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“Nuova filosofia” e “nuova teologia”: Il filosofo “del punto di vista” e il teologo dell’ ”esperienza vissuta”

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50 II.

“Nuova filosofia” e “nuova teologia”: Il filosofo “del punto di vista” e il teologo dell’ ”esperienza vissuta”

II, I. “Nuova filosofia” e “nuova teologia” nella “Stella della redenzione”

La tematica della verità si trova in connessione nel pensiero di Rosenzweig, come abbiamo appena visto, con l’esperienza individuale - intesa come esperienza di fede (Erlebnis), e con una prassi tesa ad articolarla e a testimoniarla, in un’ottica comunitaria e condivisa. Questa è l’acquisizione maturata nella Stella ed esposta analiticamente nel Nuovo Pensiero, per il cui raggiungimento l’autore ha operato, nell’introduzione alla prima parte della

Stella stessa, una significativa decostruzione dell’idea di verità così come la

tradizione filosofica l’aveva concepita.

La tradizione in questione procede da Parmenide e giunge fino a Hegel, il filosofo che, a parere di Rosenzweig, ha portato a compimento gli assunti e i presupposti di una tradizione che aveva sostenuto con sempre maggior rigore “l’unità di essere e pensiero”, configurandosi come una filosofia della “totalità”1. Con Hegel la storia della filosofia, intesa in questo senso, perviene alla sua conclusione; la possibilità di fare filosofia secondo questa modalità pare essere esaurita, nel momento in cui il sapere “non abbraccia più solo il suo oggetto, il Tutto, ma attinge esaustivamente […] anche se stesso”. Questo sapere che si sa come tale ripercorrendo retrospettivamente le sue tappe e cogliendosi nella sua valenza concettuale, è stato reso possibile dall’ ”inclusione della storia della filosofia all’interno del sistema”, per cui il pensiero pare non potere più procedere oltre l’avvenuto “porre in evidenza se stesso”2.

La verità, intesa come un Tutto in cui il pensiero stesso che lo pensa viene ultimamente incluso come sua parte, sembra all’autore non suscettibile di ulteriori sviluppi e approfondimenti: ogni tentativo di guardare oltre l’avvenuta

1 Cfr.: Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 12. 2 Ivi, p. 6.

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51 inclusione del pensiero, come lo stesso contenuto della rivelazione divina in forma matura, nel Tutto panlogico, sembra condurre a precipitare nell’”abisso”3 di ciò che si trova oltre la compiutezza onnicomprensiva raggiunta.

Il passo che Rosenzweig tenta nell’introduzione alla prima parte del suo capolavoro filosofico lo abbiamo visto in precedenza: la prospettiva della morte e il timore che si scatena di fronte ad essa fa sì che l’uomo, l’uomo come singolo e individualità irripetibile, ricompreso nel Tutto razionale, ne fuoriesca misconoscendolo come consolatio philosophiae. Questo gesto teorico decostruttivo rende possibile la reciproca separazione dei tre elementi che la tradizione filosofica “dalla Ionia a Jena” aveva tentato di identificare in una totalità razionale e coerente, e che Kant aveva enucleato nella Dialettica

trascendentale della I Critica come idee regolative della ragione pura4. Dio, uomo e mondo non sono più parte di una medesima totalità logicamente ripercorribile, ma tre elementi fattuali indipendenti e prima di ogni pensiero o idea possibile. Il Tutto di pensiero ed essere non è più l’oggetto supremo della filosofia, la quale per procedere oltre ne ha bisogno di una che si configuri come “nuova”, quanto alla concezione del proprio soggetto e del proprio oggetto.

La proposta rosenzweighiana delinea in prima istanza una “nuova filosofia”, che avrà bisogno, come suo termine di confronto e di interazione proficua, di una teologia altrettanto rinnovata. L’introduzione alla seconda parte della Stella si prefigge questo difficile compito, ossia la proposta di una nuova filosofia che renda possibile “un filosofare dopo Hegel”; dopo che la “vecchia filosofia” sembrava aver raggiunto quello che fin dalle sue origini con Parmenide era stato il suo obiettivo: la giustificazione dell’identità di pensiero ed essere, della razionalità del reale, ivi compresa la successiva rivelazione divina.

3 Ivi, p. 107.

4 “Il Tutto di pensiero ed essere […] si è frantumato in tre pezzi distinti […]. Questi tre pezzi […]

sono i nulla a cui il Kant della dialettica trascendentale ha ridotto, criticandoli, gli oggetti delle tre «scienze razionali» del suo tempo: la teologia, la cosmologia e la psicologia razionale”. Ivi, pp. 19,20.

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52 Secondo Rosenzweig un rinnovamento della filosofia è possibile a partire, per l’appunto, dall’assunzione consapevole del venir meno di una verità unica e obiettiva, totalizzante, che si autoimpone al riconoscimento del soggetto filosofante, ovverosia l’idea del “Tutto obiettivamente pensabile”5. A questa verità che si offre solo per essere riconosciuta in quanto tale a ogni filosofo suo contemporaneo, l’autore oppone una verità filosofica che sia piuttosto

“concezione del mondo, il pensiero con cui uno spirito individuale reagisce all’impressione che il mondo produce su di lui; [La nuova filosofia] non ha come suo contenuto il contenuto della fede, ma questo si erge contro di lei come eterno paradosso”.

L’idea di filosofia che Rosenzweig prospetta nella Stella, come

Weltanschaung di un soggetto che esperisce un mondo e le sue contraddizioni, è

tale da rimettere in primo piano quell’individualità, e la sua personale esperienza, che il circuito sistematico (l’idea del Tutto) hegeliano, aveva inteso riassorbire all’interno della sua dialettica. La filosofia della storia hegeliana, infatti, aveva concepito l’individualità di ogni uomo come facente costitutivamente parte della propria epoca, e come tale da essere sottoposta a un’“astuzia della ragione”6, cui era in ultima analisi sottoposta quanto ai propri pensieri e ai propri atti. Il filosofo, in questo contesto, portava ad espressione nel concetto le tradizioni della sua epoca e il suo senso comune; dando vita a una filosofia intesa come “il proprio tempo appreso nel pensiero”7. Il prezzo da pagare in una filosofia così concepita, era la perdita dell’individualità del soggetto filosofante, che assolveva esclusivamente alla funzione propria della ragione nel riflettere la propria epoca nel concetto puro. La valenza che Rosenzweig cerca di recuperare al filosofo, al “nuovo filosofo”, è soprattutto

5 Ivi, p. 107.

6 “Che l’idea faccia agire le passioni a suo vantaggio, che lo strumento del quale si serve per darsi

esistenza ci rimetta e patisca danno è quello che possiamo chiamare l’astuzia della ragione […]. L’interesse particolare è perlopiù troppo misero rispetto all’interesse universale, gli individui sono sacrificati e abbandonati”. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, Biblioteca universale Laterza, Roma-Bari 2003, p. 30.

