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Capitolo 2 Principio fisico e tecniche di rivelazione per la SPECT

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Academic year: 2021

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Capitolo 2

Principio fisico e tecniche di

rivelazione per la SPECT

2.1

Introduzione

La tecnica di imaging funzionale su cui si basa il tomografo SPEMT del quale saranno descritte costruzione e messa a punto `e la SPECT. Come accennato nel paragrafo 1.3, la tecnica consiste nella ricostruzione della distribuzione 3D di un radiofarmaco emettitore di singolo fotone iniettato nel paziente. La sua utilit`a risiede nel fatto che la concentrazione del farmaco `e pi`u alta nelle lesioni tumorali maligne rispetto a quella nel tessuto sano, e ci`o consente di visualizzare alcuni tipi di tumore nelle immagini che vengono prodotte con la rivelazione dei fotoni emessi.

La rivelazione dei fotoni avviene sfruttando il fenomeno della fluorescenza, grazie al quale un raggio γ che penetra in un opportuno cristallo (scintillatore) viene trasformato in fotoni a pi`u bassa energia (dell’ordine dell’eV) in numero proporzionale all’energia del fotone incidente. La luce di scintillazione viene poi catturata da uno o pi`u fotomoltiplicatori (o fototubi), che trasformano il segnale luminoso in segnale elettrico. Il segnale elettrico, a sua volta, passa attraverso

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alcune trasformazioni fino ad essere acquisito in forma digitale e memorizzato; un sistema elettronico compie la lettura del segnale in uscita dal fotomoltiplicatore (readout). Solitamente l’elettronica si compone di una o pi`u catene resistive, di sezioni preamplificatrici, di sezioni in cui la forma del segnale viene modificata (shaping) e di schede di acquisizione in cui `e integrato il convertitore analogico-digitale (Analogue to Digital Converter, ADC) che campiona il segnale, dalle quali i dati acquisiti sono trasferiti su un pc.

A differenza di quanto avviene nella PET, nella SPECT la linea di volo del fotone rivelato non pu`o essere determinata dalla coincidenza con un altro fotone che giunge nel rivelatore opposto, dato che i fotoni sono emessi singolarmente. Diventa perci`o necessario selezionare i fotoni in modo da accettare solo quelli che provengono da direzioni prefissate: ci`o si ottiene ponendo un collimatore fra la sorgente di radiazioni e il rivelatore. Accettando solo una piccola parte dei fotoni (che sono emessi in modo isotropo su tutto l’angolo solido), la sensibilit`a del rivelatore (intesa come rapporto fra il numero di eventi rivelati nell’unit`a di tempo e l’attivit`a della sorgente) si riduce drasticamente.

La realizzazione della tomografia prevede un’acquisizione dei dati distribuita su pi`u viste, ottenute ruotando il tomografo SPECT attorno al FoV a step angolari prefissati. Ad ogni vista vengono acquisite le proiezioni planari (secondo le dire-zioni consentite dal collimatore) dell’attivit`a del radiofarmaco nel FoV. I dati delle proiezioni vengono salvati sul pc e successivamente rielaborati e posti nella forma pi`u adatta affinch´e appositi algoritmi di ricostruzione 3D ne ricavino le immagini tomografiche che riportano l’attivit`a del farmaco.

In questo capitolo saranno descritti alcuni dei dispositivi che vengono usati nella costruzione di un sistema SPECT, esaminando di volta in volta gli aspetti fisici pi`u importanti che li caratterizzano.

2.2

Collimatori

Malgrado il fatto che nella moderna medicina nucleare la scena sia dominata dai progressi dell’elettronica e delle tecnologie digitali, `e un fatto che la qualit`a del-l’immagine sia ancora determinata per la maggior parte dal collimatore [ADG01]. Come detto, l’uso del collimatore `e inevitabile nella SPECT per realizzare il con-cetto di proiezione. Esso `e costituito da un blocco di materiale ad alta densit`a che presenta una struttura a fori lungo determinate direzioni, dipendenti dal ti-po di collimatore: attraverso un foro ti-possono passare soltanto i fotoni aventi la stessa direzione del suo asse, mentre il resto dei fotoni viene rigettato tramite

