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NADJA Dacia Maraini

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Academic year: 2022

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Dacia Maraini

presenta

NADJA

n.  iMMigrazione

DIRITTI SENZA ROVESCI Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni

per una cultura etica del lavoro

2008

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IL PROGETTO

“Diritti senza rovesci” è una campagna di comunicazione sociale di Inail.

“Diritti senza rovesci” è un modo per parlare a tutti dei problemi del lavoro e diffondere la cultura della sicurezza e della non discriminazione nei contesti professionali.

“Diritti senza rovesci” sono dodici racconti d’autore ispirati da storie vere di malolavoro.

Sono storie che servono per conoscere e per comprendere. Sono storie che servono per cambiare.

Perché la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro e nessuno dovrebbe essere discriminato, subire infortuni, contrarre malattie, morire mentre sta lavorando.

senza

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U

na storia come tante altre quella di Nadja, la ucrai- na. Eppure unica nel suo dolore e nella sua forma, come tutte le storie legate a una persona con una faccia, un corpo, una mente, un modo di parlare, di essere che appartiene solo a lei.

Io non l’ho conosciuta, ma è come se l’avessi fatto. Dalle sue parole ho potuto immaginare il suo corpo, la sua inge- nua e robusta intelligenza, la sua determinazione e la luce coraggiosa dei suoi occhi.

Nadja è arrivata in Italia nel 2002. “Sono arrivata come turista per vedere l’Europa”. O per lo meno così si illu- deva, perché una voce in lei diceva che non era solo per

“vedere il mondo” che si trovava in un paese diverso dal suo, con una lingua che non capiva.

Dopo avere guardato e ammirato le meraviglie del passato di città come Venezia, come Bologna, Nadja ha dovuto piegarsi a cercare lavoro. E in quel momento sono comin- ciati tutti i guai. I turisti infatti sono trattati da re e regine.

Quando non spennati come polli. Comunque li si riempie di moine, poiché portano denaro. Ma uno che chiede lavo- ro diventa subito sospetto: chi sei? cosa vuoi? da dove vie- ni? cosa sai fare? eccetera. Già col cognome ucraino sor- gono un monte di difficoltà: come, Irineska lei e Irineskoj lui! Marito e moglie non devono avere lo stesso cognome?

Dacia Maraini presenta

NaDja

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Ma allora non siete sposati! insistono gli ignoranti impie- ganti. Figuriamoci: Nadja voleva fare il congiungimento familiare! Come spiegare che al suo paese il cognome di coniuga diversamente fra uomo e donna? Ma i burocrati la ricattano: se non cambierà tutto, dal codice fiscale alla carta di identità, non potrà pretendere che suo marito sia considerato veramente suo congiunto.

Per fortuna Nadja è tenace. abituata a pazientare. La sto- ria di famiglia non l’ha certo viziata. “Mio padre è stato tre volte al fronte nella seconda guerra mondiale”. Ha com- battuto per i polacchi, vicino a Cracovia, quando il suo paese era sotto la Polonia. è stato prigioniero di guerra.

è riuscito a scappare “arrivando a piedi in Ucraina, da Cracovia dove si trovava, aveva i piedi tutti rovinati, san- guinanti, è arrivato come uno scheletro”.

Finalmente finisce la guerra, l’Armata Rossa arriva a libe- rare i popoli tenuti prigionieri dalle SS. “Sono venuti per salvare la gente. Dicevano. Ma che salvare! Siamo passati da un’occupazione all’altra.”

I russi erano invadenti, si ubriacavano, stupravano le don- ne. Pretendevano di comandare a tutta la popolazione.

“Sei contro la Russia tu?” interpellavano le persone per strada. Una volta, degli ucraini, stanchi di essere vessati, uccidono un soldato russo. Il giorno dopo “abbiamo vi- sto due ragazzi che andavano alla messa e, kalashnikov alla mano, i russi li hanno uccisi, due ragazzi di diciotto anni, innocenti... I russi dicevano: i primi che incontriamo li uc- cidiamo. Hanno incontrato questi due innocenti diciotten- ni e li hanno ammazzati. Per loro il popolo ucraino doveva sparire dalla terra.”

Seguono deportazioni, fame, disperazione. “La mamma ha preso la tubercolosi. Due miei fratellini e la mia sorelli-



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na Maria sono sepolti in quella maledetta terra”.

Nadja conosce le sofferenze della fame, dell’arroganza di chi pretende di comandare e decidere per loro.

Eppure riesce a laurearsi. Studiando non si sa come, fra le difficoltà di trovare di che mangiare ogni giorno, una camera da dividere con fratelli e sorelle, una scuola privata di tutto. Crede molto in quella laurea. Punta tutto sugli studi. Per trovare poi un mestiere che le dia dignità e sere- na sopravvivenza.

Invece, la fame la porta ad emigrare. E la laurea in Italia non l’aiuterà. anzi deve tenerla nascosta, “altrimenti ti prendono in giro”. Oppure le rifiutano il lavoro, perché una laureata suscita sospetto. “Magari poi questa non vuo- le fare i lavori più umili” dicono. Mentre Nadja è disposta a fare di tutto. Non si tira indietro di fronte ai compiti più massacranti e umilianti.

“La prima cosa che ho trovato è stato guardare un nonno, che io non capivo. Lui era invalido io dovevo fasciarlo, fare tutto… la figlia stava lì vicino, io non capivo l’italiano, solo grazie, buongiorno, arrivederci… Lei mi dava il vocabola- rio e mi diceva: Prendi il vocabolario tu che sei professores- sa. E spesso, quando doveva darmi un ordine: ah tu che sei professoressa!”. Come se fosse un insulto.

