• Non ci sono risultati.

1. IL ciclo dell’Azoto

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "1. IL ciclo dell’Azoto "

Copied!
118
0
0

Testo completo

(1)

1

1. IL ciclo dell’Azoto

L’Azoto è l’elemento più abbondante nella composizione della nostra atmosfera (78,08%). Lo si trova presente in varie forme nell’aria, nel suolo, nell’acqua e come costituente della materia organica e degli organismi viventi, sotto forma di composti biologici (proteine, amminoacidi, nucleotidi..) e come elemento coinvolto in numerosi processi metabolici.

È possibile effettuare una distinzione tra le forme reattive dell’azoto (reactive nitrogen Nr) e la forma inerte, quella molecolare. Le forme reattive includono tutti i composti biologicamente attivi, foto-chimicamente reattivi e capaci di diffondere la radiazione luminosa presenti nell’atmosfera e nella biosfera. Esse comprendono forme inorganiche ridotte ( -NH

3

, NH

4+

) e ossidate (NO

X

HNO

3

N

2

O e NO

2-

) e composti organici come urea, ammine e proteine.

Il passaggio tra le varie forme è determinato da reazioni di ossido-riduzione svolte in natura da diversi organismi. I processi di trasformazione che determinano il ciclo dell’azoto sono ascrivibili a processi biologici ed, in minor misura, fisici, e sono di origine naturale. Recentemente l’uomo è intervenuto all’interno del ciclo dell’azoto attraverso una serie di attività che hanno modificato e continuano ad alterare il naturale ciclo di questo fondamentale elemento.

I naturali processi di trasformazione dell’N sono:

- la fissazione, ovvero la trasformazione dell’azoto elementare in ammoniaca, mediante reazione di riduzione, e la successiva conversione in azoto organico. Questa reazione può scaturire a causa di fenomeni fisici (fulmini) o tramite fissazione biologica ad opera di microrganismi azotofissatori che traggono dai carboidrati l’energia necessaria alla trasformazione. Questi possono essere simbionti, è il caso della simbiosi Rhizobium- Leguminose, o non simbionti, quando l’azoto è fissati da microrganismi liberi nel terreno ( Azotobacter, Clostridium, Cyanobacteria).

- La nitrificazione, processo attraverso il quale l’azoto viene ossidato a nitrato. La

reazione avviene nel suolo ad opera di batteri chemioautotrofi: Nitrsomonas

Nitrosococcus operano l’ossidazione dell’ammoniaca a nitrito; Nitrobacter e

Nitrococcus trasformano il nitrito in nitrato. La nitrificazione può avvenire

esclusivamente in ambienti ricchi di ossigeno e in funzione di altri fattori (T ottimali tra

(2)

2

25°e 32°), pH ottimali tra 7 e 9, contenuto idrico vicino alla capacità di campo, rapporto 8/1 max tra NO

3

e NH

4

...).

Il nitrato può andare incontro a diversi destini: può essere denitrificato, assorbito dai vegetali o essere lisciviato verso gli strati profondi del terreno.

- La denitrificazione è un processo di tipo anaerobico condotto da batteri quali: Bacillus denitrificans, Micrococcus denitrificans. Si tratta di una riduzione biologica degli ioni nitrato ad azoto molecolare, in cui il nitrato è usato come accettore finale di elettroni nella respirazione anossica. La denitrificazione può avvenire esclusivamente in condizioni anaerobiche, in presenza di sostanza organica come fonte di carbonio, temperature ottimali da 25°a 32° e pH intorno a 8.

- L’assimilazione porta all’assorbimento da parte dei vegetali delle forme inorganiche dell’azoto: nitrato e ammonio, e alla conseguente trasformazione in forma organica (NO

3-

- NH

3

- glutammina, glutammato; amminoacidi). Mentre il nitrato deriva dalla reazione di nitrificazione sopra descritta, l’ammonio si origina nel terreno a seguito della reazione di ammonificazione operata da funghi e batteri, che decompongono l’N organico in ione ammonio NH

4+

. I residui vegetali che ritornano al terreno andranno ad influenzare altri processi fondamentali del ciclo dell’azoto: la mineralizzazione e l’immobilizzazione.

-Il turnover dei nutrienti all’interno del terreno è garantito dall’insieme dei complessi processi che portano alla mineralizzazione e all’immobilizzazione, regolando la concentrazione di azoto in forma organica e minerale presente nel terreno. I fattori che influenzano il processo sono: il rapporto C/N della sostanza organica (tipologia S.O.), la temperatura, il pH, il contenuto idrico e la composizione ed abbondanza della componente biotica del terreno.

- Lisciviazione e volatilizzazione: l’azoto in forma minerale viene coinvolto in processi

fisici e può essere allontanato dal sistema suolo-pianta. Lo ione nitrato libero (solubile)

nel terreno viene allontanato con l’acqua di percolazione verso gli strati più profondi

(processo di lisciviazione dei nitrati); l’azoto allo stato gassoso può essere allontanato

dal terreno mediante volatilizzazione. Quest’ultimo è il destino a cui vanno incontro i

gas N

2

O e NO (ossidi nitroso e nitrico): il primo è un potente gas serra e può essere

causa della distruzione delle molecole di ozono in stratosfera, mentre il secondo è alla

base di fenomeni come le piogge acide e smog fotochimico (formazione di ozono

troposferico). Anche l’ammoniaca è soggetta al processo di volatilizzazione.

(3)

3

Esistono altri due tipi di processi naturali che influenzano il ciclo: l’erosione del suolo che provoca l’allontanamento dei nutrienti adsorbiti alle particelle di suolo e le precipitazioni atmosferiche che comportano la deposizione dei nutrienti presenti negli strati più bassi dell’atmosfera a livello del suolo.

Fig. 1: il ciclo dell’azoto

Negli ultimi decenni l’uomo è intervenuto all’interno del ciclo dell’azoto agendo direttamente sugli input al sistema. Mentre prima l’azoto presente in atmosfera e negli oceani (N

2

) diventava reattivo e biologicamente disponibile attraverso l’azotofissazione, dal secondo dopoguerra si è andata ad addizionare, in maniera sempre crescente (Galloway et al 2003; Tilman et al., 2002), una quota di azoto derivante dalla fissazione industriale, ottenuta mediante il processo di Haber-Bosh. Le nuove forme reattive dell’azoto create sono tutt’oggi usate per la produzione di fertilizzanti e di combustibili.

L’intervento dell’uomo sul ciclo dell’azoto, in particolare nell’ambito del settore agricolo, si può dunque identificare con l’impiego massiccio di fertilizzanti minerali, ma anche con l’apporto di concimi organici derivanti dagli allevamenti (letame, liquame, pollina..) e fanghi di depurazione di origine civile o industriale. Non è da sottovalutare l’apporto dovuto all’aumento della quota “naturale” derivante dall’azotofissazione;

infatti l’induzione alla fissazione di azoto dovuta all’incremento delle terre coltivate a

(4)

4

leguminose (in particolare della soia), può avere un impatto considerevole nel bilancio totale degli input di origine antropica al sistema (Galloway et al., 2008).

Fig. 2: principali vie di perdita dell’N dagli agroecosistemi e relativi pericoli per l’ambiente (Crews and Peoples, 2004)

La creazione di forme attive dell’azoto continua ad aumentare ogni anno. Questo fenomeno è dominato dalle attività agricole, ma lo sfruttamento dei combustibili fossili per la produzione di energia gioca un ruolo importante, e la crescente prevalenza di biocarburanti costituisce una dimensione nuova e in rapida evoluzione (Vitousek et al 1997; Galloway et al. 2008). L’aumento della quota di Nr (reactive nitrogen) immesso nel sistema è stato accompagnato dall’aumento crescente delle produzioni, in risposta alla crescente domanda di cibo della popolazione mondiale in costante aumento. Dal 1960 al 1995, la produzione di cibo ed energia è aumentata stabilmente sia su base assoluta che pro capite; Nr è parallelamente aumentato da ~15 Tg N

1

a 156 Tg N. La variazione è stata enorme, ed è incrementata ancora di più da 156 Tg N yr

-1

nel 1995 a 187 Tg N yr

-1

nel 2005, in larga misura perché la produzione di cereali è salita da 1897

1

1 Tg= 10

12

g

(5)

5

a 2270 milioni di tonnellate (20%), e la produzione di carne da 207 a 260 milioni di tonnellate (26%) (FAOSTAT 2006).

