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CAPITOLO PRIMO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO PRIMO

Conoscenza e condivisione

“Tutti desiderano possedere la conoscenza, ma relativamente pochi sono disposti a pagarne il prezzo”

Giovenale

1.1 Introduzione

Oggigiorno ci troviamo a vivere nella cosiddetta epoca dello sharing multimediale, la stragrande maggioranza delle persone conosce almeno uno dei più famosi social networks1 e interagisce con l’altro attraverso lo strumento della condivisione delle proprie informazioni, foto, video e quant’altro, che si esprime in una continua e talvolta esasperata volontà di voler sempre essere “connessi” con il mondo esterno.

Se riflettiamo su questa condizione di uomo come animale sociale2, già nel IV secolo a.C. Aristotele conia questa espressione per indicare l’esigenza dell’uomo di aggregarsi e di condividere informazioni con altri individui.

1 Un servizio di rete sociale, o servizio di social network, consiste in una struttura informatica che

gestisce nel Web le reti basate su relazioni sociali. La struttura è identificata, ad esempio, per mezzo del sito web di riferimento della rete sociale (da http://it.wikipedia.org/wiki/Servizio_di_rete_sociale).

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2 Ancor prima della nascita della scrittura, nelle società proto alfabetizzate la tradizione dell’oralità permette la trasmissione dei saperi. Oralità che è definita dai esperti della disciplina come:

fenomeno sociale, luogo privilegiato non del singolo ma di un’intera comunità che la condivide, dandole appunto significato. È' in questo modo che la società riesce a organizzare gli individui in maniera coerente (Galasso, 2005, pp. 21-25)

La nascita della scrittura ha sicuramente favorito questa inter-connessione tra individui per la trasmissione dei saperi in maniera formalizzata, superando le barriere del piccolo gruppo e del villaggio. Attraverso la costituzione del primo apparato urbano stratificato nell’area vicino-orientale si è contemporaneamente sviluppata la necessità di raccogliere l’ingente mole di informazioni prodotte dalla “burocrazia” all’interno di grandi archivi statali, già nel III millennio a.C. Definiamo infatti archivi e non biblioteche gli archivi di Ebla, Lagash, Mari, Ninive e via dicendo poiché essi conservavano per lo più documenti contabili, sentenze giudiziarie, atti amministrativi ecc. (Liverani, 2001)

Come definito, infatti, dalla Direzione Generale per gli Archivi

Un archivio nasce in conseguenza dell’attività di una persona, di un ente pubblico o di un privato (un’impresa, un’associazione, un sindacato, ecc.), perché moltissime attività umane richiedono la produzione e la conservazione di documenti. In altre parole, in genere gli archivi nascono per finalità eminentemente pratiche3.

Durante il periodo ellenistico arriviamo alla creazione della prima biblioteca, βιβλίον (biblíon, "libro", "opera") e θήκη (théke, "scrigno", "ripostiglio"), che nella sua accezione più puntale si esprime fisicamente grazie al progetto della Biblioteca di Alessandria, la più grande e ricca del mondo antico. Un luogo in cui un individuo o un’istituzione decide di

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3 selezionare e acquisire libri da conservare, disporre per la consultazione e la condivisione. 4

E’ grazie alle figure degli amanuensi che, prima dell’invenzione della stampa, è stata possibile la trasmissione dei saperi e la possibilità che importanti volumi summa della conoscenza classica potessero tramandarsi; l’introduzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg nel XV secolo (mondo occidentale) ha notevolmente ridotto il rischio che distruzioni di palazzi e biblioteche, o volontà di censura da parte dei potenti potesse obliterare per sempre il risultato della conoscenza degli antichi, in quanto si cominciano a produrre volumi in serie. Attualmente non possiamo non accorgerci di come il formato digitale (ad es. gli ebook) abbia in molti casi quasi soppiantato il cartaceo, anche attraverso un’analisi di dati, il settore dell’editoria digitale è fortemente in crescita. (Pagani, 2014)

1.2 La conoscenza diventa bene comune

Numerosi filosofi si sono occupati di definire in maniera univoca “la conoscenza”: Platone arriva a distinguerla dall’opinione e Aristotele afferma che siamo per natura portati al sapere; nel corso dei secoli si è avuta un’alternanza di teorie che hanno in maniera discontinua affermato che la conoscenza è possibile solo a posteriori come risultato del metodo empirico e induttivo, in contrapposizione al metodo deduttivo-razionale che da assiomi generici fa derivare conclusioni più particolari già in essi implicite (a priori). In sostanza potremmo definire la conoscenza proprio il risultato di entrambi i processi cognitivi, che si manifesta sia attraverso l’esperienza e l’apprendimento, sia con l’introspezione. (Vassallo, 2003) Al di là delle definizioni più o meno formali, ciò che ci interessa circoscrivere è il concetto di conoscenza come “bene comune”. Per bene

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4 comune o bene pubblico si intende un bene non rivale, che non si esaurisce e che è fruibile da tutti. (Samuelson, 1954, pp. 387-389).

