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OSSERVAZIONI A MARGINE DELLE MODIFICHE E NOVITÀ INTRODOTTE DAL dalla c.d. “manovra finanziaria” DELL’ESTATE 2011 NEL CONTENZIOSO ASSISTENZIALE E PREVIDENZIALE. - Judicium

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Angelo Frabasile

OSSERVAZIONI A MARGINE DELLE MODIFICHE E NOVITÀ INTRODOTTE DAL dalla c.d.

“manovra finanziaria” DELL’ESTATE 2011 NEL CONTENZIOSO ASSISTENZIALE E PREVIDENZIALE.

SOMMARIO:1.PREMESSA2.UN NUOVO CONTRIBUTO UNIFICATO PER LE CONTROVERSIE PREVIDENZIALIE ED ASSISTENZIALI – 3. OSSERVAZIONI SULL’ART.38: DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONTENZIOSO PREVIDENZIALE ED ASSISTENZIALE – 3.1 UN NUOVO CASO DI ESTINZIONE DI DIRITTO – 3.2 NUOVI REQUISITI DI (IN)AMMISSIBILITÀ DEL RICORSO – 3.3 NUOVI ADEMPIMENTI FORMALI CON EFFETTI PROCESSUALI PER IL DIFENSORE DISTRATTARIO – 3.4 - NUOVI TERMINI DI DECADENZA E PRESCRIZIONE CON EFFICACIA RETROATTIVA. DISCUTIBILI PROFILI DI INCOSTITUZIONALITÀ. - 3.5- UN NUOVO ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO? - 3.6- NUOVI ADEMPIMENTI, A PENA DI NULLITÀ PER LE PARTI, A CARICO DEL C.T.U.

1.- PREMESSA

Il 6 luglio 2011 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.155 il Decreto legge di pari data n.98 che ha introdotto una serie di modifiche e novità sia di natura sostanziale che processuale in vari ambiti e materie, tra le quali anche quelle dell’assistenza e previdenza. Tale D.L. è passato tuttavia sotto silenzio, visto che ha colto impreparati numerosi operatori giudiziari e legali, e che, specie nelle precitate materie, non v’è stata alcuna preventiva lettura ovvero opposizione critica da parte in primis delle grandi sigle sindacali e dei patronati nell’interesse delle categorie di soggetti deboli, parti nel contenzioso assistenziale e previdenziale oggetto dell’intervento legislativo.

A pochissimi giorni di distanza, segnatamente il 15 luglio 2011, con inconsueta sollecitudine il suddetto D.L. è stato convertito nella Legge n.111, pubblicata con modifiche il giorno successivo in G.U. n.167.

Lasciando in disparte ogni altra disposizione di cui consta l’articolato D.L., si prenderà in esame in questa sede soltanto il titolo II di esso, intitolato “disposizioni per lo sviluppo”, ed in particolare gli artt.37 e 38. Invero, per quanto potrà di seguito osservarsi, nessuna delle disposizioni di questo Titolo II appare realmente ispirata e tesa ad uno “sviluppo”, ravvisandosi piuttosto la vera e generale ratio ispiratrice ed informatrice nel Titolo I del D.L.

recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”.

Nel tentativo di condurre una lettura ragionata degli interventi, si prenderanno in considerazioni gli artt.37 e 38 del D.L. poi convertito con modifiche, limitatamente alle parti in interesse, tralasciando gli obiettivi ed i programmi prefissati dal Legislatore.

2.- UN NUOVO CONTRIBUTO UNIFICATO PER LE CONTROVERSIE PREVIDENZIALIE ED ASSISTENZIALI.

Per entrare nel vivo della disamina, si deve muovere dal comma 6 dell’art.37 le cui Disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie,

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giova premettere, «si applicano alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto», secondo l’espressa previsione di cui all’art.7 stesso D.L., confermata anche in sede di conversione in legge.

Dopo vari e non riusciti tentativi con le precedenti leggi finanziarie, questa volta il Legislatore, con la rapidità della legge di conversione e con una marginale modifica ivi apportata, ha introdotto, salvo il limite reddituale di cui si dirà, il contributo unificato anche per le controversie, per così dire, sino a prima elettivamente esenti.

Alla lett. b) n.2) del comma 6 in esame viene introdotta la prima saliente novità (non modifica) che si colloca al comma 1- bis dell’art.9 del D.P.R. 30.5.2002 n.115, e si riferisce ai processi per controversie di previdenza ed assistenza (art.442 c.p.c.) e per controversie individuali di lavoro ovvero concernenti il pubblico impiego. Fissato, dunque, l’ambito di applicazione, la disposizione prevede che le parti (da intendersi evidentemente in senso processuale in coerenza con l’incipit «nei processi…») sono soggette, quanto alle controversie assistenziali e previdenziali al contributo unificato nella misura (fissa) di €37,00, come previsto dall’art.13 comma 1 lett. a) D.P.R. n.115/02, mentre quanto alle altre controversie di lavoro e pubblico impiego al contributo unificato di cui al medesimo art.13, questa volta comma 3, ossia al contributo ordinario ridotto alla metà. La disposizione, tuttavia, consente alle stesse parti dei giudizi de quibus di essere esentate dal contributo unificato se titolari di un reddito imponibile ai fini Irpef non superiore a tre volte (soglia così elevata dalla legge di conversione rispetto al D.L. che prevedeva il doppio) l’importo di €10.628,16 (x 3=

€31.884,48) previsto dall’art.76 del D.P.R. n.115/02 ai fini dell’accesso al gratuito patrocinio, così come aumentato con Decreto del Ministero della Giustizia del 20.1.2009, in G.U.

27.3.2009 n.72.

Due precisazioni. La prima: si potrebbe prima facie ritenere che il richiamo all’art.76 D.P.R.

n.115/02 includa tutti i commi di cui consta, ed in particolare il comma 2 che, ai fini della determinazione del reddito Irpef per accedere al gratuito patrocinio, prevede il cumulo dei redditi dell’istante e del coniuge ovvero altri dei familiari conviventi. Invero sussistono elementi fortemente indizianti che propendono per la limitazione del rinvio al solo comma 1 dell’art.76 D.P.R. n.115/02.

Anzitutto debbono tenersi distinte le finalità e l’ambito di quest’ultima norma rispetto al comma 6 lett. b) n.2 del D.L. poi convertito. Infatti, la prima norma (art.76) afferisce alle condizioni per l’ammissione al beneficio del gratuito patrocinio e rivela una natura sostanziale, atteso che le condizioni ivi richieste non sono identificabili con la condizione dell’azione tipicamente processuale, bensì con un dato di fatto sostanziale afferente al patrimonio dell’istante e consistente nell’essere o no titolare di un certo reddito. Corroborante è anche la qualificazione del soggetto che nell’art.76 è “l’interessato” con valenza sostanziale, mentre nel nuovo art.9 comma 1 bis D.P.R. n.115/02 sono “le parti” con indubbia valenza processuale avvalorata dall’incipit “nei processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie”, oltre che dalla collocazione processuale ai soli fini della esenzione o meno del contributo unificato, ricalcando l’altra norma processuale di cui all’art.152 disp. att. c.p.c.1 Infine, altro argomento si ricava proprio da quest’ultima

1 Art. 152 disp. att. cpc.: Nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali la parte soccombente, salvo comunque quanto previsto dall'articolo 96, primo comma, del codice di procedura civile, non può essere condannata al pagamento delle spese, competenze ed onorari quando risulti titolare, nell'anno precedente a

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disposizione attuativa ove fa espressamente rinvio all’art.76 D.P.R. n.115/02 limitatamente “ai commi da 1 a 3”, ciò dimostrando che nel caso del nuovo art.9 comma 1 bis D.P.R. n.115/02 se il Legislatore avesse avuto intenzione di riferirsi non al reddito personale della parte ricorrente, ma a quello del suo nucleo familiare convivente, gli sarebbe bastato analogamente richiamare anche i commi da 2 e 3 dell’art.76 stesso D.P.R. Del resto anche in provvedimenti2 di natura sostanziale nelle stesse materie in interesse, il Legislatore ha dimostrato consapevolezza nel fare espresso riferimento al reddito familiare e non a quello personale dell’avente diritto alla prestazione.