7 Idem, Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza,

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53 quella della personalità e dell’individualità, che si oppone frontalmente a quell’ “impersonalità”, che rendeva il filosofo tradizionale un semplice “luogotenente stipendiato della storia della filosofia”, il cui valore si risolveva semplicemente nella funzione che la filosofia lo chiamava ad assolvere8. Questa impostazione del problema del “vecchio filosofo”, è il frutto di una visione più ampia della tradizione filosofica in questione, nella quale l’operazione della mediazione assolveva, a parere del nostro pensatore, a un compito centrale, identificando ogni soggetto col suo predicato. Questa identificazione dell’individuo col concetto di volta in volta presente nella proposizione dichiarativa, del particolare con l’universale, è ai suoi occhi l’embrione della dialettica hegeliana, in cui la molteplicità si offre continuamente alla ricomprensione in un’unità superiore che si pone come sintesi.

Diversamente, Rosenzweig ritiene che “il filosofo deve essere di più che la filosofia”, come il teologo “deve essere più che la teologia”, pensando a un soggetto che non si risolve nel proprio predicato, ma che lo trascende come inesauribile. Il nuovo filosofo che l’autore delinea è un filosofo che elabora una visione del mondo o un punto di vista sul mondo, formulato a partire dalla propria esperienza, cercando di renderlo quanto più universale e condivisibile. La filosofia nasce a partire dall’esperienza personale del soggetto filosofante, il quale cerca di renderla fruibile quanto più universalmente possibile; l’universale da punto di partenza diventa, per Rosenzweig, punto di arrivo. A partire dalla contingenza della vita individuale ha origine il pensiero, che è intriso di essa, e che non ha la possibilità di superarla (secondo il modello dell’aufhebung hegeliana) e ricomprenderla nello spirito assoluto del concetto. Il pensiero filosofico è ingenerato dagli “eventi” della vita, intesi come tutto ciò che non è possibile anticipare e prevedere ragionevolmente, e che ci mettono in questione in prima persona. E a cui è necessario dare un senso e un’elaborazione, non intimistica, ma quanto più universalmente estensibile e filosoficamente valida.

Questo modo di procedere è valso probabilmente per lo stesso pensatore di Kassel, che vivendo nel periodo dell’assimilazione ebraica in Germania, aveva

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54 pensato, prima di iniziare la redazione della Stella, di convertirsi al cristianesimo. Tuttavia ciò non avvenne; in seguito a una crisi personale che lo investì durante una celebrazione dello Yom Kippur in una sinagoga di Kassel, prese coscienza dell’impossibilità strutturale di una conversione da ebreo:

Ciò che Cristo e la sua Chiesa significano nel mondo è cosa su cui siamo d’accordo: nessuno viene al padre se non attraverso di Lui (Gv 14,6). Nessuno viene al Padre – è però diverso se uno non ha più alcun bisogno di venire al Padre, perché

è già presso di Lui9.

Quest’ultima è secondo Rosenzweig la condizione dell’ebreo, che come parte del popolo eletto si trova già “presso il Padre”, già inserito a pieno titolo nella sua prospettiva di salvezza. Non ha alcun senso dunque una conversione all’intermediario di Dio - Gesù Cristo - perché la sua funzione è unicamente quella di “far venire al Padre”, ma chi presso il Padre ancora non si trova, come il pagano. Questa crisi personale fu uno dei fattori propulsivi dell’opera filosofica della Stella, in cui compaiono le parole ebraiche di creazione, rivelazione e

redenzione, che da dogmi confessionali diventano categorie esistenziali e

universali, che dicono la comune esperienza dell’uomo, come vedremo poco oltre. La fede religiosa particolare diventa ispirazione per un pensiero che vuole rendersi universale, senza configurarsi come filosofia religiosa, ma come filosofia

tout court.

Il pericolo di sconfinare in una sorta di relativismo filosofico, cui potrebbe fare pensare una filosofia “del punto di vista” o come visione incarnata del mondo, è arginato da Rosenzweig facendo della filosofia stessa la custode di quegli elementi fattuali, ma anche essenziali (Dio, uomo e mondo), che costituiscono le fondamenta della realtà e le sue coordinate fondamentali. Il richiamo all’oggettività del pensiero è fornito alla nuova filosofia da diverse prospettive che così si intersecano: l’intento di raggiungere l’obiettività e l’universalità proprio del filosofo “del punto di vista”, il richiamo alle fattualità a priori che costituiscono gli elementi di fondo del reale e del pensare stesso, e anche da una “nuova teologia”, che Rosenzweig edifica e ricostruisce dopo la

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55 crisi in cui, a suo parere, in quel secolo essa era progressivamente incorsa. La teologia, opportunamente ripensata a partire dalla sua storia, come vedremo, fornirà alla filosofia un riferimento alla realtà empirica della nostra comune esperienza nel mondo con l’dea di rivelazione, che getterà ponti fra gli quegli elementi originari custoditi dalla filosofia e così li introdurrà nella concreta realtà esperienziale10.

Nell’introduzione alla seconda sezione della Stella - intitolata Sulla

possibilità di esperire il miracolo - il pensatore si profonde in una disamina della

storia della filosofia e della teologia, individuando per ciascuna un momento specifico di crisi, che a suo parere coincide nel tempo.

All’inizio della sua storia la teologia si incentrava sulla nozione di “miracolo”, non solo come momentanea e puntuale sospensione delle leggi della natura, ma anche e soprattutto come adempimento di una profezia riguardante la provvidenza divina. Il miracolo si configurava come “segno” della provvidenza divina e necessitava, come evento particolare, di testimoni oculari e di credenti che, disposti al martirio, ne perpetuassero la testimonianza nello scorrere delle generazioni. La Chiesa, la comunità dei credenti, divenne poi l’auctoritas garante delle testimonianze e dei relativi fedeli che si erano accumulati lungo i primi tre secoli della storia cristiana. La fede, come fede nel miracolo o nel segno della provvidenza divina, era fondamentalmente, secondo l’autore, una fede “ancorata storicamente”, che iniziò a vacillare sotto i colpi mossi dall’illuminismo settecentesco, che si profilava agli occhi del pensatore come “critica dell’esperienza” e “critica storica”11. In questa veste l’illuminismo propriamente detto cercò di dimostrare l’inconsistenza della tradizione e la spiegazione del miracoloso in termini razionali e naturalistici, al fine di una sua progressiva

10 La filosofia “deve tenere saldamente la sua nuova posizione di partenza, il sé soggettivo,

estremamente personale, incomparabile, immerso in se stesso, e […] il punto di vista di questo sé, e tuttavia raggiungere l’obiettività che è propria della scienza. Dove si trova questo ponte che collega la soggettività più estrema […], con la chiarezza luminosa dell’obiettività infinita […]? E’ il concetto di rivelazione della teologia a gettare quel ponte tra l’estremamente soggettivo e l’estremamente oggettivo”. Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 108.

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56 liquidazione. La fede cercò, così, un nuovo fondamento su cui riposare e lo rinvenne, secondo la ricostruzione di Rosenzweig, nell’esperienza della grazia e nel sentimento di fede nel mondo messianico escatologico, una linea inaugurata da Schleiermacher con cui tutta la teologia posteriore si confrontò. Proprio a partire da lui si fece strada un nuovo modello teologico che il nostro pensatore denomina “teologia liberale” o “teologia storica”12, che tentò una razionalizzazione o spiegazione della fede, cercando di equiparare la teologia alle scienze, e la Sacra Scrittura ad altri testi suscettibili di analisi storico-filologica.

