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Nuove resistenze : I social network e le rivolte nel mondo arabo

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Academic year: 2021

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Capitolo V

Nuove resistenze : I social network e le rivolte nel mondo arabo

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4.1 I processi di decolonizzazione nel nord africa e nel medio oriente: uno sguardo al passato

La decolonizzazione è quel processo di emancipazione politica, economico-sociale e culturale che ha investito i paesi afro-asiatici, soggetti al regime coloniale imposto dalle potenze straniere, a partire dalla seconda metà del Novecento. Questo processo non si è sviluppato in maniera omogenea ed uniforme in tutti i contesti, infatti laddove le pratiche coloniali sono state attuate in maniera oppressiva e violenta, (spesso finalizzate a realizzare un vero e proprio saccheggio delle risorse economiche del paese colonizzato o di sottomissione della popolazione autoctona), la decolonizzazione è stata ottenuta attraverso processi rivoluzionari che hanno contemplato l’uso della violenza come strumento di liberazione dall’oppressore straniero.

Protagonisti del processo di decolonizzazione sono stati i movimenti di liberazione nazionale, talvolta composti da diverse fazioni politiche (spesso di matrice socialista) più o meno radicale o moderate, che congiuntamente hanno condotto azioni militari e trattative politiche per portare il proprio paese verso l’autodeterminazione, l’autogoverno e l’indipendenza dalla potenza coloniale cui erano soggetti. Nel paragrafo seguente si analizzeranno i processi di decolonizzazione dei paesi protagonisti delle rivolte arabe 2011, che alcuni autori definiscono come un’onda lunga partita proprio dalla metà degli anni sessanta del novecento e ancora oggi non pienamente conclusasi. Pur riconoscendone le differenze dei contesti storici internazionali, ampiamente mutati dopo la fine della Guerra fredda e l’avvento della globalizzazione capitalista su scala internazionale, si metteranno in luce alcune delle caratteristiche che hanno contraddistinto la primavera araba.

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Dopo il fallimento del compromesso Bevin–Sforza (1949), che aveva proposto l’amministrazione fiduciaria britannica in Cirenaica, quella italiana in Tripolitania e quella francese nel Fezzan, l’indipendenza libica nacque per volontà della Nazioni Unite. Il 21 novembre 1949, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione proposta dal comitato politico per la sistemazione dell’ex colonie italiane. Al primo punto tale risoluzione raccomandava la costituzione della Libia (comprendente Cirenaica, Tripolitania e quella francese del Fezzan) in Stato indipendente e sovrano entro e non oltre il 1° Gennaio 1952. L’Onu incaricava il vice segretario Generale, l’olandese Adrian Pelt, di assistere il popolo libico a darsi una Costituzione, un parlamento ed un governo indipendente : si delineò quella che fu definita un esempio di decolonizzazione pianificata.

Il 7 ottobre 1951 fu promulgata la Costituzione e il 24 dicembre dello stesso anno Idris es-Sanussi proclamò l’indipendenza della Libia come regno monarchico costituzionale.

Nonostante Idris fosse di fatto un monarca assoluto, le divisioni tribali minacciavano seriamente la stabilità politica del paese, aggravata ulteriormente dal quadro politico internazionale mutato enormemente. La Libia indipendente era di fatto soggetta alle potenze straniere (Stati uniti ed Inghilterra ) ed al loro rigido controllo sulle forze militari e sulla vita economica del paese. La Libia si presentava inoltre come una nazione fortemente povera: lo scarso reddito proveniva dall’affitto delle basi militari agli anglo-americani e dall’esportazione di pochi prodotti agricoli – arachidi e olive- e da pelli e residuati ferrosi (l’industria petrolifera impiegava solo il 25% della manodopera nazionale). Nonostante questo, un forte processo di urbanizzazione si avviò verso i poli di Tripoli e Bengasi, che portò ad uno spopolamento delle campagne, al crollo dell’agricoltura libica e alla nascita delle bidonville alla periferia delle città. Il potere, di contro, era saldamente nella mani di un’élites fortemente occidentalizzata legata agli interessi stranieri che, attirati dal petrolio, investivano

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ingenti capitali, ricavandone notevoli profitti. L’inflazione non tardò ad aumentare provocando ulteriore impoverimento della popolazione civile. Nonostante questo l’autrice Valeria Piacentini Fiorani considera il regime di Idris I, soggetto all’ingerenza straniera, una fase di transizione del processo di decolonizzazione necessaria alla sua completa realizzazione. La reazione dei movimenti nazionalisti, presenti nelle città, non si fece attendere: il 1 ° settembre 1969 un gruppo di ufficiali prendeva il potere abbattendo il regime monarchico. Il 5 settembre Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti ed Italia e la maggior parte delle nazioni afro-asiatiche riconosceva il nuovo regime. L’8 settembre, consolidato il colpo di stato, la giunta militare si autodefinì Movimento degli ufficiali Liberi Unionisti rivelando l’esistenza di un Consiglio del Comando della Rivoluzione organo supremo del paese, e il nome dell’uomo che lo presiedeva Muhammar el- Gheddafi. Con la riforma costituzionale del 2 Marzo del 1977 il paese assunse la denominazione di Repubblica Araba Libica Socialista Popolare, istituendo un sistema di governo popolare diretto. Il popolo esercitava la propria autorità attraverso rappresentanti scelti da Congressi Popolari di Base, culminanti nel Congresso Generale del Popolo, il quale eleggeva un Comitato Generale e un Segretariato di 6 membri tra cui veniva scelto il capo della Stato. Pur non presiedendo nessuna carica pubblica, Gheddafi, padre della Rivoluzione, ha di fatto governato fino alla sua tragica capitolazione, il 20 ottobre del 2011 per mano dei rivoltosi nel suo quartier generale, ovvero la città di Sirte.

Figlio putativo di Nasser, da cui successivamente si distanziò, ha ispirato la dottrina del panislamismo, coniugando idee socialiste con i principi religiosi islamici.

La Tunisia, paese da cui è scoccata la scintilla della rivolta che si è poi diffusa nel resto del nord Africa, ha visto fin dai primi anni '50 fiorire movimenti nazionalistici in funzione anti francese. Il Neo-Destur, movimento nazionalista tunisino guidato da Burghiba, nel 1955 firmò gli accordi che regolavano i rapporti tra Tunisia e Francia nell'ambito dell'Unione Francese.

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Contestualmente, anche nel Marocco, i movimenti Istiqlàl e il più moderato Partito Democratico dell'Indipendenza, insorsero vivacemente ponendo come pregiudiziale, a qualsiasi negoziato con la Francia, il ritorno del sultano deposto1.

Sotto la pressione di gravi disordini, la Francia fu costretta a cedere, e Ben Yusuf - divenuto ormai il simbolo della resistenza nazionale- ritornò sul trono nel 1955. L'indipendenza fu riconosciuta dalla Francia nel 1956. Anche la Spagna dovette piegarsi a riconoscere l'indipendenza della sua zona marocchina - salvo le énclaves di Ceuta e Melilla - che veniva riunificata con il Marocco ex francese. Il processo di decolonizzazione di Marocco e Tunisia fu sempre assai travagliato e con non poche contraddizioni: la Francia, infatti, attuò sempre una politica del divide et impera, facendo leva sulla solida tradizione culturale berbera (popolazione autoctona con antichissime radici) di matrice musulmana che si discostava da quella araba con cui era in aperta rivalità e di cui disconosceva il primato politico. In entrambi i paesi la neo-indipendenza si portava dietro accordi economici altamente svantaggiosi e cessioni di territori a favore dell'esercito francese. La reazione non si fece attendere e i movimenti, sempre più organizzati in partiti e sindacati, riuscirono a liberarsi da ogni servitù neo-coloniale. Il Marocco mantenne la sua forma di governo monarchica con un sultano al quale prestarono fedeltà le popolazioni berbere e la cui guardia personale era reclutata fra le popolazioni Tuareg. Nonostante forti pressioni dai partiti di sinistra, il potere del sultano è rimasto pressoché intatto fino al patto politico patrocinato da Hassan II e siglato nel 1997 dai maggiori partiti del paese che ha avviato un processo di riforme politiche e amministrative, aventi come obiettivo quello di una graduale costituzionalizzazione della monarchia.