In realtà, come spesso avviene, per la ricattabilità della loro situazione, queste donne straniere sono chiamate a fare le badanti, ma poi si chiede loro di fare le serve all’intera fa- miglia.

a volte i parenti dell’anziano da accudire le trattano come fossero dei soldati a cui loro, da sergenti, danno ordini che non si debbono discutere. è facile abusare di una persona che magari non ha le carte in regola, che può facilmente essere cacciata, che ha paura di tutto, che si sente in col-

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pa per la sua condizione di clandestina. E a quanti piace comandare! avere una creatura ai propri ordini che china la schiena, ubbidisce, esegue la volontà di un capo senza fiatare. è il sogno di molti.

Nadja ha due figli a cui badare, soprattutto il primo, che deve essere operato, che soffre di bronchite cronica, che si ammala continuamente. Per quel figlio lì ha fatto immensi sacrifici, ha messo da parte i soldi per una operazione che prima o poi dovrà subire. L’altro è più robusto. è laureato come il fratello ma il solo lavoro che ha trovato è da mura- tore. Il più grande, che è insegnante, sapete quando gua- dagna al mese? “200 euro, ma se adesso vuole creare una famiglia avrà bisogno della mamma, e io dovrò lavorare ancora magari due anni per aiutarlo”.

Per trovare questi soldi Nadja esegue un lavoro che, come dice lei, “nessuna donna italiana farebbe, 24 ore su 24 vi- cino a un vecchio che magari ha l’alzheimer e non può es- sere mai lasciato solo se no cade o si fa male. Occupandosi dei suoi bisogni. Facendosi pure trattare male”.

Per fortuna qualche volta si può capitare anche bene. Come nel caso della nonna di 94 anni che pesava 100 chili. Ogni tanto cadeva e Nadja si precipitava a chiedere aiuto. “Non tentare di sollevarla, non ce la fai”, le dicevano i parenti con gentilezza, “mettile un cuscino sotto e vai a chiamare qualcuno, tanto lei si riposa, non muore”.

Ogni tanto si trovano anche persone perbene, che non sfruttano, non comandano, non minacciano e non ricat- tano. Sono gli italiani che hanno il senso dell’accoglienza, che sanno mettersi nei panni di chi emigra ed è costretto a fare un lavoro al di sotto delle sue capacità. Per fortuna ci sono questi italiani accanto ai tanti altri che non capiscono,

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non vogliono capire. Per merito loro il paese sta ancora in piedi.

E naturalmente anche per merito di donne come Nadja, che nonostante le fatiche, le umiliazioni, i rimproveri in- giusti, non recrimina, non inveisce, non sbraita, non diven- ta nevrastenica e depressa, ma serenamente affronta il suo difficile futuro con cuore di leone e pazienza di cammello.

Grazie Nadja!

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Intervista di T. C. a Nadja, badante ucraina

Prima dell’intervista parla dei suoi prossimi impegni: il suo primo figlio - ha due maschi - si sposerà il prossimo agosto e lei sta or- ganizzando il viaggio per tornare a casa. È appena uscita da mes- sa, mi racconta che la funzione ortodossa dura quattro ore e si sta sempre in piedi. È molto religiosa: mi mostra la rivista che pubblica periodicamente la sua parrocchia e i suoi libri di preghiere.

Quando e come è arrivata qui?

Il 1 marzo 2002. Sono arrivata come turista, per vedere l’Europa. Però sapevo già da casa che non venivo come turista, venivo per lavorare.

Quindi era partita anche con la famiglia?

No, io sono stata qui da sola tutti e sei gli anni. I miei figli, due, uno di trentuno anni e l’altro di ventiquattro anni, sono in Ucraina, come il marito. Il marito però ha quattro anni in meno di me.

I suoi figli non sono mai stati qua?

No, no, no…

E anche suo marito non è mai stato qua?

No… io volevo organizzare, volevo fare il ricongiun- gimento familiare, nel 200 ho fatto tutti i documenti.

Dove ho lavorato ho sempre avuto la residenza, tutto sempre legale, sempre obbediente alla legge. Però con la burocrazia nascono sempre dei problemi: il mio cognome è Irineska, mio marito è Ireneskojo. Mio marito è andato in consolato e gli hanno detto: “Non siete marito e mo- glie”. E come mai noi, che abbiamo cresciuto due figli, non siamo marito e moglie?

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E come si può risolvere l’equivoco?

O io devo cambiare permesso di soggiorno, carta d’iden- tità, codice fiscale, oppure lui deve cambiare tutto. Ma nessuno lo può fare. Perché quando l’Ucraina è entrata nell’Unione Sovietica, con la Russia, e dopo, dal ‘91, quando è stata liberata, abbiamo tutti cambiato pas- saporto. Prima il passaporto era russo, di colore rosso, come il comunismo… Io odio la politica del comuni- smo, che non è stato mai comunismo, ma solo un’idea sbagliata di Stalin e Lenin… Io spero che Stalin si rivolti cento volte nella sua tomba, perché per colpa sua è mor- ta mia mamma. Io sono nata in Russia nel ‘52, perché i miei genitori sono stati trasferiti lì, in Russia, senza nessuna colpa. Mio papà era un semplice contadino, lui non faceva politica e neanche mia mamma.

Li hanno presi con la forza?

Sì, con la forza. Io non ero ancora nata. Mio papà è stato tre volte al fronte nella seconda guerra mondiale, capisci? Nel ‘39, quando è cominciata la guerra in Polo- nia, dato che il nostro territorio era sotto la Polonia, mio papà era robusto e faceva il militare in Polonia, vicino a Cracovia, allora venne convocato per la guerra. Poi, lo sai, la Polonia è caduta e papà è rimasto prigioniero dei tedeschi.