In un mondo globalizzato in cui la digitalizzazione e lo strumento del Web hanno abbattuto le barriere territoriali, si continua a ragionare seguendo le logiche della “mercificazione”, secondo cui il libero accesso ai beni comuni naturali (terra, acqua, materie prime ecc.) debba essere competitivo essendo essi esauribili e deteriorabili, ma tutto ciò non avviene per la cultura. La cultura e la conoscenza sono direttamente proporzionali alla quantità di persone che ne fruiscono, più individui hanno accesso alle informazioni e più c’è la possibilità di accrescere questo patrimonio di idee.

La testimonianza più lampante di tale processo di “democratizzazione” della conoscenza è rappresentato dai Wiki (siti web modificabili dai lettori), in particolare da Wikipedia. Questo immenso calderone di informazioni, attraverso il termine tecnico media crowdsourcing, ha reso possibile la creazione di un’enciclopedia in cui ogni individuo ha la facoltà di partecipare attivamente, inserendo un pezzo del proprio bagaglio culturale. E’ proprio in questo modo che la conoscenza diventa bene comune, quando non è più privilegio di pochi come avveniva per l’accesso ai saperi in epoca pre-contemporanea.

Nell’evoluzione della Rete, con il cosiddetto Web 2.05, abbiamo raggiunto

uno spazio non fisico ma ideale dove, persone specializzate e non, possono interagire e creare il cosiddetto empowerment, che in termini tecnici indicherebbe un processo di crescita, dapprima dell’individuo e poi del gruppo che porta all’autocoscienza e alla consapevolezza delle proprie potenzialità.

Long before empowerment became a popular idea and the term became part of management and organizational development jargon, worker partecipation was a proven strategy for improving performance and even saving organizations. (Kinlaw, 1995, p. 3)

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5 Tutto ciò porta inevitabilmente all’arricchimento culturale del singolo e della comunità.

Un altro significativo esempio del potere del gruppo è rappresentato da un altro fenomeno di crowd (Surowiecki, 2005) che sta attualmente prendendo consistenza per la realizzazione di progetti relativi ai beni culturali, ricerca, giornalismo, cinematografia. Il crowdfunding nasce proprio dall’esperienza positiva del crowdsourcing ed è una pratica di micro-finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Una delle iniziative più significative a livello museale è quella promossa dal Louvre con il portale Tous mécènes6 (tutti mecenati) dove si chiede alla community anche una piccola donazione per acquisire opere importanti possedute da collezionisti privati.

Figura 1: homepage del portale Tous mécènes!

In Italia, la campagna di crowdfunding che si sta dimostrando altamente partecipata è quella per la ricostruzione della Città della Scienza di Napoli, distrutta nel 2013 da un incendio di origine dolosa. La raccolta ha raggiunto fino ad ora 1.439.000 euro, con 2326 finanziatori. 7

6 www.tousmecenes.fr

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6 Einstein affermava <<[…]è nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie […]>>(Einstein, 2012) e aveva probabilmente prefigurato che in un periodo di crisi come quello che stiamo attualmente attraversando nel mondo, la volontà di voler superare lo status quo fosse attraverso le strategie dal basso. Se gli Stati tagliano fondi alla cultura e alla ricerca sono il senso civico e l’amore per la cultura che muovono i singoli a finanziare progetti vincenti.

Nel volume di Hess e Ostrom (Hess & Ostrom, 2009) le due studiose sottolineano come nel corso dei secoli la conoscenza sia diventata “cumulativa” in quanto le opere di filosofi, letterati, scienziati, artisti ecc. abbiano contribuito ad accrescere progressivamente questa summa di saperi. Analogamente l’americano Henry Jenkins, esperto di media, introduce il concetto di “cultura partecipativa” (Jenkins, Ford & Green, 2013), con il quale sottolinea come i nuovi mezzi di comunicazione abbiano facilitato lo scambio e la partecipazione del singolo all’interno di una “community”, proprio la somma di singoli atti individuali genera conoscenza portatrice di valore collettivo. Secondo Jenkins:

Una cultura partecipativa è una cultura con barriere relativamente basse per l'espressione artistica e l'impegno civico, che dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. All'interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell'importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri (o, perlomeno, i partecipanti sono interessati alle opinioni che gli altri hanno delle loro creazioni). (Jenkins, 2010)

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1.3 Il Knowledge Management

Il Knowledge Management (Gestione della Conoscenza), come teoria, inizia a muovere i primi passi all’interno degli studi sull’Intelligenza Artificiale, già dagli anni ’50 con l’invenzione dei primi Computer. Studi sulla conoscenza e sulla sua rappresentazione danno il via a branche della ricerca che portano il KM ad avere un business “appeal”. (Signore, Missikoff & Moscati, 2005, p. 291).