In Tunisia, viceversa, dopo l'indipendenza venne abolita la monarchia e si proclamò la repubblica. Fino al 1987 si ebbe un periodo di stabilità interna e moderazione in politica

1 Il sultano Ben Yusuf era stato deposto e relegato all'esilio dal governo francese, dopo una violenta repressione, nel 1953.

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estera, nonostante l'insorgere di ripetute crisi con la Francia durante la guerra di Algeria. La Costituzione, emanata nel 1988, conferiva al presidente ampi poteri, tanto da poterla definire Repubblica Presidenziale Socialista; fu altresì fatto divieto di costituire partiti di matrice religiosa e quindi anche islamica. La crescita economica, registrata a partire dagli anni '90, non ha risolto il problema dell'urbanizzazione e della disoccupazione, provocando forti tensioni interne, ripresa di movimenti islamici militanti, flussi migratori e una sempre più accentuata sperequazione della ricchezza. Nel 1987, giustificando l'atto con motivi di senilità, il generale Zine El-Abidine Ben Ali (primo ministro dal 1° ottobre) depone il presidente Burghiba, mantenendo saldo il potere fino alle rivolte del 2011.

Tra i paesi del Maghreb, il processo di decolonizzazione in Algeria è stato il più feroce e sanguinoso tra tutti i paesi africani. L’Algeria, infatti, godeva di un particolare status giuridico di Territorio Metropolitano D’Oltralpe nell’ambito dell’Unione Francese, a causa di una grande comunità presente in territorio algerino (si parla di circa un milione di coloni). Il movimento nazionale algerino, che prima dalla seconda guerra mondiale era composto dai tre gruppi del Movimento per il Trionfo delle Libertà Democratiche (MDTL), dal movimento degli Ulemà, e dall’Unione Popolare di Ferhat Abbàs, rimase fortemente deluso dallo statuto del 1947, con il quale la Francia mantenne il principio dell’integrazione dell’Algeria nel territorio metropolitano, consentendo al paese algerino soltanto una parvenza di autonomia, con l’istituzione di un’assemblea algerina (gli algerini erano considerati cittadini francesi musulmani senza il riconoscimento dello status di nazionalità algerina). L’amministrazione del paese era infatti gestita esclusivamente dai coloni francesi, i quali avviarono riforme di ammodernamento dello stato, escludendo gli algerini dai benefici prodotti da queste.

L’esclusione da ogni progetto di riforma degli algerini provocò l’inasprimento della popolazione ed uno spostamento delle posizioni verso le frange più radicali, ormai decise a

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conquistare l’indipendenza e a preparare la rivolta.

Nel 1954 la durezza della gestione del Governatore Soustelle, fece precipitare la situazione nel momento in cui il comitato direttivo clandestino dei centralisti proclamò l’insurrezione, affidando la condotta delle operazione al Fronte di Liberazione Nazionale cui aderirono rapidamente gli Ulemà e l’Unione popolare di Ferhat Abbàs. Al tentativo degli insorti, la Francia rispose con la repressione e con l’affermazione del principio dell’indissolubilità dei legami franco-algerini. All’intransigenza del governo francese si aggiunse quella dei coloni che, in linea con le direttive nazionali, dettero vita ad una vera e propria caccia all’uomo. Con la gestione feroce e sanguinaria del governatore Lacoste, dalle istanze di rivolta si passò alla guerra per l’indipendenza, sia in territorio algerino sia in territorio francese, dove furono compiuti atti terroristici come mezzo di lotta, nel tentativo di fare pressione sul governo occidentale. In questa prima fase del conflitto furono impiegati circa mezzo milione di uomini dalla Francia in Algeria, mentre risuonavano gli echi di torture inflitte ai prigionieri, suscitando sgomento nell’opinione pubblica mondiale. Nonostante la difficile situazione gli ambienti militari francesi si dimostravano reticenti verso ogni forma di apertura politica, ribadendo la loro intransigenza. La guerra investì il popolo francese, provocando una vera e propria crisi istituzionale che delegittimò le istituzioni della Repubblica Francese:

l’insurrezione dei coloni e dei militari (cosiddetta prima insurrezione di Algeri del 13 maggio 1958) minacciò di travolgere la Francia in una vera e propria guerra civile, che finì col spianare la strada al Generale De Gaulle.

Con l’avvento della Quinta Repubblica si ebbe la formazione in esilio di un governo provvisorio algerino (Governo provvisorio della Repubblica Algerina) presieduto dal moderato Ferhat Abbàs. Nonostante il prosieguo delle operazioni militari, De Gaulle dette un segnale di apertura verso l’area dei moderati algerini, futuri interlocutori dei negoziati.

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Ogni forma di negoziato però fu scalzata dalla seconda insurrezione di Algeri (aprile 1961) capeggiata da alcuni generali coinvolti nella precedente insurrezione insieme con alcuni leaders estremisti, cui si aggiunse l’operato dell’Oas, un organizzazione terroristica fautrice del mantenimento del potere dei coloni francesi in Algeria, che compromise qualunque tipo di trattativa posta in essere durante la Conferenza di Evian del giugno del 1961. Appurata la debolezza politica di Farhat Abbàs, a capo del governo provvisorio algerino fu chiamato Ben Khedda, dalle posizioni più radicali. Dopo sette anni di guerra si arrivò ad una seconda conferenza di Evian del marzo 1962 i cui negoziati portarono a quelli che furono chiamati gli accordi preliminari di Evian, ovvero un compromesso che doveva condurre l’Algeria all’indipendenza senza interrompere i rapporti economici e l’uso delle risorse (sfruttamento delle risorse mineraria sahariane) con la Francia. Il 19 Marzo 1962 entrava in vigore l’armistizio mentre ad Algeri veniva istituito un Governo provvisorio algerino; il 1° luglio 1962 un referendum popolare approvava l’indipendenza algerina dalla Francia secondo la formula di cooperazione approvata ad Evian. L’avvento dell’indipendenza non significò la fine del conflitto, anzi dopo l’indipendenza vennero alla luce tutte le differenze politiche che attraversavano le forze indipendentiste. Una prima grave crisi scoppiò tra il Ben Khedda ed esponenti del Fronte rimasti fuori dal paese durante la guerra e che, riorganizzando alcune unità di frontiera, riuscirono a destituirlo e a prendere il potere. Questa fazione era capeggiata dal leader Ben Bella che divenne così il capo del governo algerino. L’eroe della liberazione algerina così come fu soprannominato, fin da subito proclamò una dottrina di stampo socialista caratterizzandone lo stato algerino, allontanò i capi del Fronte e contestualmente disarmò la Wilaya, ovvero quelle stesse unità militari per lo più di origine berbera che lo avevano portato al potere. Fu proprio il colonnello Boumedienne, ministro della difesa del governo algerino coadiuvato dal Marocco, che nel giugno del 1965 ribaltò con un colpo di stato

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il regime di Ben Bella arrestandolo e rinchiudendolo in una fortezza. Il gruppo degli Usda, dal nome del quartiere generale di Boumedienne durante la guerra, prendevano il potere e il colonnello divenne il nuovo presidente algerino. A differenza del regime di Ben Bella, a carattere laico, il regime di Boumedienne si basava sull’appoggio della componente berbera, sull’impronta ideologica nazionalista e sulla religione musulmana come elemento costitutivo dello stato. Boumedienne si preoccupò di cambiare la costituzione del ’63 e ribattezzò l’Algeria come Repubblica Socialista e Democratica Islamica dandole una nuova costituzione coerente con i principi sostenuti. Per combattere la depressione economica che aveva investito il paese già dai primi anni di guerra Boumedienne inaugurò una forma di capitalismo di stato interamente gestito da un governo dispotico basato sui personalismi e sulla figura del capo.

Una terza crisi si profilò nel dicembre del 1967 organizzata da militari fedeli a Ben Bella in nome del ripristino del presidente e degli ideali della rivoluzione socialista, ma invece di scalzare Boumedienne lo rese ancora più forte dal punto di vista politico. Il suo prestigio internazionale e nei confronti della lega araba, nonostante il carattere tirannico, aumentò grazie all’intervento di corpi militari nel conflitto arabo-israeliano dello stesso anno, in cui l’Algeria si presentava come il paese che si era liberato da solo dai regimi coloniali stranieri.