Prigioniero di guerra?

Sì. è stato portato in una caserma, moriva di fame, lì si poteva solo pregare Dio. Io credo in Dio come i miei genitori e Dio ci ha aiutato, mio padre è scappato dalle SS e dalle bombe, da tutto… è riuscito a scappare, ar- rivando a piedi in Ucraina, da Cracovia dove si trovava, aveva i piedi tutti rovinati, sanguinanti, è arrivato come uno scheletro. Mia mamma era rimasta - aveva dieci

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anni in meno di mio papà - con il mio fratellino pic- colo, nato nel ‘37. E così è cominciata la nostra storia.

Poi sono arrivati i russi, l’Armata Rossa è entrata e ha conquistato questo territorio. Sono venuti per salvare la gente. Dicevano. Ma che salvare! Siamo passati da un’occupazione all’altra. Tedeschi e russi assieme. Di giorno venivano i russi e di sera venivano i nazionali- sti ucraini che volevano la libertà. Poi i fascisti. I nostri partigiani combattevano contro i russi, ma i russi non li chiamavano partigiani, dicevano “nazionalisti”. E “na- zionalisti” non è una parolaccia. La politica era: se tu sei nazionalista, tu sei contro la Russia. Ma voi, per esem- pio, siete contro i francesi? Ma cosa c’entra, Francia e Italia? Ognuno è patriota della sua nazione. Qualcu- no, un giorno, quando i russi comandavano, di matti- na presto qualcuno ha ucciso un russo… per dispetto.

abbiamo visto due ragazzi che andavano alla messa e, kalashnikov alla mano, i russi li hanno uccisi, due ragazzi di diciotto anni, innocenti... I russi dicevano: i primi che incontriamo li uccidiamo. Hanno incontrato questi due innocenti diciottenni e li hanno ammazzati. Per loro il popolo ucraino doveva sparire dalla terra.

Ognuno vorrebbe essere libero. Mio papà, però, non ha mai detto niente. L’hanno convocato a combattere per la Russia anche nel 1942, ma è stato ferito. È stato un po’ a casa, poi di nuovo al fronte nel ‘44 - ‘45. La guerra era finita a maggio, il 9, e mio padre era ancora in guer- ra, dove è caduta la bomba, a Hiroshima.

è arrivato a settembre, poveretto, trascinandosi per tut- ta la Siberia. E dopo tutto questo i Russi come hanno fatto a dire che mio papà era contro il loro popolo? Ma dov’è la logica? Ha combattuto tre volte per loro. Ha avuto anche una medaglia al merito. E sono venuti di

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notte a prenderlo perché qualcuno ha scritto una scioc- chezza. Bisognava mandare via trenta persone. Ne man- cavano due, allora hanno scritto di mandare via tutta la famiglia di Nicola, Nicola è mio papà. Così sono venuti di notte, hanno dato dodici ore di tempo alla mia famiglia per prepararsi e intanto hanno portato via la mucca.

E in che parte dell’Unione Sovietica hanno mandato la sua fa- miglia?

a Chita, si chiama così quella città. Quando mi hanno fatto l’ultimo permesso di soggiorno, qui in Italia, mi chiedevano: “Dove è nata, signora?” io rispondevo: “a Chita”. “Signora, lei magari non capisce l’italiano, come si chiama la città?”. “Chita” (ride). allora, siccome non capivano, ho scritto il nome di un paese vicino a Chita.

Io sono nata lì, dove avevano portato a forza la mia fa- miglia dopo che le avevano confiscato tutto: la mucca, il cavallo… Mio fratello aveva tredici anni quando è suc- cesso, piangeva tanto, diceva: “Perché prendete il mio cavallo?”. L’hanno picchiato e poi hanno detto ai miei genitori: “Lasciate qui quel bastardo, lui può rimanere qui”. “Bastardo” hanno detto, capisci? Ma come poteva- no mamma e papà lasciare un figlio, il loro unico figlio? I russi dicevano: “Non tornerete più, mai più”.

Quando li hanno messi sul treno, erano stretti come pe- sci. Quando uno doveva voltarsi, si voltavano tutti assie- me. Li hanno portati a 14 mila km da casa nostra. Chita dista 12 mila km da Mosca. Io sono nata lì, in quella ter- ra! Era il 1952.

Un anno prima della morte di Stalin...

Ecco, è vero! La mamma ha preso la tubercolosi. Due miei fratellini e la mia sorellina Maria sono sepolti in quella maledetta terra. Tra me e mio fratello c’è una dif-

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ferenza di quindici anni. Lui è nato nel ‘37, io nel ‘52.

Quindi siete rimasti solo in due?

Sì, solo in due.

In Russia la sua famiglia è arrivata senza possedere più nulla?

Sì. Hanno cominciato la vita da una forchetta, da una padella. C’era una grande camera, almeno per quanto mi ricordo, visto che ero piccolina. C’era una stanza per quattro famiglie, mettevano le tende per dividere e ogni famiglia aveva il suo angolo.

Come nelle Komunal’naja kvartira, negli alloggi comuni?

Komunal’naja Kvartira erano qualcosa di meglio, almeno c’era la camera da letto. Lì, invece, c’erano delle ten- de che dividevano una stanza in quattro. La cucina era obshaja, comune per tutti quanti. Noi bambini dormiva- mo nello stesso letto con mamma e papà.