Possiamo ricordare, in questa sede, che Rosenzweig scrisse pochi anni prima un articolo intitolato Teologia Atea, nel quale ci parla proprio di questo modello teologico affermatosi nel diciannovesimo secolo, tendente a ricondurre la trascendenza di Dio all’immanenza della ragione e delle categorie umane, e con ciò all’annullamento dello scarto fra umano e divino.

L’oltraggiosa idea di rivelazione, questo irrompere di un più alto contenuto in un contenitore indegno, viene ridotta al silenzio […]. Qui la teologia atea si giova di un suo schema peculiare mediante il quale trasforma l’irrompere del divino, attivo, sull’umano, quiescente […] in una opposizione all’interno dell’umano stesso. Invece dell’incarnazione di Dio, essa sostenne l’umanità di Dio, invece della sua discesa sul monte del dono della legge, l’autonomia della legge morale, e in generale invece della storia della rivelazione, un’essenza umana esistente, nella quale si dispiegava più storia di quanta lei stessa ne avesse a patire13.

L’idea della rivelazione divina e dell’accoglimento della sua Legge fu così esorcizzata come proiezione umana e come “polarità” o contraddizione insita nell’immanenza dell’umano stesso fra due diverse tendenze. Nell’articolo l’autore richiama anche la critica storica delle fonti bibliche propria di questa impostazione, che poi commenterà in saggi di datazione successiva, su cui avremmo modo di tornare14.

12 Ivi, p. 104.

13 Teologia Atea in idem, La Scrittura, Saggi dal 1914 al 1929, op. cit., p. 236.

14 Ad esempio: L’unità della Bibbia, Un confronto con ortodossia e liberalismo, 1928, in idem, La Scrittura, op. cit., p. 92.

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57 Tornando alla ricostruzione della Stella, il modello teologico inaugurato da Schleiermacher trascurava, secondo Rosenzweig, la fondazione da parte di un’auctoritas su cui la viva esperienza vissuta della rivelazione potesse riposare; un ”eterno passato” stabile da un punto di vista epistemico su cui l’esperienza tutta presente della fede potesse trovare un presupposto immutabile che non la facesse precipitare nell’abisso del nichilismo. La crisi in cui era caduta la teologia, dopo il venir meno dell’idea del “miracolo” come suo presupposto essenziale a causa della “critica storica” illuministica, poteva essere sanata dall’apporto di un nuovo fondamento su cui l’esperienza di fede nel regno messianico potesse poggiare. Questo nuovo fondamento poteva essere offerto, ci dice il pensatore, dalla stessa filosofia, opportunamente ripensata dopo una crisi che era stata coeva, non a caso, con quella che aveva colpito la teologia. La crisi della filosofia (o della tradizione filosofica dalla “Ionia a Jena”) avvenne quando la filosofia della “totalità” di Hegel ricomprese tutto il reale al suo interno compreso lo stesso pensiero filosofico, che si riconobbe come suo principio e suo termine ultimo – in un’orbita circuitale –, sembrando non lasciare spazio per ulteriori sviluppi e acquisizioni future. La concezione stessa della filosofia andava urgentemente ripensata perché quest’ultima potesse procedere oltre, senza con ciò precipitare nell’abisso di ciò che si trovava al di là di questa totalità logica compiuta15.

Abbiamo visto il modo in cui Rosenzweig risolve il problema: prospettando un nuovo tipo di filosofo che partendo dal proprio punto di vista particolare sul mondo, tenta di raggiungere una prospettiva universale o universalizzabile. La soluzione rosenzweighiana tende a far sì che la vita individuale del filosofo non venga riassorbita nel pensiero che questi produce, e che la sua esistenza non si riduca alla sua essenza. La “nuova filosofia” si propone come incarnata e con una fisionomia responsoriale, per mezzo della quale il filosofo mira all’universalità senza perdere di vista la propria motivazione e la presa in carico del proprio discorso anche nella sua prassi. Il pericolo di

15 “L’unidimensionalità è la forma della unità e totalità del sapere che tutto include senza residui

[…]. Se da questa vetta si deve muovere ancora un passo, ed un passo che non porti a precipitare nell’abisso, allora devono essere altrimenti dislocati i fondamenti, deve sorgere un nuovo concetto di filosofia”. Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 106.

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58 relativismo è presto arginato, ricordando la mossa speculativa seguente la rottura dell’idea del Tutto - in cui la vita individuale rischiava di essere riassorbita - che andava a profilare tre elementi fattuali, reciprocamente autonomi, che diventavano così i nuovi oggetti del filosofare. Questa manovra era stata compiuta dall’autore nell’introduzione alla prima parte della Stella, che istituiva alla fine tre elementi perenni, indagati con un linguaggio logico-matematico, che fungevano da fondamenti dell’edificio filosofico del pensatore.

Iniziamo a scorgere il modo in cui la “nuova filosofia” può essere d’aiuto e di sostegno alla “nuova teologia”, avendo l’accortezza di mettere in luce il rischio di un ruolo meramente ancillare: fornendole una nuova “auctoritas” su cui poter fondare il sentimento vivo e presente della fede - gli elementi essenziali e perenni Dio, mondo e uomo. La strategia decostruttiva dell’introduzione alla prima sezione della Stella si rivela quindi contemporaneamente costruttiva, nella misura in cui fornisce le condizioni di possibilità della teologia, evitando così le insidie di una fede che si alimenti solamente di se stessa in un’ottica intimistica ed incondizionata. L’imprescindibilità delle condizioni di possibilità della fede e della teologia è una preoccupazione metodica del pensatore, che antepone all’esperienza vissuta un fondamento che non la consegni all’arbitrio, giungendo a parlare di verità anche a proposito degli elementi fattuali Dio, mondo, e uomo. Pur nella loro incapacità di entrare nella realtà del mondo e di rivolgersi l’uno all’altro, nella loro immutabilità a priori.

La teologia della nuova epoca […] vigilava gelosamente sulla pura presenza attuale del vivo esperire; questa doveva essere protetta da ogni contatto con il duro, ben fondato regno terreno della verità e della realtà oggettiva […]. Non voleva sentire un terreno stabile sotto di sé. Voleva negare la verità. Ma la verità non si lascia negare, neppure in nome […] dell’esperienza vissuta. La verità è e rimane il terreno stabile, il solo su cui può crescere la veridicità dell’esperienza vissuta […]. La conoscenza vuole vedere un altro fondamento su cui riposi quell’esperienza vissuta16.

