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QUALITÀ DELLA CONSULENZA MEDICO LEGALE E “RESPONSABILITÀ” DEL CONSULENTE

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QUALITÀ DELLA CONSULENZA MEDICO LEGALE E “RESPONSABILITÀ” DEL CONSULENTE

Dr. Marco Rossetti*

Sommario: 1 - Premessa - 2 Lo standard qualitativo minimo della consulenza medico legale - 3. Execrandae pernicies: di alcuni errori ricorrenti - 3.1 - I documenti - 3.2 L’aderenza ai quesiti - 3.3 L’uso delle linee-guida - 3.4 Il ricorso al concetto di “complicanza” - 4 Qualità della consulenza e

“responsabilità” nei confronti del giudice - 5 Qualità della consulenza e

“responsabilità” del c.t.p. nei confronti del proprio cliente - 6 Qualità della consulenza e “responsabilità” del c.t.u. nei confronti delle parti.

1. Premessa

I temi legati all’attività del consulente tecnico medico legale risultano ampiamente trattati in numerosissimi scritti, contenuti vuoi in riviste specializzate, vuoi in trattati o monografie. La bibliografia è ormai molto vasta sia sugli aspetti processuali della consulenza, sia su quelli prettamente medico legali, al punto che il problema dell’interprete è diventato non tanto quello di conoscere gli orientamenti della dottrina, ma piuttosto quello di sceverare da una sì gran mole il materiale davvero utile.

Nondimeno, ad onta di questa rilevante produzione scientifica, mi pare che sia rimasto sinora piuttosto in ombra un tema centrale nello svolgimento dell’attività di consulenza (sia d’ufficio che di parte): il tema della “qualità” del prodotto finale che si domanda al medico legale, e cioè la relazione di consulenza.

Questo tema involge due aspetti, diversi ma connessi.

* Magistrato, Tribunale di Roma

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Da un lato, occuparsi della “qualità” della relazione vuol dire stabilire quando una relazione di consulenza possa dirsi ben fatta: e ciò non soltanto con riferimento ad astratti canoni di scientificità, ma anche con riferimento a ciò che da un lato le parti, e dall’altro il giudice, si attendono di trovare nella consulenza stessa. Sotto questo profilo, dunque, “qualità” della conseguenza vuol dire non soltanto condivisibilità del suo contenuto, ma anche utilità di esso rispetto ai fini ed alle aspettative dei fruitori finali di questo “prodotto”.

Dall’altro lato, il tema della “qualità” della consulenza involge i problemi scaturenti dal difetto di tale requisito: e quindi stabilire se, come ed in che misura un deficit di qualità possa tradursi in una “responsabilità” del consulente.

Qui, così come nel titolo del presente scritto, si è usato il lemma

“responsabilità” tra virgolette perché esso è stato usato in senso atecnico e più ampio del normale. Etimologicamente, infatti, “responsabilità” (dal latino re- spondere, cioè garantire l’adempimento di un obbligazione, propria od altrui) indica l’assunzione di una posizione di garanzia, in conseguenza della quale si possa essere esposti a conseguenze sfavorevoli ove la suddetta garanzia non sia prestata.

Dunque parlando di “responsabilità” del consulente per un deficit di qualità della relazione si è inteso fare riferimento non soltanto alle conseguenze civili (od, eventualmente, penali) della condotta, ma anche a quelle conseguenze comunque sfavorevoli, ma che a rigore non rientrano nel concetto giuridico di

“responsabilità” civile o penale: ad esempio, la perdita della fiducia del giudice che ha conferito l’incarico, la riduzione del compenso, ovvero la sottoposizione a procedimento disciplinare da parte del comitato di cui all’art. *** disp. att.

c.p.c..

2. Lo standard qualitativo minimo della consulenza medico legale Qualsiasi relazione medico legale non può ritenersi utile né per il giudice, né per le parti, se non soddisfa alcuni requisiti minimi: completezza,

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esaustività, terzietà, rigore metodologico nelle indagini, consequenzialità logica dell’argomentare.

Ma poiché di ciò ho già detto altrove, il benevolo lettore non se ne avrà a male se in questa sede mi limito a richiamare solo alcuni concetti generali, rinviando per il resto a quello scritto1.

La relazione di consulenza deve, in primo luogo, essere completa ed esaustiva: ciò vuol dire che deve evitare tanto il silenzio (e cioè sottacere circostanze rilevanti, non prendere in esame prove ritualmente acquisite in giudizio, non effettuare indagini necessarie); quanto il rumore (e cioè affrontare indagini inutili ai fini del decidere, disquisire di questioni prettamente giuridiche, trascrivere le conclusioni o le argomentazioni delle parti).

Così, ad esempio, è “silenziosa” la relazione di consulenza la quale, in un caso di responsabilità professionale per inadeguato trattamento di un addome acuto, indichi al giudice quale fossero le guidelines per la gestione di tale emergenza al momento della relazione, ma taccia sul contenuto delle linee- guida più diffuse al momento del fatto.

Allo stesso modo, può ritenersi “rumorosa” la relazione di consulenza la quale, in un caso di responsabilità professionale per omesso tempestivo accertamento delle malformazioni di un feto (c.d. danno da nascita indesiderata) si dilunghi a riferire che al momento della visita la madre “ha pupille isocoriche ed isocicliche”, ovvero è in “buone condizioni di nutrizione e sanguificazione”.

“Rumorosa” è anche la relazione di consulenza la quale, in un caso di responsabilità professionale per intempestiva diagnosi di un tumore, dedichi varie pagine a ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, e si spinga ad affermare quale sia l’onere probatorio che l’attore deve assolvere, in cosa consista la “colpa grave” e se essa sussista nel caso di specie (tutti gli esempi che precedono sono tratti dalla concreta esperienza giudiziaria di chi

1 Rossetti, Il C.T.U. - “L’occhiale del giudice”, Milano, 2004, passim.

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scrive).

Il terzo requisito della relazione deve essere la terzietà: con il che si designa non solo l’equidistanza del c.t.u. dalle parti e dalle loro pretese, ma anche il rispetto delle regole del contraddittorio e della convenienza.