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l’as-sorbimento nel materiale. Poich´e il collimatore ha uno spessore finito, in realt`a le direzioni accettate formano un fascio centrato sull’asse del foro: come ordine di grandezza, l’angolo solido sotteso dal fascio `e tale che mediamente solo 1 su 104dei fotoni emessi contribuisce alla formazione delle immagini. Per aumentare

il numero di fotoni rivelati uno degli accorgimenti possibili potrebbe essere, per esempio, aumentare il diametro dei fori: i fotoni cos`ı acquistati avrebbero per`o di-rezioni ancor pi`u differenti da quella dell’asse del foro. Si ha quindi la situazione seguente: se si aumenta la sensibilit`a del rivelatore acquisendo pi`u fotoni, si ha un degrado della risoluzione spaziale; se si accettano soltanto fotoni con traiettoria vicina a quella ideale, la statistica dei conteggi `e bassa.

Il collimatore, se paragonato agli altri dispositivi impiegati nella SPECT, ap-pare uno strumento molto semplice. Nonostante ci`o ne esistono molti tipi, che possono differire per: forma della sezione dei fori (che pu`o essere circolare, trian-golare, rettantrian-golare, esagonale), schema del reticolo dei fori (quadrato, rombico, triangolare), convergenza dei fori (paralleli, convergenti, divergenti, “fan beam”, “cone-beam”), affusolamento dei fori, diametro dei fori, spessore del collimatore, separazione dei fori (spessore dei setti) e materiale.

Non tutte queste caratteristiche hanno lo stesso impatto sulle performance del collimatore: di gran lunga la pi`u importante `e il rapporto d

L fra il diametro del foro e la sua lunghezza. Questo compare, ad esempio, nella formula base che stima la risoluzione spazialeRcdi un generico collimatore a fori paralleli:

Rc =

d

L (z0+ L) (2.1)

dove z0 `e la distanza della sorgente dal collimatore. Solitamente la risoluzione

spaziale `e calcolata come larghezza a met`a altezza (Full Width at Half Maximum, FWHM) della Point Spread Function (PSF), che esprime il flusso di fotoni in un punto r = (x, y) sul piano del rivelatore dovuto a una sorgente puntiforme di attivit`a unitaria posta in un punto P0 = (r0, z0), con r0 = (x0, y0) sul piano del

collimatore. Sempre per un collimatore a fori paralleli, la sensibilit`a geometrica `e data da εg = K2  d L 2 d2 (d + t)2 (2.2)

dove t `e lo spessore dei setti tra un foro e l’altro e K un fattore geometrico di-pendente dalla forma dei fori (ad esempio, K = 0.26 per fori a sezione esagonale) [ADG02]. Dalla (2.1) si vede che una minore distanza dal collimatore migliora

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la risoluzione spaziale, mentre dalla (2.2) discende che un minor spessore minore del collimatore migliora la sensibilit`a.

Gli altri parametri citati, come la forma dei fori o lo schema del reticolo, han-no un’importanza mihan-nore e sohan-no scelti dai costruttori per fini correzioni delle ca-ratteristiche dei collimatori. La convergenza `e invece sfruttata per ottenere una maggiore efficienza. La geometria pi`u usata `e quella fan beam, nella quale esi-ste una retta (linea focale) intersecata da tutti gli assi dei fori. Nella geometria cone-beam, invece, tutti gli assi convergono in un unico punto (punto focale). I collimatori che usano questa geometria sono i pi`u efficienti, ma richiedono una ricostruzione dei dati SPECT complicata.

Un parametro importante per il progetto di un collimatore `e lo spessore dei setti. Come si vede dall’eq. (2.2), esso influenza la sensibilit`a, che diminuisce all’aumentare del suo valore. Questo non pu`o essere troppo basso, perch´e altri-menti l’effetto di penetrazione dei fotoni diventerebbe importante, ma neppure troppo alto, in quanto potrebbero comparire artefatti legati allo schema dei fori.

Infine, `e di cruciale importanza il materiale impiegato. Dato che il collimatore deve avere la capacit`a di assorbire i fotoni con direzioni indesiderate, il materiale deve necessariamente avere alta densit`a ed elevato numero atomico. Un elenco dei materiali usati fino ad oggi e delle loro caratteristiche `e riportato in tabella 2.1.

Materiale Z A ρ (g/cm3) Piombo 82 207 11.35 Tungsteno 74 184 19.30 Tantalio 73 181 16.60 Oro 79 197 19.32 Uranio 92 238 18.95

Tabella 2.1: Materiali usati per i collimatori e loro caratteristiche.

