema di magnetini per deviare gli elettroni retrodiffusi. Essa può essere anche rimossa completamente (windowless detector) se il campione non è catodoluminescente (figura 20). La rivelazione di elementi leggeri come il boro diventa, in questo modo, possibile.

Al fine di ottenere un segnale ottimale, nei SEM i rivelatori vengono montati ad

un piccolo angolo rispetto al campione.

(36)

XXXVI Fig. - 20: Rappresentazione Schematica della configurazione di un detector

Windowless

La frazione minima di massa di un elemento che il sistema microanalitico è in grado di rilevare è definito limite minimo rilevabile (MDL) o anche limite di sensibilità. Questa quantità dipende dal rapporto tra l’intensità dei picchi caratteristici dell’elemento e l’intensità del background. Tale limite può essere pertanto ottimizzato o aumentando l’intensità della microsonda o aumentando il tempo di analisi o minimizzando il background. Ad esempio, il MDL è peggiore per sezioni idratate che per quelle disidratate, in quanto la disidratazione non influenza l’intensità caratteristica, ma abbassa il background.

Il limite di sensibilità è circa otto volte maggiore utilizzando la WDS rispetto all’EDS. Ciò a causa dell’alto ritmo di conteggio che tale rivelatore può sopportare, anche se naturalmente tale vantaggio si ha solo se il campione è in grado di reggere le alte intensità del fascio necessarie a generare alti livelli di emissione X.

1.5.1 Confronto tra EDS e WDS

In microscopia elettronica si preferisce spesso utilizzare i sistemi EDS grazie

alla loro facilità di collegamento con un SEM e alla possibilità di visualizzare

simultaneamente tutto lo spettro X (E ≥ 1 KeV) con una statistica di conteggio

(37)

XXXVII

sufficiente, in breve tempo (59 – 200 secondi). Queste caratteristiche rendono il sistema EDS, ideale per analisi quantitative di campioni di composizione ignota.

Nei sistemi WDS (tabella 2), sebbene sia possibile analizzare elementi aventi numero atomi Z ≥ 5 con una risoluzione = 10 eV (si ha quindi una scarsissima sovrapposizione di righe), la peggiore efficienza di rivelazione dei raggi X rispetto ad un sistema EDS e le basse frequenze di conteggio dei fotoni X, tipiche della microscopia elettronica, ne rendono difficile l’utilizzazione (tempi lunghi di conteggio con problemi di contaminazione del campione e di derive strumentali).

Tab. - 2: Comparazione tra le due tecniche WDS e EDS.

WDS EDS Elementi rilevabili Z > 4 Z > 11 , Z > 5 (Windowless)

Limiti di rivelazione: Volume (nm

3

)

10

8

10

8

Limiti di rilevazione: Massa (g)

10

-19

10

-19

Limiti di rilevazione: Conc.

(ppm)

100 230

Efficienza di raccolta (sterad) 0,001 0,01-0,1

Efficienza di conteggio Variabile (<30%) 100% (nel range 3-15 KeV) Corrente minima di fascio

(A)

10

-8

10

-10

Diametro utili minimo della sonda (nm)

200 5

Massimo ritmo di conteggio (cps)

500.000 < 3000

Risoluzione spettrale (eV) 5 – 10 150 (a 5,9 KeV)

Tempo di acquisizione (minuti)

15 – 60 1 – 5

Artefatti Rari Numerosi

Corrente del fascio 10

-9

– 10

-7

10

-11

– 10

-8

Aspetti costruttivi Meccanismi di movimento di precisione

Non parti in movimento e basse T di lavoro Focalizzazione del fascio Richiesta entro pochi µm Non necessaria

Intensità picchi Bassa Elevata

Rapporto picco-fondo Elevato Basso

(38)

XXXVIII

Mediante un analizzatore multicanale (MCA) gli impulsi in uscita dall’amplificatore principale vengono classificati in funzione della loro altezza (energia del fotone X). Il risultato finale è un istogramma (numero di fotoni- energia), detto spettro di microanalisi. Due esempi di microanalisi sono presentati nelle figure 21 e 22 dove, nella figura 21 lo spettro è ottenuto con sistema WDS in 30 minuti, mentre nella figura 22 lo spettro è ottenuto in circa 3 minuti. Si può facilmente notare come la risoluzione del sistema WDS sia migliore.

Nella tabella 3 si può in vece notare quali siano le prestazioni di un sistema di microanalisi EDS.