Nonaka e Takeuchi, nel volume The Knowledge Creating Company (Nonaka & Takeuchi, 1995) parlano di “conoscenza tacita”, ossia quella conoscenza che non si esprime solamente attraverso una versione formalizzata che sia scritta o orale, ma implicita nelle relazioni tra individui o depositata nella mente, insomma quel sapere pratico (know how) (Ryle, 1949) che non sempre può essere rinchiuso all’interno di schemi. E’ quindi importante innescare un processo di esternalizzazione che possa trasformare la conoscenza tacita in conoscenza esplicita (Camussone & Cruel, 2003)

La grande virtù del sapere tacito sta nel suo essere automatico e richiedere pochissimo tempo e riflessione […] Il sapere tacito tende ad essere locale, oltre che ostinato, perché non si trova nei manuali, nei libri, nei database né negli archivi. È un sapere orale. Viene creato e disseminato attorno al distributore del caffè. Il sapere tacito si comunica quando la gente si trova insieme e racconta aneddoti, o quando intraprende uno sforzo sistematico per scovarlo e renderlo esplicito (Stewart, 1997)

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Figura 2: Il modello Nonaka (da

http://it.wikipedia.org/wiki/File:Modello_Nonaka.jpg)

Secondo lo schema proposto i due studiosi pertanto individuano varie fasi del processo conoscitivo:

1. Socializzazione: condivisione della conoscenza tacita tra persone che hanno esperienze comuni nello stesso contesto.

2. Esteriorizzazione: espressione della conoscenza tacita attraverso forme esplicite, è il momento in cui la conoscenza tacita viene messa a disposizione degli altri.

3. Combinazione: organizzazione della conoscenza diventata oramai esplicita. 4. Interiorizzazione: trasformazione della conoscenza esplicita nuovamente in

conoscenza tacita, arricchendo la persona e capitalizzando le conoscenze. (Nonaka & Takeuchi, 1995)

Pertanto, in primis bisogna valorizzare all’interno di un’organizzazione complessa la trasmissione della conoscenza tacita, sfruttando maggiormente il cosiddetto capitale umano, il cui primo teorico è stato Gary Becker negli anni ’60. L’istruzione, la cultura e la conoscenza che fino ad allora erano sempre state inquadrate come beni di consumo diventano beni su cui investire (Becker, 1964).In sostanza, anche gli economisti si rendono conto di quanto l’investimento sull’istruzione e la formazione dell’individuo

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9 possa portare al profitto e alla migliore qualità in termini di produttività. Il concetto di condivisione della conoscenza all’interno delle aziende (applicabile ad ogni livello, che sia scuola, università, organizzazioni internazionali) (Capitani, 2002) diventa quindi quasi rivoluzionario, la cooperazione tra individui e gruppi che massimizza le performance.

Obiettivo del KM è:

pianificare, coordinare, implementare e monitorare le attività predisposte per la gestione efficiente delle conoscenze. (Solinas, 2001, p. 66).

Attraverso i Knowledge Managament Systems, ossia con le tecnologie informatiche, si può arrivare a memorizzare e recuperare la conoscenza, migliorare la collaborazione, individuare le fonti della conoscenza , catturare la conoscenza tacita. (Maier, 2007). Grazie ad essi è possibile “analizzare simultaneamente un numero di casi che la mente umana da sola non sarebbe in grado di gestire.” (Solinas, 2001, p.66)

I processi essenziali nel KM sono legati alla possibilità da un lato di “reperire” le fonti di conoscenza rilevanti per il problema specifico, e dall’altro lato di “fornire” le fonti di conoscenza da utilizzare per risolvere tale problema. Schematicamente, possiamo individuare cinque processi: acquisizione, rappresentazione, elaborazione, condivisione e utilizzo della conoscenza. Il web – e in particolare il Semantic Web8 - che ne è la naturale

evoluzione – costituisce un formidabile componente per supportare gran parte di questi processi.(Signore, Missikoff & Moscati, 2005, pp. 292-293)

Se i database permettono una gestione di grosse quantità di dati tramite l’archiviazione, le comunità di pratica rappresentano invece il luogo dove dati, informazioni e conoscenza si aggregano.