L’aspetto su cui è bene concentrare l’attenzione in queste ultime pagine dell’introduzione alla seconda parte della Stella, che verterà su creazione,

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rivelazione e redenzione, è che lo stesso pre-mondo perenne dei tre elementi

originari è denominato da Rosenzweig, in questo contesto, con un modulo espressivo teologico, ossia come l’ambito della creazione. La creazione che pertiene l’ambito del pre-mondo non è la stessa cosa di quella del mondo

incessantemente rinnovato, in cui essa è la relazione fra Dio e il mondo, che pone

quest’ultimo in essere, relazione che nel pre-mondo del concetto ancora non può attuarsi per la natura di quest’ultimo. La creazione riferita a questo ambito virtuale e ipotetico del reale rinvia all’idea di un “eterno passato”, in cui le condizioni di possibilità della creazione effettiva sono gettate una volta per tutte come elementi immutabili che presagiscono la loro uscita al di fuori di sé e la loro entrata nella corrente della realtà effettivamente esperibile. L’iniziativa è presa dal Dio meta-fisico, che afferma la sua essenza e fa della sua “potenza creatrice” un attributo, in modo tale che la creazione si prefigura come una creazione perenne, perennemente fissata in un passato immemoriale.

Al mondo, che già sussiste nelle pre- condizioni di possibilità della realtà esperibile ed empirica, come meta-logico, non resta che assumere su di sé questa perenne potenza creatrice, che presso di esso diventa efflorescenza di fenomeni, figure e particolarità, non riconducile ad un logica di produzione razionale idealistica. L’idea di matrice teologica di creazione, è utile al pensatore al fine di salvaguardare la reciproca autonomia e indipendenza dei due termini, Dio e mondo, diversamente dalla logica emanativa di ascendenza neo-platonica e da quella idealistica hegeliana, in cui il mondo è totalmente dipendente dall’Idea e dal suo carattere logico. Analogamente, l’idea di creazione riferita al

pre-mondo perenne del concetto, quello della prima sezione della Stella, garantisce, a

sua volta, l’indipendenza fra Dio e mondo, che là si configurano come elementi del tutto autonomi e irrelati, che come tali resteranno anche nel mondo

incessantemente rinnovato della nostra esperienza comune. Inoltre rende

possibile la realizzazione piena del sapere e della conoscenza, fornendo un fondamento a-priori a delle realtà esperibili e conoscibili solo nella loro relazione,

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60 dicendo al conoscere che la loro essenza non si esaurisce in questa stessa relazione e manifestazione17.

L’idea di creazione, così come quelle di rivelazione e redenzione, di cui Rosenzweig si occuperà diffusamente nella seconda parte della Stella, sono parole provenienti dalla tradizione teologica ebraico-cristiana, e costituiscono il nucleo dell’apporto della teologia al “nuovo pensiero” rosenzweighiano. Tale teologia si innesterà sulla base fornita dalla tradizione filosofica e dai concetti fondamentali che, a parere dell’autore, ne hanno scandito la storia, prima di essere inglobati nel Tutto sistematico hegeliano. Queste parole fondamentali della teologia non vengono però assunte nel significato codificato dalla tradizione ebraica e cristiana, ma vengono da qui prese in prestito per essere caricate di significati più ampi e compositi. La denotazione di queste parole è, in Rosenzweig, prima di tutto una denotazione relazionale, che intende collegare gli elementi Dio, uomo e mondo tra loro, senza che questo collegamento avvenga nella forma del sistema hegeliano, che secondo il pensatore non ne ha rispettato l’autonomia e la trascendenza reciproca. Il sistema hegeliano è stato ai suoi occhi l’esito dei presupposti e del metodo filosofico tradizionale, che ha di fatto annullato, nell’idea del Tutto panlogico, la possibilità stessa della relazione, nel momento in cui le sue componenti fondamentali non erano più riconoscibili individualmente al suo interno.

Questo è il punto in cui il pensiero filosofico tradizionale è andato in crisi. Nel momento in cui non ha più riconosciuto l’individualità dell’uomo, che si vedeva riassorbito nello Stato che si faceva epoca - o anche semplicemente nell’etica -, l’autonomia del mondo dal logos, l’esistenza di Dio come non deducibile dalle proposizioni del pensiero. Meta-etico, meta-logico e meta-fisico, rispettivamente, sono le formule con cui il pensatore rende questa nuova impostazione del problema o dei problemi, che non deduce l’essere dal pensiero,

17 La peculiarità del sapere, scrive Rosenzweig accennando anche a Platone “è di essere

immutabile come lo è appunto il passato […]. Edificando il sapere sopra il concetto di creazione, noi permettiamo al sapere di esplicare fino in fondo questa sua peculiarità, di andare al fondamento delle cose”. Ivi, p. 105.

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61 ma lo presuppone come “fattualità” positiva, dato di fatto18, con un’esistenza ontologica indipendente. In maniera analoga le idee, non più filosofiche, ma teologiche di creazione, rivelazione e redenzione non vengono riprese nel loro significato dogmatico tradizionale, ma comunicano una serie di relazioni che esorbitano dalla sfera prettamente religiosa. La creazione è il rapporto che si instaura tra Dio e il mondo, in una prospettiva speculativa per cui entrambi gli elementi preesistono in un ambito virtuale dell’essere, e Dio si limita a chiamare ad essere il mondo chiamando ciascun ente per nome. La rivelazione è, nella prospettiva rosenzweighiana, la relazione che Dio instaura con l’uomo, anche qui attraverso una chiamata per nome, ma questa volta per nome proprio, che lo sottrae alla chiusura in sé tipica del pre-mondo e lo predispone all’accoglimento del sentimento di fede. La rivelazione, tuttavia, non è soltanto questo. E’ anche il paradigma delle varie relazioni che l’uomo instaurerà col suo prossimo, è il dono del linguaggio, che solo renderà possibile questa rete di relazioni, e permetterà all’uomo di contribuire attivamente, nella preghiera e nella liturgia, all’opera di redenzione. Non solo, la rivelazione istituisce nel mondo un ordine, che consentirà all’uomo di orientarvisi, nello spazio, così come nel tempo:

Rivelazione è orientamento. Dopo la rivelazione, nella natura c’è un “alto” e un “basso”, reale, non più relativizzabile: “cielo” e “terra” […,] e nel tempo c’è un “prima” e un “dopo” reale, stabile. Quindi: nello spazio “naturale” e nel tempo naturale il centro è sempre il punto in cui io in quel momento sono […]; nello spazio-tempo-mondo rivelato il centro è invece un punto fissato inamovibilmente, un punto che non sposto se io stesso mi trasformo o mi allontano: la terra è il centro del mondo e la storia universale si estende prima e dopo Cristo […]19.

La rivelazione permetterebbe così di istituire un orientamento assoluto nel mondo, che né la filosofia né la scienza, considerando il mondo solo come “natura” infinita priva di un centro nello spazio come nel tempo, sarebbero in grado di fornire all’uomo.

18 Rosenzweig riprende in questo contesto la filosofia del tardo Schelling, la filosofia positiva, in

opposizione alla coincidenza sincronica di pensiero e realtà propria dell’idealismo di Hegel.

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62 La redenzione del canto suo, non è solamente il regno messianico escatologico della teologia tradizionale, che certamente Rosenzweig preserva come asse portante del significato che dà alla parola, ma è anche una realtà che può essere resa immanente nel mondo tramite la liturgia corale e la “vivificazione” degli enti naturali; atti che prefigurano, sulla terra, la dimensione

comunitaria del regno escatologico.