Fig. - 21: Esempi di spettri di microanalisi: EDS ottenuto in circa 3’. Si nota facilmente l’elevata

risoluzione del sistema WDS

(39)

XXXIX Fig. - 22 : Esempi di spettri di microanalisi: a) WDS ottenuto in 30’, in modo sequenziale con

una scansione di lunghezza d’onda

Tab. - 3: Prestazioni del SEM equipaggiato con un sistema di microanalisi EDS di raggi X nell’analisi di un campione massivo

Risoluzione nell’immagine in secondari 5 – 10 nm Risoluzione spaziale in microanalisi 1 – 4 µm

Sensibilità analitica assoluta = 10

-14

g Sensibilità analitica relativa = 0,1 % Accuratezza analisi (C

misurata

–C

effettiva

)/

Ceffettiva

≤ 3 %

Facendo uso di sistemi EDS in un SEM, esistono vari metodi con cui l’informazione sulla distribuzione degli elementi chimici in un campione può essere ottenuta e mostrata:

1- Immagine X. Viene prodotta predisponendo il sistema EDS ad

accettare solo fotono X compresi entro una determinata banda di

energia e quindi emessi da un particolare elemento. Il risultato è una

(40)

XL

mappa, che mostra la distribuzione spaziale e la concentrazione qualitativa (intensità di segnale) dell’elemento nell’area esaminata.

Abbinando al SEM un analizzatore di immagini è possibile mappare simultaneamente più elementi ed acquisire al contempo l’immagine video.

2- Profilo di concentrazione. Il segnale proveniente dallo spettrometro EDS e relativo sempre ad un solo elemento va a modulare la deflessione Y (verticale) di un tubo a raggi catodici.Sul CRT comparirà un grafico della frequenza di conteggio (legata alla concentrazione dell’elemento) ottenuta lungo la linea, correlabile con l’immagine SEM della zona analizzata.

3- Analisi localizzata. Il fascio viene mantenuto stazionario su di un predominato punto del campione ed i raggi X, prodotti nel volume di interazione con il fascio elettronico, vengono raccolti, analizzati e presentati sottoforma di spettro. Questo metodo fornisce in tempi molto brevi un’analisi quantitativa, ovvero le concentrazioni (in frazione atomica o peso) degli elementi rilevabili nel volume di generazione X.

2. ANALISI MEDIANTE ICP-MS

Il metodo si basa sulla misura di intensità di emissione mediante plasma ad accoppiamento induttivo, fornendo spettri a righe prodotti dagli ioni e dagli atomi eccitati dal plasma ad argon (Ar). Considerando che l'intensità del segnale e, dunque, la concentrazione dell'elemento sono proporzionali all'altezza della curva, paragonando l'altezza del picco di una soluzione standard a concentrazione nota con quella del picco del campione, è possibile risalire alla concentrazione di un determinato elemento nel campione stesso.

La spettrometria di massa con sorgente a plasma induttivo (ICP-MS) è

una tecnica molto sensibile e completa per le analisi multielememtari di

elementi in tracce in soluzione. Essa combina le potenzialità di due tecnologie

affermate: il plasma induttivo (ICP), come sorgente di ioni, e lo spettrometro di

(41)

XLI

massa a quadrupolo lineare (MS), usato per separare gli elementi e i loro isotopi e come rivelatore. Completano il sistema, la strumentazione di controllo ed un computer per la gestione dei dati.

Lo strumento (Figure 23-24) comprende quattro componenti principali:

1. Sistema di introduzione del campione (Sample Introduction System) (Figura 25), dove si trova anche la Torcia ICP (Figura 26);

2. Regione interfaccia e sistema delle pompe per il vuoto (Interface Region and Vacuum Pump System);

3. Spettrometro di massa e area dell’ottica ionica (Mass Spectrometer and Ion Optics Area);

4. Sistema di rilevazione (Detection System).

2.1. Sistema di introduzione del campione

Il campione da analizzare, allo stato liquido, viene introdotto mediante

una pompa peristaltica in un nebulizzatore (Nebulizer). Al suo interno, un flusso

di gas Ar trasforma il campione in un aerosol molto fine che passa all’interno di

una camera spray (Spray Chamber), dove vengono trattenute le goccioline più

grandi. Infatti, solo una piccola aliquota di campione (circa l’1%) viene

trasportata dal flusso di Ar all’esterno della camera spray e condotta all’interno

della Torcia ICP (il passaggio dell’aerosol dalla camera spray alla torcia avviene

attraverso il tubo di iniezione).