Sotto il primo profilo (contraddittorio) viene in rilievo il rispetto della regola generale secondo cui nessuna attività processuale, salvi i casi previsti dalla legge, può essere compiuta senza consentire alle parti di controllarla ed interloquire. Così, è sicuramente irrispettosa di tale regola la relazione la quale si fondi su documenti acquisiti dal c.t.u. unilateralmente da una delle parti, al di fuori delle operazioni di consulenza (su tale questione si tornerà più ampiamente in seguito); ovvero l’esecuzione di un esame specialistico in corpore senza che ai consulenti di parte sia data notizia del luogo e della data di svolgimento.

Sotto il secondo profilo (convenienza) viene in rilievo il rispetto dell’apparenza: non già perché questa sia più importante della forma, ma perché il c.t.u., così come il giudice, oltre che essere imparziale deve anche apparirlo. Così, viene meno a tale regola il consulente il quale, in un giudizio di responsabilità professionale, taccia al giudice ed alle parti di svolgere la propria attività professionale nello stesso studio (ovvero nello stesso nosocomio) dove lavora il medico convenuto, ovvero vi lavorava all’epoca dei fatti. Ricordo il caso di un consulente d’ufficio che ritenne di sottacere al giudice di essere il locatore dello studio dove il convenuto in un giudizio di responsabilità, anch’egli medico, esercitava l’attività professionale: anche questa è una ipotesi di mancato rispetto delle regole di convenienza.

La relazione di qualità deve poi fondarsi su una indagine condotta con metodo rigoroso, e su una motivazione logicamente condivisibile.

La rigorosità del metodo d’indagine sussiste allorché siano rispettati i precetti della scienza medico legale: ad esempio, per quanto attiene all’interpretazione della semiologia, ovvero al rispetto dei criteri medico legali di accertamento del nesso di causalità.

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La rigorosità della motivazione, infine, consiste nel rispetto delle leggi della logica e della tecnica argomentativa, e viene meno per gli stessi vizi di motivazione tipici delle sentenze: motivazione apparente, mancante, entimemi o falsi sillogismi, paralogismi. Alcuni esempi di vizi motivazionali tipici della relazione di consulenza medico legale sono:

- l’entimema o falso sillogismo, il quale sussiste allorché non vi sia consequenzialità logica tra premessa maggiore e premessa minore (ad es., affermare che le guidelines impongano dinanzi ad un certo quadro sintomatico l’adozione di una certa terapia; che nel caso di specie questa non è stata adottata; che tuttavia la condotta del medico è stata conforme alle leges artis;

ricordo il caso, a questo riguardo, del c.t.u. il quale, chiamato ad esprimere una parere di conformità della condotta di un medico rispetto alle leges artis, l’aveva ritenuta del tutto corretta, ancorché difforme dalle principali guidelines, sul presupposto che al momento del fatto “tutti [i medici] facevano così”);

- il paralogismo, il quale ricorre allorché sia falsa una delle premesse (ad esempio, affermare che la tonsillectomia non sia un intervento rutinario;

ovvero - caso anche questo realmente accaduto - affermare che l’esame TAC non è prescritto dalle guidelines per la diagnosi del tumore al polmone).

3. Execrandae pernicies: di alcuni errori ricorrenti

Detto brevemente dei requisiti essenziali della relazione di consulenza medico legale, desidero a questo punto soffermarmi su quattro tipologie di errori che ricorrono con frequenza maggiore degli altri, e che abbattono non di poco la qualità (e, in qualche caso, la stessa validità) della consulenza.

Questi errori sono:

(a) l’acquisizione impropria di documenti;

(b) la formulazione di risposte non aderenti ai quesiti;

(c) l’uso delle linee-guida;

(d) il ricorso al concetto di “complicanza”.

Esaminiamoli partitamente.

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3.1. I documenti

Accade non di rado che il c.t.u., al momento dell’inizio delle operazioni peritali o durante lo svolgimento di esse, acquisisca dalle parti documenti di vario tipo, che in precedenza non erano mai stati ritualmente prodotti in giudizio (e cioè entro il termine di cui all’art. 184 c.p.c.).

Questa prassi è scorretta sia da un punto di vista formale, sia da uno sostanziale. Formalmente, tale prassi è scorretta perché:

(a) l'art. 87 disp. att. c.p.c. non prevede la possibilità di depositare documenti durante lo svolgimento delle indagini peritali;

(b) l'art. 194 c.p.c. consente al c.t.u., ove autorizzato dal giudice, di richiedere alle parti chiarimenti, non di raccogliere da esse prove documentali;

(c) là dove la legge ha inteso concedere al c.t.u. la possibilità di esaminare documenti non regolarmente prodotti in giudizio, l’ha prevista espressamente, come nell’art. 198 c.p.c..

Dal punto di vista sostanziale, tale prassi è inoltre scorretta perché impedisce la possibilità di un effettivo contraddittorio sul documento consegnato al c.t.u..

Su tale questione la Corte di cassazione, con orientamento costante, ha sempre affermato che il c.t.u. non può esaminare documenti non ritualmente prodotti in giudizio, e che, se il c.t.u. esamina documenti irritualmente prodotti, e le sue conclusioni vengono recepite dal giudice, la sentenza deve ritenersi viziata nella motivazione (Cass., 2 sez., 26 ottobre 1995 n. 11133).

In passato, peraltro, la S.C. aveva finito per svilire la portata di tale precetto, ammettendo che il divieto di prendere in esame documenti irritualmente prodotti venisse meno, se vi era il consenso di tutte le parti e l’autorizzazione del giudice, ed aggiungendo che comunque la nullità derivante dall’utilizzo di documenti irritualmente prodotti rimaneva sanata, se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione (Cass., 2 sez., 19 agosto 2002 n. 12231; Cass., sez. lav., 14 agosto 1999, n.

8659; Cass., 2 sez., 26 ottobre 1995 n. 11133).