2.3

Scintillatori

2.3.1

Interazioni fotone-elettrone nel cristallo: effetto

fotoelet-trico ed effetto Compton

La rivelazione di un raggio γ in un un cristallo scintillatore (i pi`u comunemente usati in medicina nucleare sono quelli inorganici) `e dovuta alla cessione da par-te del fotone di una parpar-te o di tutta la sua energia al cristallo, e alla capacit`a del

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cristallo di restituire tale energia sottoforma di fotoni con lunghezza d’onda com-presa fra il vicino infrarosso e il vicino ultravioletto. Le interazioni dei fotoni incidenti con gli elettroni del cristallo pi`u importanti alle energie usate in SPECT (' 100 keV) sono l’effetto fotoelettrico e l’effetto Compton [Kno01]. Nell’effet-to foNell’effet-toelettrico il foNell’effet-tone cede tutta la sua energia nell’urNell’effet-to con un elettrone, che viene espulso dall’atomo cui era legato per diventare esso stesso una particella ionizzante: questo `e il caso ideale, in cui tutta l’energia del fotone viene cedu-ta al criscedu-tallo e l’evento rivelato viene istogrammato nel fotopicco dello spettro energetico. L’effetto Compton invece consiste in un urto elastico fra il fotone e un elettrone poco legato, in cui l’energia Ecceduta all’elettrone dal fotone (di energia

iniziale E0) dipende dall’angolo di scattering θ:

Ec =

γ(1 − cosθ)

1 + γ(1 − cosθ) E0 (2.3)

dove γ `e il rapporto E0/mec2 fra l’energia iniziale del fotone e la massa a

riposo dell’elettrone. In questo caso il fotone pu`o subire diversi urti successivi prima di perdere la sua energia, oppure uscire dal cristallo prima di perderla tutta (il cristallo ha una lunghezza finita). La conseguenza dell’effetto Compton sullo spettro `e che al fotopicco si aggiunge una componente continua che va da E = 0 a E = Ece, dove Ece `e la massima energia trasferibile con il primo urto, che

definisce il cosiddetto “Compton edge”: Ece =

1 + 2γ E0 . (2.4)

Se ci sono urti successivi, l’evento pu`o essere istogrammato fra il Compton edge e il fotopicco e addirittura sul fotopicco se negli urti il fotone diffuso perde tutta la sua energia.

Dal punto di vista macroscopico, l’intensit`a I di un fascio di fotoni di intensit`a iniziale I0 in un cristallo segue la legge

I(x) = I0 e−µx (2.5)

dove µ `e il coefficiente di attenuazione del cristallo e x la distanza percorsa dal fascio al suo interno. µ pu`o essere espresso in termini delle sezioni d’urto Φph

(effetto fotoelettrico) e σc(effetto Compton):

µ = NA

ρ

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dove ρ `e la densit`a del cristallo, A il numero di massa atomica e NA il

nu-mero di Avogadro. Poich´e gli eventi rivelati vengono selezionati in una finestra energetica intorno al fotopicco, `e importante che la probabilit`a di avere un effet-to foeffet-toelettrico (“frazione di foeffet-toelettrico”) sia pi`u grande possibile alle energie desiderate, in modo da massimizzare il numero di fotoni che contribuiscono alla formazione dell’immagine. I contributi dei due effetti al coefficiente di attenua-zione dipendono sia dalla densit`a (ρ) che dal numero atomico efficace (Zef f) del

cristallo: µph `e proporzionale a ρZef fn /AE m

0 , dove n `e circa 4 a 100 keV e

au-menta gradualmente fino a 4.6 a 3 MeV, e m decresce da 3 a 100 keV fino a 1 a 5 MeV; µc risulta invece proporzionale a ρZef f/AE0, che `e circa 0.45 ρ/E0.

Un’alta densit`a favorisce quindi le interazioni dei fotoni nel cristallo, mentre un alto valore di Zef f aumenta la probabilit`a di avere un effetto fotoelettrico rispetto

a una diffusione Compton: per questo motivo si preferisce usare cristalli con alto Zef f [ADG03].