Mi sono rimasti tanti brutti ricordi. Mia mamma era sempre malata, non aveva latte e in quella maledetta ter- ra non cresce nulla, neanche le patate. L’estate iniziava a fine maggio e a fine agosto faceva già freddo. La tem- peratura arrivava a 50 gradi sotto zero, e io sono nata lì!

Siccome mia mamma non aveva il latte, portavano un bricchetto al negozio, il mio fratellino andava lì a com- prare il latte, lo scioglievano sul kerogas, non il gas come adesso, anni e anni fa c’era il kerogas, lo scaldavano per me e io sono sopravvissuta. E quando mio papà l’hanno mandato a lavorare in miniera, ci hanno portato di forza, nessuno ci voleva andare.

Così suo padre è stato anche in miniera?

Sì, ma non eravamo prigionieri, potevamo lavorare liberi.

Ma che colpa abbiamo avuto noi? Mio fratello è andato a lavorare a tredici anni e non ha studiato mai più. Io fino

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a cinque anni non sono stata battezzata! Fino a quando siamo tornati in Ucraina, nel ‘57. Stalin è morto nel ‘53, ma per colpa della burocrazia ci sono voluti quattro anni per tornare a casa. Mia mamma scriveva a Mosca una lettera dopo l’altra. Quando Stalin è morto, tutti subito gli hanno dato del mostro. Mentre prima tutti dicevano:

“è un eroe, è il nostro papà”.

Mi ricordo il viaggio di ritorno, avevo cinque anni. è du- rato due settimane, abbiamo passato il lago Bajkal, abbia- mo attraversato tutta la Siberia, siamo arrivati a Mosca e da Mosca siamo partiti per la nostra capitale Kiev e poi finalmente siamo arrivati al nostro paese. Quando siamo tornati, io non sapevo neanche dire “carota”. Non avevo mai visto le ciliegie, né le mele né niente. Quando sono tornata era il 2 settembre, raccoglievano le patate, le ca- rote. Io non ero battezzata e andavo in chiesa a dire a memoria il Padrenostro, l’ave Maria e il prete mi diceva:

“Ma come sei brava, bambina”. E io non ero battezzata!

Questo si considera un grande peccato. Ma lì dove stava- mo in Russia non c’era neanche un prete. Sempre taiga, solo taiga, sai cosa significa taiga?

Sì. Quindi, lei la frutta l’ha scoperta quando aveva cinque anni?

Sì. C’era mio cugino in Ucraina. Io gli dicevo: “Vassilji, dammi la carota”, e lo dicevo in russo. E tutti i nostri odiavano la lingua russa. “Carota? Cazapka!”, lo diceva in ucraino. Mi diceva: “Vuoi la carota? E adesso te la do!”. E mi veniva a picchiare. Era un ragazzino, ave- va sei anni e io cinque. Io andavo da mia mamma pian- gendo: “Mamma, lui non sa niente, non capisce niente quando gli parlo...”. E adesso che lui è grande, e anche io, ricordiamo questi anni: “Come mi hai picchiata tu!”, gli dico. E lui risponde: “Ma tu parlavi russo!”.

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Ancora adesso immagino che non faccia piacere sentir parlare russo in Ucraina...

No, infatti. Noi odiamo la politica russa, ma il popolo russo è stato bravo. Bisogna distinguere il popolo dal go- verno. anche oggi, loro non vogliono ancora riconoscere l’Ucraina, ma siamo liberi dal ‘91! Come può uno stato che ha appena diciassette anni, che è un ragazzino, in- somma, come può un simile stato stare in piedi? Perché io, laureata in fisica e matematica, devo essere qui a te- nere le vecchie nonne, le anziane signore? Ho tanta no- stalgia del mio paese, di mio marito e di mio figlio che sta per sposarsi. è malato, ha avuto un incidente e non ha la milza, gli hanno tolto la milza a undici anni. Era andato in slitta ed è caduto sul ghiaccio, poteva morire. E meno male che mio marito si è accorto che stava male. Io in- vece volevo picchiarlo perché era arrivato tardi a casa e il fratellino aveva bisogno di essere guardato, perché io ero vicedirettore in quel momento... Ho lavorato per cinque anni come vicedirettore, sai? La scuola era gran- de: 360 alunni, e io facevo lezione ai ragazzi dai 14 anni fino ai 18.

Dopo l’incidente mio figlio non ha più avuto salute. Per questo io sto qui, per mio figlio. Lui adesso è laureato in geografia, turismo, però non può lavorare fisicamente, non può fare il muratore. Se fa sforzi e suda, appena arri- va un po’ di aria fredda si ammala subito.

Si è laureato che doveva ancora studiare un anno, il quin- to... però, dopo quattro anni di studio, puoi andare a la- vorare e il quinto anno studi e lavori. E siccome nella scuola dove lavoravo come vicedirettore c’era un posto per un insegnante di storia, lavorava e studiava. a lui pia- ce leggere, come a me, come si dice: è genetico. Lui ama i libri, tutti. E così ha perso un po’ di vista, senza occhiali

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vede solo la prima riga.

L’anno scorso volevo accompagnare mio figlio a Odessa per fare l’intervento col laser. allora ho preso vacanze il 4 luglio, tutto prenotato per Odessa. Ho parlato col chirurgo, col caposala, ho detto: “Sono pronta a pagare”.

Perché noi non abbiamo l’assicurazione per le medicine, come voi. allora sono andata a casa e ho detto a mio figlio: “Allora, quando partiamo? Quando andiamo? An- diamo anche sul Mar Nero, così ti riprendi le forze”. Ma non è stato così, si è preso il raffreddore, poi la bronchite, io ho telefonato al chirurgo che mi ha detto di fare un prelievo di sangue e di mandare i risultati via fax. “No as- solutamente, non si può fare l’intervento in queste condi- zioni. Più tardi, più tardi”. Così hanno rimandato e non si è ancora fatto. E l’operazione costa moltissimo.