La seconda precisazione: il legislatore ha mancato di indicare in che modo e se si deve verificare da parte della cancelleria, al momento della iscrizione a ruolo dei ricorsi introduttivi delle controversie giudiziali di cui sopra, la soggezione o no della parte ricorrente al contributo unificato. Non si dubita che un controllo da parte della cancelleria sia doveroso anche a mente dell’art.153 D.P.R. n.115/02 (controllo in ordine alla dichiarazione di valore ed al pagamento del contributo unificato). Tuttavia, proprio dalla lettura combinata di quest’ultimo articolo, che assegna al “funzionario” la verifica della dichiarazione di parte (quella per intendersi nelle conclusioni dell’atto introduttivo prevista dall’art.14 D.P.R. n.115/02 sul “valore dei processi”), con l’art.164 stesso D.P.R., che sanziona soltanto l’omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato, deve trarsi la conclusione che qualsiasi verifica del funzionario di cancelleria che accerti la mancanza ovvero l’inidoneità della dichiarazione introdotta dal nuovo art.9 comma 1 bis stesso D.P.R., è priva di sanzione e non osterà alla rituale iscrizione a ruolo della causa, salvo l’invito alla parte ad integrare la

quello della pronuncia, di un reddito imponibile ai fini IRPEF, risultante dall'ultima dichiarazione, pari o inferiore a due volte l'importo del reddito stabilito ai sensi degli articoli 76, commi da 1 a 3, e 77 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. L'interessato che, con riferimento all'anno precedente a quello di instaurazione del giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo e si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito verificatesi nell'anno precedente. Si applicano i commi 2 e 3 dell'articolo 79 e l'articolo 88 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002. Le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore della prestazione dedotta in giudizio

2 Art.35 comma 8° D.L. 30.12.2008 n.207, con. in L. 27.2.2009 n.14: Ai fini della liquidazione o della ricostituzione delle prestazioni previdenziali ed assistenziali collegate al reddito, il reddito di riferimento è quello conseguito dal beneficiario e dal coniuge nell’anno solare precedente il 1° luglio di ciascun anno ed ha valore per la corresponsione del relativo trattamento fino al 30 giugno dell’anno successivo.

3 Art.15 T.U. 30.5.2002 n.115 (sostituito dall'art. 9-bis, comma 1, lett. c), D.L. 30 giugno 2005, 115, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 agosto 2005, n. 168): «Il funzionario verifica l'esistenza della dichiarazione della parte in ordine al valore della causa oggetto della domanda e della ricevuta di versamento; verifica inoltre se l'importo risultante dalla stessa è diverso dal corrispondente scaglione di valore della causa.

2. Il funzionario procede, altresì, alla verifica di cui al comma 1 ogni volta che viene introdotta nel processo una domanda idonea a modificare il valore della causa»

4 . Art.16 T.U. 30.5.2002 n.115 In caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato si applicano le disposizioni di cui alla parte VII, titolo VII del presente testo unico e nell'importo iscritto a ruolo sono calcolati gli interessi al saggio legale, decorrenti dal deposito dell'atto cui si collega il pagamento o l'integrazione del contributo.

1-bis. In caso di omesso o parziale pagamento del contributo unificato, si applica la sanzione di cui all'articolo 71 del testo unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, esclusa la detrazione ivi prevista.

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dichiarazione di cui trattasi. Che l’art.9 comma 1 bis D.P.R. n.115/02 sia una vera e propria lex imperfecta lo si evince dal fatto che nessuna previsione sanzionatoria è prevista nell’ipotesi in cui la parte non renda la dichiarazione ivi contemplata neppure sino alla fine del giudizio. Né si potrebbe sbrigativamente obiettare che, in mancanza della dichiarazione, si dovrebbe presumere che il contributo sia dovuto nella misura fissa di €37, stabilita per i giudizi assistenziali e previdenziali ove risulti superato il limite reddituale di esenzione. Invero solo una presunzione legale, e quindi prevista dalla legge, potrebbe produrre simile effetto. Inoltre non si può fare a meno di rilevare che nello stesso comma 6 dell’art.37 in esame, il Legislatore ha previsto espressamente (e per molto meno) una sanzione ove il difensore non indichi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax…ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nell’atto introduttivo del giudizio…«il contributo unificato è aumentato della metà». Tuttavia nulla è previsto, a proposito della sanzione, nell’ipotesi di esenzione del contributo unificato. Si è portati ragionevolmente a ritenere che quest’ultima ipotesi costituisca una “zona franca”, non potendosi, in difetto di previsione, rapportare virtualmente la sanzione ad un contributo non dovuto. A margine si osservi come il Legislatore imputi alla parte gli effetti di omissioni ascrivibili al proprio difensore sia per quel che riguarda alcuni dati del medesimo professionista (P.E.C. e fax), sia per quel che riguarda il codice fiscale della parte nell’atto.

Quanto alla dichiarazione circa il superamento o meno dell’indicata soglia reddituale, in difetto di oneri di forma ex lege, si può sostenere che essa possa essere direttamente contenuta nel ricorso introduttivo, al pari della “dichiarazione sostitutiva di certificazione”

già prevista e resa a norma dell’art.152 disp. att. c.p.c., oppure possa essere contenuta in una dichiarazione su carta semplice a firma della parte ricorrente e corredata da valido documento di identità. Certamente non è esigibile, in difetto di previsione di legge, una specifica modalità della dichiarazione de qua, né tantomeno la pretesa di riceverla nella forma sostitutiva di atto notorio a firma autenticata e men che mai un’autentica della firma del ricorrente da parte dell’avvocato che sarebbe praeter legem (art.83 c.p.c.) e, comunque, irrituale ed invalida, essendo sufficiente che la dichiarazione esista, allegata al fascicolo di parte ovvero allo stesso atto introduttivo o ancora in esso trasfusa ed, in tal ultimo caso, con la firma aggiuntiva al termine dell’atto apposta dal cliente a ratifica di quanto dichiarato.

3.-OSSERVAZIONI SULL’ART.38: DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONTENZIOSO PREVIDENZIALE ED ASSISTENZIALE.