Con la nuova costituzione del 1976 si abbandonò il periodo del potere rivoluzionario tornando ad un opzione socialista di Repubblica Democratica e Popolare Presidenziale. La costituzione del 1989 poneva fine anche alla fase rappresentata dal monopolio politico del Fronte di Liberazione Nazionale, che finì con l’aprire una nuova fase di crisi che l’11 gennaio del 1992 vide l’annullamento della vittoria, democraticamente ottenuta dai risultati elettorali, degli integralisti del Fronte Islamico e di Salvezza (F.I.S) da parte del governo e delle forze armate.

Il Fis venne poi posto fuori legge ed i suoi capi arrestati; il potere venne affidato ad un Alto Comitato di Stato composto da 5 membri, provocando forte dissenso nelle opposizioni e

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aprendo la strada ad una nuova guerra civile feroce e sanguinosa tra forze governative e gruppi fondamentalisti armati, che si è riversata sulla popolazione civile. Ancora una volta la guerra civile algerina è stata praticata anche in territorio francese, in quanto il governo di Parigi è stato accusato di commistione con quello algerino.

La Siria ottenne l’indipendenza nel 1944 dalla Francia cui era legata dal mandato imposto su di essa dalla Conferenza di Sanremo del 1920. Dopo l’indipendenza la ricerca di una stabilità politica nel paese condusse ad un cambiamento del patto sociale e della leadership costrette a misurarsi con la nuova realtà politica. D'altronde il paese si presentava molto frammentato al suo interno sia dal punto di vista etnico-culturale che religioso. Il paese, divenuto indipendente non per volontà propria ma per interesse della potenza mandataria, aveva avuto notevoli difficoltà nel ritrovare una propria identità che ne giustificasse la realtà politica e le sue mutilazioni territoriali. Ancora una volta, individualismi, particolarismi ed interessi clientelari legati alle grandi famiglie, che controllavano la vita economica siriana, avevano prevalso su un programma unitario. Bisogna aggiungere che comunque il sogno della Grande Siria rimaneva la grande aspirazione della leadership siriana. La sconfitta militare subìta nel corso del primo conflitto arabo- israeliano, aveva sprofondato la Siria nel caos e nell'instabilità politica, facendone il paese dei colpi di stato militari: ben cinque dal marzo del 1949 al 1950 cui ne succedettero altri. Oggetto delle contesa erano il federalismo, la scelta fra occidentalismo e neutralismo, cui si aggiungevano le rivalità etniche ed i profondi contrasti sociali. Durante il regime di Esh- Shishàki (1951-1954) -filo occidentale- la collaborazione tra il partito della Resurrezione Araba ( al- Ba'th, ossia la Resurrezione) ed il Partito Socialista Arabo divenne sempre più stretta, finchè nel 1953 il Partito Socialista Arabo di el-Hawrani si fuse con il Ba'th, dando origine al Partito Socialista della Resurrezione Araba: l'inclusione dell'aggettivo socialista fu il solo mutamento che la fusione portò nel Ba'th, poiché lo statuto

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rimase immutato. Dal punto di vista ideologico al-Ba'th incarna l'idea della Resurrezione della nazione araba in quanto riprende la missione interna affidatale nel mondo per il bene dell'umanità. La definizione di tale sistema di idee fu opera di Michel Aflaq2, le cui idee trovarono fertile terreno fra studenti e giovani intellettuali, favorendo la nascita di un movimento nazionalista arabo contro il colonialismo francese. Il Partito della Resurrezione Araba nacque formalmente -come partito politico- solo nel 1947, con l'approvazione dello statuto nel corso di un Congresso a Damasco: “la Resurrezione araba un movimento nazionale, popolare, rivoluzionario che lotta per l'unità araba, la libertà e il socialismo”, queste le parole di apertura del documento istitutivo del Ba'th. È da sottolineare come il Ba'th si rivolga sempre e soltanto al popolo arabo; nell'arabismo esso ravvede l'elemento di individualità e unificazione nazionale, la missione della nazione araba; mai- in tutta la storia del Ba'th – si fa riferimento a valori religiosi o anche islamici. È un socialismo arabo, non islamico, e partendo da questo si distinguerà sempre sia sul piano ideologico sia su quello delle scelte politiche. Il programma del partito segue coerentemente i dettami di un socialismo moderato sia in politica interna sia sul piano economico, sociale e culturale. In politica estera è prioritaria la lotta contro il colonialismo e la corruzione legata ad esso, sostenendo la piena autodeterminazione del popolo arabo che lotta per il suo interesse nazionale ed il compimento della sua missione. Nel 1947 il Ba'th era ancora una realtà ancora strettamente legata alla Siria, anche se contava aderenti tra gli studenti dell'Università americana di Beirut e fra quelli Giordani, Libanesi, e Iraqeni che studiavano in Siria. La prima sezione all'estero fu aperta in Giordania nel 1948. La fusione con il Partito Socialista Arabo e l'adesione di El-Hawrani nel

2 Michel Aflaq, nato a Damasco nel 1910, da famiglia greco-ortodossa, ha studiato a Parigi, dove tra il 1928 e il 1932 aderì alle associazioni nazionalistiche arabe. Tornato in patria, fu insegnate a Damasco si dedicò agli studi storico-politici. Fu un teorico e pensatore collaborando con Salàh ed-Din. Attratto dalle idee socialiste, elaborò la dottrina dell'Uomo e della Sua Affermazione, sostenendo che il benessere materiale non deve essere tanto un fine quanto un mezzo, affinchè l'Uomo si possa emancipare dalle necessità animali e possa volgersi all'espletamento del suo compito di Uomo.

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Ba'th lo resero un partito sempre più di massa che ben presto strinse alleanze anche con quello comunista. Nel marzo del 1963 un colpo di Stato porterà al potere esponenti del partito bathista sia in Siria che in Iraq. Le vicende politiche siriane negli anni successivi si intersecarono inevitabilmente con la difficile situazione politica che attraversava tutto il medio oriente. Dopo la guerra dei sei giorni la Siria, nonostante fosse riuscita a mantenere salvaguardata la propria indipendenza, uscì dal conflitto quasi distrutta. La sconfitta rivelò la debolezza strutturale dell'esercito siriano, nonostante gli aiuti sovietici: la sospensione delle ostilità, completatasi con l'occupazione israeliana delle alture del Golan, fu pertanto ancora più umiliante. La guerra dei sei giorni significò per la Siria la perdita definitiva del proprio prestigio di paese-leader dell'arabismo e del nazionalismo arabo, e con questo, essa vide sfumare sempre più il mito della costruzione della Grande Siria. Il paese precipitò in nuovi gravi disordini culminati in un ennesimo colpo di stato militare nel 1970, sempre all'interno del gruppo dirigenziale bathista, il quale portò al potere la minoranza alawita appoggiata dalla comunità cristiane, mettendo alla guida del paese come suo presidente il generale Hafez el-Assad. Con Assad la Siria raggiunse una certa stabilità politica giocata sull'abilità del leader di raggiungere delicati compromessi di potere fra gruppi tra loro profondamente eterogenei per religione e razza. Secondo la Costituzione varata nel 1973 veniva riconfermata la natura presidenziale della Repubblica, il cui Presidente è eletto a suffragio diretto universale, durava in carica 7 anni e deteneva il potere esecutivo. Alla crescente secolarizzazione siriana non corrispose tuttavia un'altrettanta salda alleanza con l'Unione Sovietica, che alla fine culminò nella sanguinosa insurrezione dei militari siriani contro quelli russi di stanza in Siria. Un Congresso di Ba'th tenutosi nel 1985 riconfermava lo status quo, cristallizzando le leve del potere nella mani di poche famiglie ( in cui spicca quella del presidente) e dei militari: una minoranza cristiano-alawita avrebbe così retto le sorti della Siria fino ad oggi. Alla morte del

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Presidente, avvenuta nel 2000, gli succedette il figlio Bashar Hafiz Al -Assad, ancora attualmente in carica nonostante le rivolte che dal 2011 sconvolgono il paese siriano.

Nel 1922 il governo britannico, per paura della diffusione di un movimento nazionalista egiziano, sempre più capillare nel paese, concesse l'indipendenza al Regno d'Egitto. Il 23 Luglio del 1952 un colpo di stato militare organizzato da liberi ufficiali eliminò la monarchia in Egitto e proclamò la repubblica l'anno successivo. Prima del colpo di stato i rapporti con la Gran Bretagna erano precipitati con la denuncia egiziana del trattato del 1936 e con la proclamazione di Faruq a re d'Egitto e del Sudan. All'interno la Corona e il partito Wafd -ormai ridotto a partito di mercanti- avevano acceso un duello sempre più serrato per il controllo politico del paese, trascurando una situazione interna divenuta ormai ingestibile.