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1.3.1 Le comunità di pratica

Secondo Thomas A. Stewart <<Le comunità di pratica sono la fabbrica del capitale umano, cioè il luogo dove questo materiale viene prodotto>>. (Stewart, 1997)

La comunità di pratica rappresenta la rete di comunicazione informale che si innesca all’interno di un gruppo di lavoro, attraverso la sua formazione spontanea risulta anche non gerarchizzata; solitamente ci si riferisce ad un gruppo di lavoro specializzato (nel nostro caso all’interno dell’ambito della ricerca scientifico-archeologica).

Le comunità di pratica (CdP) sono, in genere, formate da gruppi di specialisti che imparano insieme, basandosi ciascuno sul sapere degli altri. Le CdP innescano un processo straordinario di crescita del sapere. Per questo si possono considerare le strutture più importanti in ogni organizzazione dove sapere, conoscenza e pensiero hanno un valore.9

Figura 3: rappresentazione grafica di una Comunità di Pratica (da http://www.ortosociale.org/wiki2/index.php?title=Pagina_principale)

9 Da http://www.costruttivismoedidattica.it/articoli/Ferrari%20-%20comunit%E0.pdf.

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11 Laddove siano state osservate in attività le CdP, ad esempio all’interno di una qualsiasi azienda, la qualità del lavoro e delle prestazioni dei singoli risulta incrementata; ovviamente possono costituirsi CdP anche a livello puramente virtuale attraverso l’esperienza del digitale, della rete che facilita lo scambio e la comunicazione. I singoli soggetti all’interno di queste comunità condividono e producono nuova conoscenza, comunicano con uno stesso linguaggio che viene a costituirsi all’interno delle “dinamiche di gruppo”, prefissano degli obiettivi formativi e crescono insieme aumentando il proprio know how e know that. Tutto ciò si ricollega ad un tipo di approccio di ricerca sul campo e di pratica che nel caso specifico dell’archeologia risulta da sempre fondamentale, ma che attraverso la stabilizzazione di queste pratiche potrebbe portare al sostanziale salto di qualità, in quanto nel caso specifico la comunità di pratica non sarebbe soltanto quella costituita dal gruppo di scavo, ma una comunità virtuale che diventa internazionale e multidisciplinare.

Il massimo studioso delle CdP è Étienne Wenger, svizzero teorico dell’educazione, che partendo proprio da studi sull’apprendimento nel suo volume “Comunità di Pratica: apprendimento, significato e identità” compie un’attenta analisi sul tema. L’autore parte da quattro premesse fondamentali in merito alla questione dell’apprendimento, della natura della conoscenza e di coloro che ne fruiscono:

1. Siamo esseri sociali

2. La conoscenza è strettamente legata alla competenza, competenze molto spesso “socialmente apprezzate”, che possono essere legate al canto, alla danza, alla poesia, alla riparazione di oggetti ecc.

3. Conoscere è partecipare a questa serie di attività socialmente apprezzate, assumendo un ruolo attivo nella società

4. Il significato, <<ossia il nostro fare esperienza del mondo e la nostra relazione attiva con esso come qualcosa di significativo, è ciò che

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12 alla fine l’apprendimento è chiamato a generare>>. (Wenger, 2006, p. 11)

Sulla base di queste premesse per Wenger l’apprendimento si genera proprio attraverso la partecipazione sociale.

Ricollegandoci al concetto di conoscenza come bene comune, le CdP rappresentano la risposta a quell’esigenza di superare l’individualismo imperante e di porsi con un approccio costruttivista nei confronti del processo creativo, realizzativo e cognitivo in genere. La sintesi del lavoro di gruppo in un ambiente virtuale può essere rappresentato dai già citati Wiki e dalla realizzazione del Web Semantico, come ad esempio il W3C (Web

Wide Web Consotium) e il TEI (Text Enconding Initiative).

Naturalmente è necessario che si possa anche lasciare una traccia in termini di documentazione scritta, di questi flussi produttivi; non solamente la redazione di un libro o di un articolo possono rendere con completezza tali processi, è necessario che si rendano reperibili i cosiddetti “materiali grezzi”, ossia i dati.