Evitando per quanto possibile la mera riproduzione dell’articolo in epigrafe, si cercherà di riorganizzare la lettura della norma, muovendo dalle disposizioni di immediata applicazione, per poi disaminare quelle di futura vigenza.

Va premesso che il Legislatore in apertura del comma 1 dell’art.38 dichiara gli obiettivi che intende perseguire: “maggiore economicità dell’azione amministrativa”, “favorire la piena operatività e trasparenza dei pagamenti”, “deflazionare il contenzioso in materia previdenziale nei termini di durata ragionevole dei processi”.

3.1.- UN NUOVO CASO DI ESTINZIONE DI DIRITTO.

Il comma 1 sub. lett. a) dell’art.38 prevede che i processi previdenziali, cui sono parificati quelli assistenziali, nei quali sia parte l’Inps, di valore complessivamente (ossia per capitale,

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interessi legali e rivalutazione monetaria) non superiore ad €500,00 e non ancora decisi alla data del 31.12.2010, «si estinguono di diritto, con riconoscimento della pretesa economica a favore del ricorrente. L’estinzione è dichiarata con decreto dal giudice, anche d’ufficio. Per le spese del processo si applica l’art.310, quarto comma, del codice civile». Pur non essendo nuovo a tali soluzioni di officiosa estinzione della lite pendente5 sintomatica della potestas rei publicae, nondimeno la disposizione desta qualche perplessità, risolvendosi in un’entrata a gamba tesa del Legislatore in processi pendenti al 31.12.2010 che sono sorretti da un principio cardine del nostro ordinamento (art.2907 c.c. ed art.99 c.p.c.): il principio della domanda, correlato all’art.24 Cost. ove è sancito non solo il diritto di difesa, ma anche quello speculare di azione. Vero è che la norma di cui all’art.2907 c.c., dedicata alla tutela giurisdizionale dei diritti, prevede un’eccezione al principio della domanda, ma in casi assai limitati in cui l’autorità giudiziaria provveda d’ufficio, come ad esempio nell’ambito della legge fallimentare ovvero in quello dei procedimenti di volontaria giurisdizione nell’interesse di incapaci ed adottati.

Ritenere che le finalità o, se si preferisce, gli obiettivi di cui sopra, per il sol fatto di essere posti e dichiarati dal Legislatore, siano idonei a giustificare una sua diretta e ferale ingerenza in processi civili già pendenti, significa riconoscere un’assoluta preponderanza ed insindacabilità di tali interessi in ogni tempo, sotto l’egida della “ragion di stato”, il cui perseguimento giustifica il sacrificio di principi generali dell’ordinamento e con essi l’esercizio legittimo del diritto di azione, travolgendoli. Ma su questo tema si tornerà più avanti sub par.3.4.

Riesce agevole comprendere che la norma è funzionale alla dichiarata finalità deflattiva ex abrupto con precipuo riguardo a quei processi previdenziali “minori” a carattere seriale che, soprattutto in alcune sedi, hanno sovraccaricato i ruoli magistratuali. Tuttavia il Legislatore, come per il passato, ha concepito la mors litis in malam partem sia per i ricorrenti, sia per l’istituto resistente in questi processi. Per i primi, infatti, non si vede perché a fronte del riconoscimento della loro pretesa economica dovrebbero subire il carico delle spese anticipate, stante il rinvio applicativo all’art.310 comma 4 c.p.c. All’istituto previdenziale, invece, si preclude ogni possibilità di contestare pretese infondate, per difetto di prova o per

5 Art.36 Legge 23-12-1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo): co.5. I giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, aventi ad oggetto le questioni di cui all'articolo 1, commi 181 e 182, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sono dichiarati estinti d'ufficio con compensazione delle spese fra le parti.

Art.4 Legge 29.01.1994, n. 87 (Norme relative al computo dell'indennità integrativa speciale nella determinazione della buonuscita dei pubblici dipendenti): co.1. I giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge aventi ad oggetto la riliquidazione del trattamento di fine servizio comunque denominato con l'inclusione dell'indennità integrativa speciale sono dichiarati estinti d'ufficio con compensazione delle spese tra le parti. co.2. I provvedimenti giudiziali non ancora passati in giudicato restano privi di effetto. 3.

Art. 8. Legge 28-10-1999, n. 410 (poi abrogato, sui crediti derivanti dalle gestioni di ammasso obbligatorio e di commercializzazione dei prodotti agricoli nazionali, svolte dai consorzi agrari per conto e nell'interesse dello Stato):

co.3. I giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, aventi ad oggetto i suddetti crediti, sono dichiarati estinti d'ufficio con compensazione delle spese fra le parti a seguito dell'assegnazione dei titoli di Stato di cui al comma 1. I provvedimenti giudiziali non ancora passati in giudicato restano privi di effetti.

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difetto di presupposti o errore di calcolo, imponendosi de plano “il riconoscimento della pretesa economica”.

3.2. - NUOVI REQUISITI DI (IN)AMMISSIBILITÀ DEL RICORSO.

Il comma 1 sub. lett b) n.2) dell’art.38 aggiunge un periodo alla fine dell’art.152 disp. att. c.p.c.6 nei seguenti termini: «A tal fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo». Va precisato che detta disposizione va subito raccordata con il comma 3 dell’art.38 con cui il Legislatore ha imposto, sottintendendo la sanzione dell’inammissibilità per rinvio al comma 1 lett. b) n.2),

“in sede di prima applicazione…e per i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, la dichiarazione relativa al valore della lite” la formulazione nel corso del giudizio.

A ben vedere il Legislatore anziché, con l’occasione, riformulare l’art.152 dips. att. c.p.c. al fine di semplificarne il contenuto, lo ha appesantito con l’aggiunta del periodo sopra riportato.

Sicché a partire dal 6.7.2011, data di pubblicazione del D.L., la parte ricorrente, a rigore dell’attuale art.152 disp. att c.p.c., si trova a dover rendere due “apposite dichiarazioni”: la prima “sostitutiva di certificazione” per dichiarare l’importo del reddito Irpef risultante dall’ultima dichiarazione, ai fini della esenzione dalla condanna alle spese di lite nei giudizi per prestazioni previdenziali (ed anche a quelle assistenziali); la seconda, ora introdotta, dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio. Va da sé che entrambe le suddette dichiarazioni, infelicemente separate, possono essere accorpate e contestualizzate in un’unica dichiarazione.

Resta a parte, e fuori dalla suddetta dichiarazione, la quantificazione dell’importo nelle conclusioni da fare nell’atto introduttivo. Tale incombente deve essere raccordato (ecco l’incipit “A tal fine”) con il periodo dell’art.152 disp. att. c.p.c. che fu introdotto con la L.69/09, a termini del quale “le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possono superare il valore della prestazione dedotta”. Ma qual è il senso di queste disposizioni tra loro combinate? Poiché nei giudizi previdenziali ed assistenziali il giudice non ha mai proceduto alla determinazione del “valore della prestazione dedotta in giudizio”, il Legislatore, al fine di contenere la liquidazione delle spese di lite, ha pensato di far dichiarare alla parte ricorrente il valore di detta prestazione. Benché l’art.152 disp. att. c.p.c. sia dedicato non già alla parte ricorrente, ma in modo neutrale alla “parte soccombente”, sulla disposizione si adombra, stanti le premesse finalità ispiratici della manovra del D.L. 98/2011, il sospetto che sia stata concepita come norma di favore degli Istituti pubblici di previdenza, parti del contenzioso previdenziale ed assistenziale, così da indurre il giudice a ridurre gli importi delle liquidazione delle spese giudiziali nei limiti di valore della prestazione dedotta in giudizio. Ed infatti il significato da attribuire a quest’ultimo sintagma pare onestamente riferibile al valore frazionato della prestazione previdenziale ovvero assistenziale, ossia quello mensile, posto che il diritto ad essa, salve le debite eccezioni per le quali si ha riguardo al valore annuale, è maturabile progressivamente mese per mese.