Fig. 3: andamento della popolazione e della produzione di forme reattive dell’azoto. (Galloway et al., 2003)

La creazione di Nr continua ad accelerare, un trend che verosimilmente non cambierà nel prossimo futuro. Le Nr antropogeniche addizionate intaccano il clima, la composizione chimica dell’atmosfera e la composizione e funzione degli ecosistemi acquatici e terrestri. Inoltre, poiché una singola molecola di N reattivo può originare effetti a cascata attraverso l’ambiente, può contribuire a più di una risposta da parte di diversi ecosistemi, anche apparentemente molto lontani tra loro

2

.

D’altro canto la creazione di Nr è fondamentale per supportare la popolazione mondiale in rapido sviluppo; difatti in molte zone del mondo le produzioni a sostentamento di centinaia di milioni di persone sono tutt’ora affette da “fertilizer deficit”.

È altresì noto che i cambiamenti all’ambiente dovuti all’eccesso di Nr possono finire per colpire la salute e il welfare umano, sia direttamente, per esempio attraverso l’aumento della produzione di particolato in atmosfera, che indirettamente, attraverso l’impatto sulla produzione di cibo. La comunità scientifica ha riportato innegabili prove a dimostrazione del fatto che l’alterazione del ciclo dell’azoto causata dall’uomo colpisce

2 È il caso, ad esempio, del problema dell’eutrofizzazione delle acque nel Golfo del Messico (Blesh and Dronkwater, 2013)

(6)

6

negativamente la salute dell’uomo stesso e degli ecosistemi. Con la domanda di cibo ed energia in continuo aumento, anche la quota di Nr creati e la gravità delle conseguenze aumenteranno di pari passo. Vista la complessità dell’uso di Nr, l’elevata mobilità nell’ambiente e le marcate differenze di input nelle diverse regioni del mondo, saranno necessarie numerose strategie per cercare di limitare gli effetti negativi già in atto.

Alcune di esse possono agire a livello globale ad esempio sul controllo dell’emissione di NOx dalla combustione di carburanti fossili o sull’utilizzo di biocarburanti di seconda generazione, abbandonando quelli di prima generazione che hanno un impatto molto pesante sul bilancio dell’azoto.

Il mondo dell’agricoltura può contribuire perseguendo l’ambizioso obiettivo di aumentare l’efficienza di assorbimento dell’azoto (NUE) da parte dei vegetali (recovery). È noto come l’efficienza di assorbimento dei fertilizzanti sia estremamente ridotta, generalmente inferiore al 50% (Bundy and Andraski, 2005). Si può intervenire mediante razionalizzazione della somministrazione delle dosi di fertilizzante, frazionandole in più interventi durante il ciclo colturale in modo da fornire l’N nel momento in cui la coltura ne ha maggior necessità. Allo stesso scopo si può optare per l’impiego di diversi formulati, ad esempio quelli a lento rilascio, con l’obiettivo di riuscire ad ottenere una maggiore sincronizzazione con la domanda di N da parte della coltura. Si possono altresì adottare metodi di irrigazione più efficienti (Quemada et al, 2012, Gabriel et al 2012), ad esempio la fertirrigazione o, ancor meglio, nell’ambito delle colture orticole, un approccio del tipo della Somministrazione Nutritiva Programmata

3

(Pardossi et al 2002).

La riduzione della quantità di fertilizzante fornita alle colture e l’aumento della NUE può essere perseguita anche con l’adozione di sistemi colturali alternativi (Blesh and Drinkwter, 2013). Mediante il ricorso a tecniche alternative, ad esempio l’adozione di colture di copertura come green manure, è possibile ridurre gli input chimici, integrando gli apporti di N da azotofissazione, ed allo stesso tempo implementare l’efficienza di uso delle risorse in termini di minori perdite (copertura del suolo tutto l’anno) e maggiore ciclizzazione dei nutrienti. È possibile limitare l’allontanamento delle diverse forme di azoto, in particolare quello lisciviato e quello volatilizzato inserendo le cover crops negli avvicendamenti colturali; in funzione di catch crops

3 Si tratta di una tecnica applicata alle coltivazioni orticole fuori suolo, che prevede la somministrazione della soluzione nutritiva a concentrazione variabile in funzione dello stadio fenologico, e quindi dei fabbisogni, della coltura.

(7)

7

possono intercettare i nitrati prima che essi vengano lisciviati, immobilizzandoli nella sostanza organica vegetale.

Cassman et al. (2005) hanno stimato che ci sarà un aumento del 38% della domanda globale di cereali al 2025. Effettuando una comparazione con i trend attuali, gli Autori hanno previsto che anche diminuendo del 30% l’apporto di fertilizzanti, la domanda potrà essere ugualmente soddisfatta. Tale decremento, tuttavia, sarà possibile a due condizioni: 1) se si fermerà il declino delle superfici destinate alla produzione di cereali, che in 20 anni hanno subito un calo del -0.33% all’anno; 2) se la risposta, in termini di resa, delle colture all’N applicato aumenterà del 20%. La possibile diminuzione degli apporti di azoto prevista dagli Autori consentirà una riduzione di 15 Tg N yr

-1

dell’Nr antropogenico immesso nel sistema ( Dobermann and Cassman, 2005).

Come accennato in precedenza, l’allevamento zootecnico costituisce una delle principali attività agricole connesse all’emissione di notevoli quantità di Nr. Migliorare le strategie di gestione degli allevamenti sarà fondamentale per mitigare l’effetto delle Nr antropogeniche. Sfruttare al meglio il potenziale genetico del bestiame, ottimizzare le strategie di alimentazione e la gestione dei reflui porterà alla diminuzione del rilascio di inquinanti azotati nell’ambiente. È stato stimato che il miglioramento delle strategie di alimentazione in Europa (EU-27) potrà diminuire, al 2020 le immissioni di N nel sistema del 13% e le perdite totali da concimi di origine zootecnica dell’11%. La combinazione di queste strategie e di tecniche low-emission, potranno portare al 2020 ad una riduzione del 30% delle perdite in EU. Questa stima può essere estesa al resto del mondo, applicando le opportune correzioni in funzione delle diverse tecniche di allevamento, ottenendo una complessiva riduzione di 10-20 Tg Nr immessi nell’ambiente (Oenema and Tamminga, 2005; Galloway et al., 2008).

Non solo le attività agricole sono chiamate ad arginare il problema, il trattamento dei reflui urbani e la loro depurazione costituisce una pratica fondamentale da adottare al fine di limitare le immissioni di Nr nel ciclo dell’azoto.

Le misure indicate da numerosi Autori sono molteplici ed emerge la necessità

dell’adozione di policy che mirino all’adozione dell’insieme delle pratiche suggerite, in

quanto nessuna strategia, da sola, è in grado di arginare le drammatiche conseguenze

dell’Nr antropogenico sulla salute dell’ambiente e dell’umanità.

(8)

8

1.1. Inquinamento da nitrati, cause e effetti

Come precedentemente accennato, lo ione nitrato (NO

3-

), si forma naturalmente all’interno del ciclo dell’azoto. Nel suolo, i fertilizzanti contenenti azoto inorganico e i residui contenenti N in forma organica, vengono decomposti in ammoniaca, che è successivamente ossidata a nitrato e nitrito. Un parte del nitrato può essere assorbito dai vegetali, mentre il surplus viene perso dal terreno.

Essendo composti molto solubili, i nitrati, in condizioni di aerobiosi, possono percolare, in quantità spesso elevate, verso le falde acquifere e le acque superficiali. Questo fenomeno è influenzato da molti fattori: la presenza di copertura del suolo, l’entità e la distribuzione degli eventi piovosi, la posizione della falda, la presenza di sostanza organica, le proprietà fisico-chimiche del terreno e quelle biologiche e i fattori edafici che le influenzano.