Io vedo la mia famiglia una volta all’anno. Ho l’artrosi deformante e un’insufficienza, come si dice... vascolare.

Ho un buchetto anche alla tiroide. Ma nonostante tutto non sono mai stata in ospedale, perché vado a curare gli anziani, non mi vergogno del fatto che sono laureata e ora faccio la badante, perché per insegnare in Italia ci sono gli italiani. Io faccio questo lavoro, che nessuna don- na italiana farebbe, 24 ore su 24 vicino a un vecchio che magari ha l’alzheimer e non può essere mai lasciato solo se no cade o si fa male. Occupandosi dei suoi bisogni.

Facendosi pure trattare male.

E poi mio marito è là, è più giovane di me di quattro anni. Può anche trovarne un’altra, o no?

E il suo secondo figlio?

Il secondo figlio, lui è più robusto. Anche lui si è laureato da poco, in management del turismo.

Come il fratello maggiore.

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Sì. Sono fiera dei miei figli, della mia famiglia. Due lau- reati. Però questo secondo figlio non ha trovato lavoro e non so quando lo troverà. adesso fa il muratore. Non è assunto, magari fa due settimane e poi non c’è più lavoro.

E guadagno non c’è. L’altro mio figlio che è insegnante, sai quanto guadagna al mese? 200 euro. I vestiti costa- no di più in Ucraina che qui e la vita è diventata cara.

E così la mamma fa tutto. Mantengo quattro persone:

me stessa, mio marito che non ha lavoro, i miei due figli.

Sì, uno prende 200 euro, ma se adesso vuole creare una famiglia avrà bisogno della mamma, e io dovrò lavorare ancora magari due anni per aiutarlo. Dovrà trovarsi una casa, perché non possiamo stare due donne in una cu- cina. Negli appartamenti che regala lo stato la cucina è piccola: tre metri per tre metri e mezzo. E come possono starci due donne, io e la mia futura nuora? Ma non pos- so neanche pensare di comprare. a me dispiace tanto di essere venuta tardi in Italia, ma non solo in Italia, potevo andare in Germania o in un altro posto all’estero.

Lei ha detto che è arrivata in Italia nel 2002?

Sì, quando sono partita avevo 2 anni di lavoro alle spalle.

I prezzi salgono così tanto in Ucraina che per compera- re una casetta piccolina, magari venti metri quadri, un monolocale in città, devo ancora lavorare due anni. Non so se ce la faccio, perché ho l’artrosi, ma ringrazio tanto l’Italia che mi ha aiutata.

Io non mi sono mai vergognata e facevo tutti i lavori che trovavo. La prima cosa che ho trovato è stato guardare un nonno, che io non capivo. Lui era invalido io dovevo fa- sciarlo, fare tutto… la figlia stava lì vicino, io non capivo l’italiano, solo “grazie”, “buongiorno”, “arrivederci”…

Lei mi dava il vocabolario e mi diceva: “Prendi il vocabo-

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lario tu che sei professoressa”. E spesso, quando doveva darmi un ordine: “ah tu che sei professoressa!”.

Facevo la tuttofare. Preparavo il pranzo, che doveva es- sere servito alle 11.30. E come si prepara la minestra, io non sapevo… il gorgonzola! Quando ho visto per la prima volta il gorgonzola, che non c’è nella mia città, io mi sono messa a togliere tutta la muffa e il nonno mi dice: “Ma che fai?” e io gli ho risposto: “Magari è andato a male!”.

Come veniva trattata?

La figlia, la mia datrice di lavoro, diceva: “Uh! Sei pro- fessoressa, ma devi tacere, non devi dire la verità!”. Non dovevo dire che ero laureata, mi diceva: “altrimenti ti prendono in giro!”.

Alle 11.30 il pranzo doveva essere pronto e se io avevo preparato cinque minuti prima la figlia diceva: “No, no, 11.30. Lui mangia il primo, e tu devi fare il secondo”.

Perché lui non doveva né mangiare riscaldato né aspetta- re! Tra il primo e il secondo doveva passare un minuto.

Così io lì ho fatto la scuola militare, nel mio primo lavoro.

Poi sono andata via, perché non ne potevo più. Mi insul- tavano, sai. Mi dicevano: “Professoressa, professoressa, professoressa…”.

E dove è andata a finire?

Sono andata in un altro paese da una nonnina. Ho la- vorato lì finché non è morta. Poi sono andata in un altro paese ancora dove mi hanno fatto il permesso di soggior- no. Lavoravo da una nonna di novantaquattro anni, che pesava cento chili e che il primo giorno di lavoro è cadu- ta, ma non bruscamente. Sai, era cicciona, è… atterrata (ride). Io subito sono uscita fuori, ho gridato: “aiuto, aiu- to!”. Ero di fronte a una farmacia, sono usciti un farmaci-

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sta e un dottore che mi hanno chiesto cos’era successo, e io, spaventata, dicevo: “La mia signora è caduta!”. “Non si preoccupi, telefoniamo”. Era il primo giorno, non sa- pevo neanche il numero di telefono… È arrivata la figlia col suo marito, e il genero della signora mi disse: “Non preoccuparti, Nadja, la nostra nonna ha novantaquattro anni, tu ne hai cinquanta, non tentare di sollevarla, non ce la fai. Mettile un cuscino sotto e vai a chiamare qual- cuno, tanto lei si riposa, non muore”.

Si è trovata bene con loro, erano bravi…

Sì.