Tuttavia, se l’intenzione del legislatore fosse quella sopra ipotizzata, essa non si concilierebbe

6 Vedi nota n.1

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con il principio di diritto più volte affermato in sede di legittimità7, secondo cui, in tema di controversie di previdenza ed assistenza, il valore della causa si determina alla stregua del criterio dell’art.13 comma 2 c.p.c. relativo alle cause per rendite temporanee o vitalizie, cumulando fino ad un massimo di dieci le annualità domandate.

Tanto premesso, la dichiarazione di valore della o delle prestazioni dedotte in giudizio (in cumulo o in successione tra loro) è alternativamente rapportabile: 1) al valore della prestazione annuale moltiplicato sino (e non per) ad un massimo di dieci annualità, in ossequio al disposto del comma 2 dell’art.13 c.p.c., che vale anche ai fini delle conclusioni dell’atto; 2) al valore mensile ovvero annuale della prestazione nell’anno in corso al deposito dell’atto introduttivo del giudizio Invece la quantificazione dell’importo nelle conclusioni dell’atto (che si atteggia come petitum) si risolverà nella domanda di condanna generica per valore indeterminato oppure nella quantificazione parziale della domanda sino al tempo del deposito del ricorso con l’aggiunta della domanda di condanna (generica) al pagamento della medesima prestazione o prestazioni per l’avvenire in funzione degli importi che risulteranno via via determinati.

3.3- NUOVI ADEMPIMENTI FORMALI CON EFFETTI PROCESSUALI PER IL DIFENSORE DISTRATTARIO.

Il comma 1 sub. lett. c) dell’art.38, orientato verso l’obiettivo della “piena operatività e trasparenza dei pagamenti”, nel primo periodo, introduce il comma 35 quater all’art.35 (Misure di contrasto dell'evasione e dell'elusione fiscale) del D.L. 4.7.2006 n.223, conv. in L.

4.8.2006 n.248, che prevede che il pagamento delle spese, competenze e altri compensi in favore dei “procuratori legalmente costituiti” debba avvenire “esclusivamente” con “accredito su conto corrente”, alias bonifico. Invero, è già prassi da molti anni da parte degli istituti di previdenza (Inps, Inpdap) provvedere al pagamento delle somme dovute a titolo di spese legali mediante bonifico. Forse, ma un po’ in ritardo, il Legislatore ha ritenuto di dover generalizzare siffatta modalità per ragioni di economicità (evitando forse commissioni bancarie per l’ordine di emissione e spese di spedizione di assegni) oltre che di “piena operatività” in conseguenza della certezza del buon fine del pagamento ad un indirizzo ora Iban, comunicato dall’avente diritto. Poco comprensibile è, invece, la collocazione sistematica di questo nuovo comma 35 quater in coda, per l’appunto, alle misure di contrasto all’evasione ed elusione fiscale di cui al citato art.35.

“A tal fine”, segue il secondo periodo della disposizione, il procuratore della parte “è tenuto a formulare richiesta di pagamento delle somme” a lui spettanti “alla struttura territoriale dell’Ente competente alla liquidazione, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento o posta elettronica certificata, comunicando contestualmente gli estremi del proprio conto corrente bancario e non può procedere alla notificazione del titolo esecutivo ed alla promozione di azione esecutive per il recupero delle medesime somme se non decorsi 120 giorni dal ricevimento di tale comunicazione”.

Ciò che colpisce ictu oculi della riportata disposizione, al di là dell’onere di forma prescritto per la comunicazione che occorrerà ripetere da parte del difensore ad ogni singola istanza di pagamento delle sue spese, è che si viene di fatto ad aprire un nuovo ed ulteriore termine di gg.120 dal “ricevimento” della suddetta comunicazione. Pertanto, allo spatium solvendi già

7 Cass. civ., sez. lav., 31.1.2011 n.2148; conf. Cass. civ., 14.12.2004 n.23274; Cass. civ, sez. lav. 15.4.2004 n.7203.

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previsto dall’art.148 D.L. 31.12.1996 n.669 conv. in L. 28.2.1997 n.30 e successive modifiche, se ne antepone uno nuovo ed ulteriore di 120 gg, per un totale di gg.240. Non si dubita che siffatta disposizione è stata concepita solo per il titolo esecutivo chiesto ed ottenuto dal difensore per sé, quando e quale distrattario delle spese di lite, restando invariati modus et tempus procedendi per il titolo esecutivo rilasciato per la parte.

Ciò posto, ora il difensore distrattario dovrà fare i conti con due distinte decorrenze dei termini di cui sopra. Infatti, prima dovrà decorrere il termine di 120 gg. dall’avviso di ricevimento della istanza di pagamento; una volta esaurito detto termine, potrà procedere alla rituale notifica del titolo esecutivo conformemente all’art.479 c.p.c. ed alla norma speciale dianzi ricordata, sicché dal perfezionamento di questa seconda notifica decorrerà ex novo il termine di gg.120 prodromico (pena l’opposizione ex art.615 c.p.c.), alla notifica del precetto ed alle eventuali azioni esecutive.

La disposizione trova applicazione “anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore del presente decreto”, secondo il disposto del comma 4 dell’art.38.

3.4- NUOVI TERMINI DI DECADENZA E PRESCRIZIONE CON EFFICACIA RETROATTIVA.

DISCUTIBILI PROFILI DI INCOSTITUZIONALITÀ.

Il comma 1 sub. lett. d-1) dell’art.38, estende le decadenze già previste dall’art.479 DPR 30.4.1970 n.639 (Attuazione delle deleghe conferite al Governo con gli articoli 27 e 29 della

8 Art. 14 D.L. 31.12.1996, n. 669 - Esecuzione forzata nei confronti di pubbliche amministrazioni.

1. Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto (Comma modificato dall'art. 147, comma 1, lett. a), L. 23 dicembre 2000, n. 388, a decorrere dal 1° gennaio 2001 e, successivamente, dall'art. 44, comma 3, lett. a), D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003, n. 326).

1-bis. Gli atti introduttivi del giudizio di cognizione, gli atti di precetto nonché gli atti di pignoramento e sequestro devono essere notificati a pena di nullità presso la struttura territoriale dell'Ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e contenere i dati anagrafici dell'interessato, il codice fiscale ed il domicilio. Il pignoramento di crediti di cui all'articolo 543 del codice di procedura civile promosso nei confronti di Enti ed Istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale deve essere instaurato, a pena di improcedibilità rilevabile d'ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell'esecuzione della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa. Il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l'assegnazione. L'ordinanza che dispone ai sensi dell'articolo 553 del codice di procedura civile l'assegnazione dei crediti in pagamento perde efficacia se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede all'esazione delle somme assegnate. (Comma inserito dall'art. 147, comma 1, lett. b), L. 23 dicembre 2000, n. 388, a decorrere dal 1° gennaio 2001 e, successivamente, sostituito dall'art.