La lisciviazione dei nitrati è una delle principali cause di inquinamento idrico. Gli effetti più devastanti riguardano i bacini di acqua dolce e le foci dei fiumi, ma si registrano alterazioni degli ecosistemi marini anche negli oceani. Nei bacini acquiferi più vicini alla terra ferma, la concentrazione di nitrati può raggiungere livelli molto elevati, tali da provocare la morte della fauna ittica. L’eccesso di nitrati è la causa del fenomeno dell’eutrofizzazione delle acque, che porta ad anomale e massicce fioriture algali, alla creazione di ambienti anossici e alla formazione delle “dead zones”, provocando alterazioni drammatiche degli ecosistemi acquatici.

In molti casi la causa di eccesso di concentrazione dei nitrati è da ricercarsi a monte dei

percorsi fluviali, spesso a migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui gli effetti si

manifestano, come nel caso del fenomeno dell’eutrofizzazione delle acque nel Golfo del

Messico. L’elevato degrado dell’ecosistema in questa regione è causato in gran parte

dall’immissione di acque con elevate concentrazioni di nitrati provenienti dal fiume

Mississippi. È verso questo bacino, infatti, che affluiscono le acque di percolazione

provenienti dall’area della “corn belt”, nel mid-west americano. Si tratta di una

vastissima area caratterizzata da sistemi agricoli intensivi, dove si fa un massiccio

ricorso a fertilizzanti chimici, l’irrigazione è una pratica adottata comunemente e gli

avvicendamenti colturali sono estremamente semplici (monosuccessione di mais a volte

intervallata da coltivazione di soia), con la conseguenza che il terreno rimane scoperto

(9)

9

durante gran parte dell’anno, e l’N in eccesso, che non viene sfruttata dalla coltura da reddito, viene perso per la quasi totalità (Blesh and Drinkwater 2013).

Il settore agricolo è diventato la principale fonte di inquinamento idrico negli Stati Uniti e non solo: ad oggi esistono più di 400 siti scientificamente definiti “hypoxic zones”, negli ecosistemi costali marini in tutto il mondo (Diaz and Rosenberg 2008).

Oltre che per gli ecosistemi acquatici, l’elevata concentrazione di nitrati può costituire una minaccia per la salute degli essere umani. Elevate quantità di NO

3-

nelle acque dolci, potenzialmente potabili, possono causare fenomeni di tossicità spesso gravi (WHO, 2011). La concentrazione di nitrati nelle acque superficiali è generalmente bassa (0-18 mg/l) ma può raggiungere livelli elevati a seguito del runoff derivante dalle attività agricole, a causa di contaminazioni provenienti da reflui zootecnici o scarichi civili, subendo delle fluttuazioni stagionali a seconda prevalentemente delle condizioni climatiche. In Europa la concentrazione di nitrati nelle acque è gradualmente aumentata, fino a raddoppiare negli ultimi 20 anni in alcuni Paesi. In condizioni naturali non supera i pochi mg/l, variando in funzione delle diverse proprietà dei suoli, ma a seguito delle attività antropiche, può raggiungere diverse centinaia di mg/l.

Secondo le stime del World Health Organization, quasi trenta anni fa, in 15 Paesi europei la percentuale di popolazione esposta a livelli di nitrati superiori a 50 mg/l

4

variava dallo 0,5 al 10%, ovvero circa 10 milioni di persone erano esposte al rischio di tossicità da inquinamento da nitrati (WHO, 1985b). Il fenomeno era, ed è aggravato, dal fatto che la risposta del sistema (l’aumento rilevabile della concentrazione di NO

3-

nelle acque sotterranee), alle variazioni di gestione dei suoli avviene con ritardo rispetto al momento in cui si verificano gli eventi inquinanti, tanto che, a distanza di anni, ci si aspetta un aumento delle acque contaminate, visto che la manifestazione del danno non è rilevabile al momento presente. Ciò implica anche che una riduzione degli input avrà riscontro nel lungo periodo e gli acquiferi rimarranno contaminati per molto tempo.

Queste ragioni hanno spinto molti Paesi, ad adottare delle norme al fine di ridurre le concentrazioni di nitrati nelle acque. I principali fattori individuati sono stati l’impiego di fertilizzanti chimici in agricoltura, la gestione dei reflui zootecnici e la variazione d’uso dei suoli, tralasciando purtroppo l’apporto significativo di nitrati provenienti da altre attività umane.

4 Valore soglia stabilito dalla Direttiva 2006/118/EC

(10)

10

In Europa è stata emanata la Direttiva 91/676/CE del Consiglio, del 12 dicembre 1991, relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole. La cosiddetta “Direttiva nitrati” mira a proteggere la qualità delle acque in Europa, impedendo che i nitrati di origine agricola inquinino le acque sotterranee e di superficie, e incoraggiando il ricorso a buone pratiche agricole. Essa è parte integrante della direttiva quadro in materia di acque ed è uno degli strumenti chiave per la protezione delle acque dalle pressioni agricole.

L’attuazione delle diverse misure enunciate spetta agli Stati Membri che sono tenuti a individuare le acque di superficie e sotterranee inquinate e quelle che potrebbero esserlo, in base ad una procedura e a criteri enumerati nella direttiva (in particolare qualora la concentrazione di nitrati nelle acque sotterranee o di superficie sia superiore a 50 mg/l o qualora le acque di superficie risultino eutrofiche o possano diventarlo);

devono designare “zone vulnerabili” interessate all’inquinamento da nitrati o che possano diventarlo; fissare codici di buona pratica agricola, applicabili a discrezione degli agricoltori, che includano le disposizioni contemplate nell’allegato II della direttiva; elaborare programmi d’azione con obbligo di attuazione da parte di tutti gli agricoltori che operano nelle zone vulnerabili.

Tali programmi includono obbligatoriamente le misure indicate nei codici di buona pratica agricola, nonché le misure aggiuntive elencate nell’allegato III della direttiva volte a limitare l’applicazione di concimi minerali e organici contenenti azoto e di effluenti di allevamento. Gli Stati membri sono obbligati a sorvegliare la qualità delle acque e ad applicare a tale scopo metodi di misura di riferimento standardizzati per i composti azotati. La Commissione ha formulato raccomandazioni per gli Stati membri sui metodi di monitoraggio e sulle informazioni che devono essere incluse nelle relazioni sull’attuazione della direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a presentare tali relazioni alla Commissione ogni quattro anni.

In Italia, la Direttiva è stata recepita con il Dlgs n. 152 del 11/05/1999 (Disposizioni

sulla tutela delle acque dall'inquinamento), coadiuvato dal DM del 19/04/1999, dal

titolo: “Approvazione del codice di buona pratica agricola”, dove vengono enunciate

tutte le pratiche da adottare per quanto riguarda le coltivazioni (dosi di fertilizzanti e

concimi, epoche e modalità di distribuzione, avvicendamenti etc.) e gli allevamenti

(alimentazione, gestione e stoccaggio dei reflui..). La tutela delle acque dalle diverse

(11)

11

forme di inquinamento, comprese quelle da nitrati, è regolamentata nel nostro Paese anche dal Dgls 152/06 “Norme in materia ambientale”.

L’articolo 92 del suddetto decreto attribuisce alle regioni la competenza di individuare le zone vulnerabili ed adottare programmi di azione obbligatori per la tutela ed il risanamento delle acque dall’inquinamento causato da nitrati di origine agricola; la Regione Toscana emana dunque il Testo coordinato del Decreto del Presidente della Giunta Regionale 13 luglio 2006, n. 32/R. Le zone vulnerabili sono territori dove vengono rilasciati composti azotati in acque che risultano già inquinate (concentrazione di nitrati superiore a 50 mg/l) o che potrebbero diventarlo se non si interviene adeguatamente. Nelle zone vulnerabili sono obbligatori i Programmi di azione. In Toscana sono state individuate 5 aree vulnerabili:

1) Area del Lago di Massaciuccoli

2) Area costiera tra Rosignano Marittimo e Castagneto Carducci 3) Area costiera tra San Vincenzo e la Fossa Calda

4) Area costiera della Laguna di Orbetello e del Lago di Burano 5) Area del Canale Maestro della Chiana

Fig.2: aree vulnerabili ai nitrati in Toscana (ARSIA)

(12)

12

Il DPGR 13 luglio 2006, n. 32/R (e successive modifiche) delinea i programmi d’azione da applicare nelle zone vulnerabili per ridurre l’inquinamento provocato da composti azotati proveniente da fonti agricole. L’art. 12 del regolamento stabilisce le “Dosi di applicazione degli effluenti di allevamento e degli altri fertilizzanti”. Al comma 2 viene enunciato che: “La quantità di effluente di allevamento non deve in ogni caso determinare in ogni singola azienda un apporto di azoto superiore a 170 chilogrammi per ettaro e per anno”. Inoltre: “La quantità di cui al comma 2 deve essere determinata come quantitativo medio aziendale, calcolato sulla base dei valori di cui all’allegato 2 del presente regolamento, comprensiva delle deiezioni depositate dagli animali quando sono tenuti al pascolo e degli eventuali fertilizzanti organici derivanti dagli effluenti di allevamento di cui alla l. 748/1984.” È importante sottolineare che nello stesso comma è riportato che: “Dal quantitativo medio si esclude l’azoto organico non derivante da effluenti di allevamento”, ovvero l’N apportato dai residui colturali e fissato da colture leguminose. La definizione consente di non conteggiare le quote di N proveniente da green manure.