Quanti assistiti ha avuto, più o meno, in tutti questi anni?

Eh, non ricordo. Ho lavorato in tanto posti, poi sono ar- rivata in questa città. all’inizio sono stata da una nonna che si è lasciata andare, perché non voleva vivere… non vedeva, non sentiva, non voleva più mangiare, ha fatto sciopero della fame e si è spenta così, la poveretta. allora i famigliari di questa donna mi hanno trovato subito un nuovo lavoro. Guardavo la mamma del sindaco! Con la firma del sindaco ho ricevuto la residenza.

Quali sono stati i principali problemi che ha incontrato quando è arrivata in Italia, ne avrà avuti sicuramente…

Certo. Per prima cosa, io non capivo la lingua, poi ave- vo una gran paura, perché non avevo ancora il permes- so di soggiorno. Ero in regola, pagavano già i contributi per me, però non ero in regola, il permesso è arrivato nel 2003, il 30 aprile. Avevo sempre paura, appena vedevo i carabinieri pensavo: “E adesso dove vado? Dove mi na- scondo?”. avevo paura che mi mandassero via dall’Italia.

Perché ha scelto di venire in Italia?

Mia nipote mi ha chiamata qui, mi ha spedito i soldi per

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entrare in Italia. Lei lavorava qui e mi ha scritto una let- tera, mi ha scritto: “Vieni, io ti trovo lavoro”.

Ha altri parenti in Italia?

Ho quattro nipoti qui. Il più grande ha quarantatre anni, la più piccola ne ha trentanove, e il marito di quella più piccola ha quarantaquattro anni ed è medico. In Ucrai- na era medico, ora in Italia fa l’assistente a una persona anziana.

Quindi suo nipote che è laureato in medicina, qui fa… il badante?

Sì, ma ha già tutti i documenti e i certificati pronti a Roma. È molto bravo. Ha tutto a Roma già verificato, ogni foglio di diploma tradotto e presto sarà un medico anche qui. Lui è il mio medico, ma qui la mia dottores- sa, che è molto brava, è del Venezuela e mi capisce in quanto straniera, perché anche lei è straniera, però lei è fortunata a essere dottoressa, mentre io sono sempre badante. adesso però una signora mi ha chiamata e mi ha proposto di aiutare un po’ sua figlia che è stata… non proprio promossa…

Rimandata? Deve fare gli esami a settembre?

Sì. E poi, sai, in biblioteca mi sono avvicinata ad alcu- ni ragazzi del liceo, loro non riuscivano a risolvere un problema di fisica e io ho detto: “Ma questo si fa subito, ma questo non è difficile! Posso aiutare”. “Ma signora, sa qualcosa?”, mi hanno risposto. avevano visto che leg- gevo in russo e avranno pensato: “Questa non capisce niente”. allora io gli ho spiegato e loro: “Ma guarda! Ci si può vedere un’altra volta?”. E io ho risposto “Non so, se potrò trovare il tempo”. Mi serve un pochino di tempo per imparare a dire i termini come “velocità”, “energia”

in italiano, ma le formule sono internazionali, no? E può

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darsi che non sarò sempre badante, può darsi che la vita cambierà anche per me.

Io glielo auguro. Signora Nadja, a lei piace il suo lavoro?

Mi piace quando il datore di lavoro mi rispetta. Ma quan- do mi insultano, io mi arrabbio subito, perché non merito di essere insultata. Io lavoro 24 ore su 24, e non è facile con persone che hanno alzheimer, con persone che ogni cinque minuti ti ripetono le stesse domande: “Che giorno è? Dove siamo? Siamo in ospedale o siamo a casa? Dov’è la mia dentiera?”. E bisogna essere gentili e lavorare e fare pulizie in una casa di 100 metri quadri… La signora con l’alzheimer va controllata, bisogna sempre chiudere il gas e guardare la signora che magari ha problemi in bagno e devi correre dalla cucina al bagno… La prima cosa è: salvare la signora. Certo. Non guardare le pulizie, ma quando tu fai tutto insieme… E alla fine ti dicono che sei come una villeggiante! adesso mi hanno licenziata, potrei non andarci più in ospedale perché sono licenziata dal lavoro.

E perché va lo stesso al lavoro?

Perché ho ancora quindici giorni prima di prendere l’ae- reo. Loro lo sapevano che il 1° agosto io avevo l’aereo!

E allora potevano lasciarmi lavorare fino al 1° agosto!

Ma la gente… la mia signora, signorina è ricca, non ha figli, non ha nessuno. Ci sono persone che semplicemente aspettano quando morirà. Magari la rispettano, ma se io dico: “Guarda come soffre!”, loro dicono: “Eh, non ci possiamo fare niente! Lei ha vissuto i suoi anni!”. Ma come, sono troppi ottantasei anni? Mia mamma è morta di tubercolosi a settantuno anni e io ancora adesso ho il rimorso che non ho potuto guardarla, che ero sposata 120 Km lontano da lei, che lavoravo, avevo due bambini

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e un marito, non potevo andare da lei… Mia mamma è morta senza di me, non aveva nessuna badante, non c’ero io vicino. Lei mi aspettava, aspettava la fine. Quan- do ha visto che io non sarei andata, che è partito l’ultimo pullman, è morta. E adesso mi dispiace tanto che non ho guardato mia mamma! E adesso che faccio la badante vengo anche insultata che non faccio il lavoro? Sono “vil- leggiante” io?

A intervista conclusa mi fa vedere un libretto, il “Vademecum per gli immigrati ucraini in Italia”, dove ci sono tutte le informazioni es- senziali per gli stranieri e dove vengono spiegati i loro diritti. Prima di lasciarci, mi dice che l’ultima volta che ha sentito suo marito era arrabbiato con lei perché a casa c’erano da fare le conserve e c’era il bagno da pulire.