2.3.2

Meccanismo di scintillazione

Il meccanismo della scintillazione nei materiali inorganici dipende dagli stati energetici generati dal reticolo cristallino del materiale. In un cristallo puro i livelli energetici che possono occupare gli elettroni variano con continuit`a all’interno di bande di energia. La banda occupata a pi`u alta energia `e la banda di valenza, mentre la banda vuota a pi`u bassa energia `e quella di conduzione; le due bande sono separate da un intervallo di energie proibite di ampiezza Egap (bandgap),

dell’ordine dell’eV. Se il cristallo assorbe energia, un elettrone della banda di valenza pu`o passare nella banda di conduzione, dando origine a una lacuna nella banda di valenza (normalmente piena). L’emissione di un fotone conseguente al ritorno dell’elettrone nella banda di valenza, in un cristallo puro, `e un processo scarsamente efficiente: infatti, dato che l’energia necessaria alla formazione di una coppia elettrone-lacuna `e simile a quella rilasciata nella loro ricombinazione, gli spettri di emissione e di assorbimento si sovrappongono e il cristallo non `e trasparente alla sua emissione (auto-assorbimento). Inoltre i valori tipici di Egap

sono tali per cui il fotone risultante avrebbe un’energia troppo alta per rientrare nel range del visibile.

Per aumentare la probabilit`a di emissione di fotoni nel visibile, di solito al cri-stallo viene aggiunta una piccola quantit`a di impurit`a (per esempio, l’NaI viene drogato con tallio per ottenere NaI(Tl)). Le impurit`a, chiamate centri attivato-ri, modificano localmente la struttura delle bande, creando livelli intermedi nella banda proibita. Quando una particella carica attraversa il cristallo cedendo

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ener-gia, forma un gran numero di coppie elettrone-lacuna. Le lacune diffondono ve-locemente verso i centri attivatori, causandone la ionizzazione: questo processo `e favorito in quanto l’energia di ionizzazione di un’impurit`a `e minore di quella tipica del cristallo. Allo stesso tempo, anche gli elettroni passati nella banda di conduzione migrano lungo il cristallo, e se incontrano un centro ionizzato possono essere catturati in uno dei suoi stati eccitati. Se la transizione dallo stato eccita-to allo staeccita-to fondamentale del centro attivaeccita-tore (rieccita-tornaeccita-to neutro) `e ammessa, la diseccitazione avverr`a molto rapidamente e con alta probabilit`a di emissione di un fotone (fluorescenza). Poich´e l’energia dei fotoni cos`ı prodotti `e minore del bandgap, lo spettro di emissione viene spostato verso lunghezze d’onda pi`u gran-di (nel caso dell’NaI(Tl) lo spostamento si ha dall’ultravioletto al visibile), per le quali il cristallo `e trasparente: cos`ı la luce di scintillazione pu`o uscire dal cristallo ed eventualmente essere raccolta dai fotomoltiplicatori. Dato che la diffusione di lacune ed elettroni sui centri attivatori avviene in tempi molto pi`u piccoli rispetto ai tempi caratteristici della fluorescenza, la formazione degli stati eccitati pu`o es-sere considerata praticamente istantanea: cos`ı le caratteristiche di risposta di uno scintillatore inorganico dipendono essenzialmente dal tempo di decadimento degli stati eccitati (tipicamente T1/2' 50-500 ns).

Il fenomeno della fluorescenza appena descritto `e in competizione con altri processi. Per esempio, l’elettrone catturato dal centro attivatore potrebbe occupa-re uno stato eccitato con transizione allo stato fondamentale proibita. In questo caso `e richiesta un’ulteriore energia per permettere all’elettrone di transire a uno stato ad energia pi`u alta, per il quale la diseccitazione verso lo stato fondamentale sia possibile. Una possibile fonte di energia `e l’eccitazione termica: la compo-nente “lenta” alla scintillazione che ne consegue prende il nome di fosforescenza, e pu`o rappresentare una sorgente non trascurabile di luce “di fondo” in uno scin-tillatore. Un altro processo che pu`o avvenire `e il quenching, nel quale il ritorno dell’elettrone dallo stato eccitato allo stato fondamentale `e possibile senza l’emis-sione di radiazione: in questo caso l’energia ceduta al cristallo dalla particella carica viene persa.