Questo regolamento costituisce un ottimo strumento per l’agricoltore, così come il codice di buona pratica agricola (DM del 19/04/1999). È necessario però che i produttori del nostro paese siano maggiormente informati sui rischi derivanti da uno spropositato utilizzo di fertilizzanti e sulla scarsa efficienza di molte delle pratiche comunemente adottate. Ciò si riflette in un danno arrecato non soltanto all’ambiente, ma anche all’azienda stessa, in termini meramente economici, a seguito dello spreco di risorse, senza considerare i costi dovuti all’alterazione dell’ambiente sul lungo termine.

L’adozione di buone pratiche agricole e la conseguente diminuzione dell’inquinamento da nitrati, oltre a garantire benefici sulla salute dell’uomo e degli ecosistemi, può fornire un ritorno in termini di fiducia dei consumatori a vantaggio dell’intero settore agricolo.

Sono stati registrati dei miglioramenti nella qualità delle acque in Europa, ma ancora molti sono gli sforzi da compiere per raggiungere traguardi accettabili. La Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull’applicazione della direttiva 91/676/CEE sulla base delle relazioni presentate dagli Stati membri per il periodo 2004 – 2007 riporta che nel 66 % delle stazioni di monitoraggio della qualità delle acque sotterranee la concentrazione di nitrati si è mantenuta stabile o è diminuita.

Il 15 % delle stazioni ha tuttavia registrato concentrazioni di nitrati superiori alla soglia

di qualità di 50 mg per litro.

(13)

13

In una review redatta da Vitousek et al. (1997), si riportano i molteplici effetti derivati dall’alterazione antropologica del ciclo dell’azoto. Oltre all’inquinamento da nitrati e il massiccio trasferimento di azoto attraverso i fiumi verso gli estuari e gli oceani e la conseguente alterazione della composizione e della funzionalità degli ecosistemi acquatici; alcuni effetti scientificamente documentati sono:

- la perdita di nutrienti, come calcio e potassio, essenziali per il mantenimento nel lungo termine della fertilità del suolo;

- il contributo sostanziale al processo di acidificazione dei suoli, fiumi, ruscelli e laghi in molte regioni del mondo;

- l’accelerazione della perdita di biodiversità e della produttività degli ecosistemi (Isbell et al., 2013), in particolare la rarefazione di vegetali adattati ad ambienti poveri di azoto e quindi capaci di un uso efficiente dell’N e degli animali e dei microrganismi dipendenti da essi;

- l’aumento della quantità di carbonio immagazzinato nella sostanza organica negli ecosistemi terrestri;

- l’aumento della concentrazione globale dell’N

2

O, un potente gas serra, e degli altri ossidi di azoto, che guidano la formazione di smog fotochimico su ampie regioni della terra.

È su quest’ultimo aspetto che la comunità scientifica si è concentrata negli ultimi anni,

in particolare per quanto riguarda le emissioni di N

2

O, per le quali cui l’attività agricola

è largamente responsabile.

(14)

14

1.2. Emissioni di gas serra

L’impatto dell’immissione di Nr antropogenico nel sistema, si riflette sul cambiamento climatico. Desta preoccupazione la modificazione dei flussi di metano (CH

4

) e del protossido di azoto (N

2

O) influenzati dall’alterazione del ciclo dell’N. Definire le relazioni tra i flussi dei principali gas serra (Green House Gases, GHG) in risposta all’arricchimento di N è una delle più grandi sfide che il mondo scientifico oggi si trova ad affrontare. Si tratta di un argomento di primaria importanza e interesse per i policy makers che dovranno occuparsi del “dilemma dell’azoto”.

Il radiative forcing dell’atmosfera terrestre è aumentato a tassi mai riscontrati in passato, in gran parte a causa dell’aumento dell’emissione di gas serra, come CO

2

, CH

4

e N

2

O.

L’agricoltura gioca un ruolo di primo piano nell’ambito dei flussi globali di questi gas; da un lato contribuisce in larga misura alle emissioni, ma dall’altro è stata riconosciuta come un mezzo fondamentale per rallentare ulteriori incrementi, attraverso l’adozione di determinate pratiche agronomiche che consentono il sequestro del carbonio nel suolo.

La gestione delle colture influisce anche sui flussi di metano e protossido di azoto.

Fig. 4: Global anthropogenic greenhouse gas trends, 1970–2004. (IPCC, 2007)

L’N

2

O è un gas serra con un Global Warming Potential

5

che è approssimativamente 298 volte quello della CO

2

e permane nell’atmosfera circa 120 anni. Oltre ad avere

5 L‘effetto riscaldante dei GHGs è espresso come CO2eq (CO2 equivalenti), prendendo come riferimento l‘anidride carbonica. Il suo potenziale riscaldante globale (GWP, Global Warming Potential) è

(15)

15

questo enorme impatto sull’effetto serra, l’N

2

O contribuisce alla distruzione dello strato di ozono stratosferico (IPCC, 2007). La concentrazione atmosferica di N

2

O è aumentata approssimativamente da 270 ppb dell’età pre-industriale, a 319 ppb nel 2005.

Attualmente le emissioni di N

2

O aumentano ad un tasso di 0,6-0,9 ppb yr

-1

(Prinn et al., 2000; IPCC 2007). I suoli del mondo sono di gran lunga la maggiore fonte di N

2

O, e i suoli agricoli sono la più grande fonte antropogenica. È stato stimato che le emissioni antropogeniche totali di N

2

O sono di 6,7 Tg N

2

O-N yr

-1

, 42% delle quali deriva dall’agricoltura (IPCC, 2007).

I fertilizzanti sintetici, applicati direttamente al terreno o indirettamente “riciclati” sotto forma di letame, sono la principale fonte dell’aumento di N

2

O attribuito all’agricoltura.

Poiché si prevede in aumento la domanda di fertilizzanti azotati nel mondo, da 100 milioni di t nel 2006 a più di 135 milioni di t nel 2030, le emissioni di N

2

O continueranno a crescere nel futuro (FAOSTAT, 2008; IFA/FAO, 2008). Nonostante gli effetti deleteri delle emissioni di N

2

O e delle altre perdite di forme reattive dell’N, i fertilizzanti azotati rimangono essenziali per la produzione delle colture. Dopo la disponibilità di acqua, la disponibilità di N è il più importante fattore limitante la produzione a livello globale (per le colture non leguminose) (Tilman et al., 2002;

Galloway et al., 2008). È noto che la relazione tra produzione e disponibilità di N non è lineare, ma raggiunto un optimum, non si ha più un ulteriore aumento della produttività all’aumentare della dose di N, fino a riscontrare fenomeni di tossicità a dosi molto elevate. Purtroppo ottenere elevate produzioni attraverso un’efficace NUE è estremamente difficile.

I sistemi colturali altamente produttivi, dove gli input azotati spesso superano il fabbisogno della coltura, sono spesso associati ad enormi perdite di N nell’ambiente, comprese le emissioni di N

2

O. In ogni caso, la relazione tra gestione agronomica e le emissioni di N

2

O non è funzione esclusivamente della quantità di N totale apportato. Sia per i sistemi colturali intensivi, che per quelli convenzionali, low-input e organici, le emissioni di N

2

O sono il fattore dominante del GWP complessivo (Robertson et al., 2000; Adviento-Borbe et al., 2007). Studi comparativi tra diversi sistemi agricoli hanno riportato che le emissioni di N

2

O in agricoltura organica e low-input sono spesso comparabili, o addirittura superiori a quelle di sistemi convenzionali (Robertson et al.,

considerato pari a 1, mentre quello del metano e dell‘ossido di azoto sono rispettivamente pari a 25 e 298.

