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La Statua

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Academic year: 2021

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XXXVII

3. TEMI

3.1 La Statua

Il sottotitolo del racconto è The Korl Woman, perché la statua che il gruppo di borghesi vedono nel corso della visita alla fonderia rappresenta un nodo fondamentale del racconto. I visitatori si imbattono nella statua per caso, mentre sono alla fonderia,

“Stop! Make that fire burn there!” cried Kirby, stopping short. The flame burst out, flashing the figure into bold relief […] “I thought it was alive” he said, going up curiously. The others followed. “Not marble, eh?”asked Kirby, touching it. One of the lower overseers stopped. “Korl, sir.” “Korl, sir.” “Who did it?” “Can’t say. Some of the hands; chipped it out in off-hours.” “Chipped for some purpose, I should say. What a flesh-tint the stuff has! Do you see, Mitchell?” (p.14)

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E ne sono spaventati perché il colore del Korl, il materiale di scarto della lavorazione del ferro di cui è fatta, assomiglia a quello della pelle umana, tanto che all’inizio pensano che sia una donna in carne e ossa. In un primo momento questa affermazione può creare una sorta di equivoco, perché il lettore inizialmente può pensare che questa frase si riferisca a Deb, che riposa sdraiata sulla cenere. I visitatori, dopo aver capito che si tratta di una statua, la osservano e rimangono colpiti dalla sofferenza che esprime, la supplica che comunica l’espressione del viso.

Rappresenta una donna vigorosa, muscolosa, una donna che lavora

“I see.” […] there was not one line of beauty or grace in it: a nude woman’s form, muscular, grown with labor, the powerful limbs

instinct some one poignant longing. One idea: there it was in the tense, rigid muscles, the clutching hands, the wild, eager face, like that of starving wolf’s. […] “Not badly done,” said Doctor May. “Where did the fellow learn that sweep of muscles in the arm and hand? Look at them! They are groping,-do you see?-clutching: the peculiar action of a man dying of thirst.” […] “Look at the bony wrist, and the strained sinews of the instep! A working woman,- the very type of her class.”[…] (p.14)

Il dottor May apprezza la capacità dell’autore di riprodurre la muscolatura, di intagliare le torsioni degli arti, e Mitchell indovina subito chi è l’autore della statua. Mitchell è un osservatore e si rende subito conto della profondità e diversità di Hugh che, con questa scultura dimostra tutta la propria capacità artistica:

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“Mr. Mitchell has picked you as the man who did this,-I’m sure I don’t know why. But what did you mean by it?” “ She be

hungry”[…] “Not hungry for meat,” the furnace-tender said at last. “What then? Whiskey?” […] “I dunno,” he said with a bewildered look. “It mebbe. Summat to make her live, I think,-like you. Whiskey ull do it, in a way.” […] “Look at the woman’s face! It asks

questions of God, and says, “I have a right to know.” Good God, how hungry it is!” (p.14)

Tra May e Mitchell inizia una discussione sul significato della statua. Il manovale afferma che la statua rappresenta la fame, non in senso canonico, ma in senso metaforico, la fame di qualcosa che “faccia andare avanti i lavoratori”, che Kirby identifica sarcasticamente nel whisky. La statua è il simbolo della classe sociale che Hugh e Deborah rappresentano, la disperazione dovuta alla vita misera che sono costretti a vivere, una vita fatta di massacranti turni di quattordici ore, grazie ai quali possono guadagnano quel poco per tirare avanti. Non possono coltivare aspirazioni, né desideri, e non vedono la possibilità di un cambiamento, neanche i pochi che nutrono delle speranze come Hugh, che vorrebbe e potrebbe essere un’artista. Nonostante i visitatori borghesi si siano resi conto del suo talento, nessuno è in grado di trovare una soluzione, di offrire una speranza. Kirby è assolutamente disinteressato alla questione,«I have no fancy for nursing infant geniuses.[…] The Lord will take care of his own. (p.18)». May vorrebbe aiutare il ragazzo, ma afferma di non avere i soldi per farlo «“I know”, quietly “Will you help me?” “You Know, I have no means. You know, if I had, it is in my heart to take this boy

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and educate him for” (p.18)». Mitchell, sostiene che i moti e le rivoluzioni devono nascere dal basso non dall’alto «Reform is born of need, not pity no vital movement of the people has worked down, for good or evil; fermented, instead, carried up the heaving, cloggy mass. (p.19)»