Il linguaggio teologico, che si compendia secondo il pensatore nelle idee di creazione, rivelazione e redenzione, è innanzitutto un linguaggio che dice la relazione e la rende performativa, dice la dimensione temporale dell’ “evento” e lo realizza effettivamente. Il linguaggio della filosofia, quale emergeva nella prima parte della Stella, come linguaggio logico o matematico, diceva l’identità di ogni elemento originario con se stesso, ed era incapace di oltrepassare questa dimensione identificante e individuante (A=A, B=A e B=B). Come linguaggio costituito da “parole matrici” - “si, “no, “e” - si limitava a dire il dinamismo che portava ogni elemento dal suo proprio nulla al suo proprio essere, tramite una dialettica di affermazione e negazione, che seppur dinamica, era circoscritta all’interno di ciascun elemento e non era in grado di andarvi oltre. La teologia, così come esplorata nella seconda sezione dell’opera, invece, è quel “linguaggio dell’evento” che è in grado di esprimere la relazione tra gli elementi (e non all’interno di ciascun elemento), che la filosofia, per la natura del suo linguaggio e dei suoi moduli espressivi, non era in grado di esprimere.

Le figure bibliche di creazione, rivelazione e redenzione, quindi, vengono rielaborate da Rosenzweig in un senso non strettamente religioso o dogmatico, ma come delle categorie “esistenziali” e in certo modo laiche, che forniscono le coordinate fondamentali dell’esperienza dell’uomo all’interno del mondo20. Rispettivamente: l’esperienza del mondo naturale, l’esperienza della fede e dell’incontro con l’altro in generale, e l’esperienza del mondo come sintesi di naturale e umano, nel rispetto dei due ordini di realtà. La fisionomia spiccatamente relazionale e “eventuale” che il linguaggio teologico riveste

20 Francesco Paolo Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme, il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig,

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63 presso il pensatore di Kassel ha fatto parlare Francesco Paolo Ciglia di una lettura “meta-religiosa” di tradizioni “religiose”, i cui assunti travalicherebbero, se recepiti in questa chiave, l’ambito settoriale e sacramentale della religione in senso stretto. D’altra parte, la stessa parola “religione” rinvia, se assunta nel suo senso puramente etimologico, a una denotazione relazionale: il termine “religatio”, proposto da Lattanzio nell’età tardo- antica, allude al legame fra Dio e uomo, che Rosenwzeig intende in un senso più ampio e comprensivo21. La religatio che il pensatore attribuisce al linguaggio della teologia non si riferisce,

infatti, solamente al legame tra l’uomo o gli uomini e Dio, bensì anche al legame dell’uomo con il suo prossimo, con la comunità, e anche con il mondo, che la religione nel suo senso dottrinale non contempla all’interno del suo significato e della sua etimologia. Lo stesso interprete cui ho appena rinviato ritiene che la religione nel suo senso settoriale e confessionale rappresenti, agli occhi del pensatore, una sorta di “riduzione” della complessità della “religatio ontologica” che costituisce il cuore della Stella, il quale corrisponde con la realtà concreta da noi esperibile22. La relazione dell’uomo con il mondo è a sua volta espressa dal linguaggio religioso, e precisamente dal termine redenzione, il quale si colloca fra uomo e mondo all’interno dello schema figurativo costituito dalla stella di David, emblema del “sistema” rosenzweighiano.

21 Lattanzio (250-327 d.C.) nelle Divinae Institutiones aveva scritto: “Con questo vincolo di pietà

siamo stretti e legati (religati) a Dio: da ciò prese nome religio, e non secondo l'interpretazione di Cicerone, da relegendo”. Lattanzio, Divinae Institutiones, IV, 28.

22 Francesco Paolo Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme, il «nuovo pensiero» di Franz Rosenzweig, op.

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Per quanto sia Dio l’autore ultimo del processo redentivo, quest’ultimo inizia e procede grazie all’uomo, o meglio grazie alla comunità degli uomini, sia ebraica che cristiana, che in maniera concertata, sono in grado di “vivificare il mondo”, rivolgendosi alle cose con il loro nome, come aveva fatto Dio nel processo creativo, o come ad un “tu”.

L’amore fa sì che il mondo venga riempito d’anima […]. Il mondo porta dentro di sé la legge della sua vita che cresce […]. Sa soltanto che deve morire. E se avanza pretesa di eternità, lo fa in attesa di un intervento dall’esterno, che conferisca eternità alla vita […]. Solo quando e solo là dove ai membri di quest’essenza vivente che cresce viene insufflato l’alito animatore dell’amore del prossimo, solo là essi assicurano alla loro vita ciò che la vita stessa non potrebbe dare loro: dotazione d’anima, eternità23.

La redenzione assume quindi il significato “meta-religioso” di relazione salvifica dell’uomo con il mondo, in cui l’uomo tuttavia non è il salvatore o colui che adempie la prospettiva di salvezza. E quello sempre meta-religioso di

compimento, termine filosofico che si distacca sensibilmente dal “compimento”

23 Idem, La stella della redenzione, op. cit., pp. 248-249.

Uomo Mondo

Creazione Rivelazione

Redenzione Dio

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65 proprio del processo dialettico hegeliano, predeterminato, e opera esclusiva della ragione umana che si vuole fondata soltanto su se stessa. La redenzione rappresenta il culmine del “sistema” rosenzweighiano, un culmine costitutivamente aperto e indeterminato quanto alla sua effettiva realizzazione, un culmine in cui i diversi tre pezzi del Tutto dislocati nella prima sezione si ricompongono ad un livello più alto e qualitativamente diverso. L’ “unificazione” in cui consiste il regno messianico escatologico non è la stessa cosa della “sintesi” di stampo hegeliano, necessaria e logica nel suo realizzarsi perché presupposta nel suo stesso principio o inizio, ma si configura come un’infinità che non è racchiusa in nuce nel processo o nel soggetto di questo processo, ma è ad esso trascendente. Queste sono le parole con cui Rosenzweig esprime questa differenza tra la “sintesi” nel suo senso filosofico-tradizionale e l’ “unità” teologica del mondo messianico:

Quella che ora i pezzi del Tutto ricompongono è un’unità diversa [da quella in cui termina la dialettica hegeliana] […]. Il mondo, che si ricompone crescendo insieme a noi nel salire, non compie un cerchio che torna su se stesso, ma erompe dall’infinito e di nuovo si reimmerge nell’infinito. E l’uno e l’altro sono un infinito fuori di lui […], mentre la circonferenza, o anche la sfera, avevano l’infinito in se stesse, anzi lo erano esse stesse24.