Questo significa che a parità di quantità, metano e ossido di azoto contribuiscono al riscaldamento globale rispettivamente 25 volte e 298 volte in più rispetto all‘anidride carbonica.

(16)

16

2000). Vari Autori sostengono che alcune pratiche comunemente adottate in sistemi organici o low-input, come la non lavorazione e il conservation tillage, possono portare ad un aumento del contenuto di acqua nei terreni, stimolando la denitrificazoine e l’emissione di N

2

O (Abdalla et al., 2012; Azam et al., 2002; Petersen et al., 2010;

Wagner-Riddle and Thurtell, 1998). Il potenziale della non lavorazione nel mitigare gli effetti dei GHG immobilizzando CO

2

nella sostanza organica del terreno, può finire per essere annullato dall’aumento di emissioni di N

2

O. Le cosiddette “Best Management Practices”, come interventi di fertilizzazione più bilanciati e opportuni avvicendamenti colturali, possono rivelarsi più efficaci nel ridurre il GWP. È necessario riflettere sull’approccio da adottare nella determinazione degli effetti dei sistemi colturali sulle emissioni di GHG. Diversi autori riportano dati sulle emissioni di N

2

O a seguito dell’adozione di singole pratiche agronomiche, nel breve periodo. È opportuno invece sposare una visione olistica del problema, indagando sugli effetti globali dei sistemi agricoli, ovvero dell’insieme di tutte le pratiche messe in atto, in modo da comprendere non solo gli apporti singoli, ma anche le conseguenze delle interazioni tra le operazioni che si susseguono nell’avvicendamento. Queste valutazioni devono inoltre essere effettuate sul lungo periodo, è noto infatti come i sistemi biologici complessi, in particolare gli agroecosistemi, reagiscano molto lentamente alle perturbazioni, e rispondano con notevole ritardo alle variazioni di uso dei terreni (Roberson et al. 2000;

Drinkwater et al., 1998). Nell’effettuare un bilancio delle emissioni di GHG non bisogna soffermarsi sul contributo dei singoli gas, ma valutare, secondo un “metodo del bilancio” il GWP globale del sistema e il potenziale di immobilizzazione da parte dei terreni. Uno strumento utile può essere, ad esempio, il concetto di “Green House Gas Intensity”, che consiste nel dividere il GWP per la resa della colture. Un valore positivo di GHGI indica una fonte netta di equivalenti di CO

2

per Kg di prodotto; un valore negativo indica un sink di GHG nel terreno (Mosier et al., 2006). Mediante questo sistema è possibile correlare la produttività agronomica con la sostenibilità ambientale (Van Groening et al., 2010).

Risulta evidente dalla bibliografia reperita che attraverso l’adozione di un approccio

globale, sono i sistemi agricoli organici (biologici), conservativi e low-input, che

presentano una riduzione consistente delle emissioni di GHG rispetto ai sistemi

convenzionali (Roberson et al. 2000; Drinkwater et al., 1998; Mosier et al., 2006).

(17)

17

2. Le colture di copertura come strumento per il controllo e la gestione delle risorse azotate nel terreno

2.1. Le colture di copertura

Le colture di copertura, o Cover crops (CC), sono colture erbacee coltivate generalmente come intercalari (nel periodo compreso tra due colture principali in avvicendamento), senza scopo di reddito, ma al fine di mantenere coperto il terreno nei momenti in cui risulterebbe privo di vegetazione (periodo di intercoltura). Si tratta di una tecnica tradizionale, già praticata in epoca molto antica in diverse zone dell’area mediterranea e del medio-oriente; rimasta ampiamente diffusa fino agli inizi del XX secolo, in combinazione con l’uso di letame ed altri ammendanti organici, è caduta in disuso con l’avvento dei concimi minerali e del diserbo chimico. Questa pratica è stata

“riscoperta” a seguito dello sviluppo di tecniche conservative nella gestione del suolo, avvenuto nella seconda metà degli anni ’70, negli USA e in Brasile. Le CC sono tutt’oggi impiegate negli avvicendamenti nell’ambito dei sistemi agricoli biologici e integrati.

Il ruolo, i vantaggi e le problematiche correlate all’applicazione delle cover crops, possono variare a seconda dei casi e dipendono da diversi fattori, ad esempio la posizione all’interno dell’avvicendamento in cui sono inserite, lo scopo che si vuole raggiungere, la specie (o le specie) coltivate e la loro gestione in rapporto alla coltura principale.

In base al posizionamento nell’avvicendamento le cover crops si possono definire permanenti o temporanee. Le prime, occupano il terreno per più cicli colturali e trovano prevalentemente spazio nell’ambito delle coltivazioni arboree, come nel caso dell’inerbimento del frutteto; le seconde, invece, occupano il terreno per un periodo relativamente breve, determinando un maggior dinamismo nell’avvicendamento e si distinguono a loro volta in coordinate e intercolturali.

Le coordinate possono essere seminate contemporaneamente alla coltura principale

oppure essere traseminate all’interno di essa. Questa pratica prende il nome di

consociazione (intercropping), in quanto le CC svolgono il loro ciclo vitale, o parte di

esso, in concomitanza con la coltura principale. Le colture temporali intercolturali sono

a tutti gli effetti colture intercalari: sono infatti seminate dopo la raccolta di una coltura

(18)

18

principale e vengono soppresse, che il loro ciclo sia terminato o meno, prima della semina della coltura successiva (qualora non si intendesse attivare una consociazione sia pure temporanea con la specie in avvicendamento).

La devitalizzazione della biomassa della coltura potrà essere realizzata in modo diverso in funzione del sistema colturale e quindi degli obiettivi che si intende perseguire. Si potrà fare ricorso ad erbicidi di contatto al fine di sopprimere la CC e lasciare i residui sulla superficie del terreno (dead mulch) sul quale la coltura principale verrà poi seminata senza alcuna lavorazione. Questo tipo di devitalizzazione è tipica dei sistemi low-input, laddove si abbina l’impiego delle colture di copertura alla tecnica della non lavorazione al fine di conservare e/o migliorare la fertilità del terreno (confidando nell’interazione positiva tra le due tecniche).

L’altro principale metodo di devitalizzazione è l’interramento delle cover crop, in genere mediante aratura o discatura, preceduta o meno da falciatura. Questa pratica è adottata tipicamente nell’ambito dei sistemi organico-biologici che non ammettono l’impiego degli erbicidi. La biomassa viene interrata più o meno profondamente, formando nel terreno un deposito di sostanza organica mineralizzabile con tempi e modalità diverse in relazione alla qualità della biomassa (rapporto C/N) ed alle condizioni pedo-climatiche. Questa pratica prende il nome di sovescio e costituisce la tecnica di concimazione verde o green manure, nel caso in cui si faccia ricorso a specie leguminose, che, come è noto, apportano N al terreno mediante azotofissazione e la cui biomassa è caratterizzata da un basso rapporto C/N.

Un’alternativa alla gestione della soppressione della CC può essere la strategia del living mulch. Il caso classico è quello dell’inerbimento dei frutteti, ma recentemente questa pratica viene proposta in via sperimentale anche nell’ambito delle coltivazioni erbacee. Le CC vengono seminate tra le file della coltura principale e il cotico viene mantenuto vivo durante tutto lo sviluppo della coltura da reddito ed anche oltre. In questo caso si cerca di ottenere una maggiore efficienza nello sfruttamento delle risorse nel terreno ed un controllo sulle infestanti, limitando la competizione nei confronti della cash crop (J. Hiltbrunner et al., 2007; Carof and Turdonnet, 2007; Mohammadi 2010;

Leary J. and DeFrank J., 2000; Liedgens M., et al., 2004).

(19)

19

2.1.1. Inquadramento normativo

A livello internazionale l’uso delle cover crops è regolamentato da normative che riguardano principalmente sistemi colturali alternativi, biologici ed agricoltura sostenibile.