44, comma 3, lett. b), D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003, n. 326.) 1-ter. Le disposizioni di cui al comma 1-bis si applicano anche ai pignoramenti mobiliari di cui agli articoli 513 e seguenti del codice di procedura civile promossi nei confronti di enti ed istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale (Comma inserito dall'art. 44, comma 1, L. 4 novembre 2010, n.

183).

9 Art.47 D.P.R. 30.04.1970, n. 639: Esauriti i ricorsi in via amministrativa, può essere proposta l'azione dinanzi l'autorità giudiziaria ai sensi degli articolo 459 e seguenti del codice di proceduta civile.

Per le controversie in materia di trattamenti pensionistici l'azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il temine di tre anni dalla data di comunicazione della decisone del ricorso pronunziata dai

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legge 30 aprile 1969, n. 153, concernente revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) “alle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento delle prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito. In tal caso il termine decorre dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte”. Il Legislatore torna sul tema della decadenza dall'azione giudiziaria per il conseguimento di varie prestazioni previdenziali (es. indennità di maternità, indennità di disoccupazione, pensioni SO a vario titolo compresi i trattamenti di reversibilità ai superstiti e le integrazioni al minimo, gli assegni per il nucleo familiare, etc.) prevedendo all'art. 47, in aggiunta alle tre diverse decorrenze della decadenza (dalla data della comunicazione della decisione del ricorso amministrativo o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della detta decisione, ovvero dalla data di scadenza di termini prescritti per l'esaurimento del procedimento amministrativo), un’ulteriore decadenza, riferita al riconoscimento parziale della prestazione oppure al pagamento della sorte capitale.

Poco v’è da dire in merito sol che si rammenti il principio, confermato anche con riguardo specifico alla decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, in virtù del quale le previsioni di decadenza dall'azione giudiziaria per il conseguimento di prestazioni previdenziali a carico dell'Inps concernono materia sottratta alla disponibilità delle parti, in quanto dirette a tutelare l'interesse pubblico alla definitività ed alla certezza delle determinazioni relative ad erogazioni di spese gravanti dalla finanza degli enti pubblici gestori delle assicurazioni sociali obbligatorie, stante la riconducibilità dei detti enti al settore della finanza pubblica allargata (Cass. S.U. 4 luglio 1989, n. 3197).10.

Il comma 1 sub. lett. d-2) dell’art.38 inserisce nel medesimo DPR 30.4.1970 n.639, dopo l’art.47 il nuovo articolo 47 bis, a tenore del quale “Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all'articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n.88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni”. Come si vede, se il primo intervento concerne una potenziata decadenza dall’azione, questo secondo intervento (47 bis) concerne la prescrizione, incidendo su di un principio di diritto11 che, invece, escludeva l’applicabilità della prescrizione quinquennale (2948 c.c.) rispetto alle prestazioni (rateali) non messe a disposizione dell'avente diritto o non

competenti organi dell'istituto o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia della predetta decisione, ovvero dalla data di scadenza di termini prescritti per l'esaurimento del procedimento amministrativo, computati a decorrere dalla data di presentazione della richiesta di prestazione [1].

Per le controversie in materia di prestazioni della Gestione di cui all'articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, l'azione giudiziaria può essere proposta, a pena di decadenza, entro il termine di un anno dalle date in cui al precedente comma [1].

Dalla data della reiezione della domanda di prestazione decorrono, a favore del ricorrente o dei suoi aventi causa, gli interessi legali sulle somme che risultino agli stessi dovute.

L'Istituto nazionale della previdenza sociale è tenuto ad indicare ai richiedenti le prestazioni o ai loro aventi causa, nel comunicare il provvedimento adottato sulla domanda di prestazione, i gravami che possono esser proposti, a quali organi debbono essere presentati ed entro quali termini. E' tenuto, altresì, a precisare i presupposti ed i termini per l'esperimento dell'azione giudiziaria.

10 Cass. civ., sez. Lavoro 15.12.2005, n. 27674; cfr. Cass. civ., sez. Unite 04-07-1989, n. 3197 in Arch. civ. 1989, pag.

1170 ; Foro it. 1989, I, pag. 2442; Giust. civ. 1990, I, pag. 760 con nota di G. TRERE'

11Ex multis Cass. civ., sez. lavoro 23.03.2001, n.4248

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versate o riscosse, tra cui quelle inerenti alla rivalutazione del credito, oppure nei casi di pagamenti solo parzialmente satisfattivi, per i quali si applicava la prescrizione decennale ex art.2946 c.c.

È stato già osservato in altri ambiti del diritto che «le norme sulla prescrizione, pur avendo natura sostanziale, producono i loro effetti sul piano processuale, atteso che invocando l’effetto estintivo delle stesse è possibile impedire ai titolari di diritti di ottenerne la realizzazione in via giudiziaria»12.

Posto che anche le suddette disposizioni sub lett. c) e d), a rigore del comma 4 dell’art.38 D.L.

98/2011 poi convertito, si applicano ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso decreto legge (6.7.2011), non si dubita che esse vulnerano ovvero vanificano diritti ovvero aspettative già legittimamente createsi relativamente a prestazioni previdenziali sostanzialmente acquisite. Con riguardo all’ambito più strettamente processuale si profila la violazione del principio del giusto processo, nello specifico aspetto della c.d. “parità delle armi”, in ragione della menomazione delle posizioni e dei diritti di alcune soltanto delle parti per effetto dello squilibrio creato a svantaggio del privato cittadino ed a vantaggio dell’ente pubblico, rispetto ad un contenzioso già pendente e regolato da presupposti normativi vigenti al tempo dell’azione e sui quali si era fatto legittimo e ragionevole affidamento.

È vero che al legislatore ordinario, fuori dalla materia penale, non è impedito emanare norme con efficacia retroattiva, ma a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, tra i quali, per l’appunto l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica che, quale elemento fondante dello Stato di diritto, non può essere leso da disposizioni retroattive che trasmodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti13. Anzi, proprio in tema di affidamento, è stato osservato che la Corte Costituzionale ha via via spinto verso «la valorizzazione del principio di tutela dell’affidamento come parametro dello scrutinio di costituzionalità delle leggi»14, sino a passare da interesse o valore costituzionalmente protetto -riconducibile all’art.3 Cost. ed al generale principio di ragionevolezza della legge15- a vero e proprio principio generale16. Riassume chiaramente il quadro una recente decisione della Consulta17: «L’intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse è legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza e i principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 74 del 2008 e n. 376 del 1995), anche al fine di assegnare a determinate disposizioni un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (sentenze n. 234 del 2007 e n. 224 del 2006). La norma successiva non può, però, tradire l’affidamento del privato sull’avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sentenze n. 156 del 2007 e n. 416 del 1999), pur se dettata dalla necessità di riduzione del contenzioso o di contenimento della spesa

12 Trib. Benevento, 10.3.2011, in www.ilcaso.it.

13 Cfr. Corte Cost., 04.11.1999 n.416, in Giur. Giur. Cost., 1999, 3639; cfr. Corte Cost., 11.06.1999 n.229.

14 P.CARNEVALE, Legge di interpretazione autentica, tutela dell’affidamento e vincolo rispetto alla giurisdizione, ovvero del «tributo» pagato dal legislatore interprete «in materia tributaria» al principio di salvaguardia dell’interpretazione

«plausibile», in Giur. it., 2001, p.2415 ss.