La forma del sistema di Hegel è, secondo il nostro pensatore, quella del

cerchio o della sfera, in cui il principio del processo è la stessa cosa del suo

compimento. La forma del sistema rosenzweighiano è data da una stella, costituita da linee rette che disegnano i rapporti instaurati dal linguaggio della teologia, e in cui questi medesimi rapporti o “eventi” relazionali, sono indeducibili a partire dai termini coinvolti, ed esorbitano, da un punto di vista logico, dalla loro essenza. Sul piano della teologia vengono esposti i rapporti che legano i termini Dio, uomo e mondo, attraverso le parole bibliche creazione, rivelazione e redenzione, assunte in un significato “meta-religioso”, e a cui la filosofia fornisce gli elementi concettuali immutabili salvaguardandone la reciproca alterità. Non solo, la teologia, secondo quanto lo schema iconoclastico della stella ci suggerisce, e secondo quanto il titolo stesso dell’omonima opera ci

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66 dice, offre anche l’ordine e la collocazione di questi rapporti, il cui orientamento è dato dalla redenzione, che si pone al vertice inferiore del triangolo del mondo25. Infatti secondo il pensatore:

Con la medesima necessità con cui nel triangolo pre-mondano Dio sta in alto, nel triangolo del mondo la redenzione deve stare in basso e le linee che si dipartono dalla creazione e dalla rivelazione devono venire a confluire in essa […]. Già mediante la sua posizione stabile nello spazio, ciascun elemento del pre-mondo, ed anche ogni tratto del percorso viene fissato nel suo rapporto con gli altri due: se sta sopra è origine, se sta sotto è risultato26.

Sia la filosofia che la teologia, quella filosofia e quella teologia rinnovate nel loro significato da Rosenzweig, assumono la valenza di orientamento per il pensiero: la prima fornendone i presupposti fondanti, nel loro carattere immutabile; e l’altra le correnti relazionali che indicano la valenza del “nuovo” pensare, e la sua meta, la redenzione e il mondo escatologico, che non possono essere però “prodotti” a partire dal pensiero stesso, ma da un redentore trascendente.

“Triangolo del mondo”

25 Cfr.: Adriano Fabris, Linguaggio della rivelazione, op. cit., p. 152. 26 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 266.

Dio

Uomo Mondo

Creazione Rivelazione

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67 E’ opportuno, tuttavia, ricordare che il termine ultimo cui la Stella giunge nel suo percorso speculativo è la “vita” e non il regno escatologico: è pur vero che Rosenzweig ci dice che il Tutto della filosofia tradizionale è stato fatto a pezzi per ricomporsi in un’unità trascendente e al di là della vita, in cui risplende solamente Dio nella sua verità. Ma ci avverte anche che questa contemplazione diretta della verità non è possibile per l’uomo, che una volta attraversato il “sistema”, deve reimmettersi nella corrente della “vita” reale per poterlo

giustificare e mettere in opera, secondo quella concezione performativa della

verità di cui la tesi presente si sta occupando27.

Il piano della teologia, oltre ad affacciarsi nei teologumeni biblici di

creazione, rivelazione e redenzione, rivisitati in chiave meta-teologica e

speculativa, si offre anche nell’esegesi che, alla fine dei tre omonimi libri della seconda sezione, il pensatore compie di un passo del testo biblico, al fine di mostrarne le potenzialità esplicative e rappresentative di ciascuna di queste stesse tre idee chiave. Il primo libro della seconda sezione della Stella - il libro sulla creazione - infatti si conclude con un “analisi grammaticale” di Genesi I, il passo veterotestamentario in cui Dio crea il mondo mediante il proprio linguaggio, chiamando gli enti ad essere. Il brano posto al termine del libro intende mostrare la corrispondenza dell’idea biblica di creazione con quella che Rosenzweig espone nella Stella, facendo vedere come l’atto di creazione sia essenzialmente al passato già sempre avvenuto delle sue condizioni di possibilità pre-mondane; una “narrazione” essenzialmente. Ma, nello stesso tempo, la rivisitazione di passi biblici a suggello di ciascun libro della seconda sezione intende anche dimostrare ai lettori che la Stella non è un semplice commento dell’Antico Testamento, avendovi questo luogo all’interno perché ne vengano

27 “Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal

misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere conduce verso l’esterno. Ma verso che cosa aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Verso la vita”. Ivi, p. 435.

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68 messe in luce le potenzialità relazionali emblematiche del rapporto tra Dio e l’uomo.

Così, Genesi I si costituisce come l’emblema del rapporto creativo tra Dio e il mondo, il Cantico dei Cantici, alla fine del libro sulla rivelazione, come l’emblema del rapporto rivelativo fra Dio e l’uomo; e il Salmo 115 come la rappresentazione del rapporto redentivo tra l’uomo, nella comunità umana unita nel lode e nella preghiera, e il mondo. Questi tre brani diventano nella Stella l’attestazione della “nostra esperienza vissuta” - dell’esperienza delle nostre relazioni intra-mondane, di fede, e intersoggettive – all’interno della “grande testimonianza storica della rivelazione”, del testo biblico28. La valenza relazionale emblematica di questi passi biblici è sottolineata con forza dal pensatore nel momento in cui, prima di profondersi nell’esegesi del Cantico dei cantici come simbologia29 della relazione di rivelazione, scrive: “Ancora una volta noi cerchiamo la parola dell’uomo nella parola di Dio”. Oppure anche: “La Torah parla secondo la lingua degli uomini”30; a sottolineare la possibilità di una fruizione del testo biblico in termini di relazione sempre vivente e riattualizzabile fra l’uomo e Dio, in ogni tempo e al di là di ogni distanza storico-temporale del testo.

Rientra nel destino della Bibbia come libro che le sue parti nate dal dialogo facciano sempre di nuovo appello al partner umano del dialogo. Sempre i salmi destano a sé nuovi oranti, le leggi nuovi osservanti, le profezie nuovi credenti. Il racconto biblico […] deve accontentarsi degli ascoltatori che sempre nuovamente la legge, la profezia, il salmo gli procurano tra gli uomini agenti, speranti, amanti che essi hanno risvegliato […]. Il racconto [biblico] cattura l’ascoltatore (reso lontano da

28 Cfr.: ivi, p. 204: “Ciò che nel nostro ‘io’ percepiamo come parola viva e ciò che, dal nostro ‘tu’,

vivo risuona a noi di rimando, deve “star scritto” anche nella grande testimonianza storica della rivelazione, di cui abbiamo riconosciuto la necessità proprio a partire dall’attualità della nostra esperienza vissuta. Ancora una volta noi cerchiamo la parola dell’uomo nella parola di Dio”.

29 “Non è sufficiente […] che il rapporto di Dio con l’uomo venga raffigurato con la metafora del

rapporto tra l’amante e l’amata; nella parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto

dell’amante con l’amata, cioè il significante senza alcun rimando al significato”. Ivi, p. 205, corsivi

miei.

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69

esso dal tempo) nella rete del dialogo segreto che è tesa al suo interno, e trasforma l’uditorio lontano in un membro partecipe di un colloquio che, sotto il velo del suo passato epico, si protende attraverso il racconto con una piena attualità aneddotica […] in parole e riposta, in affermazione e contestazione, in tesi e corollario […]31.