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Questo orientamento, tuttavia, oggi non è più condivisibile, per un semplice motivo: esso si è formato con riferimento a procedimenti celebrati anteriormente alla novella di cui alla l. 26.11.1990 n. 353, la quale ha introdotto nel procedimento civile le preclusioni istruttorie di cui all’art. 184 c.p.c.. Prima della riforma, infatti, le parti non avevano limiti temporali alla produzione di prove documentali, che poteva avvenire sino all’udienza di precisazione delle conclusioni. In un sistema simile, pertanto, è ben concepibile che l’irrituale produzione documentale resti sanata dall’acquiescenza delle parti.

La situazione è ben diversa nel “nuovo” rito civile, nel quale è previsto un rigido sbarramento per le deduzioni istruttorie, superato il quale non è più possibile alcuna produzione documentale (art. 184 c.p.c.). E poiché i termini per la produzione dei mezzi di prova, previsti dal citato art. 184 c.p.c., sono espressamente qualificati perentori dal comma 2 dell’art. 184 c.p.c., ne discende che:

(a) la violazione di essi è rilevabile d’ufficio;

(b) la violazione di essi non può essere sanata dall’acquiescenza delle parti.

Pertanto, nel nuovo rito civile, una volta maturata la preclusione di cui all’art. 184 c.p.c., qualsiasi produzione documentale (ivi comprese quella destinata al c.t.u.) è irrituale, e l’irritualità va rilevata d’ufficio (in tal senso, da ultimo, si veda l’importante decisione resa da Cass. sez. un. 8203/05).

Diversamente, e cioè ammettendo la possibilità per le parti di fornire al c.t.u.

documenti che si sarebbe dovuto produrre nel termine ex art. 184 c.p.c., si perverrebbe di fatto ad un aggiramento, peggio, ad una interpretatio abrogans di tale ultima norma (così Trib. Roma 28 ottobre 2002, Maggi c. Vendetti, inedita; Trib. Roma 13 ottobre 2002, Esposito c. Baldanza, inedita).Ed infatti, se si aderisse all’opinione qui contestata, la parte la quale ha omesso di produrre un determinato documento nel termine ex art. 184 c.p.c., potrebbe

“sanare” la preclusione già maturata in suo danno consegnando il medesimo documento al c.t.u.: con il che è evidente che il sistema delle preclusioni perde

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sostanzialmente di valore e significato. Aggiungasi che tale possibilità, se ammessa, potrebbe porgere il destro a pratiche poco rispettose del canone di lealtà do cui all’art. 88 c.p.c.: così, ad esempio, la parte potrebbe deliberatamente decidere (fidando nella imminente nomina del c.t.u.) di non depositare alcun documento nel termine ex art. 184 c.p.c., e di compiere tutte le produzioni documentali nel corso delle operazioni peritali, al fine di rendere più difficoltosa la difesa della controparte.

Può verificarsi, poi, il caso opposto: e cioè che una delle parti sia in possesso di documenti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte, e perciò non li produca in giudizio. In questa ipotesi, per le ragioni già esposte, la parte che ha interesse alla produzione non può pretendere che il consulente richieda tale documentazione alla parte renitente, ma deve instare al giudice ex art.

210 c.p.c. perché ne ordini l'esibizione (così Cass. civ., sez. Lavoro, 20 marzo 1980, n. 1890).

3.2. L’aderenza ai quesiti

Accade talora che il consulente, pur avendo ricevuto un quesito articolato, scriva la relazione seguendo un “suo” filo logico, e fornisca risposte a domande che mai nessuno gli ha rivolto.

Ricordo il caso di un consulente al quale, in un giudizio di responsabilità professionale era stato chiesto di: (a) dire quali fossero le guidelines condivise per l’esecuzione di un certo intervento; (b) dire quale fosse stata in concreto la tecnica di esecuzione dello stesso; (c) dire se, nel caso di scostamento tra guidelines e tecnica esecutiva, questo fosse giustificato da particolari condizioni del paziente od altre circostanze peculiari. Il consulente, in luogo di rispondere puntualmente a tali quesiti, preparò una relazione in forma “narrativa”, nella quale, dopo avere ripercorso con dovizia di particolari tutta la storia clinica del paziente, concludeva esaminando e risolvendo il problema della “colpa” del medico convenuto. Risposta, quest’ultima, non solo non richiesta, ma anche inammissibile, posto che la nozione di “colpa” è squisitamente giuridica, e nei

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casi di responsabilità medica tutto quel che può essere domandato al c.t.u. è se la condotta del convenuto sia stata o meno conforme alle leges artis, restando rimesso al giudice stabilire se eventuali scollature tra la regola astratta di condotta ed il comportamento concretamente tenuto integrino o meno gli estremi della colpa.

E’ dunque assai importante che vi sia corrispondenza perfetta tra il quesito posto dal giudice da un lato, e la scansione della motivazione e delle risposte fornite dal c.t.u., dall’altro.

Può accadere, talora, che il distacco tra i quesiti posti dal giudice e le risposte date dal c.t.u. siano dovuti ad una imperfetta redazione dei quesiti, i quali possono non avere “centrato” il vero punctum pruriens del contendere. In questo caso però è miglior consiglio per il consulente illustrare al giudice i motivi per i quali ritiene non calibrati i quesiti, ed eventualmente invitarlo a modificarli, piuttosto che decidere unilateralmente di sostituirli con altri, relativi a quel che il consulente ha ritenuto essere il vero nodo del contendere.

3.3. L’uso delle linee-guida

La medicina non è una scienza esatta (anzi, alcuni epistemologi la definiscono “arte”, più che scienza). Dunque non esistono regole certe per l’esecuzione di diagnosi e trattamenti terapeutici, ma solo linee-guida (guidelines), generalmente condivise dalle società scientifiche. L’uso delle linee guida può costituire un ausilio prezioso per stabilire se, nel caso concreto, la condotta del medico convenuto in giudizio sia stata o meno conforme alle leges artis. Beninteso, non ogni scostamento dai precetti delle linee-guida costituisce per ciò solo una condotta colposa, giacché varie e multiformi possono essere le circostanze concrete che, nei singoli casi, consigliano od impongono di disattendere le suddette guidelines. Queste ultime restano tuttavia un utile parametro di riferimento almeno per l’inquadramento del caso sotto il profilo delle condotte esigibili.