All'indomani del colpo di stato, il nuovo regime riuscì a negoziare con la Gran Bretagna lo sgombero del canale di Suez (luglio 1953) entro venti mesi, ma perdette la causa dell'Unione dell'Egitto con il Sudan. Nel 1953 il Sudan diventava indipendente con il riconoscimento immediato della Gran Bretagna e nel 1956 dello stesso Egitto. Nel novembre del 1953 il generale Jamàl 'Abd en Naser prese il potere delineando una svolta nella storia dei paesi islamici e nella loro via per l'indipendenza. Emerse dunque l'ideologia panislamica, che sullo sfondo della prospettiva universalistica, ricercava la solidarietà oltre i limiti del mondo arabo, sulla base di sentimenti politico religiosi. Molto presto il panislamismo assunse le proporzioni di un movimento di massa e in Hasan al Banna ebbe il suo fondatore: nacque l'Associazione dei Fratelli Musulmani. L'associazione, mai costituitasi in partito politico, fece proprie le dottrine pan-islamistiche e riuscì a trasformare l'ideologia in organizzazione ed azione, facendo leva sulla grande forza di diffusione e mobilitazione della moschea, il grande medium del mondo islamico. Essa rivendicò il primato dell'Islam e delle sue fonti come unica vera radice di una dottrina islamica socialistica, il cui risveglio poteva solo maturare all'interno di

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esso. Nasèr in un primo momento accettò la collaborazione dei Fratelli Musulmani in un' ottica puramente strumentale, mentre, nel frattempo, andava elaborando una propria dottrina riassunta nel libretto della Filosofia della Rivoluzione; in esso è sancito il principio che nessuna rivoluzione vera può aver luogo senza l'appoggio ed il concorso delle masse e soltanto queste possono legittimare il potere con il loro consenso. La convivenza tra Ufficiali Liberi e Associazione non fu facile, trasformandosi spesso in aperta ostilità. Tuttavia quando Nasèr si sentì politicamente abbastanza forte e sicuro del consenso del suo popolo, affrontò lo scontro con i Fratelli Musulmani, di cui si liberò drasticamente nel 1954. Nel 1956 fu approvata dal popolo tramite referendum, una nuova Costituzione, e subito dopo venne creato il partito unico (ovvero l'Unione Nazionale), il cui compito era di operare per l'attuazione degli scopi della rivoluzione ed incoraggiare gli sforzi per la costruzione della nazione a livello politico, sociale ed economico. Nel 1961 l'Unione Nazionale tenne il suo primo congresso fissando i principi della sua dottrina in Democrazia, Socialismo e Cooperazione. Nel luglio del 1961 vennero varate nuovi leggi economiche e nuove riforme sociali che contemplavano l'inizio del socialismo; l'anno dopo si riuniva al Cairo il Congresso Nazionale delle forze popolari, al quale Nasèr sottoponeva il progetto di Carta d'Azione Nazionale, un documento dottrinale e programmatico, nel quale giungeva a maturazione tutta l'esperienza precedente.

Nella dottrina naseriana della rivoluzione, quest'ultima diventa il momento necessario nella storia dei popoli oppressi, un momento inevitabile attraverso cui devono passare per liberarsi dall'oppressione e dallo sfruttamento, per aprirsi la strada verso l'autodeterminazione e lo sviluppo, attraverso il raggiungimento degli obiettivi della libertà, del socialismo, dell'unità.

L'Assemblea delle Nazioni Unite fu una grande cassa di risonanza della seducente oratoria di Nasèr: in Egitto, la dottrina naseriana non poteva orientarsi che per l'antisionismo, anche se implicava la rottura verso l'ideologia marxista e con il partito comunista che veniva posto

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fuori legge. La dottrina proposta dal leader si inserì nel contesto del secondo conflitto arabo -israeliano del 1956, riuscendo a capovolgere una sicura sconfitta in un'azione eroica del popolo arabo. Nel giugno dello stesso anno le ultime unità militari britanniche avevano abbandonato il canale di Suez conformemente agli accordi del 1954. In seguito alle "forniture militari cecoslovacche", gli Stati Uniti, seguiti dalla Gran Bretagna, decisero di esercitare pressioni sul Cairo, ritirando nel 1956 la promessa di contributi finanziari volti alla costruzione della diga di Assuan. La risposta di Naser fu l'annuncio della nazionalizzazione del Canale di Suez: una dichiarazione di indipendenza economica e politica rivolta agli occidentali, coadiuvata da azioni militari contro Israele e dalla solidarietà al popolo algerino insorto contro la Francia. Contemporaneamente Nàser accettava le offerte sovietiche di finanziamento della diga. Dopo il fallimento dell'azione diplomatica statunitense, in seno alle due conferenze di Londra nell'agosto e settembre del 1956, nell'ottobre successivo si ebbe l'intervento dei paracadutisti anglo-francesi a Port Fuad e Port Said a protezione degli interessi occidentali nella zona del Canale di Suez (31 ottobre-5 novembre). Gli Stati Uniti negarono ogni appoggio diplomatico e deferirono la crisi in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che raccomandarono la sospensione delle ostilità, mentre l'URSS difendeva pienamente l'Egitto, prospettando la degenerazione del conflitto in una terza guerra mondiale. Di contro Nàser ebbe l'appoggio incondizionato del blocco afro-asiatico ed un moderato sostegno da parte del governo statunitense, il che consentì al raìs di trasformare la sconfitta militare in aggressione da parte della potenze occidentali e aperta vittoria delle forze arabe unite e solidali tra loro. Francia e Gran Bretagna ritirarono le proprie truppe dal Canale il 22 dicembre e Israele doveva seguirne l'esempio nel Sinai, mentre una forza d'intervento dell'Onu veniva organizzata a Gaza e nel golfo di Akaba. Anche la navigazione del canale di Suez veniva ripristinata nel 1957. Ma la tregua era destinata a durare appena una decina

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d'anni: nel giugno del 1967 si ebbe la ripresa del conflitto arabo-israeliano (terzo conflitto), che vide ancora una volta schierarsi da un lato Egitto, Giordania e Iraq legati da patti militari contro Israele, che in un 'ottica preventiva schierò le sue truppe sul Canale di Suez e a Kuneytra, concludendo il conflitto in 6 giorni con l'annientamento del potenziale militare degli avversari. La tregua richiesta dalle Nazioni Unite fu accettata da parte di tutti i belligeranti tranne che dalla Siria e dall'Algeria: gli alleati arabi ruppero le relazioni diplomatiche con Usa e Gran Bretagna, accusate di intervento militare aereo mentre l'Unione Sovietica ed i paesi comunisti compresa la Yugoslavia, ruppero i rapporti con Israele.

Successivi dibattiti alle Nazioni Unite portarono alla tregua armistiziale (risoluzione n. 242 del novembre del 1967), non riuscendo a risolvere alcune tensioni tra le potenze in campo, con nuove azioni terroristiche arabe nei territori occupati da Israele. Gli Arabi si arroccarono nella pregiudiziale del ritiro di Israele dai territori occupati, come condicio sine qua non alla fine di ogni belligeranza, senza che fosse riconosciuto da quest'ultimi lo Stato d'Israele. Dall'altra parte si paventavano negoziati di pace e poi ritiro dai territori occupati, ad eccezione della Gerusalemme Giordana, poi proclamata capitale dello Stato d'Israele e sede della Knesset. In Egitto Nàser parve resistere incontrastato giocando sulla propria abilità di oratore e di figura carismatica. Il riacutizzarsi delle tensioni della penisola arabica contribuì a polarizzare altrove l'attenzione dell'opinione pubblica egiziana. Sfruttando la contingenza internazionale, con l'aiuto sovietico, l'Egitto ricostruì il proprio arsenale bellico, mentre i militari ritenuti responsabili della sconfitta furono processati e condannati: imponenti epurazioni consolidarono all'interno il potere del leader egiziano. Per l'Egitto, la perdita del Sinai, rappresentava un fatto di gravissima umiliazione nazionale, oltre che una minaccia sul proprio fronte orientale e sul Canale di Suez. Israele dal canto suo, vedeva con estrema preoccupazione un rientro egiziano nel Sinai e soprattutto a Gaza. L'intransigenza da