Nell’ambito delle norme per la produzione biologica redatte dall’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements) (

THE IFOAM NORMS FOR ORGANIC PRODUCTION AND PROCESSING

Version 2012, IFOAM 2012), vengono definiti gli obiettivi comuni e i requisiti standard per l’agricoltura biologica (Common Objectives and Requirements of Organic Standards (COROS) – IFOAM Standards Requirements 2011). Tra gli obiettivi principali, riguardo alla gestione dei sistemi produttivi è enunciato che: “Organic crop production management includes a diverse planting scheme as an integral part of the system of the holding. For perennial crops, this includes plant-based ground cover. For annual crops, this includes diverse crop rotation practices, cover crops (green manures), intercropping or other diverse plant production with comparable achievements.” L’uso di CC costituisce uno strumento di diversificazione che consente di perseguire gli obiettivi di mantenimento e miglioramento della fertilità del terreno, aumento della biodiversità ed altri scopi che costituiscono le fondamenta dell’agricoltura biologica.

A livello europeo, si parla di CC, anche in questo caso, nell’ambito della normativa riguardante l’agricoltura biologica, in particolare nel Reg. CE n 834/2007 relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici e che abroga il regolamento (CEE) n. 2092/91. Si fa riferimento alle colture di copertura (indicate genericamente come “colture da sovescio”) nell’art. 12, che riguarda le “Norme di produzione vegetale”: “la fertilità e l’attività biologica del suolo sono mantenute e potenziate mediante la rotazione pluriennale delle colture, comprese leguminose e altre colture da sovescio, e la concimazione con concime naturale di origine animale o con materia organica, preferibilmente compostati, di produzione biologica”.

Le colture di copertura sono inoltre indicate come importante strumento per la riduzione

dell’inquinamento da nitrati derivante da attività agricole, prima nella Direttiva

91/676/CEE, la cosiddetta “Direttiva Nitrati”, e poi all’interno della normativa

nazionale, sia nel decreto di recepimento della Direttiva (il Dlgs n. 152 del 11/05/1999)

che all’interno dei programmi d’azione redatti dalle regioni, oltre che nel “Codice di

buona pratica agricola” redatto dal Mipaf (DM del 19/04/1999).

(20)

20

L’adozione delle CC era inserita anche all’interno della PAC (2007-2013) facendo parte dei principi della buona pratica agricola ed é prevista per le aree a compensazione ecologica. L’adozione delle colture di copertura rientra nelle pratiche che rispettano il principio della “condizionalità.

In Italia solo alcune regioni hanno inserito nel loro PSR la possibilità di erogare contributi per la coltivazione delle cover crops (Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia- Romagna, Umbria, Marche, Lazio, Molise, Sicilia), secondo diverse condizioni, a seconda dei casi.

2.1.2. Scopi e vantaggi

Le colture di copertura possono apportare numerosi vantaggi all’agroecosistema. Si può registrare un incremento del contenuto di sostanza organica a seguito dell’apporto di biomassa prodotta, una maggiore capacità di ritenzione idrica da parte del terreno, oltre ad un generale miglioramento della fertilità fisica. La copertura del suolo consente di limitare l’erosione idrica ed eolica, in particolare nei terreni declivi, e permette una migliore trafficabilità dei campi, in particolare dei frutteti. Le colture di copertura instaurano fenomeni di competizione con la vegetazione infestante, permettendone il parziale controllo; sono inoltre in grado di assorbire i nutrienti non sfruttati dalla coltura principale che andrebbero persi durante il periodo di intercoltura, e di restituirli al suolo a seguito della decomposizione della loro biomassa. I processi di immobilizzazione e mineralizzazione che si instaurano, in concerto con l’aumento della biodiversità a seguito dell’introduzione delle CC nell’avvicendamento, consentono una maggiore ciclizzazione dei nutrienti.

Purtroppo, a fronte di questi importanti vantaggi, l’uso delle CC è accompagnato da

alcuni svantaggi che spesso inducono gli agricoltori a non adottare questa pratica. Un

deterrente è il fatto che si devono fronteggiare maggiori costi, in primo luogo per le

operazioni di devitalizzazione, anche se in alcuni casi possono essere limitati adottando

particolari strategie o implementando la disponibilità di macchine idonee, il che però

implica uno sforzo per l’adeguamento del parco macchine. Un altro dei costi variabili è

costituito dall’acquisto delle sementi (superabile, in relazione all’ambiente di

coltivazione, con il ricorso a specie auto-riseminanti ad es. Trifolium subterraneum L.) e

di altri mezzi tecnici come gli erbicidi. All’agricoltore è richiesto un maggior impegno

tecnico e capacità imprenditoriali e manageriali di cui molto spesso gli operatori del

(21)

21

settore sono (loro malgrado) scarsamente provvisti. Non bisogna dimenticare che inserire una CC all’interno dell’avvicendamento implica un considerevole sforzo di coordinamento delle risorse aziendali, che d’altro canto si può tradurre in una maggiore efficienza del loro utilizzo se la gestione è corretta e ben ponderata.

Le CC potrebbero sottrarre terreno potenzialmente disponibile per colture tipicamente da reddito, ma più sentito come problema da parte degli agricoltori è la perdita di produzione a causa di eventuali ritardi nella semina della cash crop, dovuti alla posticipata devitalizzazione della CC, a seguito dell’andamento stagionale.

Uno degli aspetti più complessi della gestione delle CC è quello della disponibilità di nutrienti per le colture in successione. La sincronizzazione delle richieste della cash crop con la disponibilità dei nutrienti, in base ai ritmi di mineralizzazione, è l’obiettivo più difficile da realizzare, e che spesso non si riesce a raggiungere nonostante le buone pratiche di gestione. Una scarsa “sincronizzazione” può determinare una minore disponibilità, oltre che di nutrienti, anche di acqua, con conseguenti riduzioni delle rese.

2.1.3. Le specie

Le specie impiegate come colture di copertura possono essere raggruppate in funzione degli scopi che ci si prefigge di raggiungere.

Si possono sfruttare le leguminose principalmente per la loro capacità di fissare l’azoto

grazie alla simbiosi che si instaura a livello dei noduli radicali con i batteri del genere

Rhizobium. Vengono impiegate comunemente come green manure, e sono quindi

soggette ad interramento prima della semina della cash crop. Questa pratica consente di

apportare al terreno una certa quota di azoto, variabile a seconda della capacità

azotofissatrice della varietà scelta e della quantità di biomassa che è in grado di

produrre, anche in funzione dell’andamento stagionale e della gestione della CC. L’N

apportato si renderà disponibile per la coltura successiva secondo dinamiche

estremamente complesse. Piuttosto ampio è il panorama delle varietà disponibili ed è

possibile reperire specie adattabili ad ogni ambiente, dai climi freddi del nord del

mondo a quelli tropicali. Alle nostre latitudini le specie più comunemente impiegate

sono: il favino (Vicia faba minor L.) poco competitivo contro le infestanti e sensibile ai

freddi invernali; il trifoglio sotterraneo ( Trifolium subterraneum L.), varietà auto-

riseminante, molto rustica ma che produce poca biomassa, ottimo come living-mulch; il

(22)

22

trifoglio incarnato (Trifolium incarnatum L.) il trifoglio squarroso (Trifolium squarrosum L.) più produttivo del precedente; il trifoglio pratense (Trifolium pratense L.), molto resistente ai freddi invernali, adatto per intercropping con cereali autunno- vernini; il trifoglio bianco (Trifolium repens L. var giganteum); la sulla (Hedysarium coronarium L.) adatta ai terreni pesanti; il lupino (Lupinus spp.); la veccia comune (Vicia sativa L.), altamente produttiva, con elevati apporti di azoto (fino 190 Kg/ha) e con effetto soppressivo sulle infestanti, così come la veccia vellutata (Vicia villosa L.) che presenta una maggiore resistenza al freddo.

Se tra gli scopi principali della coltura di copertura c’è quello di limitare la lisciviazione dei nitrati, le specie più idonee a raggiungere questo obiettivo appartengono alla famiglia delle graminacee. Esse svolgono la funzione di catch-crop, grazie alla loro capacità di assorbire elevate quantità di N ed immagazzinarle nella biomassa prodotta.