15 Cfr. Corte cost., 02.07.1997, n. 211

16 S.FAGA,Alla ricerca della natura del legittimo affidamento: un gioco di trasparenze, in Giur. it, 2011, p.37.

17 Corte Cost., 06.11.2009, n.282, in Giur. Cost., 2009, 4377; cfr. Corte Cost., 01.04.2010 n.124.

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pubblica (sentenza n. 374 del 2002) o per far fronte ad evenienze eccezionali (sentenza n.

419 del 2000)».

A rafforzo del limite di retroattività con cui il legislatore, nell’esercizio del suo potere, deve misurarsi v’è poi il divieto per lo Stato contraente, che sia parte in un giudizio, di legiferare nella materia oggetto di giudizio in corso, ingerendosi così nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire su di una singola causa ovvero su di un determinata categoria di controversie pendenti18, così come –tra le altre pronunzie- precisato dalla Corte di cassazione, Sezione lavoro, con l'ordinanza n. 22260 del 4.9.200819, richiamando la sentenza della Corte di Strasburgo del 21.6.2007, nella causa n. 12106/03 fra Scanner de l'Ouest e altri contro Stato francese e la sentenza Scordino del 29.3.2006, ed i precedenti in essa richiamati (v. in particolare sentenza Anagnostopoulos e altri c. Grecia, n. 39374/98 par. 20-21)20.

Di tale limite si è anche occupata ampiamente la Consulta che, ritenendo infondata la censura dell’art.1 comma 218 L. 23.12.2005 n.266 (alias Legge finanziaria), ha precisato che «deve escludersi l’esistenza di un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convezione europea, come peraltro riconosciuto da una parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. 16.1.2008 n.677)» potendo ricorrere «più di una tra quelle ragioni interpretative di interesse generale che consentono nel rispetto dell’art.6 della Convenzione europea e nei limiti evidenziati dalla Corte di Strasburgo, interventi interpretativi e retroattivi»21.

Alla luce di queste brevi premesse, che non esauriscono certamente la complessità delle questioni affrontate nel vasto panorama giurisprudenziale di vario livello, non possono, dunque, escludersi dubbi sulla legittimità costituzionale della suddetta norma retroattiva (art.38 comma 4°) per contrasto con i principi e diritti sanciti dagli artt.3, 24, 111 Cost., nonché dall’art.117 Cost. in relazione all’art.6 CEDU, ratificata e resa esecutiva con L.4.8.1955 n.848, non potendosi sbrigativamente far coincidere i motivi o le esigenze di stabilizzazione della spesa e della finanza pubblica, con le ragioni imperative di interesse generale. Ciò, peraltro, nella consapevolezza che questi stessi profili di illegittimità risultano in buona parte già vagliati dalla Consulta, sebbene prevalentemente con riferimento a disposizioni normative retroattive, avente carattere di interpretazione autentica o innovativa.

3.5- UN NUOVO ACCERTAMENTO TECNICO PREVENTIVO?

Con il chiaro intento deflattivo del contenzioso in cui è parte l’Inps, il Legislatore del D.L., poi convertito, all’art.38 comma 1 lett. b-1) ha introdotto sub capo II, titolo IV del libro II del codice di procedura civile, una nuova norma, l’art.445 bis, allocandola dopo quella (art.445 cpc) dedicata al “consulente tecnico”. Ed infatti, la nuova disposizione è intitolata

“Accertamento tecnico preventivo obbligatorio” nelle materie dell’invalidità civile, della

18 Da ultimo, Cass. civ., sez. lav., ord. 28.1.2011 n.2112, di rimessione alla Consulta la questione sulla legittimità costituzionale dell’art.32 commi 5 e 6 della L.4.11.2010 n.183 (Collegato al lavoro) con riferimento agli artt-3, 4, 24, 111 e 117 Cost.

19 Cass. civ., sez. lav., ord. 4.9.2008, 22260, in Il Lavoro nella giurisprudenza, 2008, n.11, p.1128 e ss., con commento di V.DE MICHELE.

20 Cfr. Corte di Strasburgo, sez. II, sentenza 7.6.2011, caso di Agrati e altri c Italia, ricorsi n.43549/08, 6107/09 e 5087/09.

21 Corte Cost., 26.11.2009, n.311, in Corr. giur., 2010, 5, 619 ss., con nota di R.CONTI,Corte Costituzionale e CEDU:

qualcosa di nuovo all’orizzonte?.

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cecità e sordità civile, dell’handicap e disabilità, della pensione di inabilità ed assegno di invalidità ordinaria ex L. n.222/1984”.

Va premesso da subito che la vigenza della nuova norma è differita, in virtù del comma 2 dell’art.38, al 1° gennaio 2012 e che, a termini dell’art.445 bis comma 3, “la richiesta di espletamento dell’accertamento tecnico interrompe la prescrizione”.

L’obbligatorietà del nuovo accertamento tecnico preventivo è ben espressa dall’inciso per cui

“chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti”, nelle materie di cui sopra, deve presentare al Tribunale “con ricorso al giudice competente ai sensi dell’art.442 c.p.c. presso il Tribunale…”: a questo punto ci si deve fermare per rilevare che nel testo del D.L. ante conversione si faceva riferimento al “Tribunale del capoluogo di provincia in cui risiede l’attore..”, mentre nel testo della Legge di conversione il periodo corretto è: “presso il Tribunale nel cui circondario risiede l’attore”. Ma perché questa rettifica? Rammentandosi che a norma dell’art. 48 quater22 R.D. n.12 del 30.1.1941 “Le controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie sono trattate esclusivamente nella sede principale del tribunale”, è plausibile ritenere che il Legislatore del D.L. si sia poi avveduto che non tutti i capoluoghi di provincia sono sedi centrali di tribunali, come ad esempio Barletta ed Andria che sono sedi di sezioni distaccate del Tribunale di Trani, o Caserta che è sede distaccata del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, o ancora Olbia sede distaccata di Tempio Pausania. Da qui la necessità della sufferita rettifica con il riferimento al circondario che rimanda alla definizione di circoscrizione territoriale epicentrica del Tribunale, e non ai suoi c.d. mandamenti.

Altro punto non comprensibile risiede nella superflua precisazione del “ricorso al giudice competente ai sensi dell’art.442 c.p.c.”, posto che, alla luce di quanto detto e viste le materie specificamente indicate in apertura dell’art.445 bis cpc in esame (tra le quali la pensione di inabilità o l’assegno di invalidità ordinaria ex L.222/1984), è pacifico che il giudice competente (escluso tra l’altro ogni dubbio sulla giurisdizione) sia soltanto il tribunale monocratico in funzione di giudice del lavoro.