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entrambe le parti portò ad un quarto conflitto arabo-israeliano nel 1973, cosiddetta guerra dello Yom Kippur. Lo scoppio del conflitto colse di sorpresa l'intera comunità internazionale, nonchè la stessa popolazione israeliana: le operazioni militari costarono perdite gravissime da entrambe le parti, dato che si combattè aspramente sul Sinai e lungo le linee armistiziali. Lo scontro armato si concluse ancora una volta con la sconfitta degli Arabi, e l'occupazione da parte di Israele di nuove parti di territorio. Nonostante la vittoria israeliana, il paese ne usciva fortemente segnato, così come lo erano i paesi sul fronte arabo. Anni di guerra avevano lacerato le popolazioni di entrambi i paesi a cui si aggiunse la crisi petrolifera che infierì sull'intera comunità internazionale. La successione naseriana vide salire al potere un uomo politico non meno capace di Nàser, Anwar es-Sadat, molto più pragmatico rispetto al predecessore. D'altronde gli aiuti sovietici non bastavano per una ricostruzione del paese e per di più il paese si era immiserito grazie alla fuga dalle campagne (attività agricola) e ad un feroce processo di inurbamento, il quale aveva creato milioni di sottoproletari nelle città.

Anche l'esercito risentiva delle pesanti perdite subite e della corruzione che investiva la classe militare. Furono queste le ragioni che portarono Sadat a praticare posizioni politiche più moderate ed in parte a sganciarsi dalla pericolosa amicizia con l'Unione Sovietica, verso un riavvicinamento con l'occidente. Il risultato immediato di questa politica fu l'afflusso di aiuti statunitensi e l'intervento di finanziamenti e tecnologie proveniente dall'Europa. Si assistette anche ad un compromesso con l'antico nemico, ovvero Israele, che grazie ad una mediazione degli Stati Uniti portò entrambi i paesi alla firma degli accordi di Camp David (settembre 1978). Questi vennero siglati da Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin, accordi preliminari alla pace separata tra Egitto e Israele ( marzo 1979). Erano accordi la cui base era stata gettata da Henry Kissinger sin dall'ottobre del 1973. L'Egitto potè così dedicarsi alla ricostruzione interna, sociale ed economica, anche se gli accordi di Camp David

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finirono per costare la morte dello stesso presidente Sadat, assassinato nel 1981 da un gruppo estremista islamico durante una parata militare. Divenne Presidente, fino alla rivolte del 2011, il suo vice Hosni Mubarak, musulmano ma di estrazione greco-ortodossa.

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4.2 Per una narrazione delle rivolte arabe

Con il termine primavera araba, ormai inflazionato tra i media mainstream, comunemente si designano quei movimenti di rivolta che hanno investito i paesi del nord Africa e del medio oriente a partire dal 2011 e che hanno avuto la capacità di ribaltare i regimi dispotici presenti in quei paesi (in alcuni casi da oltre trent' anni). Tunisia, Egitto, Siria, Libia, Libano, Yemen e Barhein (ma può essere inclusa in parte anche la Palestina) sono fra i paesi in cui i movimenti sono stati tra i più attivi e dove la componente giovanile ha assunto un ruolo di primo piano nel promuovere ed organizzare le mobilitazioni, sperimentando attraverso l'utilizzo di nuovi media (social network) nuove forme di comunicazione.

Le rivolte arabe però si inseriscono in un quadro di mobilitazione internazionale più generale che già dal 2010 aveva visto manifestare migliaia di persone nelle principali piazze europee, contro le politiche di austerità e di tagli ai finanziamenti pubblici che la crisi economica internazionale ha imposto alle leadership dei governi occidentali.

Ingenti manifestazioni, infatti, si erano avute già nell'estate del 2010 a Londra, cui erano seguite le acampade dei giovani spagnoli con cui ebbe inizio il movimento degli indignados;

anche l'Italia è stata teatro di mobilitazione nell'autunno del 2010, laddove contro i tagli al mondo dell'istruzione, gli studenti di scuole superiori ed università hanno dato vita ad un imponente movimento di occupazioni, tra le quali anche quelle dei principali monumenti italiani; i movimenti contro la Troika che hanno scosso piazza Syntagma ad Atene e che sono tutt'ora attivi ed in perenne mobilitazione. Di poco posteriore alle rivolte arabe, il movimento Occupy negli Stati Uniti è iniziato con l'occupazione, da parte degli attivisti, di Zuccotti Park, un parco di proprietà di un italo-americano in cui sono state sperimentare nuove forme di democrazia diretta e di autogestione. Come si può dedurre il quadro internazionale è composito, eterogeneo e riflette tutte le specificità dei contesti entro cui i movimenti si sono

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organizzati, compreso quello che ha investito il mondo arabo.

Nonostante il fatto che parlare dell'attualità dei movimenti faciliti la contestualizzazione entro cui sono sviluppate le rivolte arabe, è pur vero che cercare un momento zero, così come lo definisce l'autore A.D Darawasha nel suo saggio gli arabi dalle rivolte alle rivoluzioni3, risulti un'operazione molto complessa. È possibile tuttavia riscontrare dei momenti, nel recente passato, che sono stati significativi per il mondo arabo e che in qualche modo lo hanno segnato politicamente, contribuendo a creare un immaginario di rivolta indelebile nella mente di quei popoli, fino ai giorni delle mobilitazioni del 2011. Nel 2003 ingenti manifestazioni di massa avevano sconvolto il mondo arabo, per protestare contro l'invasione dell'Iraq da parte dal governo statunitense di George Walker Bush. Era infatti dagli anni ‘70 e ‘80 che le masse arabe (specialmente quelle dei paesi non petroliferi come Egitto e Giordania) non manifestavano contro i loro governi, per cause non strettamente legate alle politiche economiche che questi conducevano. D'altronde queste non avevano mai chiesto il rovesciamento dei loro regimi, ma solo riforme sociali ed economiche che prevedessero maggiore giustizia sociale. L'invasione dell'Iraq aveva ridato protagonismo alla masse arabe che trovavano nella loro proteste una grande legittimazione dalla comunità internazionale.

Anche le masse arabe avevano dunque il diritto di esprimersi ed opporsi ad una guerra che mirava, a loro parere, a distruggere uno dei paesi più importanti del mondo arabo dal punto di vista culturale e geopolitico. Nonostante le mobilitazioni alla guerra in Iraq, l'opposizione si era successivamente dissolta senza che per i regimi arabi fosse stata intaccata la credibilità internazionale o la stabilità politica. Anche la stampa internazionale, d'altronde, si era dimostrata piuttosto benevola, definendo regimi oppressivi come moderati, poiché disponibili verso le politiche dei governi occidentali e statunitense in particolare, e che tacevano quando

3 Cfr. in S. Vaccaro, L'onda araba - I documenti delle rivolte, Milano, Mimesis Edizioni, 2012, p. 110

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si parlava di repressione del dissenso nel mondo arabo. La politica e la dialettica dei vari regimi si sono deteriorate a tal punto da far percepire ai cittadini arabi di vivere ancora in sistemi (quasi) di tipo feudale in cui era impossibile per i popoli scegliere autonomamente i propri governi. I regimi si organizzavano secondo criteri di successione ereditaria che da padre in figlio consentivano il mantenimento del potere nelle mani delle solite leadership.

Così era avvenuto in Egitto, e sarebbe avvenuto in Yemen e Libia. Nel 2006 però la situazione cominciava a cambiare e attraverso i media arabi anche il dissenso in Afghanistan e in Iraq cominciava a farsi sentire, rompendo quel muro di silenzio in cui era stato relegato.