Dunque il medico legale, in tutti i casi in cui è chiamato ad esprimere un

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giudizio sulla correttezza scientifica dell’operato del medico convenuto in un giudizio di responsabilità professionale, dovrebbe innanzitutto comparare i fatti per come accertati in giudizio, con le linee-guida più autorevoli e condivise nello specifico settore.

Ciò però non è ancora sufficiente per stilare una consulenza di “qualità”. La valutazione della correttezza scientifica dell’operato del medico implica necessariamente un giudizio, e non un mero accertamento in fatto, da parte del c.t.u.. Quest’ultimo, detto altrimenti, è chiamato a comparare una condotta concreta con una regola astratta di condotta, che convenzionalmente si ravvisa nelle linee-guida.

Si tratta di una prestazione da c.t.u. “deducente” (sulla distinzione tra c.t.u.

“deducente” e “percipiente” sia consentito il rinvio a Rossetti, Il c.t.u., Milano, 2004, ***), e quindi caratterizzata dal fatto che l’iter logico seguito dall’ausiliario del giudice deve essere reso ostensibile a quest’ultimo: deve, cioè, poter essere ripercorso, affinché il giudice possa verificarne la correttezza logica e scientifica.

Ciò comporta, a mio modo di vedere, che nei giudizi di responsabilità professionale il c.t.u. non può limitarsi ad indicare quale a suo avviso sarebbe dovuta essere la condotta del medico, ma deve dimostrare da quali fonti bibliografiche sia suffragata tale convinzione, allegandone copia alla relazione, od almeno citandole nella bibliografia. Diversamente, non si vede davvero come possa il giudice verificare la correttezza dell’operato del c.t.u., e svolgere il proprio ruolo di peritus peritorum, se non viene posto in condizioni di comparare le conclusioni del c.t.u. con quelle della letteratura specializzata. E questo aspetto è molto delicato: se, infatti, il giudice cessa di esercitare il dovuto vaglio critico sull’operato del c.t.u., il centro decisionale della controversia si trasferisce dal magistrato all’ausiliario, il che porrebbe seri problemi - a tacer d’altro - sul piano del rispetto del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge.

Dunque, così come il giudice ha l’obbligo di indicare nella motivazione della

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sentenza le fonti di prova ritualmente acquisite sulle quali ha fondato il proprio convincimento, allo stesso modo il c.t.u. deve indicare nella relazione i fatti e le opinioni scientifiche di conforto alle proprie conclusioni.

Ove ciò non accada, la relazione di consulenza dovrà ritenersi sostanzialmente immotivata e non condivisibile, specie là dove le parti producano letteratura specializzata dalla quale risulti l’inesattezza delle conclusioni dell’ausiliario.

La citazione e l’allegazione delle guidelines da parte del c.t.u., inoltre, deve essere completa ed esaustiva: nel caso di contrasti scientifici, il c.t.u. deve indicare a quale opinione abbia aderito e perché. Il non farlo, ovvero trascegliere una delle varie tesi, senza dare conto delle altre, costituisce una grave mancanza, destinata fatalmente a minare il rapporto di fiducia col giudice.

Ricordo, a questo riguardo, il caso di un paziente che aveva convenuto in giudizio un medico, al quale ascriveva di avere, in seguito all’insorgenza di una complicanza intraoperatoria, deciso di ampliare in modo gravemente demolitore l’originario intervento.

Il consulente, chiamato ad esprimere un giudizio sulla correttezza scientifica di tale scelta, l’aveva ritenuta corretta, richiamando a sostegno di tale conclusione il passo di un certo trattato, nel quale si diceva pressappoco:

“dinanzi alla complicanza “X”, l’intervento demolitore “Y” è largamente praticato in molti Paesi”.

Senonché, recuperato quel testo, mi avvidi che il c.t.u. l’aveva completamento stravolto, estrapolandone ad arte un brano che letto nella sua integrità diceva ben altro. Vi si leggeva, infatti: “dinanzi alla complicanza “X”, l’intervento demolitore “Y” è largamente praticato in molti Paesi. Tuttavia l’OMS sconsiglia tale scelta, in quanto essa è risultata dannosa e superflua ecc.”. Ovviamente, dopo avere segnalato l’accaduto all’Ufficio Consulenti Tecnici per l’avvio del procedimento disciplinare, da allora in poi mi guardai bene dall’affidare ulteriori incarichi a quel consulente.

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3.4. Il ricorso al concetto di “complicanza”

Col lemma “complicanza”, la medicina legale designa solitamente un evento dannoso, insorto nel corso dell’iter terapeutico, che pur essendo astrattamente prevedibile, non sarebbe evitabile.

Questa nozione compare non di rado nelle relazioni di consulenza, specie in tema di responsabilità professionale. Mi è capitato sovente di leggere, ad esempio, affermazioni secondo cui “pur non essendosi il medico attenuto alle leges artis, il danno patito dal paziente può ritenersi una ordinaria complicanza di questo tipo di intervento, documentata nel xx% dei casi”.

E’ mia opinione che affermazioni di questo tipo non giovino alla chiarezza e, di conseguenza, alla “qualità” della relazione di consulenza in tema di responsabilità professionale. Anzi, per scrivere relazioni di qualità sarebbe quanto mai opportuno ripudiare il concetto stesso di “complicanza”, in quanto inutile.

L’accertamento della responsabilità professionale del medico esige:

(a) un valido nesso causale tra la condotta e l’evento;

(b) la sussistenza della colpa.

Mentre, però, il primo deve essere provato dall’attore, la colpa del medico si presume ex art. 1218 c.c.. Sarà dunque il medico, se vuole andare esente da responsabilità, a dovere provare di essersi comportato con diligenza.

Quasi mai è chiaro se il c.t.u., nell’invocare la sussistenza di una

“complicanza”, intenda escludere la sussistenza del nesso causale, ovvero quella della colpa. In ambedue i casi, però, la nozione di “complicanza” appare fuorviante.

Se con tale lemma, infatti, si volesse designare un fattore causale autonomo, di per sé idoneo a produrre l’evento, non c’è bisogno di creare categorie concettuali ad hoc: le cause di per sé sufficienti a produrre l’evento dannoso escludono infatti la responsabilità, ai sensi dell’art. 41 c.p. (applicabile anche in materia di responsabilità aquiliana). Dunque più che di “complicanza”, dovrebbe parlarsi in questo caso puramente e semplicemente di insussistenza

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d’un valido nesso causale tra l’azione (o l’omissione) e l’evento di danno.