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Dacia Maraini na- sce a Firenze e, dopo un’infanzia particolarmente difficile segna- ta dalla guerra e dalla fame, si tra- sferisce a Roma dove fonda insie- me ad altri gio- vani una rivista letteraria, “Tem- po di letteratura”

e dove comincia a collaborare con riviste quali “Nuovi Argomenti” e il “Mondo”. Nel corso degli anni Sessanta, oltre a pubblicare i suoi primi romanzi, fra i quali ricor- diamo La vacanza (1962) e L’età del malessere (1963), si occupa di teatro fondando, insieme ad altri scrittori, il Teatro del Porcospino che mette in scena soprattutto testi di scrittori italiani, da Parise a Gadda, da Siciliano a Moravia. Segue, nel 1973, la fondazione del Teatro della Maddalena con il quale, cinque anni dopo, mette in scena Dialogo di una prostituta con un suo cliente, tradotto e rappresentato in dodici paesi diversi.

Nel 1972 viene pubblicato il romanzo Memorie di una ladra e nel 1975 esce Donna in guerra, tradotto in sei lin- gue. Del 1984 è Il treno per Helsinki. Nel 1985 segue lso- lina che riceve il premio Fregene. Negli anni ‘90 la scrit- trice pubblica diverse opere: La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), che riceve il premio Supercampiello e il premio per il “Miglior libro dell’anno”, una raccolta di

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poesie dal titolo Viaggiando con passo di volpe (1991), Veronica, meretrice e scrittora (1991), Bagheria (1993), Voci (1994), il saggio Un clandestino a bordo (1996), Dolce per sé (1997), l’antologia di poesie Se amando troppo (1998) e Buio (1999). Quest’ultima opera riceve il Premio Strega.

Nel 2001 esce La nave per Kobe, nello stesso anno Fab- bri pubblica il libro di favole La pecora Dolly. Nel 2003 scrive Piera e gli assassini in collaborazione con Piera degli Esposti. Nel 2004 la scrittrice pubblica il romanzo Colomba. L’ultimo grande romanzo è Il treno dell’ultima notte, uscito nel 2008, una storia ambientata nel 1956, tra Firenze, Vienna, Auschwitz e Budapest mentre scoppia la rivolta contro i sovietici e dove le rovine e gli orrori della guerra sono ancora una realtà quotidiana.

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Postfazione

Le storie siamo noi

Ragioni e obiettivi della campagna di comunicazione “Diritti senza rovesci”

“Diritti senza rovesci” è una campagna di comunicazione sociale promossa da Inail il cui sottotitolo esplicativo recita: “Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni per una cultura etica del lavoro”. Si chiarisce, in questa semplice frase, l’obiettivo generale di una serie di azioni comunicative, di linguaggi, di iniziative messe in campo per contribuire alla creazione di una cultura, condivisa collettivamente, che metta al centro dell’attenzione e della quotidianità dell’esperienza lavorativa la sicurezza sul lavoro e i principi di non discriminazione.

L’idea di “Diritti senza rovesci” nasce in Valle d’aosta, dall’amicizia di due donne, impegnate in due contesti tradizionalmente lontani:

Elvira Goglia, dirigente di Inail e Viviana Rosi, dell’Associazione culturale Solal.

Lo scopo è ambizioso e non si limita a richiamare il rispetto di nor- me fondamentali che salvaguardano la salute psicofisica dei lavora- tori. Per sollecitare la riflessione, per lasciare traccia nelle coscienze e nelle consuetudini, per indurre una maggiore consapevolezza dei diritti fondamentali nei lavoratori e nei datori di lavoro, si ricorre al linguaggio letterario e a quello del teatro di strada. Vengono coinvol- ti attrici e attori di grande bravura, realizzate videoinstallazioni e so- prattutto vengono raccolte storie di disagio lavorativo e di ingiustizia patita dalla viva voce di lavoratori e lavoratrici, con la convinzione che proprio da lì, dalle tante vicende di “malolavoro” che ancora si verificano nel nostro paese, sia necessario partire per costruire una cultura, una mentalità eticamente responsabile.

Nel 200 la campagna di “Diritti senza rovesci” muove i primi passi nella piccola Valle d’aosta, con il sostegno di numerosi attori sociali (Assessorato Attività Produttive e Politiche del Lavoro della Regione Autonoma Valle d’Aosta, Consigliera di Parità, Direzione Regionale del Lavoro, Cgil, Cisl, Uil, Savt, Confindustria Valle d’Aosta, Con- fartigianato, CNa, associazione artigiani Valle d’aosta) e subito si

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avvale dell’adesione convinta al progetto di scrittori e scrittrici (Giu- liana Olivero, Carmen Covito, Andrea Bajani, Viviana Rosi, Gior- gio Falco, Barbara Garlaschelli) impegnati a portare la realtà nella costruzione narrativa. Le storie di vita lavorativa raccolte grazie alla disponibilità e alla voglia di raccontarsi di lavoratori vittime di discri- minazioni, precarietà, mobbing, i referti stilati in occasione di una tra le troppe morti sul lavoro diventano racconti da distribuire per strada, da leggere ad alta voce a passanti apparentemente distratti, da fare ascoltare a centinaia di giovani accorsi a visitare il percor- so multimediale allestito a Torino negli spazi, che ancora trasudano memoria industriale, dell’associazione Libera di don Ciotti. è for- te la convinzione – espressa con passione militante da Lella Costa, in occasione della presentazione della campagna (aosta, 2 luglio 200) – che il grande valore delle storie di vita vissuta stia nel fatto che parlano “alla pancia” di chi le sta a sentire, che la letteratura, quando coglie il valore e il senso dell’esperienza umana, diventa uno strumento straordinario per smuovere le coscienze e convincere del- la necessità di un cambiamento per costruire una società che sia più equa e migliore per tutti.