Nonostante le contraddizioni che sono emerse durante le votazioni in entrambi i paesi, avvenute in un clima di non riuscita pacificazione del conflitto da parte delle potenze straniere in quei territori, gli arabi hanno guardato a quelle elezioni come una maniera attraverso il quale poter esprimere la propria preferenza (una sorta di residuato di democrazia rappresentativa fino a quel momento negata), essendo pienamente coscienti dell'influenza che i governi occidentali continuavano ad avere nella scelta di quei nuovi rappresentanti. Il riferimento va all'elezione di Karzai in Afghanistan, considerato troppo filo statunitense. Ciò che interessava alle popolazioni arabe era mettere in moto quel processo politico iniziato con le guerre. Nello stesso anno la guerra israeliana contro gli avamposti degli Hezbollah nel sud del Libano e nei quartieri meridionali di Beirut aveva scatenato una reazione popolare araba di massa. Cruciale il ruolo dei nuovi mezzi di comunicazione come Al Jazeera che era riuscito a dare voce al dissenso di quella parte del popolo arabo ostile sia ad Israele che a quei regimi arabi i quali -seppur velatamente- appoggiavano l'intervento militare israeliano in Libano. Il finale di quella guerra fu percepita dalle popolazioni arabe come una vittoria degli Hezbollah libanesi contro la potenza militare israeliana. Seguì tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009 l'operazione piombo fuso, un 'operazione militare israeliana contro le sedi ed i militanti

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di Hamas e contro la popolazione palestinese di Gaza, fortemente colpita da quello che è stato definito un vero e proprio raid. Ancora una volta Al Jazeera è stata determinante nel raccontare, attraverso immagini cruente, quanto di terribile stava succedendo nei territori palestinesi. Le reazioni di dissenso ed opposizione verso Israele, da parte del popolo arabo sono state le stesse della guerra in Libano, se non più radicali. Ancora una volta è apparso chiaro che l'atteggiamento, questa volta davvero moderato, tenuto dai governi arabi nei confronti di Israele rifletteva interessi altri rispetto a quelli delle loro stesse popolazioni. Gli americani, contestualmente, hanno perso ogni effettivo controllo sulle situazioni irachene e afghane, dovendo sottostare ad alleanze improbabili con esponenti delle tribù e personalità che appoggiavano il vecchio regime in Iraq e con i Taliban in Afghanistan, facendo crollare il mito della potenza americana in medio oriente. Stessa sorte è toccata ad Israele dopo l'intervento in Libano con il quale ha dimostrato, nonostante lo squilibrio delle forze militari, l'incapacità di fermare gli Hezbollah e di porre un freno alla presenza di Hamas nei territori di Gaza. La masse arabe anti-israeliane hanno compreso che Israele non è più quella potenza invincibile che era riuscita a sopraffare gli eserciti arabi e nello stesso tempo, hanno ancora una volta, compreso come i regimi arabi non abbiano mai cercato uno scontro diretto contro Israele, appoggiando, seppur indirettamente, la politica statunitense in medio oriente.

Questione che sarebbe diventata determinante nel far crollare quegli stessi regimi negli anni a venire.

Nel 2009 la nuova vittoria alle elezioni iraniane di Mahmud Ahmadinejad rappresentò un duro colpo per l'establishment statunitense. Il regime iraniano è riuscito infatti a resistere ad ogni pressione sia interna che esterna, ha dimostrato ancora una volta, la debolezza della politica americana in medio oriente. Le proteste, organizzate dall'opposizione iraniana, contro questa rielezione giudicata illegittima e fortemente condizionata dall'ampio potere

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della Guida Suprema della rivoluzione iraniana, hanno dato vita ad una grande mobilitazione di massa, in grado di sfruttare le nuove tecnologie (internet e social network, nonostante tutte le criticità apportate da Morozov, di cui si è accennato in precedenza) per sostenere ed ampliare la rivolta. Molti autori hanno sostenuto che l'uso da parte dei ribelli iraniani di queste tecnologie, compreso l'utilizzo dei social network ( ed in particolare Twitter) siano stati da esempio per le rivolte arabe del 2011 nell'arginare i mezzi di censura imposti dai regimi. In realtà le masse arabe avevano già conosciuto e usato questi strumenti di propaganda già nel 2008, quando alcuni giovani attivisti egiziani, guidati dalla giovane Esraa Abdel Fatah, avevano invitato dalle pagine di Facebook i giovani d'Egitto a partecipare ad una mobilitazione contro il caro vita e contro la corruzione, da tenersi il 6 aprile di quell'anno. Da lì in avanti, la giovane attivista egiziana fu ribattezzata come la ragazza di Facebook, venendo successivamente arrestata e tenuta in carcere per otto giorno, per essere successivamente liberata il 14 aprile. L'odissea repressiva per Esraa era appena iniziata visto che fu arrestata nuovamente nel 2010 e tenuta sotto osservazione su ordine del ministero degli interni egiziano. Consci del pericolo che poteva rappresentare questo nuovo strumento nelle mani dei rivoltosi, nel 2008 i ministri delle comunicazione dei regimi arabi, hanno partecipato ad una riunione tenuta nella sede della Lega Araba al Cairo, per discutere dei nuovi regolamenti da imporre ai nuovi mezzi di comunicazione, specialmente su quelli che viaggiano sui canali della rete e sulle tv satellitari. Questa riunione è stata la prima della Lega Araba specifica sull'argomento, in cui si considerava urgente delineare una regolamentazione di questi mezzi, per la sopravvivenza stessa di quegli stessi regimi. Le riunioni della Lega sono continuate infatti per oltre due anni, nel tentativo di imbavagliare quanto più possibile i nuovi e temuti mezzi di comunicazione, oltre che avviare una politica di repressione nei confronti degli attivisti che quei mezzi li utilizzavano giornalmente. Come si è visto, questa politica repressiva

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non è per nulla riuscita ad impedire che si innescasse il processo rivoluzionario in questi paesi.

Dopo questo excursus storico (utile alla comprensione di fenomeni che per realizzarsi necessitano di anni di sedimentazione, come quello che ha investito il mondo arabo nel 2011) è necessario, per una conoscenza approfondita, ricostruire i fattori determinati che hanno contribuito alla nascita delle rivolte.

In primo luogo, quella che l'autore Renzo Guolo definisce come la bomba demografica4, ovvero la popolazione giovanile sotto i trent' anni che in molti paesi arabi5 rappresentano la maggioranza della popolazione. In secondo luogo le aspettative tradite legate ad una diffusione dell'istruzione e la precarietà che contraddistingue la vita dei giovani arabi; in terzo luogo la diffusione dell'utilizzo dei sistemi di comunicazione legati all'utilizzo di internet e social media (Twitter, Facebook, YouTube) ma anche strumenti come Al Jazeera, che rispetto ai media occidentali è maggiormente decentrato, in grado di de-potenziare l'azione dei media ufficiali. Tutti questi fattori sono ampiamente narrati nella vastissima produzione documentaria che il movimento della primavera araba è riuscito a produrre durante i giorni della rivolta cui si farà cenno non appena si tratterà delle rivolte in Tunisia ed Egitto, considerati da molti autori come gli esempi più emblematici delle rivolte nel mondo arabo. Il dato interessante che emerge consiste nel fatto che si è di fronte ad un alto tasso di politicizzazione delle masse arabe, in particolare della fascia giovanile, a differenza di quella occidentale; che in tutti i paesi si percepisce un'ostilità molto acuta nei confronti dell'élites al

4 Ivi, p.8

5 In quasi tutti I paesi arabi, gran parte della popolazione ha un’età che si attesta ai 25 anni. L'età media oscilla tra i 18 anni di Yemen e Sudan ed i 29 di Turchia, Libano e Tunisia. Un terzo dei giovani possiede un'istruzione universitaria ma il tasso di disoccupazione è alto circa il 10 % sul totale della popolazione in Egitto, Algeria, Marocco, e il 14% in Tunisia, Giordania, Iran, sino a toccare il 30% nella Libia, al 35% dello Yemen al 40% a Gaza. Negli ultimi dieci anni l'utilizzo di internet è balzato di 2300% raggiungendo nel 2010 quasi il 18% della popolazione del mondo arabo, (oltre 60 milioni di utenti su un totale di 350 milioni). Nel Maghreb un terzo della popolazione utilizza il web .