Si tratta di specie in genere altamente produttive che apportano al terreno elevate quantità di sostanza organica, caratterizzata da un elevato rapporto C/N. Può essere sfruttato, oltre alla pressione esercitata dall’elevata competitività delle specie di questa famiglia, rispetto alle leguminose, l’effetto allelopatico sulla flora infestante di alcune delle specie, come nel caso della segale (Secale cereale L.) (Teasdale et al., 2013). Altre specie coltivate come CC sono l’avena (Avena sativa L., A. strigosa L.), poco resistente ad avversità abiotiche e biotiche; l’orzo (Hordeum vulgare L.) ottimo in terreni poveri e resistente al freddo; il loietto (Lolium multiflorum L.) e lo stesso frumento.

Anche le Cruciferae sono largamente impiegate come catch-crops, ed hanno anche un

effetto biocida, in particolare selle popolazioni di nematodi, e svolgono un’azione di

attrazione nei confronti dei pronubi. Le specie più usate sono: Brassica juncea L.,

sensibile al freddo; Raphanum raphanistrum L. e Sinapis alba L. a ciclo primaverile-

estivo.

(23)

23

2.1.4. Effetti sulla fertilità del suolo

L’effetto principale sulle proprietà fisiche del terreno riguarda l’aumento della stabilità degli aggregati. Le colture di copertura a crescita invernale, assicurando la copertura del terreno durante il periodo piovoso dell’anno, proteggono la superficie del suolo da fenomeni erosivi attraverso l’intercettazione e la riduzione dell’energia d’impatto delle gocce di pioggia, la diminuzione del “run-off” superficiale, il rischio di compattamento e la formazione di croste superficiali e promuovendo l’aggregazione delle particelle del suolo. Questa azione assume particolare importanza sui terreni declivi. La biomassa organica apportata al suolo con le colture di copertura ha un ruolo determinante nell’incrementare la frazione pesante dei carboidrati del terreno che è responsabile dell’aggregazione delle particelle del suolo e della loro stabilità all’azione dell’acqua (Hermawan and Bomke, 1997). È stato dimostrato che gli effetti benefici sulla stabilità degli aggregati si protraggono per tempi più lunghi di un singolo ciclo colturale, andando a migliorare, nel tempo, le proprietà fisiche dei suoli in maniera stabile.

Si sono osservati effetti diversi sulla stabilità degli aggregati in funzione delle specie coltivate: l’incorporazione di materiale organico da leguminose produce un maggior numero di aggregati-stabili ed è inoltre più veloce nel decomporsi rispetto a materiale proveniente da piante non-leguminose, le quali invece producono effetti più persistenti nel tempo.

Importanti sono gli effetti sull’umidità del terreno. (Campiglia et al. 2011; Ward et al.

2012; Jégo et al, 2012). L’effetto più marcato si ottiene se la biomassa delle CC rimane

in superficie come mulch, in sistemi a ridotta o nessuna lavorazione. La massa di residui

vegetali lasciata in superficie è in grado di schermare la radiazione solare e abbassare di

conseguenza la temperatura, riducendo l’escursione termica. Unitamente a questo

fenomeno, la pacciamatura consente la riduzione della domanda evapotraspirativa da

parte dell’atmosfera. Da un lato si hanno minori perdite poiché l’umidità viene

trattenuta nel terreno, dall’altro la presenza del mulch consente una migliore

infiltrazione: ciò porta ad un aumento dell’efficienza dell’irrigazione e ad un migliore

sfruttamento degli eventi piovosi. D’altro canto è possibile che si verifichino fenomeni

di stress idrico durante le prime fasi di sviluppo della coltura principale, dovuti al fatto

che al momento della soppressione di una coltura di copertura, il contenuto è idrico

generalmente inferiore rispetto a quello di un terreno nudo (a causa della maggior

traspirazione della biomassa vegetale presente). Si tratta di un problema che diventa

(24)

24

rilevante nei sistemi colturali non irrigui di tipo mediterraneo. Si può cercare di ovviare al problema anticipando il momento della devitalizzazione della CC, magari poco prima di un evento piovoso. Bisogna considerare che la presenza della pacciamatura durante il ciclo della cash crop può consentire di riequilibrare il livello produttivo grazie alla maggior ritenzione idrica (Campiglia et al., 2011). Naturalmente ogni accorgimento agronomico dovrà essere adottato di volta in volta, in funzione delle condizioni pedoclimatiche specifiche del sito e degli obiettivi produttivi prefissati.

2.1.5. Effetti sulla biodiversità

Agli inizi degli anni ‘90 con il diffondersi dei principi dell’agroecologia e dell’interpretazione dell’ambiente agricolo come agroecosistema, le colture di copertura sono rientrate nel novero delle agrotecniche degne di studi e approfondimenti tecnici al fine di definire nuovi agrosistemi più rispettosi dell’ambiente.

Le colture di copertura infatti, introdotte in un sistema colturale sia come intercalari, sia in una delle varie modalità consociate (trasemina; consociazione in strisce traseminate o no) vanno ad assumere nell’ottica agro-ecologica il prezioso ruolo di elemento capace di aumentare la biodiversità sopra e sotto il suolo (Nicholls and Altieri, 2005).

L’introduzione di colture di copertura comporta una modificazione dell’ambiente colturale diversificandolo e apportando numerosi servizi ecologici, uno di questi riguarda il controllo dei fitofagi. La positiva influenza che i sistemi di consociazione esercitano sulle popolazioni di predatori e parassiti dei fitofagi sembra essere dovuta a migliori condizioni microclimatiche in ambienti colturali diversificati (più alta umidità relativa e minor temperatura del suolo) e alla presenza di più abbondanti fonti di cibo alternative. Si possono instaurare interazioni trofiche anche molto complesse tra fitofagi e loro antagonisti, garantendo un efficace controllo biologico dei parassiti.

La presenza di colture di copertura agisce sulla composizione e sull’abbondanza della

macro-, meso- e microfauna e la microflora del suolo, modificando favorevolmente

l’ambiente “suolo”. Le popolazioni di decompositori animali, di lombrichi, di protozoi

eucarioti chiemiotrofi, così come di batteri azotofissatori simbionti (Rhizobium spp.) e

non simbionti aerobi (Azotobacter) e anaerobi (Clostridium), coadiuvati non per ultimi

dai funghi micorrizici, sovrintendono tutta una serie di processi di

(25)

25

assorbimento/trasformazione/rilascio di nutrienti che migliorano la fertilità del terreno nel suo complesso.

L’incremento della biodiversità di queste categorie di viventi si realizza sia in maniera diretta attraverso l’instaurarsi di associazioni tra le radici delle CC ed i microrganismi, che in maniera indiretta, grazie al favorevole effetto che l’apporto di materiale organico e di nutrienti produce su di essi. Tramite l’applicazione delle cover crop è possibile influenzare la composizione della biomassa microbica presente nel terreno, andando a favorire batteri che svolgono determinate funzioni (ad es. nitrificazione) piuttosto che altri (denitrificatori) (Azam et al., 2002).

È la qualità della biomassa apportata che consente lo sviluppo di determinati ceppi di microrganismi, oltre che le condizioni fisiche del terreno, peraltro influenzate dalla stessa biomassa apportata con le CC (Berthrong et al., 2013).

Fondamentale è lo sviluppo di funghi micorrizici coadiuvato dalle CC (Lehman et al.,2012). Questi sono capaci di instaurare simbiosi con le colture da reddito apportando considerevoli benefici. Le micorrize (in particolare la famiglia delle micorrize arbuscolari) favoriscono l’assorbimento di nutrienti, in particolare del fosforo, che si traduce in una maggiore efficienza d’uso delle risorse.

Il ricorso alle colture di copertura può costituire un mezzo interessante anche per la lotta alle malerbe. Le CC possono condizionare lo sviluppo della flora infestante secondo diversi meccanismi: competendo con le malerbe per l'acqua, gli elementi nutritivi e la luce; formando una barriera fisica che ne contrasta l'emergenza e lo sviluppo delle giovani piantine; producendo sostanze allelopatiche in grado di inibire la germinazione dei semi e lo sviluppo delle malerbe (Tabaglio et al., 2008; Teasdale et al., 2012;

Liebman & Dyck 1993; Mohammadi, 2010). L’efficacia del controllo sulle malerbe dipende dalla competitività della specie utilizzata come cover crop (o del mix di specie) e dal metodo di devitalizzazione e gestione dei residui (Wortman et al, 2012).