Riprendendo il periodo dal punto ove ci si era fermati si legge che la parte che intende proporre una domanda giudiziale per il riconoscimento dei suoi diritti nelle suindicate materie, deve presentare, con ricorso, “istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere”. È opportuno precisare che trattasi di un’istanza teleologicamente autonoma ed autosufficiente, e non

22 Art. 48-quater R.D. 30.1.1941 n.12 (Affari trattati nelle sezioni distaccate) come introdotto dall’art.15 D.lgs.

19.2.1998, n. 51 "Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado" pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 marzo 1998 - Supplemento Ordinario n. 48 (Rettifica G.U. n. 229 del 1° ottobre 1998): - Nelle sezioni distaccate sono trattati gli affari civili e penali sui quali il tribunale giudica in composizione monocratica, quando il luogo in ragione del quale e' determinata la competenza per territorio rientra nella circoscrizione delle sezioni medesime. Le controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie sono trattate esclusivamente nella sede principale del tribunale. In tale sede sono altresì svolte, in via esclusiva, le funzioni del giudice per le indagini preliminari e del giudice dell'udienza preliminare.

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inserita, in via preliminare, in un ricorso introduttivo del giudizio di merito, la cui proposizione, infatti, è regolata dal successivo comma 6 dell’art.445 bis cpc.

Il comma 2 dell’art.445 bis cpc precisa che, non già l’istanza, ma l’espletamento di questo accertamento tecnico preventivo, costituisce condizione di procedibilità della domanda (di merito s’intende, distinguendola dalla istanza in questa fase), tanto che se il giudice rileva che esso accertamento “non è stato espletato”, assegna alle parti (ma non si comprende che interesse dovrebbe avere l’Inps a domandarlo, se la domanda è sistematicamente proposta contro di esso, e che in mancanza la parte interessata non può procedere) il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico preventivo. La formulazione del periodo lascia intendere che l’ipotesi di accertamento che “non è stato espletato”, dovrebbe verificarsi sia quando è mancata l’istanza a tal fine, sia quando l’istanza è stata presentata, ma, per varie ragioni, l’accertamento non ha avuto inizio.

Analogo termine di quindici giorni, verrà assegnato dal giudice alle parti altresì nel caso di accertamento tecnico regolarmente chiesto ed “iniziato”, ma che “non si è concluso”.

L’eventuale improcedibilità della domanda giudiziale di merito, proposta in difetto di preventiva istanza di accertamento tecnico preventivo, “deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza”, che è pur sempre quella di discussione ex art.420 cpc, stante il rinvio operato dall’art.442 cpc. Ciò vuol dire che, pur essendo altamente improbabile che il rilievo possa sfuggire al giudice, l’improcedibilità può essere superata. Invero la più agevole previsione è che siffatta eccezione sarà sistematicamente e preventivamente sollevata dall’ente nel primo atto difensivo, a prescindere dalla sua fondatezza in relazione alla singola fattispecie.

Presentata l’istanza di accertamento tecnico preventivo, “il giudice procede a norma dell’art.696 bis cpc, in quanto compatibile, nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’art. 10, comma 6 bis del D.L. 30.9.2005 n.203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2.12.2005 n.248, e dall’art.195”, del quale ultimo articolo è omessa per lapsus calami la fonte normativa (cpc).

Il legislatore ha operato un confusionale ed inopportuno rinvio alle suddette norme, in considerazione dei comma 4 e 5 dell’art.445 bis cpc ha in ogni caso regolamentato in modo innovativo lo svolgimento della procedura dell’accertamento tecnico preventivo che ci occupa.

Il primo rilievo critico lo si ricava dalla contraddittorietà tra intitolazione della norma, ossia

“Accertamento tecnico preventivo obbligatorio”, ed il riferimento espresso all’art.696 bis cpc, in quanto compatibile, che invece disciplina la “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite”. Quali sono i punti di compatibilità tra la procedura di cui all’art.445 cpc e l’art.696 bis cpc da ultimo citato?

Da principio verrebbe da escludere ogni compatibilità in ragione del ben definito ambito applicativo della “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” ex art.696 bis cpc, concepita “ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzioni di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito”.

Tralasciando le interpretazioni non univoche in dottrina circa l’ambito di applicazione dello strumento peritale de quo, che si suole ammettere –non senza argomenti contrari in punto di

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an- anche in tema di valutazione di danni alla persona ai fini del quantum risarcitorio, per quel che riguarda da vicino le materie evocate dall’art.445 bis cpc appare ictu oculi la loro estraneità ontologica dall’alveo delle obbligazioni contrattuali (a meno di non voler spendere anche in questa sede, non senza forzatura interpretativa, il concetto di obbligazioni derivanti da “contatto sociale”) e men che mai delle obbligazioni ex delictu.

Se nonostante tale evidenza si volesse ritenere comunque compatibile il richiamo all’art.696 bis cpc, di esso resterebbe salvo solo il rinvio al terzo comma dell’art.696 cpc, che a sua volta rinvia agli artt.694 e 695 cpc per quanto concerne le modalità di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti ed i correlati incombenti di rito, tenuto conto del rinvio che l’ultimo comma dell’art.696 bis cpc fa agli articoli da 191 a 197 cpc dedicati, per l’appunto, alla nomina ed alle indagini del consulente tecnico. Orbene, poiché tra esse norme v’è pure l’art.195 c.p.c., come da ultimo novellato23, risulta essere una superfetazione l’espresso richiamo a detto articolo da parte del Legislatore del D.L. e della legge di sua conversione al comma 1 dell’introdotto art.445 bis cpc

Ma la regolamentazione generale, di per sé avvitata attorno ai suddetti rinvii ove compatibili, è complicata dall’ulteriore rinvio alla norma speciale del comma 6-bis dell’art.-10 del D.L.

30.9.2005 n.203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2.12.2005 n.248 24 che a sorpresa è stata modificata dal comma 7 dell’art.38 D.L. n.98/2011, poi convertito in legge e collocato al comma 8, nei seguenti termini: “Nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un consulente tecnico d'ufficio, alle indagini assiste un medico legale dell'ente, su richiesta del consulente nominato dal giudice il quale provvede ad inviare, entro 15 giorni25 antecedenti l’inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell’Inps competente o a suo delegato. Alla relazione peritale è allegato, a pena di nullità, il riscontro di ricevuta della predetta comunicazione. L’eccezione di nullità è rilevabile anche d’ufficio dal giudice. Il medico legale dell’ente è autorizzato a partecipare alle operazioni peritali in deroga al comma primo dell’art.201 del codice di procedura civile”.

Il richiamo di questa disposizione, che involge regole operative indirizzate al consulente tecnico d’ufficio, nel comma 1 dell’art.445 bis cpc laddove prevede che “Il giudice procede a norma dell’art.696 bis cpc….nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’art.10 comma 6 bis…”, conduce all’ovvia conclusione che, nel verbale di giuramento e di

23 Comma così sostituito dall'art. 46, comma 5, L. 18 giugno 2009, n. 69.

24 4 Il comma inserito dall'art. 20, comma 5-bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102. Precedentemente tale modifica era contenuta nell'art. 20, comma 5, lett. d), D.L. 1° luglio 2009, n. 78, che così recitava, prima della sua modifica per effetto dell’art.38 comma 7 D.L. 98/2011 conv. con modifiche nella legge n.111/2011 comma 8: «6-bis. Nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un consulente tecnico d'ufficio, alle indagini assiste un medico legale dell'ente, su richiesta, formulata, a pena di nullità, del consulente nominato dal giudice, il quale provvede ad inviare apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell'INPS competente. Al predetto componente competono le facoltà indicate nel secondo comma dell'articolo 194 del codice di procedura civile».