(42)

XLII Fig. – 23: Lo spettrometro Perkin-Elmer-Sciex ELAN 6100

Fig. – 24: Particolare che evidenzia i quattro componenti principali dello strumento; da destra verso sinistra: il Sistema di Introduzione del Campione e la Torcia ICP, la Regione Interfaccia e

il Sistema delle Pompe per il Vuoto, lo Spettrometro di Massa e l’Area dell’Ottica Ionica, il Sistema di Rilevazione

Nella regione della torcia si genera il plasma induttivo dall’accoppiamento

di un intenso campo elettromagnetico (della frequenza delle onde radio) con un

flusso di gas Ar. Si forma un plasma (miscela gassosa conduttrice di elettricità)

della temperatura di circa 6000 K in cui le specie predominanti sono ioni Ar

positivi ed elettroni. L’energia termica di questo plasma consente di dissolvere

ed atomizzare il campione introdotto e, quindi, di ionizzarne gli atomi .

(43)

XLIII Fig. - 25: Il sistema di introduzione del campione

La Torcia ICP è costituita da due tubi concentrici di quarzo tra i quali scorre un flusso di gas Ar. Il tubo esterno è circondato dalla bobina di carica (Load Coil) del generatore di onde radio (RF Generator). Il generatore produce una frequenza di 40 MHz ed è completamente controllato dal computer.

Fig. – 26: La Torcia ICP .

(44)

XLIV

2.2. Regione interfaccia e sistema delle pompe per il vuoto

Una volta uscito dalla torcia, il flusso di ioni attraversa la regione interfaccia, che, mediante alcuni passaggi controllati di riduzione di pressione, consente il movimento del campione dalla Torcia ICP, che lavora a pressione atmosferica, allo spettrometro di massa che opera, invece in condizioni di vuoto. La regione interfaccia contiene due coni denominati rispettivamente cono campionatore (Sampler Cone) e cono scrematore (Skimmer Cone), entrambi in Ni o in platino (Pt).

Il campione ionizzato, una volta uscito dalla Torcia ICP, viene spinto contro il cono campionatore, che ha lo scopo di isolare la porzione di gas che scorre nella zona centrale del flusso del plasma, permettendo il passaggio solo di una determinata quantità di campione ionizzato. Gli ioni rimanenti passano, quindi, attraverso il cono scrematore che ha il compito di restringere ulteriormente il flusso di gas ionizzato.

L’area oltre lo Skimmer Cone è servita da una pompa che produce un vuoto di pressione di circa 8

.

10

-4

torr. Quest’area può essere isolata dall’alta pressione della Regione Interfaccia mediante una valvola di chiusura (Gate Valve).

2.3. SPETTROMETRO DI MASSA E AREA DELL’OTTICA IONICA

Il flusso di campione ionizzato passa attraverso l’Area dell’Ottica Ionica e viene concentrato mediante una lente cilindrica (Cylinder Lens) che focalizza le particelle cariche provenienti dalla Torcia mediante un potenziale elettrico sempre controllato e variabile tra –24 e +24 V.

Gli ioni focalizzati vengono diretti verso il quadrupolo dello spettrometro,

dove solo gli ioni che hanno un determinato rapporto m/z (massa/carica)

riescono ad attraversarlo in uno stesso istante; gli altri ioni con massa diversa

collidono con le barre, uscendo fuori dalla traiettoria idonea al passaggio e

venendo poi allontanati all’esterno del sistema mediante una pompa. Il

quadrupolo è un filtro di massa costituito da quattro barre di conduzione

(45)

XLV

operanti nel vuoto; i voltaggi applicati alle barre producono un’azione di stretta selezione delle masse da indagare. L’intero range delle masse, da 2 a 270 unità di massa atomica (amu), può essere censito in pochi millisecondi. Il software presente nel computer permette all’operatore di scegliere se analizzare l’intero range di masse o solo una determinata porzione.

2.4. SISTEMA DI RILEVAZIONE

Gli ioni riemessi all’estremità del quadrupolo vengono raccolti dal sistema di rilevazione (Detector) (Fig. 45) e trasformati in segnale elettrico, utilizzato dal software di elaborazione dei dati.

Il detector, composto da 26 diodi, rivela gli ioni che hanno attraversato il quadrupolo in un dato momento (quindi aventi una certa massa), producendo un segnale amplificato che viene processato dall’elettronica di detenzione e inviato al computer.

Fig. – 27: Il Sistema di rilevazione .

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