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potere, considerate responsabili di veri e propri saccheggi che relegano la popolazione in una condizione di miseria (quella che in Italia viene definita come la casta, proprio per sottolineare il regime di privilegio in cui vive rispetto al resto). Altro aspetto consiste nella voglia di riscatto e di giustizia sociale legata anche al tema della libertà, dell'autodeterminazione e della dignità umana. In questo senso il ruolo dei new media è stato determinante nell'amplificare le ragioni della rivolta ma anche nel contribuire ad organizzare le proteste e costruire nuovi canali di comunicazione utili all'aggregazione di migliaia di persone che, in quei giorni si sono riversate nella piazze. Come suggerisce Salvo Vaccaro nel suo testo:

... ma la chiave del successo per lo più è tutta da rintracciare nella felice capacità di congiungere strumenti tecnologici di comunicazione di recente invenzione con la fisicità tutta biopolitica dei corpi di massa che hanno letteralmente saturato lo spazio pubblico del politico nei luoghi urbani dove si è giocata la rivolta.6

Bisogna aggiungere che senza questa inedita biopolitica della ribellione, continuando con le parole dell'autore sopra citato, modellata su una rivolta pacifica, (almeno così nell'intenzioni dei manifestanti cui è seguita una repressione violenta da parte delle forze governative), non si sarebbe riusciti ad orientare la propria rabbia nei confronti del Palazzo, nonostante in alcuni paesi le rivolte si siano avute in un clima sanguinario come in Yemen, in Siria o in Libia.

L'idea dell'assalto ai palazzi del potere, imposta da movimenti orizzontali e dal basso, che ha innescato un nuovo processo di soggettivazione ( contro la tirannia e il dispotismo di quei regimi, sintetizzati in quel famoso que se vayan todos), d'altronde era già stata sperimentata pochi mesi prima, nelle piazze europee ma, a differenza di quest'ultime, nella primavera araba si è riuscita a metterla in pratica, riuscendo effettivamente a concretizzarla. Ribaltando, dunque, la narrazione che il main stream occidentale ha voluto fornire di quelle rivolte, ovvero

6 Cfr, in S. Vaccaro, op.cit., p. 11.

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la visione per cui è grazie a social media del calibro di Twitter che quelle rivolte del terzo millennio si siano potute realizzare, bisogna scardinare il concetto che vede l'uso esclusivo dei new media come vincente di per sé, senza porre in evidenza come le popolazioni, vere protagoniste di quelle rivolte, quelle piazze le abbiano agite e trasformate, riuscendo a costruire nuovi spazi immediatamente costituenti. Alcuni autori sottolineano come nell'onda araba, (prescindendo dagli esiti che ciascuna di quella rivolta ha avuto ed avrà, visto che ancora sono processi in corso), sia presente la chiusura del ciclo storico iniziato con i processi di decolonizzazione in cui si assistette alla fine del tempo post-coloniale, ovvero la fine del modello imperialistico(?) di occupazione e controllo diretto del territorio e delle popolazioni, modello che ha dominato l'era moderna a partire dal XV secolo fino ad appena 60 anni fa.

Quei regimi post coloniali, gestiti da élites istruite nelle capitali straniere e orientate al dominio dei loro popoli, usciti dalla decolonizzazione come autonomi e indipendenti ma la cui sovranità era sempre legata allo sfruttamento delle risorse da parte straniera (acuito dalla crisi economica internazionale), si sono sgretolati con la presa di coscienza di quelle popolazioni che, stanche di subire, hanno deciso di ribaltarli e di iniziare una nuova fase della loro storia.

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4.3 Dalla Casbah a piazza Tahrir : esempi emblematici delle rivolte

Il 17 dicembre del 2010, nella cittadina tunisina di Sidi Bouzid, un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi7, si è dato fuoco davanti la sede del governatore della sua città, dopo mesi in cui subiva vessazioni ed umiliazioni da parte della polizia locale, che ripetutamente gli sequestrava la merce. La scintilla, che ha fatto scattare in lui la determinazione con cui ha compiuto questo gesto, è arrivata quando, a compiere l'ennesima umiliazione è stata una poliziotta di 46 anni, Fayida Hamdy, che lo ha picchiato, disonorandolo definitivamente. All'ennesimo tentativo fallito di farsi ricevere dal Governatore per denunciare quanto aveva subito per mesi, il giovane, stanco di subire, ha deciso di compiere questo gesto estremo in segno di protesta, contro le condizioni cui è costretta la popolazione tunisina. Bouazizi ha usato il suicidio come arma estrema di protesta, che di lì a pochi giorni avrebbe infiammato anche le coscienze di altri giovani come lui e alla caduta del regime di Ben Alì, il 14 gennaio del 2011, esattamente dopo una settimana esatta dalla morte.

Con il gesto estremo di Bouazizi ebbe inizio quella che è stata chiamata la Rivoluzione dei Gelsomini, ovvero quel grande movimento di proteste, che percorrendo diverse città della Tunisia (in particolare quelle del sud), hanno costretto alla capitolazione il regime di Ben Alì.

Tra l'8 e il 9 di Gennaio vi sono state imponenti manifestazioni nelle città di Thala, Kasserine e Regueb con altrettanti morti, in tutto circa 14; mentre la giornata del 10 è stata attraversata da una grandissima mobilitazione popolare nella capitale di Tunisi dove sono stati coinvolti gli studenti, i disoccupati, alcuni tra gli intellettuali più in vista del mondo tunisino e gran parte della popolazione capitolina. La polizia è intervenuta anche all'interno dell'università di El Manar, mentre nella periferia della capitale si ebbero violenti scontri tra polizia e manifestanti. La situazione non migliorò nei giorni successivi con altre manifestazioni e nuovi

7 Nella tribù di Hamama, al quale apparteneva Bouazizi, quando un uomo viene picchiato da una donna gli fanno indossare un vestito femminile come segno di vergogna e umiliazione.

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arresti tra cui si ricorda quello del militante comunista Hamma Hammami. Nonostante l'esercito fosse stato schierato contro i manifestanti, il 14 Gennaio le forze militari decisero di schierarsi insieme con la popolazione e di proteggerla nei confronti della polizia che ancora rispondeva al regime. Nel primo pomeriggio di quella giornata il presidente Ben Alì annunciò lo scioglimento del Governo e annunciò elezioni anticipate entro i prossimi sei mesi, anche se successivamente decretò lo stato di emergenza ed instaurò il coprifuoco. Nonostante il clima repressivo le manifestazioni non accennarono a diminuire, anzi, il clima nel paese divenne sempre più rovente e Ben Alì fu costretto a lasciare il paese riparando all'estero. A quel punto, nel tardo pomeriggio, il primo ministro Mohamed Ghannouchi assunse la presidenza ad interim. Il 5 gennaio 2011 il presidente del parlamento, Foued Mbazaa, venne proclamato presidente della Repubblica ad interim dal Consiglio Costituzionale, in virtù dell’articolo 57 della Costituzione, escludendo così il ritorno alla testa dello Stato di Ben Alì.

In Tunisia, dopo appena dieci mesi di distanza dalla caduta di Ben Alì, il clima nel paese è cambiato molto; cambiamento che è stato sancito dall'elezioni dell'assemblea costituente del 23 ottobre del 2012, che apriranno ad una nuova fase, verso quel processo di democratizzazione cui la popolazione tunisina aspira tutt'oggi8.

L'esempio di Bouazizi in Tunisia, è stato seguito da altri giovani arabi soprattutto egiziani: ad Alessandria d'Egitto, Ahmed Hashem Al Sayed, si è dato fuoco il 18 Gennaio protestando contro la disoccupazione, bollato come mentalmente disturbato dal regime di Mubarak, acclamato come il Bouazizi egiziano dai giovani della città. Anche nel caso di Al Sayed dopo una settimana dalla sua morte, il 25 Gennaio del 2011, grandi proteste di massa hanno visto circa 25.000 giovani, infiammare piazza Tahrir, facendola divenire il luogo simbolo della primavera araba. Dopo violenti scontri con la polizia che vedono anche delle vittime, i giovani