1.4 Alla base della piramide della conoscenza: i raw data

«I dati rappresentano i risultati materiali, spesso residuali di comportamenti antropici o naturali, che ci consentono di ricostruire la storia di un sito» (D’Andrea, 2006, p. 38)

Il dato non è altro che l’unità minima di conoscenza, in teoria dovrebbe essere oggettivo ma, come rivelano le teorie del fisico Bohr o le considerazioni dal punto di vista storicistico di Kuhn, anche nelle scienze esatte questo non avviene. Esso è, infatti, parte di un linguaggio descrittivo e non risulta mai isolato dall’impalcatura teorica nella quale è inserito. «I dati assumono quindi un valore soltanto all’interno di un modello o frame di riferimento: non è sufficiente l’osservazione sistematica, la misurazione e

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13 la registrazione in senso quantitativo di un oggetto per avere l’oggettività del dato. (D’Andrea, 2006, p. 36)

Il dato, pur essendo “atomo della conoscenza” e “unità minima informativa”, è influenzato dal linguaggio descrittivo utilizzato dal suo scopritore.

Possiamo quindi considerare il modello-dati (figura 4) al centro di un processo ermeneutico in cui la teoria influenza la creazione del modello-dati, determinando la descrizione del dato con un linguaggio scientifico, ma a sua volta il dato pone le basi per la comprensione del modello.

Figura 4: Rappresentazione grafica del processo ermeneutico del modello-dati (da D’Andrea

2006, figura 3)

Nella catena della conoscenza, il dato si colloca alla base della struttura piramidale (figura 5); esso rappresenta l’unità minima di rilevazione, ossia il risultato di ciò che si osserva in termini di dimensioni e caratteristiche (proprietà quantitative). Il dato grezzo è il prodotto dell’attività sensoriale dell’individuo o di test di laboratorio, in questa fase non è ancora aggregato ad altri “atomi di conoscenza”. Salendo su uno step superiore della nostra piramide della conoscenza, troviamo le informazioni, ossia concetti che includono al loro interno più significati. Infine abbiamo la conoscenza, generata dall’aggregazione delle varie informazioni e che risulta essere un sapere organizzato e strutturato.

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Figura 5: La piramide della conoscenza. (da D’Andrea 2006, figura 6)

All’interno della ricerca archeologica il dato assume un valore fondamentale in quanto lo scavo è, sostanzialmente un’attività distruttiva che produce documentazione, per cui esso è l’unico elemento che resta alla fine di un’indagine archeologica. La scelta di ciò che deve essere documentato è a discrezione dello studioso, quindi è necessaria attenzione già in fase di raccolta dati, poiché tutto ciò che non si documenta è perso per sempre. C’è, però, da considerare l’aspetto della conoscenza a priori che ogni individuo possiede e del filtro che quest’ultima attua sulla scelta di ciò che va documentato, pertanto questo procedimento risulta sempre soggettivo, a prescindere dalle conoscenze e delle competenze dello scavatore. Un passo successivo all’attività sul campo e alla raccolta dati è la formalizzazione, molto spesso considerata in maniera semplificata dai ricercatori. «La codifica rappresenta lo stadio preliminare di qualsiasi trattamento informatico poiché consente di trasformare i dati infiniti scritti dal ricercatore in linguaggio naturale in variabili finite di tipo quantitativo e qualitativo». (D’Andrea, 2006, p. 45) Considerando che la trasformazione delle osservazioni scientifiche in linguaggio è una forma di riduzionismo, bisogna scegliere in maniera appropriata il linguaggio da utilizzare onde

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15 evitare una manipolazione eccessiva della realtà.

1.5 Conclusioni

In questo primo capitolo abbiamo affrontato l’ostico discorso legato alla conoscenza, un concetto ampissimo che abbraccia varie discipline e linee di ricerca. Partendo da definizioni di stampo filosofico abbiamo compreso quanto attualmente la conoscenza non sia un concetto statico e individuale, ma in evoluzione continua. La conoscenza corre veloce come corre il Web, e i fenomeni di crowd ci lasciano intuire che con la consapevolezza del potenziale di produzione dal basso è possibile realizzare progetti importanti. Abbiamo toccato tematiche legate a teorie provenienti da mondi anche lontani da quello dell’archeologia, attraverso l’organizzazione aziendale, la sociologia, l’apprendimento e l’istruzione abbiamo intuito che in ogni settore di applicazione la cooperazione e condivisione delle informazioni accrescono la produttività e al tempo stesso la qualità della conoscenza. Grazie alla cosiddetta piramide della conoscenza abbiamo illustrato quali sono i vari passaggi che ci portano dalla rilevazione e produzione di un dato grezzo a quello della conoscenza in senso più teorico; tutto questo connesso con le teorie del KM e delle Comunità di pratica ci dà lo spunto per introdurre nel capitolo successivo la questione del web semantico e dei linked open data.

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