L’intenzione di conferire - o restituire - al testo biblico nel suo insieme il carattere di parola parlata e di dialogo vivo fra Dio e l’uomo, e con ciò sempre di nuovo fruibile come tale in ogni tempo, è rintracciabile non solo nell’esegesi che Rosenzweig dà dei tre passi menzionati all’interno della Stella, ma anche dall’impresa di una nuova traduzione della Bibbia che intraprese insieme a Buber nell’ultima fase della sua attività e della sua vita.

La traduzione di Lutero allora disponibile non era in grado di veicolare questo carattere ultimo e fondamentale del discorso biblico, il quale era oggetto dell’approccio filologico e critico, propri della teologia liberale, che si facevano sfuggire “l’unità” del testo come parola di Dio. Salvaguardare quest’unità - al di là delle stratificazioni testuali dei diversi autori empirici su cui vertevano le ricerche della critica e dell’approccio puramente filologico-scientifico – era l’intento primario della nuova versione delle Scritture. A questo scopo una traduzione che rimanesse fedele, quanto alla scelte terminologiche e grammaticali, alla lingua d’origine, l’ebraico, anche a spese della lingua d’arrivo, si presentava agli occhi dei due pensatori come il criterio traduttivo migliore. Salvaguardare l’unità della Bibbia, attraverso queste scelte stilistiche in certo modo “ortodosse”, permetteva ai due pensatori di farne risaltare la natura di dialogo tra Dio e l’uomo, sempre suscettibile di riproporsi con il lettore, anche e proprio in forza del carattere fissato una volta per tutte proprio del testo, rispettato come “sacro”. La traduzione della Bibbia operata da Rosenzweig al termine della propria attività intellettuale potrebbe essere letta come il completamento di quell’interpretazione che nella Stella aveva offerto dei tre passi biblici prima considerati, un’interpretazione che si approfondì fino a fare avvertire l’esigenza di una vera e propria traduzione di quei passi insieme con gli altri.

31 Idem, Il segreto della forma dei racconti biblici, in La Bibbia ebraica. Parola, testo, interpretazione. Quodlibet, Macerata, 2013, p. 67.

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70 D’altra parte, il pensatore riteneva che l’attività del tradurre fosse una specie del più ampio genere dell’interpretazione e della comunicazione linguistica, ritendendo che “ogni parlare è [un] tradurre”32 il proprio pensiero in modo che sia intellegibile all’altro che ho di fronte. L’esegesi biblica di cui è puntellata la Stella si proporrebbe, sulla base di questo postulato ermeneutico, di avvicinare il lettore alla comprensione adeguata del testo nella sua valenza essenziale di parola di Dio che chiama il lettore in ogni tempo e di ogni tempo, cosicché una riattualizzazione del testo nel suo insieme si rese ai suoi occhi un’esigenza nell’interesse della contemporaneità. A questa esigenza rispose, appunto, con una nuova traduzione della Bibbia al termine della sua impresa intellettuale.

Il livello teorico-speculativo della teologia mostra, per riassumere, differenti registri linguistici, che rientrano nel novero del “linguaggio grammaticale”, mentre il linguaggio filosofico si collocava in quello più rigorosamente logico, rispondendo ad un’esigenza di fondazione. Questi registri linguistico-grammaticali sono quello della narrazione al tempo passato, che riguarda una creazione già sempre prestabilita nella sue condizioni ipotetiche; il

dialogo vivo e presente della rivelazione divina e dell’amore umano per il

prossimo; e la preghiera e la liturgia comunitaria che si aprono a un futuro escatologico reso presente. E’ interessante notare, a ben vedere, come lo stesso

dialogo intersoggettivo venga prospettato da Rosenzweig in termini teologici, ciò

che conferisce alla teologia una connotazione esistenziale e quindi laica. La teologia esprime un movimento inteso in senso non dialettico, ma tale da salvaguardare i poli in questione e la contraddizione stessa, considerata come positiva e presupposto irrinunciabile per un rapporto vero33. L’esigenza di recuperare altre forme di linguaggio, oltre quelle apofantiche e dichiarative della filosofia tradizionale, è data anche dalla nuova concezione della verità che il pensatore sta elaborando: non più una verità come corrispondenza del discorso

32 Cfr.: La Scrittura e Lutero, p. 115, in idem, La Scrittura, op. cit.

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71 con la struttura della realtà, ma come prassi e messa in opera della contraddizione stessa, insolubile con gli strumenti a priori della teoria34.

Il rischio, come avevamo già potuto anticipare, che si prospetta è quello di una rinnovata funzione “ancillare” della filosofia nei confronti della teologia, anche se il problema potrebbe essere progressivamente dipanato - senza con ciò essere risolto - mostrando come l’edificio speculativo rosenzweighiano non culmini sul piano della teologia che istituisce relazioni, ma su quello di una “vita” che si renda responsabile di una verità che pur sempre nel pensiero e nella sua fenomenologia è stata acquisita35.

Nell’introduzione alla seconda sezione della Stella Rosenzweig proclama, per riassumere, l’urgenza di una “nuova filosofia”, che sia concretamente personale e dal soggetto personale nella sua contingenza - individuale e storica - prenda le mosse, in luogo di un pensiero astrattamente oggettivo e connotato in maniera atemporale. Il bisogno per la filosofia di un pensiero vissuto in prima persona piuttosto che semplicemente pensato nella misura in cui universale. La

Stella fu scritta dal pensatore in una congiuntura storica e personale particolare,

ossia durante il suo arruolamento nell’esercito tedesco della prima guerra mondiale, sul fronte balcanico, in cui morte e distruzione dilagavano. Ed è proprio parlando della morte, non a caso secondo alcuni interpreti, che Rosenzweig inizia la sua opera maggiore: “Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto”36. Pochi anni prima, nel 1913, durante la celebrazione dello Yom Kippur37 in una sinagoga ortodossa di

Berlino, aveva iniziato un percorso che lo avrebbe condotto a “restare” ebreo, piuttosto che convertirsi al cristianesimo, come comunicò al cugino battezzato in

34 La contraddizione è qui intesa come salvaguardia delle rispettive identità, fra Dio e l’uomo, fra

l’uomo e il suo prossimo, e quindi come molla di un rapporto.

35 La Stella termina indirizzando il lettore ad aprirsi alla vita, dopo che il percorso speculativo ivi

tracciato è stato esaurito.

36 Franz Rosenzweig, La Stella della redenzione, op. cit., p. 3.

37 “Giorno d’espiazione”, in cui all’inizio del nuovo anno ebraico si ha l’opportunità di rimettersi

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72 tenera età Rudolf Ehrenberg, in una lettera dell’autunno di quell’anno38. Il valore dell’ebraismo, come del cristianesimo, in rapporto alla verità e alla sua esperienza è centrale nella Stella, e in questa centralità è possibile ravvisare, a mio parere, anche la priorità che l’esperienza religiosa ha rivestito nell’itinerario personale e intellettuale del pensatore. Una congiuntura storica e personale, quindi, contribuiscono all’ispirazione e alla stesura del capolavoro filosofico in questione, costituendone alcune delle motivazioni di fondo.