Se, invece, con l’espressione “complicanza” si intende designare un fattore di esclusione della colpa del medico (caso fortuito), v’è da rilevare che tale concetto riuscirebbe per un verso inutile, e per altro verso controproducente per lo stesso medico.

Sarebbe inutile, perché non compete al c.t.u. fornire giudizi di matrice giuridica sulla sussistenza o meno della colpa, il cui accertamento e la cui valutazione in termini di gravità sono riservati al giudice.

Per spiegare per quali ragioni la nozione di complicanza, sotto il profilo dell’accertamento della colpa, potrebbe essere controproducente, occorre ricordare alcune nozioni elementari in tema di colpa.

La legge, allo scopo di proteggere particolare categorie di danneggiati- creditori, prevede talora delle ipotesi di responsabilità oggettiva (ne è un esempio l’art. 2051 c.c., in tema di responsabilità del custode); talaltra delle ipotesi di responsabilità presunta.

Nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, al debitore per liberarsi non basta dimostrare di essere stato diligente, ma deve fornire la prova positiva del fatto o dell’atto, a sé estraneo, che ha rappresentato la causa diretta del danno.

Nelle ipotesi di colpa presunta, invece, al debitore per liberarsi basta dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, a nulla rilevando che restino ignote le reali cause dell’evento di danno.

Quella prevista dall’art. 1218 c.c. è una ipotesi di responsabilità presunta, non una ipotesi di responsabilità oggettiva. Di conseguenza, il medico al quale si ascrive una condotta colposa, per liberarsi dalla presunzione di colpa, non è tenuto a fornire la prova concreta della causa reale del danno, ma è sufficiente che dimostri di essersi comportato in modo diligente e conforme alle leges artis. E’, pertanto, del tutto inutile dal punto di visto giuridico stabilire quale sia stata la causa concreta della lesione o dell’evento letale che ha colpito il paziente, in quanto delle due l’una: o il medico non riesce a superare la presunzione di cui all’art. 1218 c.c., ed allora risponderà del danno; ovvero

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riesce a dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, ed allora il processo finirà qui, e sarà inutile preoccuparsi di stabilire se il danno sia stato causato da un caso fortuito, dal fatto del terzo, da forza maggiore o da una

“complicanza”.

Oltre che per questi motivi per così dire “dogmatici”, la nozione di complicanza mi appare fuorviante anche su un più generale piano di politica del diritto.

Per come viene usata da alcuni c.t.u. nelle loro relazioni, la nozione in esame sembra recare con sé una specie di stigma dell’ineluttabilità, quasi a sostenere che un certo evento, poiché si verifica - poniamo - nel 30% dei casi osservati, è normale che si verifichi e non può essere ascritto a colpa di nessuno.

Così ragionando, tuttavia, la nozione di complicanza si presta ad essere utilizzata per costituire zone franche di irresponsabilità. Si consideri infatti che nel momento in cui alcuni eventi oggettivamente dannosi vengono considerati in una certa misura non eliminabili, si finirebbe per ascrivere tali eventi alla sfera del fortuito, con conseguente liberazione del convenuto da qualsiasi onere della prova. Basterebbe, al medico convenuto, dimostrare che l’evento patito dall’attore rientra tra quelli segnalati dalla statistica clinica come conseguenze “possibili” dell’intervento.

Inoltre, così ragionando, si finirebbe per escludere la responsabilità del medico anche in tutti i casi in cui la c.d. “complicanza” tale non sia, e rappresenti invece la conseguenza diretta del maltalento del sanitario. Si pensi, ad esempio, ai danni da infezioni nosocomiali: si sostiene da illustri clinici che queste sono in qualche misura ineliminabili, giacché è impossibile impedire agli esseri umani di spargere agenti potenzialmente patogeni al proprio passaggio.

Ebbene, se davvero si arrivasse ad affermare come ineluttabile il fatto che in una certa percentuale (poniamo, il 5%) di ricoveri il paziente subisca una infezione nosocomiale, questo tipo di danno diverrebbe sempre irrisarcibile, giacché nella maggior parte dei casi sarebbe processualmente impossibile

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stabilire se la singola ipotesi all’esame del giudice rientri o meno - per così dire - nel 5% di infezioni “normali”, e quindi si collochi tra quelle ineluttabili o tra quelle prevenibili.

Possiamo perciò concludere nel senso che la “complicanza” è una quinta ruota del carro. La colpa del medico c’è oppure no, ed in quest’ultimo caso la domanda verrà rigettata per assenza di colpa, e non perché - pur sussistendo la colpa - l’evento costituisce una “complicanza”.

4. Qualità della consulenza e “responsabilità” nei confronti del giudice

La redazione di una consulenza tecnica inferiore ad un buono standard qualitativo espone il c.t.u. a conseguenze pregiudizievoli di vario tipo.

E’ intuitivo ed evidente che lo espone, in primo luogo, alla decomposizione della fiducia in lui riposta dal giudice che l’ha incaricato. Questa non è ovviamente una forma di “responsabilità” in senso tecnico, ma comunque è un fatto che riverbera effetti negativi sull’attività del consulente, e sul futuro della sua collaborazione con gli organi giudiziari.

Occorre, poi, domandarsi, se la relazione di scarsa qualità possa considerarsi un illecito disciplinare, che esponga il c.t.u. alle sanzioni di cui all’art. *** disp. att. c.p.c..

Mi pare che a tale quesito debba darsi risposta positiva.

L’art. 15 disp. att. c.p.c. stabilisce, quali requisiti per l’accesso all’albo dei c.t.u., due soli requisiti: la “speciale competenza” e la “condotta morale specchiata”. E non può esservi dubbio che tali requisiti debbano essere posseduti non solo al momento di ammissione nell’albo dei c.t.u., ma anche durante tutta la permanenza in esso. Ed infatti non si è mai messo in dubbio che la sopravvenuta commissione di reati, ovvero comunque la tenuta di condotte non “specchiate”, costituiscono giusta causa di rimozione dall’albo.