25 Si noti che negli altri commi e disposizioni il numero dei giorni è espresso a lettere, mentre solo in questo caso è indicato con numero.

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affidamento dell’incarico peritale, il giudice dovrà invitare il proprio consulente ad adeguarsi al disposto del novellato art.10 comma 6 bis del D.l. 203/2005 così come modificato.

L’approccio al comma 4 dell’art.445 bis cpc dà consistenza ulteriore all’idea che il legislatore del D.L. 98/2011, poi convertito, abbia difettato di qualificate doti processuali e soprattutto non abbia avuto avanti a sé, chiaro e ricomposto, il quadro di disposizioni normative evocate.

Si è detto, infatti, che il comma 1 dell’art.445 bis cpc si chiude con il rinvio all’art.195 cpc che, così come da ultimo novellato26, recita che:

“Delle indagini del consulente si forma processo verbale quando sono compiute con l'intervento del giudice istruttore, ma questi può anche disporre che il consulente rediga relazione scritta.

[2] Se le indagini sono compiute senza l'intervento del giudice, il consulente deve farne relazione, nella quale inserisce anche le osservazioni e le istanze delle parti.

[3] La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all'udienza di cui all'articolo 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse.”

Se il richiamo deve intendersi all’art.195 cpc per intero, esso si risolve in un’altra superfluità sol che si abbia riguardo al citato comma 4 dell’art.445 bis cpc che prevede, “terminate le operazioni peritali”, la emissione da parte del giudice di un decreto in cui fissa un termine

“non superiore a trenta giorni” (quindi perentorio) entro il quale le parti “devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio”. Cosa consegue al mancato rispetto del termine non superiore a gg.30 (e quindi anche inferiore) assegnato dal giudice e decorrente dal “decreto comunicato alle parti”? Pare trattarsi di termine perentorio, qualificandosi tale a mente dell’art.152 cpc anche quello previsto dalla legge ed affidato al giudice nella sua concreta fissazione, in quanto la sua decorrenza determina automaticamente la decadenza dall’attività processuale da compiere, ossia il deposito dell’atto di contestazione delle conclusioni del ctu. È ragionevole, dunque, ritenere che l’inosservanza del termine fissato dal giudice, produca effetti preclusivi alla contestazione della ctu, equipollenti alla “assenza di contestazione” di cui al successivo comma 5 dell’art.445 bis cpc in esame.

Non si comprende la ratio del meccanismo previsto al comma 4 che appesantisce la procedura in esame, anziché snellirla anche nei tempi, al cui fine sarebbe stato più che idoneo applicare, atteso il dichiarato rinvio, il sistema di replica tecnica concepito al comma 3 dell’art.195 cpc. È opportuno rilevare che nulla si dice sul contenuto della “dichiarazione di dissenso”

formulata con atto scritto depositato in cancelleria, dovendosi ritenere non necessaria alcuna esplicitazione delle ragioni del dissenso, e ciò all’evidenza del comma 6 dell’art.445 cpc che recupera “i motivi della contestazione” nel ricorso introduttivo dell’eventuale e susseguente giudizio di merito, oltre che all’evidenza della mancanza di previsione di qualsiasi sindacato del giudice ovvero della controparte.

26 v. nota sub n.14.

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Stando alla disciplina del comma 5 dell’art.445 bis cpc, se le parti nel termine di gg.30 loro assegnato, in base al comma 4, non hanno inteso contestare (con atto scritto e depositato) le conclusioni del Ctu (è privo di rilievo l’uso del singolare nell’incipit del comma 5 “in assenza di contestazione”), e se il giudice non ha ritenuto a norma dell’art.196 cpc di rinnovare le indagini e sostituire il consulente, “con decreto pronunziato fuori udienza” entro trenta giorni dalla scadenza degli atri trenta concessi alle parti, “omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio provvedendo sulle spese”.

Anzitutto si rileva che la previsione del decreto di omologa presuppone che l’accertamento del requisito sanitario sia stato positivo per la parte che ne abbia fatto istanza. E se, invece, fosse negativo? Ci si dovrebbe aspettare un provvedimento del giudice? Nel silenzio della norma, deve escludersi che il giudice debba provvedere sull’esito negativo dell’istanza, in quanto un simile provvedimento (di rigetto) non è dato ricavare dalle altre disposizione richiamate dall’art.445 bis comma 1 cpc, a tacer poi le problematiche processuali che deriverebbero dall’abnormità di un simile provvedimento. Resta, ovviamente, salvo il decreto di liquidazione delle spese e del compenso della ctu.

Poco chiara è la precisazione delle “risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio”, atteso che, di regola, il giudizio espresso dal consulente medico officiato dal giudice è notoriamente e necessariamente basato su di una ricostruzione di anamnesi prevalentemente documentale, sull’esame della certificazione sanitaria più eloquente e recente del caso, sull’esame obiettivo condotto direttamente sul periziato, salva l’ipotesi di premorienza di quest’ultimo, ed infine sulla valutazione globale degli elementi acquisiti. Pertanto, riesce davvero improbabile immaginarsi un relazione peritale disancorata da “risultanze probatorie”, alias documentazione sanitaria.

Prosegue il periodo del comma 5 dell’art.445 bis cpc che il decreto di omologa del giudice non è impugnabile, né modificabile. E se il decreto fosse affetto da un errore materiale, sarebbe emendabile con la procedura di correzione di errore materiale di cui all’art.287 cpc? Non è facile rispondere al quesito. Da un parte si potrebbe rispondere affermativamente in linea con la tesi dottrinale27 secondo cui tutti i provvedimenti non revocabili, sebbene diversi dalla sentenza, e che abbiano una funzione decisoria, si prestano al procedimento di correzione di cui all’art.287 cpc. Per converso si potrebbe obiettare per la non correggibilità del decreto in questione, in ossequio alla limitazione edittale (“sentenze ed ordinanze”) posta dall’art.287 cpc. Tuttavia, considerata la natura e l’effetto del decreto di omologa, considerato che con esso il giudice provvede anche sulle spese, per esse intendendosi non solo quelle del compenso al ctu ma anche quelle della parte il cui requisito sanitario sia stato accertato, e considerato che esso, in quanto non impugnabile né modificabile, è vincolante per gli “enti competenti”, appare sostenibile che detto provvedimento riveli una funzione in parte qua decisoria, tale da renderlo assoggettabile al procedimento di correzione dell’errore materiale. Militano in ogni caso a favore della tesi affermativa, ragioni di buon senso ed opportunità di fronte ad una ricca casistica di errori materiali di frequente verificazione.

Il decreto di omologa che provveda anche sulle spese del procedimento, “è notificato agli enti competenti”. Posto che in tal caso si specifica che trattasi di notificazione (e non già di mera

27 M.ACONE, Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice, I, EGI, IX, Roma, 1988.

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