Sia per la presenza di processi non radiativi, sia perch´e l’energia Ee−h

ne-cessaria alla produzione di una coppia elettrone-lacuna `e in media circa tre volte superiore a Egap(e quindi maggiore di quella del fotone emesso), non tutta

l’ener-gia assorbita dal cristallo viene riemessa sottoforma di luce. Detta Eph l’energia

media del fotone prodotto, una stima approssimata della frazione massima di ener-gia restituita dal cristallo con la scintillazione `e data dal rapporto Eph/Ee−h. Per

misurare l’efficienza di scintillazione di un cristallo un parametro spesso usato `e la resa di luce, definita come il numero di fotoni emessi per ogni MeV di energia

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assorbita:

L = Nph

1 MeV . (2.7)

In realt`a L non `e una costante: essa dipende dall’energia assorbita E e per-ci`o sarebbe pi`u corretto scriverla come L(E). Negli scintillatori inorganici, per`o, tale dipendenza `e meno marcata che in quelli organici, cos`ı che in prima appros-simazione la relazione fra il numero di fotoni prodotti e l’energia depositata nel cristallo pu`o essere considerata lineare. Il meccanismo della scintillazione pu`o allora essere riassunto nella forma:

Nph =

E Ee−h

Υe−h ΥLC (2.8)

dove Υe−h `e l’efficienza del processo di produzione di coppie e ΥLC

l’effi-cienza del processo di produzione di fotoni di scintillazione a partire dalle coppie [ADG04].

2.3.3

NaI(Tl)

Esaminiamo come esempio di cristallo scintillatore l’NaI(Tl), che come detto si ottiene drogando lo ioduro di sodio con il tallio (frazione molare del Tl: 10−3). Nonostante che dalla sua “scoperta” siano passati vari decenni, durante i quali la ricerca sugli scintillatori ha portato alla realizzazione di materiali sempre nuovi, questo cristallo rimane tuttora uno dei pi`u usati in medicina nucleare. Pu`o essere usato per realizzare scintillatori di varie forme e dimensioni, `e piuttosto fragile ed `e igroscopico: per questo motivo `e adoperato in configurazioni chiuse, in cui `e al riparo dall’umidit`a dell’aria.

La sua caratteristica principale `e l’eccellente resa di luce, il cui valore tipi-co `e di 40000 fotoni/MeV. L’energia necessaria per la formazione di una tipi-coppia elettrone-lacuna nell’NaI(Tl) `e di circa 20 V, con la conseguenza che l’assorbi-mento di un MeV pu`o portare alla formazione al massimo di 5 · 104 coppie.

Es-sendo questo valore molto vicino a quello della resa di luce, sia Υe−h che ΥLC

sono prossime all’unit`a. Anche nell’NaI(Tl), come accade in altri scintillatori inorganici, la relazione fra l’energia luminosa prodotta e quella assorbita `e ap-prossimativamente lineare: la non-linearit`a `e piccola, anche se misurabile, e pi`u pronunciata alle basse energie (E ≤ 100 keV).

Il tempo di decadimento dovuto alla fluorescenza `e 230 ns a temperatura am-biente: se paragonato con quello di altri scintillatori `e piuttosto lungo e rende

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l’NaI(Tl) inadatto per applicazioni ad alto rate di conteggi. A questa componente se ne aggiunge un’altra con tempo caratteristico di 0.15 s, dovuta alla fosfore-scenza, che contribuisce per il 9% circa dell’emissione totale. Poich´e il tempo di risposta dei fotomoltiplicatori `e solitamente molto pi`u basso rispetto a questi tempi di decadimento, se il rate degli eventi non `e troppo alto ogni fotoelettro-ne dovuto alla fosforescenza `e risolvibile singolarmente e il segnale prodotto da ciascuno ben al disotto delle ampiezze di interesse per le misure.

Infine, com’`e stato detto sopra, una caratteristica importante per uno scin-tillatore `e la probabilit`a di effetto fotoelettrico per i fotoni incidenti: nel caso dell’NaI(Tl) questa `e circa dell’80% per fotoni di 140 keV (picco di emissione del 99Tc) e conferma la bont`a della scelta di questo materiale per i rivelatori da impiegare nella SPECT.