La statua, oltre ad essere il simbolo delle sofferenze della classe operaia, è anche la manifestazione più evidente del genio artistico di Hugh, che nei momenti liberi intaglia il korl, riesce a “vedere” nella massa informe del materiale di scarto delle forme artistiche di rara bellezza. La sua diversità è palese anche agli altri operai, che infatti non lo considerano come uno di loro, ma lo emarginano,

In the mill he as known as one of the girl-men: “Molly Wolfe” was his sobriquet […]for other reasons, too, he was not popular. Not one of themselves, they felt that, though outwardly as

filthy and ash-covered; silent, with foreign thoughts and longings breaking out his quietness in innumerable curious ways. (p.10)

La statua, come si è visto, incarna le domande, la fame della classe operaia e in particolare di Hugh Wolfe, che nella sua creazione rappresenta il proprio desiderio, la brama di qualcosa di diverso, di qualcosa meglio. In alcuni saggi critici, queste sensazioni vengono riferite anche alla scrittrice, secondo Lucy Morrison la statua simboleggia la volontà di Harding Davis di emergere come scrittrice, di raggiungere la fama letteraria che, invece viene ostacolata dal matrimonio e dal marito.1 In realtà, anche se Rebecca Harding Davis

1

Cfr. L. MORRISON, The Search for the Artist in Man and Fulfilment in Life- Rebecca’s Harding Davis’s “Life in the Iron Mills”, «Studies in Short Fiction», 33.2 (1996) , p.251.

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non è mai entrata nell’Olimpo degli scrittori americani, poté vantare di essere stata una delle prime giornaliste donne e di aver lavorato per molti dei più importanti giornali americani. La sua esperienza letteraria non fu del tutto insoddisfacente, perciò paragonare i sentimenti espressi dal Hugh Wolfe nella statua a quelli della scrittrice non è del tutto appropriato.

Anche la statua, oltre alla casa, è un elemento di unione tra il narratore e Hugh Wolfe, perché essa ricompare nel salotto del narratore, come unico ricordo del passaggio del manovale e si può definire come elemento scatenante del ricordo e quindi della narrazione.

Nothing remains to tell that the poor Welsh puddler once lived, but this figure of the mill-woman cut in korl. I have it here in a corner of my library. I keep it behind a curtain, N it is such rough, ungainly thing. Sometime, Nto-night, for instance, N the curtain is accidentally drawn back, and I see a bare arm stretched out imploringly in the darkness, and a eager, wolfish face watching mine: a wan, woful face, through which the spirit of the dead korl-cutter looks out, with its thwarted life, its mighty hunger, its unfinished work. Its pale, vague lips seem to tremble with a terrible question. “Is it the end?” they say, N “nothing beyond? N no more? (pp.33-34)

Questa è l’unica opera rimasta del pudellatore, perchè le altre sono state distrutte dallo scultore. È una testimonianza del suo passaggio,

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della sua vita. Il narratore vede la statua nel salotto che piano piano viene illuminata dal sole del mattino che le conferisce poteri profetici

Only this dumb, woful face seems to belong to and end with the night. […] Has the power of its desperate need commanded the darkness away? While the room is stepped in heavy shadow, a cool, gray light suddenly touches its head like a blessing hand, and its groping arm points through the broken cloud to the far East, where, in the flickering, nebulous crimson, God has set the promise of the Dawn (p.34)

La luce rappresenta Dio che illumina, benedice, accarezza la testa della statua, la cui mano punta verso est, da dove sta nascendo il sole: quindi la Korl Woman simboleggia la fiducia nel futuro.

3.2 L’industrializzazione

La statua, come visto, solleva delle domande a cui è difficile dare una risposta, nessuno dei visitatori borghesi riesce a trovare una soluzione. Probabilmente le ragioni dei tormenti e delle sofferenze della classe opraia sono da ricercare ancora più in profondità, nel meccanismo stesso di industrializzazione basato sullo sfruttamento dei manovali. La scrittrice sembra voglia far riflettere il lettore sull’industrializzazione stessa e sulle conseguenze che questo ha sugli individui. Secondo la teoria esposta dal narratore nella cornice iniziale, le vite dei manovali pongono la stessa domanda della statua:

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qual è il senso di una vita di quel genere, disperata e senza speranza. Secondo la Harding Davis il quesito contiene anche la risposta, e la risposta è la speranza di un cambiamento, la speranza del nuovo giorno che verrà.