Se ciò è esatto, ne discende che il c.t.u. ha un vero e proprio obbligo di

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possedere, conservare ed aggiornare la “speciale competenza” richiesta dalla legge per l’iscrizione all’albo. Pertanto, là dove il c.t.u. dia al giudice risposte qualitativamente scadenti, egli viene meno a tale obbligo, e ciò costituisce un illecito disciplinare: tanto nel caso in cui il c.t.u. si sia rivelato incompetente ab origine, quanto nell’ipotesi in cui, pur essendo competente, abbia nel singolo caso fornito un “prodotto” inferiore alla media.

Pertanto è mia opinione che la scarsa capacità dimostrata nella redazione della consulenza (vuoi perché tale capacità il consulente non l’abbia affatto, vuoi perché non l’abbia applicata) costituisca un illecito disciplinare, sanzionabile con le misure di cui all’art. *** disp. att. c.p.c. (e quindi con l’avvertimento nei casi meno gravi, e con la sospensione o la radiazione in quelli più gravi).

V’è poi da chiedersi se le suddette misure possano essere applicate nel caso in cui un medico legale, iscritto all’albo dei consulenti d’ufficio, nel prestare la propria opera come consulente di parte abbia fornito pareri manifestamente erronei.

L’ipotesi non è infrequente, e la sua manifestazione più tipica e ricorrente è rappresentata dalla indicazione, nella consulenza di parte, di una invalidità permanente molto superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione di qualsiasi serio baréme medico legale (ricordo, a questo proposito, il caso di un consulente di parte il quale nel caso di microlesioni, quale che ne fosse la natura ed il decorso, concludeva inevitabilmente ed immancabilmente indicando una invalidità permanente del 9%, una invalidità temporanea assoluta di 30 giorni, ed una invalidità temporanea relativa al 50% di altrettale durata). Non si creda, tuttavia, che tutto si riduca solo ad un problema di determinazione del grado di invalidità permanente. Altra ipotesi non infrequente è quella in cui il c.t.p., dinanzi a traumi del ginocchio, concluda per la sussistenza di una lesione legamentosa, trascurando di riferire che la vittima aveva già in precedenza subito traumi analoghi; così come quella in cui tipiche lussazioni recidivanti della spalla, preesistenti e documentate in epoca

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anteriore al sinistro, vengono indicate nella consulenza di parte come sicura conseguenza di quest’ultimo. Ed ancora, non rara nei giudizi aventi ad oggetto la responsabilità professionale del medico è l’ipotesi in cui l’attore si costituisca producendo una consulenza di parte, nella quale dopo la ricostruzione della storia clinica del paziente si conclude sorprendentemente affermando:

“evidente pertanto è la responsabilità ecc.”, senza che si dica per quale ragione tale responsabilità dovrebbe essere “evidente”, né da cosa si desuma tale

“evidenza”.

Cerchiamo dunque di stabilire se simili condotte siano corrette, ed in caso negativo quali ne siano le conseguenze allorché il c.t.p. sia anche iscritto all’albo dei c.t.u..

E’ opinione di molti che il medico legale, chiamato a svolgere la propria opera nella veste di consulente di parte, debba fare gli interessi del cliente, e quindi del tutto correttamente infarcisca la propria relazione con una qualche

“amplificazione” delle ragioni di quest’ultimo. Si tratterebbe, in tesi, di una sorta di dolus bonus, giuridicamente irrilevante, analogo a quello col quale il venditore esalta la qualità della propria merce.

Ritengo tale opinione assolutamente non condivisibile.

La consulenza di parte non è una offerta o proposta contrattuale, destinata a sollecitare la stipula di un contratto (unico ambito in cui rileva, civilisticamente, il dolus bonus), ma è un atto destinato all’Autorità Giudiziaria, e potenzialmente preordinato ad indirizzarne le decisioni in un senso piuttosto che in un altro. Dunque essa deve essere, al pari della c.t.u., strettamente aderente ai fatti per quanto riguarda i presupposti oggettivi, e strettamente aderente alle leges artis della medicina legale, per quanto attiene le valutazioni.

E’, poi, tutta da dimostrare l’opinione secondo cui il consulente di parte, per fare gli interessi del cliente, possa ritenersi libero da vincoli, e sostenere qualsiasi eteroclita tesi nella propria relazione di parte. Ritengo invece che il c.t.p., in tal modo, non renda affatto un servigio al proprio cliente, ma anzi gli

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nuoccia: ed infatti la reiterazione generalizzata di tali condotte finisce per sortire nel giudice la convinzione - giusta o sbagliata che sia - che le relazioni del c.t.p. siano non di parte, ma... partigiane, e per ciò solo inattendibili.

Stabilito dunque che al c.t.p. non è e non deve affatto essere consentita alcuna maggiore “elasticità” rispetto al c.t.u. nella redazione dei propri pareri e delle proprie relazioni, è giunto il momento di stabilire se la evidente poca obiettività della consulenza di parte possa esporre il c.t.p. a conseguenze disciplinari, allorché - come solitamente avviene - il c.t.p. sia iscritto all’albo dei consulenti del tribunale.

Anche a tale quesito mi pare debba darsi risposta affermativa.

Si è già detto che il c.t.u., per essere iscritto all’albo del tribunale, deve possedere speciale competenza e specchiata moralità. Si è anche visto come tali requisiti debbono essere posseduti durante tutta la permanenza dell’iscrizione.

Competenza e moralità non possono tuttavia ritenersi circoscritte allo svolgimento dell’attività di c.t.u.. Esse debbono essere manifestate anche nell’esercizio della attività libero professionale, e più in generale nello svolgimento dell’attività anche extraprofessionale del consulente. Questo principio è pacifico nella giurisprudenza degli organi dotati di potere disciplinare, con riferimento alla moralità: così, ad esempio, nel rapporto di pubblico impiego non si dubita che sia sanzionabile il lavoratore il quale, anche al di fuori dell’orario di lavoro, tenga una condotta moralmente riprovevole (si pensi all’ipotesi del lavoratore il quale sia dedito allo spaccio di stupefacenti od allo sfruttamento della prostituzione).