2.4

Fotomoltiplicatori

L’uso degli scintillatori come rivelatori non sarebbe possibile se i deboli se-gnali luminosi da essi prodotti non potessero essere trasformati in sese-gnali elettrici misurabili [Kno02]. Uno dei dispositivi in grado di svolgere questo compito `e il tubo fotomoltiplicatore (PhotoMultiplier Tube, PMT). Le parti principali che co-stituiscono un PMT sono: un involucro esterno, che ha il compito di mantenere il vuoto dentro il tubo (in modo da consentire l’accelerazione di elettroni a bassa energia) e che presenta dalla parte fotosensibile una finestra (solitamente di ve-tro) trasparente alla luce dello scintillatore; un fotocatodo, composto di materiale fotosensibile (per esempio bialkali), in grado di trasformare quanti pi`u possibili fotoni di scintillazione in elettroni a bassa energia; una struttura di accelerazione, moltiplicazione e raccolta degli elettroni prodotti dal fotocatodo, costituita da pi`u stadi (dinodi, che terminano in un anodo di raccolta), la quale amplifica la corren-te elettronica a livelli utilizzabili negli stadi successivi di elaborazione del segnale (catene resistive).

Il processo di emissione di un elettrone a bassa energia da parte del fotocatodo richiede tre passaggi: la produzione del fotoelettrone a seguito del trasferimento dell’energia del fotone incidente per effetto fotoelettrico, la migrazione dell’e-lettrone attraverso lo spessore del fotocatodo e l’abbandono della superficie del fotocatodo tramite il superamento della barriera di potenziale che la separa dal vuoto (work function). La work function stabilisce la massima lunghezza d’onda che pu`o avere un fotone per generare un fotoelettrone (λ di cut-off ), che di solito si colloca fra il rosso e il vicino infrarosso. Per elettroni con energia

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superio-re a quella di cut-off rimane il problema della perdita di energia dovuta agli urti elettrone-elettrone durante la migrazione: questa `e tale per cui solo gli elettroni generati in un sottile strato prossimo alla superficie (qualche nm) possono rag-giungere la barriera con energia sufficiente a superarla. Il fotocatodo deve quindi essere abbastanza sottile da massimizzare il numero di fotoelettroni in grado di lasciare la sua superficie; nel contempo per`o deve essere anche abbastanza spesso da non risultare completamente trasparente ai fotoni di scintillazione.

Un parametro spesso usato per misurare la sensibilit`a del fotocatodo `e l’efficienza quantica(Quantum Efficiency, QE), data da:

QE = numero di fotoelettroni emessi

numero di fotoni incidenti . (2.9)

L’efficienza quantica dipende fortemente dall’energia dei fotoni incidenti. Il grafico di QE in funzione di λ prende il nome di risposta spettrale, ed ha un mas-simo che normalmente si aggira intorno al 20-30%, a causa degli effetti accennati sopra. Nella pratica si cerca di sovrapporre il pi`u possibile la risposta spettrale allo spettro di emissione dello scintillatore, in modo da avere la pi`u alta efficienza possibile. Mentre la parte della risposta spettrale che si estende verso lunghezze d’onda pi`u grandi `e determinata dal materiale del fotocatodo (fino alla λ di cut-off), quella per piccole lunghezze d’onda `e dovuta alla finestra. Se questa `e di vetro si ha una trasparenza fino a λ di circa 350 nm, mentre per “allungare” la risposta fino all’ultravioletto (' 160 nm) vengono usate finestre di quarzo.

L’accelerazione del fotoelettrone a bassa energia che esce dal fotocatodo `e ottenuta grazie all’applicazione di un’elevata differenza di potenziale fra anodo e catodo, che viene distribuita fra i diversi stadi dinodici tramite un partitore di tensione. L’elettrone cos`ı accelerato acquista energia sufficiente a causare l’e-missione di altri elettroni (secondari) nell’urto con il primo dinodo, che a loro volta vengono accelerati e moltiplicati lungo la catena dinodica con effetto “va-langa”. Alla fine della moltiplicazione la corrente elettronica prodotta `e raccolta nell’anodo: il guadagno ottenibile in questo modo `e molto elevato (' 106).

In molti PMT l’amplificazione del segnale risultante dalla struttura dei dinodi mostra un’eccellente linearit`a lungo un vasto range di ampiezze. Inoltre, dato che il segnale anodico generato da un brevissimo impulso di luce `e realizzato in tempi piccoli (20-50 ns) e con una larghezza di qualche ns, i PMT sono in grado di conservare gran parte delle informazioni temporali contenute nel segnale luminoso.

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