Con un simile presupposto, proseguire nel lavoro avviato nel 200 è stato inevitabile.

Nel 200 vedono la luce altre sei narrazioni, altre sei storie “vere”

che raccontano la tragedia della Thyssen Krupp, divenuta simbo- lo dell’inaccettabilità delle morti sul lavoro; le vite precarie che mi- nacciano il futuro delle nuove generazioni; le discriminazioni che colpiscono anche chi occupa posti dirigenziali quando la malattia irrompe nel quotidiano; la vita spesso aspra e solitaria delle donne straniere che vivono nelle nostre case, che accudiscono i nostri an- ziani; l’isolamento e l’incomprensione che circondano i lavoratori diversamente abili; la fine prossima ventura del lavoro autonomo qualora non si sappia dare valore alla laboriosità di chi ancora crede al “saper fare” con la testa e con le mani.

altri scrittori e scrittrici (Dacia Maraini, Tullio avoledo, Michela Murgia, Grazia Verasani, Matteo B. Bianchi, antonio Pascale) met- tono a disposizione la loro penna, il loro talento, la loro sensibilità per commentare le testimonianze e trasformarle in storie, riflessioni,

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puntuali descrizioni di contesti lavorativi “difficili”. Come nel 2007, quando la vicenda di un giovane precario è diventata una graphic novel illustrata da alessandro Viale, per parlare ai ragazzi e alle ra- gazze con un linguaggio più vicino a loro, così in questa nuova serie di pubblicazioni le peripezie lavorative di una tra le tante lavoratrici ventenni a tempo determinato sono raccontate anche attraverso le belle illustrazioni di un disegnatore, Luca Galvani, coetaneo della protagonista della storia.

ai giovani, del resto, guarda con particolare attenzione il progetto di

“Diritti senza rovesci” perché la cultura della sicurezza e della non discriminazione – lo sa bene Inail che da anni si occupa di questo – si costruisce, si diffonde, si innerva nel tessuto economico del nostro paese anche e soprattutto attraverso le nuove generazioni di lavora- tori, anche grazie ad una rinnovata concezione del lavoro che può venire a mano a mano coltivata e sostenuta a partire dai banchi di scuola e dalle aule dell’università.

In senso più generale, avvicinare il mondo della cultura a quello del lavoro, affiancare i linguaggi, quello delle cifre, che spietatamente dichiarano quanti infortuni, quante malattie professionali colpisco- no i lavoratori italiani, e quello del cinema, del teatro, della musica, della letteratura è ciò che da anni Inail sta facendo ad un unico sco- po: «Uscire dal luogo comune, autoassolvente, che gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali siano un problema fuori di noi: un problema degli “altri”, dei datori di lavoro e dei lavoratori. Come se ciascuno di noi non appartenesse a una delle due categorie (o quan- tomeno aspirasse ad appartenervi) e quindi non fosse inevitabilmen- te parte del problema. E soprattutto, vogliamo sperarlo, parte della soluzione» (Marco Stancati, Direttore Centrale Comunicazione di Inail e docente di Comunicazione – Facoltà di Scienze della Comu- nicazione dell’Università La Sapienza di Roma).

Un obiettivo questo che la campagna di comunicazione “Diritti sen- za rovesci” condivide e fa proprio, grazie all’impegno civile di artisti e di semplici cittadini che leggono e sanno che ciascuna delle storie che andiamo raccogliendo riguarda ciascuno di noi e il nostro modo di vivere e pensare il lavoro in quanto parte rilevante della nostra vicenda esistenziale.

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I titoli della collana 2007

1. MOBBING - Giuliana Olivero, Sottigliezze

2. DISCRIMINAZIONE - Carmen Covito, Tempo parziale 3. MORTIBIANCHE - Andrea Bajani, Tanto si doveva 4. PRECARIATO - Viviana Rosi e Alessandro Viale, Vogliono te. Storia di un ragazzo interinale 5. IMMIGRAZIONE - Giorgio Falco,

Liberazione di una superfi cie 6. DISABILITÀ - Barbara Garlaschelli,

Luce nella battaglia. La storia di Matilde

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I titoli della collana 2008

7. LAVOROAUTONOMO - Tullio Avoledo,

Il pesce grande mangia il pesce piccolo

8. IMMIGRAZIONE - Dacia Maraini presenta Nadja 9. DISCRIMINAZIONE - Michela Murgia, Alla pari 10. PRECARIATO - Grazia Verasani, Agata Illustrazioni di Luca Galvani

11. DISABILITÀ - Matteo B. Bianchi, Pietro in diretta 12. MORTIBIANCHE - Antonio Pascale,

Trasformare il trauma in dolore

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Dacia Maraini

Presenta NaDja

© 200 Dacia Maraini Tutti i diritti riservati

Grafica e impaginazione di Francesca Schiavon

ideato dall’associazione Solal-progetti culturali.

Diritti di pubblicazione e d’uso per tre anni

INAIL - DIREZIONE CENTRALE COMUNICAZIONE

Piazzale Giulio Pastore, 6 - 00144 Roma dccomunicazione@inail.it

www.inail.it

Pubblicazione non destinata alla vendita

“Diritti senza rovesci” è un progetto INAIL Stampa: Tipolitografi a INAIL - Milano - gennaio 2009

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