E non è dubitabile - né dubitato - che il principio in esame sia applicabile, con riferimento al requisito della specchiata moralità, anche al c.t.u.: ed infatti non di rado vengono radiati o sospesi consulenti condannati per reati non connessi all’esercizio dell’attività di c.t.u..

Se tale conclusione è valida per quanto attiene alla moralità, non v’è ragione per escluderla con riferimento alla competenza: e dunque è ben

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possibile ritenere perduto tale requisito quando il medico legale iscritto all’albo dei c.t.u., anche al di fuori dell’esercizio dell’attività di consulente, manifesti palese incapacità di lettura ed interpretazione dei dati reali.

Alla luce di tali premesse, torniamo ora ad esaminare l’ipotesi del c.t.p. il quale rediga e consegni alla parte, perché la produca in giudizio, una relazione che - ad esempio - affermi l’esistenza di un nesso causale tra lesioni e postumi manifestamente escluso dall’evidenza dei fatti; ovvero lo neghi dinanzi a fatti altrettanto palesi in senso contrario; oppure formuli un giudizio di responsabilità professionale sganciato da qualsiasi elemento di colpa; od ancora indichi un grado di invalidità permanente doppio rispetto a quello effettivo.

In questi casi, a mio modo di vedere non si esce dall’alternativa:

(a) o il c.t.p. era ben consapevole della erroneità delle proprie conclusioni, ed allora nel sostenerle egli ha agito in malafede, così violando l’obbligo di specchiata moralità;

(b) ovvero il c.t.p. non era consapevole della erroneità delle proprie conclusioni, ed in questo caso egli ha agito con imperizia, così violando l’obbligo della speciale competenza.

In tutti e due i casi, quindi, sussiste un vulnus agli obblighi cui è subordinata la permanenza del medico legale nell’albo dei consulenti, e si giustifica pertanto un provvedimento di sospensione o radiazione.

5. Qualità della consulenza e “responsabilità” del c.t.p. nei confronti del proprio cliente

Si è visto che una relazione di consulenza di scarsa qualità può esporre l’autore a sanzioni disciplinari: sia quando abbia agito nella veste di c.t.u., sia quando abbia agito nella veste di c.t.p. (a condizione, in quest’ultimo caso, che l’autore sia iscritto all’albo dei consulenti del tribunale).

E’ ora giunto il momento di esaminare quali conseguenze la consulenza

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erronea (per colpa o dolo) può causare nei rapporti con le parti.

Per chiarezza espositiva, è opportuno esaminare dapprima le conseguenze dell’errore del c.t.p. nei confronti del proprio cliente, e quindi quelle dell’errore del c.t.u. nei confronti delle parti del processo.

Nei confronti del proprio cliente, la responsabilità del consulente di parte è per vari aspetti simile a quella dell’avvocato, e può consistere:

(a) nella colposa induzione a promuovere un giudizio non fondato;

(b) nella colposa dissuasione dal promuovere o coltivare una lite verosimilmente fondata;

(c) nella colposa induzione a stipulare una transazione rovinosa o comunque svantaggiosa.

5.1. La prima ipotesi ricorre allorché il c.t.p., con colpa o dolo, convinca il proprio cliente che il danno patito alla salute sia causalmente riconducibile alla condotta di un terzo, ovvero - nei giudizi di responsabilità professionale - che la condotta del sanitario non sia stata conforme alle leges artis della buona pratica clinica.

Ovviamente, affinché in queste ipotesi sia configurabile una responsabilità del c.t.p. non è sufficiente che, in esito alla lite, il cliente si veda dar torto dal giudice, ma è necessario che l’errore in cui sia incorso il consulente di parte sia marchiano, evidente, inescusabile. E’ necessario, detto altrimenti, che il c.t.p.

con la propria condotta, magari millantando risarcimenti in realtà non dovuti, ovvero suscitando un infondato affidamento sull’esito della lite, abbia con la propria condotta suscitato e confermato nella parte l’intendimento di promuoverla. Di conseguenza, l’eventuale errore del c.t.p. non potrà produrre conseguenze di sorta, ove risulti che il cliente avesse già da sé deciso di iniziare il giudizio, e su tale decisione non abbia influito il parere del c.t.p..

Ricorrendo i presupposti appena indicati, il c.t.p. potrà essere condannato a risarcire il danno patrimoniale patito dal cliente in conseguenza della improvvida iniziativa giudiziaria, e quindi: (a) le spese sostenute per la propria

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difesa tecnica; (b) le spese che eventualmente sia stato condannato a pagare in favore della controparte vittoriosa, in ossequio al principio della soccombenza.

Non riterrei, invece, di norma configurabile una responsabilità del c.t.p. nei confronti del cliente, là dove il primo abbia con dolo o colpa ritenuto sussistente un grado di invalidità permanente superiore a quello effettivo.

In questo caso infatti la pretesa attorea è comunque fondata, e dunque non è configurabile un danno da rigetto della pretesa risarcitoria. Non è da escludere, peraltro, che in considerazione del divario tra petitum e decisum il giudice decida di compensare le spese di lite, ex art. 92 c.p.c.. In tal caso, ove la spropositatezza della pretesa sia dipesa dal parere dato all’attore ante causam dal c.t.p., sarà certamente configurabile una responsabilità di quest’ultimo, il cui oggetto sarà pari alla quota delle spese di lite che la parte vittoriosa si è vista compensare.

Si ricordi infine che il giudizio di responsabilità promosso dal cliente del c.t.p. ha natura contrattuale. Il riparto dell’onere della prova tra attore e convenuto avverrà dunque in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c., con la conseguenza che non sarà onere dell’attore provare la colpa del c.t.p., ma onere di quest’ultimo provare di avere agito con diligenza.

5.2. La seconda ipotesi di responsabilità del c.t.p. nei confronti del proprio cliente, speculare rispetto a quella appena esaminata, ricorre allorché il consulente di parte non si avveda, per colpa o dolo, della fondatezza della pretesa del cliente sul piano medico legale, e lo dissuada per tale ragione dal promuovere una lite. Ciò può accadere, ad esempio, allorché il c.t.p. escluda il nesso causale tra il sinistro e tutti od alcuni dei postumi da esso derivati;

ovvero escluda il nesso causale tra il sinistro e la morte di un congiunto del cliente; od ancora escluda che la condotta del sanitario al quale viene ascritta una ipotesi di malpractice abbia violato le regole della buona pratica clinica.