There is a secret down here […] this terrible question which men here have gone mad and died trying to answer. I dare not to put the secret into words. These men […] do not ask it of Society or God. They lives ask it; they deaths ask it. There is no reply; […] It is this: that this terrible question is its own reply; that it is not the sentence of death we think it, but, from the very extremity of its darkness, the most

solemn prophecy which the world has known of hope to come. (p.4)

Il racconto di Rebecca Harding Davis viene oggi considerato come il primo racconto incentrato sulla vita in fabbrica in una città americana, si può quindi definire precursore del realismo americano. La scrittrice si addentra nei luoghi dove nessuno scrittore era mai entrato e presenta al mondo una realtà di cui non era a conoscenza.2

I due protagonisti sono la prova del danno dell’industrializzazione, dei cambiamenti ecologici causati dall’inquinamento e della capacità dell’industria di trasformare, stravolgere e annientare, sia fisicamente che psicologicamente, gli esseri umani più fragili proprio perchè più poveri e disagiati, Hugh Wolfe e la cugina deforme Deb. Questo modo di affrontare la diffusione dell’industria era una novità in America,

2

Cfr. W. HESFORD, Literary Contexts of “Life in the Iron Mills”, in «American Literature», (1977), 49 (1), pp.70-85, p. 70

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che ancora si presentava come la terra dell’uguaglianza, della libertà, del regno dell’utopia democratica. 3

Circa un secolo prima della pubblicazione di Life in the Iron Mills, si era diffuso in Galles un nuovo procedimento della lavorazione del ferro: la puddellazione (puddling), di cui si occupa Hugh Wolfe nel racconto, che consisteva nel caricare i getti di ghisa in speciali contenitori posti in forni, usando il carbone come combustibile. In questo modo si arrivò a produrre acciaio allo stato pastoso, semi-fuso, che poteva essere separato e solidificato. La tecnica porta il nome di “puddling” perchè lo stato fisico dell’acciaio prodotto ricalca il concetto di “pudding” cioè di massa pastosa. La lavorazione era particolarmente gravosa per gli operai, che dovevano continuamente rimestare l’acciaio per mantenerne lo stato pastoso.

L’America aveva ancora un’economia prevalentemente agricola, ma questo e altri metodi di lavorazione sviluppati nel periodo appena precedente alla pubblicazione del racconto, arrivarono in America grazie ad Andrew Carnegie, che li utilizzò nella costruzione delle ferrovie per favorire lo spostamento delle merci nel vasto continente. Infatti la fonderia in cui lavora il protagonista produce il ferro per costruire binari per la ferrovia.4

La scrittrice presenta e denuncia le condizioni degli operai descrivendo un paesaggio annerito, grigio, avvolto da perenne fumo e nebbie causate dalla ciminiere delle fonderie.

3

Cfr. G.NOCERA, Il paesaggio sconvolto: l’eterna notte di Life in the Iron Mills, in «RSA: RIVISTA DI STUDI ANGLO-AMERICANI», 1989, 5(7), p.77-85 qui p.77.

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Masses of men, with dull, besotted faces bent to the round, sharpened here and there by pain or cunning; skin and muscle and flesh begrimed with smoke and ashes; stooping al night over boiling caldrons of metal, laired by day in dens of drunkenness and infamy; breathing from infancy to

death an air saturated with fog and grease and soot, vileness for soul and body (p.5)

Persino la pelle dei manovali cambia colore a causa del continuo contatto con la cenere, il carbone e le scorie di ferro. Ovviamente la trasformazione non si ferma al livello fisico, ma ha il potere di sconvolgere i personaggi anche a livello psichico. La vita degli operai è solo l’attesa della morte, nessuna speranza, nessun cambiamento possibile, l’unico passatempo rimane l’alcol, che sembra essere una delle peggiori piaghe.

«When they are drunk, they neither yell, nor shout, nor stagger»(p.5) «She was hungry and not drunk, as most of her companions would have been found at this hour. She did not drink, this woman, nothing stronger than ale.»(p.6)

Il racconto, con questa rivelazione, scioccò i lettori borghesi, che per la prima volta si trovarono ad affrontare simile realtà sconosciute; se in Inghilterra già esistevano romanzi che descrivevano le condizioni della classe operaia, in America questo si presenta come un fenomeno nuovo.

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