Alcuni risultati emersi da una ricerca condotta presso il Centro di Ricerche Agro-

Ambientali “Enrico Avanzi” dell’Università di Pisa, sull’introduzione di colture di

differenti copertura nella omosuccessione di mais in terreni ricchi di limo, sembrano

confermare la possibilità di contenere concretamente la diffusione delle infestanti

microterme, mentre non altrettanto evidente appare la possibilità di controllo su quelle

contemporanee al mais (Mazzoncini et al., 1997). Questo genere di strumento di lotta

alle malerbe assume particolare rilevanza nei sistemi agricoli integrati, dove consente

(26)

26

un minor ricorso a diserbanti chimici, ma maggiormente in sistemi agricoli biologici.

Non sembra comunque possibile basare le strategie di controllo delle malerbe esclusivamente sull’impiego delle colture di copertura, anche in considerazione del difficile controllo delle specie perenni. Appare necessario in un ottica di lotta integrata ricorrere ad un approccio “olistico” e integrato di mezzi meccanici, agronomici e chimici laddove sia concesso (Bàrberi & Lo Cascio, 2001; Bàrberi, 2002).

Rilevante è il ruolo che possono assumere le CC all’interno di diversi sistemi colturali, implementando la qualità dei suoli, definita come: ‘‘the capacity of a soil to function within ecosystem boundaries to sustain biological productivity, maintain environmental quality and promote plant and animal health’’(Doran and Parkin, 1994).

Nel caso dell’agricoltura biologica, il ricorso a CC (vista l’impossibilità d’impiego di fertilizzanti chimici), consente l’apporto di sostanza organica, e con essa, degli elementi essenziali alla nutrizione delle piante. Questi vengono resi disponibili grazie ai processi di mineralizzazione svolti ad opera della microflora e microfauna terricola. Le CC, in funzione della loro composizione floristica, sono in grado di apportare considerevoli quantità di S.O. in frazione facilmente mineralizzabile, ma anche di fornire una quota di substrato più recalcitrante alla mineralizzazione. Quest’ultima, che va a formare la frazione stabile della S.O. nel terreno (humus), costituisce un pool di elementi nutritivi che verranno rilasciati nel lungo periodo. Come è noto, la S.O. stabile conferisce al terreno migliori proprietà fisiche (stabilità aggregati, miglior infiltrazione e ritenzione idrica), chimiche (CSC, storage e mobilizzazione elementi) e biologiche (aumento specie flora microbica e maggior attività, turn-over nutrienti). L’accumulo di questa frazione è guidato principalmente dalla qualità della biomassa: più elevato è il rapporto C/N, maggiore sarà la quota di immobilizzazione della S.O. Diventa fondamentale, qualora si abbia l’obiettivo di aumentare il tenore di S.O. nel terreno ed il Soil Carbon Storage, l’uso di CC graminacee. La controindicazione è che un maggior tasso di immobilizzazione dei nutrienti nella S.O. stabile comporta una sottrazione dal pool di elementi facilmente disponibili per i vegetali, in particolare dell’N, portando a cali nelle rese produttive delle colture in avvicendamento (Gabriel & Quemada, 2011; Salmerón et al., 2011; Gabriel et al. 2013).

All’uso di CC si possono affiancare tecniche tipiche dell’agricoltura conservativa, in

primis la non-lavorazione. L’abbinamento di queste due tecniche consente un maggior

(27)

27

accumulo di SOC (Soil Organic Carbon) che, oltre a giovare alla qualità del suolo, permette all’agricoltore di svolgere l’importante funzione di mitigazione del cambiamento climatico, sfruttando appieno il potenziale di carbon-sink del terreno (West and Post, 2002; Lal, 2003; Franzluebbers, 2010). Anche l’insieme delle tecniche applicate nei sistemi biologici contribuiscono a questi effetti. L’introduzione di specie leguminose e l’interramento dei residui colturali (in particolare dei cereali a paglia) associate a management conservativi (compreso i sistemi biologici), porta ad un aumento del tenore di SOC. Sostituendo una CC graminacea con una leguminosa, si può evitare di incorrere in fenomeni di indisponiblità di nutrienti, e si può agire positivamente anche sul contenuto di azoto (Soil Total Nitrogen) (Mazzoncini et al., 2010; Mazzoncini et al., 2011; Sainju et al., 2002).

Diverse composizioni di specie vegetali contribuiscono in maniera differenziata ai

processi di accumulo di C nel terreno. Le diverse specie possono influenzare l’equilibrio

del carbonio attraverso differenze nella produzione primaria netta nel suolo, nelle

modalità e nei tempi di turnover degli apparati radicali e degli essudati prodotti, nella

qualità dei residui, nella tendenza a favorire la formazione degli aggregati del suolo e

influenzando le variazioni nella struttura e funzionalità della comunità microbica

(Drinkwater et al., 1998).

(28)

28

2.2. L’influenza delle colture di copertura sul ciclo biogeochimico dell’azoto

Le colture di copertura giocano un ruolo importante nell’influenzare il ciclo biogeochimico dell’azoto nei terreni agrari e conseguentemente nell’utilizzazione di quest’ultimo da parte delle colture. La gestione dell’elemento azoto risulta assai complessa, anche in virtù del fatto che, insieme all’acqua, è il fattore maggiormente limitante la produttività agraria, ragion per cui una buona gestione delle colture di copertura può risultare determinante per buone rese.

La quantità di azoto accumulato dalla coltura di copertura dipende sa diversi fattori, in primis dalle specie impiegate. Per quanto riguarda le leguminose la capacità di fissare azoto è influenzata dalla specie, dallo stadio di sviluppo e dalle condizioni climatiche.

Nelle specie annuali la quantità dell’N organicato aumenta fino al momento della fioritura in corrispondenza della quale inizia a rallentare, arrestandosi del tutto allorché la pianta inizia a trasferire N nei semi in formazione. Nelle leguminose perenni, invece, l’attività azoto-fissatrice si mantiene più costante (Sarrantonio, 1988). Anche l’andamento climatico influenza la quantità di azoto fissato, che durante i mesi invernali tende ad essere maggiore negli ambienti temperato-umidi rispetto a quelli con clima freddo e secco.

Per quanto riguarda invece le colture non leguminose l’accumulazione dell’N avviene attraverso l’intercettazione dei nutrienti non utilizzati dalle colture precedenti, lisciviati o trasportati nel suolo.

L’abilità delle diverse specie nell’intercettare i nitrati dipende dal loro ritmo d’accrescimento durante l’inverno e dal grado di colonizzazione del suolo da parte delle radici. Le specie migliori sotto questo aspetto appartengono alle famiglie delle graminacee e delle crucifere.

L’epoca di semina della coltura di copertura è fondamentale nell’influenzare la quantità di azoto effettivamente asportato, perché condiziona il ritmo di accrescimento e quindi la biomassa prodotta; generalmente, una semina precoce consente un maggior accumulo di N da parte della coltura di copertura.

Non bisogna dimenticare l’importanza dell’epoca di devitalizzazione della cover crop,

da stabilire in funzione dello sviluppo raggiunto dalla specie (o dalle specie). Nel caso

della presenza di leguminose essa dovrà essere attuata prima del periodo di fioritura,

Riferimenti

Documenti correlati

Apostol:

In questo lavoro di tesi si è lavorato sul ottimizzazione di ricevitori solari principalmente per sistemi point focus, sia per sistemi a bassa (con celle silicio) che alta (con

Petersburg has a right to establish international and external economic links on its own initiative or on the request of federal authorities of the RF…, has a right to

In sintesi, il sistema prende come riferimento direttamente la pianta, trasformando il modo di irrigare le colture in fuori suolo, in quanto viene realizzata una stima diretta

CRPV - 2003 - VERIFICA DEL CONTENUTO DI AZOTO IN TIPOLOGIE DI

Nuove tecniche di allevamento fuori suolo a basso impatto ambientale. Natura dell'innovazione Innovazione

[r]

[r]