In questi casi la responsabilità del c.t.p. esige tuttavia una ulteriore

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condizione, perché sia configurabile, e cioè che il cliente abbia, per effetto della condotta del medico legale cui si era affidato, irrimediabilmente perduto il diritto al risarcimento, e quindi allorché sia spirato il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti dell’autore del fatto illecito primario.

Nell’ipotesi qui in esame, il quantum dovuto dal c.t.p. sarà pari alla misura del risarcimento che il cliente avrebbe potuto pretendere dal responsabile, qualora il c.t.p. non l’avesse dissuaso dall’introduzione della lite.

5.3. La terza ipotesi di responsabilità del c.t.p. nei confronti del proprio cliente può ricorrere allorché quest’ultimo, in conseguenza del parere determinante ed erroneo del c.t.p., si induca a transigere la lite col responsabile del danno. Si ha in questo caso un tipico danno da lesione della libertà contrattuale, consistente nella stipula di un contratto che si sarebbe rifiutato, ove si fosse conosciuto il reale stato di cose. E’ noto tuttavia che soltanto il dolo del terzo è causa di annullamento del contratto, mentre l’errore solo in determinati e limitati casi può comportare l’annullabilità della transazione. Di conseguenza, in tutti i casi in cui l’errore in cui sia incorso il danneggiato non sia opponibile al transigente, delle conseguenze sfavorevoli di tale errore dovrà rispondere il consulente che ha fornito una prestazione inadeguata.

Anche in questo caso, come nelle ipotesi esaminate nei §§ precedenti, il risarcimento sarà comunque subordinato ad alcune condizioni:

(a) è necessario che il danneggiato alleghi e dimostri che, qualora il proprio consulente non lo avesse mal consigliato, non avrebbe transatto oppure avrebbe scelto di transigere a condizioni diverse;

(b) è necessario che le indicazioni del consulente siano state causa unica e determinante della volontà di transigere.

Anche in questo caso, infine, una volta provate dal cliente le condizioni appena ricordate, la colpa del consulente si presume, ex art. 1218 c.c., e

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dunque è onere di quest’ultimo dimostrare di avere agito con diligenza, ovvero che l’inadempimento non è dipeso da propria colpa.

6. Qualità della consulenza e “responsabilità” del c.t.u. nei confronti delle parti

Si è volutamente lasciato per ultimo l’esame dell’ipotesi più problematica, e cioè stabilire se il c.t.u. possa essere chiamato a rispondere nei confronti delle parti del giudizio per avere depositato una relazione di scarsa qualità o comunque erronea.

Le ipotesi principali che possono venire in rilievo in questo caso sono due.

La prima è quella in cui, a causa della erroneità od inconcludenza dell’opera del c.t.u., il giudice si induca a domandargli chiarimenti, ovvero a sostituirlo ex art. 196 c.p.c.. Ciò può comportare un prolungamento dei tempi del processo, con conseguente pregiudizio per le parti, costrette a sostenere oneri aggiuntivi (ad esempio, a titolo di onorari per i propri legali).

Questo pregiudizio costituisce senza dubbio un danno risarcibile, ma deve aggiungersi come ben difficilmente esso raggiungerà proporzioni tale da indurre effettivamente il danneggiato a citare il c.t.u..

La seconda ipotesi è quella in cui il c.t.u., giungendo a conclusioni erronee, induca il giudice a pronunciare una sentenza altrettanto erronea. E’, questa, l’ipotesi più delicata, in quanto se è vero che la scaturigine dell’errore è rappresentata dall’opera del c.t.u., è altresì vero che il danno è materialmente arrecato dall’esecuzione della sentenza, non dall’opera del c.t.u..

In una recente decisione (avente però ad oggetto una consulenza diversa da quella medico legale) il tribunale di Roma ha rigettato senza istruzione la richiesta di risarcimento formulata nei confronti di un c.t.u., e fondata sull’assunto che l’ausiliario aveva depositato una consulenza gravemente lacunosa ed erronea, ma condivisa dal giudicante.

Il tribunale in quel caso ha rigettato la domanda, per difetto di nesso

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causale tra il danno lamentato dalle parti del processo e l’operato del c.t.u.

(Trib. Roma 17.1.2005, Lepanto c. D’Asdia, inedita).

Si è osservato, al riguardo, che il nesso causale tra condotta ed evento (da accertarsi in base al dettato degli artt. 40 e 41 c.p.) va escluso quando il fatto discende da una causa sopravvenuta, di per sé idonea a produrre l’evento.

Pertanto, se il giudice condivide le conclusioni di un c.t.u. imperito, l’evento lesivo patito dalle parti va ascritto all’operato del giudice, per avere questi malamente scelto il suo ausiliario, omesso di vegliare sul suo operato, acriticamente recepito le conclusioni di una consulenza abborracciata.

Infatti, dal momento che la sentenza costituisce un atto umano cosciente e volontario, essa recide il nesso causale tra l’operato del c.t.u. e il danno lamentato dalle parti, perché costituisce una causa di per sé idonea a produrre l’evento, secondo quanto disposto dal ricordato art. 41 c.p.. A sostegno di questa conclusione, il Tribunale ha richiamato la risalente e costante giurisprudenza in tema di risarcimento del danno da denuncia infondata:

secondo tale giurisprudenza, allorché l’autorità giudiziaria adotti provvedimenti fonte di danno per taluno, sulla base di denunce rivelatesi successivamente infondate, l’eventuale responsabilità non può essere ascritta al denunciante, ma va imputata all’organo giurisdizionale, la cui attività “si sovrappone a quella del privato, togliendole ogni efficacia causale” (in terminis, Cass. 20.6.1966 n.

1586; Cass. 10.6.1968 n. 1831; Cass. 20.10.2003 n. 15646; Cass. 25.5.2004 n.

10033).

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