8 Per una cronologia approfondita della giornate della rivolta consultare il sito https://www.ossin.org/

tunisia7rivoluzione7tunisina

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di tutto il paese, guidati dal Movimento 6 Aprile e dal Movimento Kalhed Said, si sono ridati appuntamento nelle piazze di tutto il paese, facendo dilagare la rivolta anche ad Alessandria d'Egitto, sul Sinai e sul delta del Nilo e a Suez dove vi sono svolte le manifestazioni più violente. Nei giorni successivi si susseguono proteste in tutto il paese e il 29 gennaio dalla piazze egiziane viene chiesta a gran voce la destituzione del presidente Hosni Mubarak, tradizionalmente appoggiato dai governi occidentali compresi quello statunitense e dal governo italiano. Nella stessa giornata, dopo che il bilancio delle vittime continua a salire esponenzialmente (si parla di 150 vittime dall'inizio delle rivolte), il capo dei servizi segreti egiziani Umar Sulayman viene nominato vice presidente della Repubblica spodestando il figlio del presidente Mubarak, Gamal. Il giorno successivo, nel tentativo di sedare le rivolte e tentare di mantenere il potere, il presidente Mubarak rafforza la presenza dei militari nella capitale; a questa nuova manovra repressiva gli fa eco la risposta del leader dell'opposizione al Baradei, esponente del Movimento 6 Aprile, il quale chiede ripetutamente al presidente di lasciare il paese, per poter avviare un governo di transizione. Il 31 Gennaio Mubarak dà vita ad un nuovo governo, ma nonostante la nuova coalizione governativa continuano le proteste, che nella sola capitale egiziana raggiungono oltre un milione di manifestanti, cui si aggiunge anche il veto dell'esercito che si dichiara ostile nell'aprire il fuoco contro la sua stessa popolazione. Ancora una volta l' epicentro del conflitto è rappresentato da piazza Tahrir dove continuano i presidi e le proteste nonostante l'esercito inciti allo sgombero della piazza. I primi di febbraio iniziano gli scontri tra oppositori del regime e suoi sostenitori, il clima che si sta sviluppando è quello di una vera e propria guerra civile. Nel frattempo iniziano le trattative tra esponenti del regime ed i suoi oppositori che chiedono che il presidente si dimetta entro il 4 febbraio.

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Mubarak comunque annuncia che non si candiderà e che tenterà di guidare la transizione e di condurre il paese alle future elezioni che si svolgeranno nel prossimo settembre. Il 10 febbraio Murabak, di fronte ad una piazza gremita di gente, in un discorso tenuto davanti all'intera nazione, si dimette lasciando il potere nella mani del vice presidente Sulayman. Il giorno successivo le forze armate diffonderanno un comunicato nel quale si dice che si impegneranno a garantire che la fase di transizione si svolga in maniera ordinata consentendo il passaggio dei poteri e le elezioni libere. Spetterà dunque al Consiglio Supremo delle Forze Armate, composto da 18 membri e presieduto dal feder maresciallo Mohammed Tantawi, il compito di traghettare il paese verso la democrazia. Mentre il governo rimane ufficialmente in carica, il parlamento viene sciolto dal Consiglio, che decide anche per la sospensione della costituzione.

La giunta, che promette di mettere fine allo stato d'emergenza in vigore nel paese dal 1981 solo quando le condizioni lo richiederanno, annuncia che rimarrà al potere per sei mesi o fino alle prossime elezioni legislative e presidenziali e che rispetterà i trattati internazionali, fra cui quello che sancisce la pace con Israele. Viene decisa inoltre l’istituzione di un comitato che si occuperà di emendare la carta costituzionale.

Il premier egiziano Ahmad Shafiq, dopo che per giorni numerosi egiziani avevano continuato a protestare in piazza Tahrir chiedendo le sue dimissioni perché ritenuto colluso col vecchio regime, il 3 marzo rimette il proprio incarico di Primo Ministro.

Il referendum sugli emendamenti alla Costituzione della Repubblica araba d'Egitto si tiene il 19 marzo. La consultazione registra il 77,2% dei sì, che consentono in questo modo l'implementazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro la fine dell'anno.

L'eco dell'onda delle proteste si è fin da subito fatto sentire anche in altri paesi:

contestualmente sono iniziate le rivolte il 14 Febbraio in Barhein e il 16 Febbraio a Bengasi in Libia, oltre che in Yemen ed in Siria, la cui difficile situazione è ancora a tutt'oggi sotto gli

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occhi dell'opinione pubblica internazionale. L'onda araba ha messo in moto processi politici il cui esito è ancora del tutto imprevedibile, visto che questi sono ancora in corso, e la cui stabilità è sempre più minacciata dalle varie componenti che vi prendono parte.

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4.4 L'uso dei social network nelle rivolte arabe

Dell'utilizzo di Twitter si è molto parlato in occasione della primavera araba, ovvero di quei movimenti di rivolta che hanno investito il nord Africa, nel 2011, e che hanno portato alla destituzione di regimi pluridecennali e dell'assetto geopolitico della area mediorientale delineatosi durante gli anni della Guerra Fredda. Il media mainstream occidentale, ha infatti parlato più volte, (spesso in maniera impropria, amplificandone la portata e eludendo l'importanza dei movimenti reali) di Twitter Revolution, proprio per sottolineare la centralità, acquisita da questo nuovo strumento, nella diffusione della informazioni, di immagini e video, e per il supporto fornito dai social network (Facebook compreso) all'organizzazione delle proteste. Dal rapporto fornito dal Ce.S.I9 sul ruolo dei social network sulle rivolte arabe10 si legge che dal 4 Gennaio 2011, giorno in cui il giovane Mohamed Bouazizi si è dato fuoco per manifestare contro il regime di Ben Alì in Tunisia e considerato ad oggi l'inizio di quel movimento di rivolte, al 27 febbraio, giorno in cui si è costituito il governo provvisorio, dai poco meno di 4000 agli 11.000 tweet giornalieri, con un picco di 8000 tweet il 14 gennaio nella giornata della Rivoluzione dei Gelsomini, così come è stata ribattezzata. Una giornata che ha visto fin dalla mattina una grande manifestazione nella capitale tunisina e la partecipazione di oltre 60.000 persone (dopo giornate di proteste, scontri con le forze dell'ordine e vittime tra i manifestanti) e la fuga pomeridiana di Bel Alì che ha lasciato precipitosamente il paese per riparare in Arabia Saudita. (tabella figura28) Paradigmatico anche il caso dell'Egitto in cui, nonostante lo stretto controllo della polizia informatica, nei confronti degli oltre 160.000 blog antigovernativi, non è riuscito a fermare il flusso di

9 Ce.S.I è l'acronimo del Centro Studi Internazionali creato a Roma nel 2004 ad opera di Andrea Margelletti. Tra i suoi obiettivi è quello di fornire dell'analisi e degli strumenti di comprensione del quadro politico internazionale. Cfr.in http://www.cesi-italia.org

10 Cfr.in, Arab Social Media Report vol I Maggio 2011, http./ www.ArabSocialMediaReport.com.

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informazioni che viaggiavano sul web, sortendo al contrario un effetto controproducente. È il caso dell'arresto di Wael Ghonim11, uno degli emblemi della protesta egiziana, diventato il simbolo, per centinaia di migliaia di manifestanti, del potere repressivo e censorio del governo di Mubarak. Durante le rivolte di Piazza Tahrir si sono registrati oltre 1.400.000 tweet, mentre nella sola giornata dell'11 Febbraio, nel quale il presidente Mubarak è stato deposto, i tweet si attestavano mediamente tra i 30000 ed i 35000. (immagine tabella figura 30).

Durante i giorni del blocco di internet, peraltro, avvenuti tra il 27 gennaio ed il 4 febbraio, bisogna osservare come questi siano scesi a poco meno di 5.000 toccando i 25.000 non appena la popolazione è riuscita ad aggirare il blocco, creando reti ad hoc con le connessioni dial-up e con i telefoni cellulari12. Lo stesso atteggiamento di chiusura del sistema di comunicazione si ha avuta anche da parte delle élites libiche all'inizio del conflitto, quando il regime di Gheddafi ha impedito le comunicazioni telefoniche della Cirenaica, punto nevralgico della rivolta, escludendola dalla rete per la telefonia mobile, centralizzata a Tripoli.

A Bengasi, l'ingegnere Ousama Abushagur è riuscito, artigianalmente, a ricostruire una centrale telefonica, riattivando le comunicazioni tramite cellulari e creando una rete telefonica pirata chiamata Free Libyana, col supporto offerto dalla compagnia degli Emirati Arabi Etisalat, che ha messo a disposizione la propria rete satellitare. La telefonia mobile ha consentito lo svolgimento delle operazioni militari nella Libia orientale, garantendo ai rivoltosi la possibilità di comunicare stabilmente e gratuitamente. Analogamente ai casi Egiziano e Tunisino, anche in Siria le autorità hanno cercato di bloccare le proteste, oltre che con la repressione violenta, arginando invano internet (tabella 5 rapporto cesi). Tale

11 Wael Ghohim è un attivista politico e blogger egiziano, responsabile del settore marketing di Google, nonché simbolo delle rivolte della primavera araba. La rivista Time, proprio per il suo impegno politico lo ha nominato tra le persone più influenti del 2011.

12 Ivi, P. 13

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