Dopo che la “vecchia filosofia”, che va dai presocratici e si conclude in Hegel, dalla “Ionia a Jena”, aveva esaurito le possibilità di procedere oltre dopo aver imbrigliato il Tutto nella sua rete logica, il bisogno di una filosofia altrimenti impostata viene a costituirsi a principio della pars construens della Stella. Dopo aver isolato logicamente e ontologicamente i tre elementi essenziali che l’idea del Tutto aveva reso indistinguibili, “l’uomo meta-etico” diviene il centro della riflessione del pensatore, proprio perché costui è “l’unico possibile soggetto filosofante della nuova filosofia”, colui che “accoglie la rivelazione [… e] che esperisce il contenuto della fede39.” Il soggetto filosofante, diversamente dal “vecchio filosofo” impersonale e semplice “luogotenente stipendiato della storia della filosofia”, è quel sé muto e sordo del pre-mondo perenne risvegliato dalla chiamata di Dio, e abilitato così alla libertà e alla personalità. L’esperienza personale e soggettiva (Erlebnis) della rivelazione, l’esperienza di fede, è motivo dell’apertura della personalità e della ragione filosofante. Una ragione non intesa come essenza trascendentale dell’umano, ma come dotazione personale e che dall’esperienza personale trae la sua motivazione ad esercitarsi. Per questo motivo, secondo Rosenzweig, al fine di evitare l’arbitrio dei valori e delle deliberazioni, l’ancoraggio alla realtà empirica del mondo è fondamentale, più in particolare a quella degli uomini e del prossimo, ed è dato proprio dall’oggettività della rivelazione – che avviene nel mondo e nelle relazioni che lo costituiscono.

38 “Devo comunicarti qualcosa che ti rattristerà […]. Con lunga e profonda riflessione mi sono

risolto a ritornare sulla mia decisione […]. Io resto quindi ebreo”. Idem, Lettera A Rudolf

Ehrenberg, in La Scrittura, op. cit., p. 286.

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73

Essa [la nuova filosofia] deve tenere saldamente la sua nuova posizione di partenza, il sé soggettivo, estremamente personale […], immerso in se stesso, ed inoltre il punto di vista di questo sé, e tuttavia deve raggiungere l’obiettività che è propria della scienza. Dove si trova il ponte che collega la soggettività più estrema […] con la chiarezza luminosa dell’obiettività infinita […]? E’ il concetto di rivelazione della teologia a gettare quel ponte fra l’estremamente oggettivo e l’estremamente soggettivo40.

La rivelazione, come chiamata per nome, fa entrare l’uomo meta-etico “caparbio”, sordo e chiuso in sé, nella corrente della realtà, dotandolo della parola, fornendo alla ragione la possibilità di un punto di vista su una realtà che non è stata essa stessa a “produrre” secondo una logica idealistica. Una realtà che potrà, così, fornire un sostegno ontologico assoluto alla sua Weltanschaung o al suo punto di vista. La filosofia, la “nuova filosofia”, non “produce” il contenuto della fede per poi sollevarne (aufheben) la contraddizione interna che si annuncia nella “coscienza infelice” del soggetto di hegeliana memoria, ma “questo si erge contro di lei come eterno paradosso”41. L’idea di matrice teologica di rivelazione, come già quella di creazione, salvaguarda la reciproca trascendenza e le rispettive identità di Dio e uomo – la prima presentandosi come un’esperienza che accade all’uomo senza che quest’ultimo la possa “produrre” con la sua facoltà razionale anticipante, la seconda come quella “potenza” di Dio che pone in essere un mondo che, efflorescenza di novità, non risponde allo schematismo del pensiero.

La categoria di rivelazione offre alla nuova filosofia “del punto di vista” un’aderenza alla realtà concreta anche per un altro motivo, in quanto essa è rivelazione del nome divino e dei nomi delle cose del mondo, che non costituiscono, in quest’ottica, una molteplicità ordinata secondo la sussunzione sotto il rispettivo concetto universale, ma enti singoli considerati nella loro individualità. La possibilità e la necessità di ordine e di orientamento cognitivo e pratico per l’uomo è comunque garantita dall’appoggio che la rivelazione ha, in questo modo, sulla creazione come fondamento ontologico e sostanziale, che

40 Ivi, p. 108. 41 Ivi, p. 107.

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74 viene a compiersi in una denominabilità che nulla ha a che vedere con la convenzione, ma con un’aderenza alla natura stessa degli enti.

II, II. La “nuova filosofia” e la “nuova teologia” nella “Cellula originaria de

La Stella della redenzione”

Nella Cellula originaria de La stella della redenzione42, una prima

concezione della matura Stella della redenzione, scritta nel 1917, l’autore scrive che la rivelazione di Dio all’uomo, essendo un evento che gli accade, impossibile a inserirsi in qualunque concatenazione di causa - effetto, è un concetto ordinatore del mondo non “universale”, né come “archè” né come “télos” – né come “unità naturale” né “storica” - bensì “singolare”, non “inizio o fine, ma

centro del mondo”43.

Unicamente se visti a partire di qui [dal centro] anche inizio e fine, da concetti-limite dell’infinità divengono invece colonne angolari del nostro possesso del mondo: l’«inizio» diviene creazione, la fine «redenzione»44.

In questo breve scritto, Rosenzweig parla del filosofo della sua “nuova filosofia” come di un individuo che dopo essere stato inglobato nell’assoluto dello spirito che riflette ultimamente anche su se stesso, “è ancora qui”. L’uomo identificato da un nome e da un cognome, “polvere e cenere”, dopo aver dimenticato la sua propria misera e finita realtà nell’assoluto, scopre di essere ancora qui. La libertà individuale non è “sistematizzabile”,

In seguito […] può essere determinata tranquillamente come adesione a un ordine […] dedizione, ecc. solo se rimane nella memoria che essa prima era libertà pura e semplice. E questa viva anamnesis del concetto di libertà […] è perciò l’unica caravella sulla quale noi possiamo muovere alla scoperta del nuovo mondo della rivelazione, se ci siamo imbarcati nel porto del vecchio mondo logico45.

42 Idem, «Cellula originaria» de La Stella della redenzione, Lettera a Rudolf Ehrenberg del 18. XI.

1917, in La Scrittura, op. cit., p. 241.

43 Ivi, p. 250. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 147.

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75 La libertà dell’uomo che si astrae dall’idea del Tutto e dal sistema in cui questa si articola è il collante, così, fra la filosofia che ha per oggetto le tre essenze Dio, mondo e uomo, colte nella loro separazione e trascendenza reciproca, e quel mondo della rivelazione, o della “nuova teologia”, che accade a quella medesima libertà primigenia umana fornendole direzione e senso. Questo mondo della libertà “pura e semplice”, secondo il pensatore, era stato annunciato con fermezza e metodo, nella tradizione filosofica, da Kant, allorché aveva parlato della libertà umana come di un vero e proprio miracolo nel mondo dei fenomeni e delle leggi di natura. Per riferirsi a questa libertà umana, come anche agli altri due elementi primordiali dell’essere, Dio e mondo, Rosenzweig utilizza, e questo non deve comunque stupire, simboli logico-matematici. Ci troviamo pur sempre nella logica di quello che nella Stella chiamerà “pre-mondo

perenne”, che con gli strumenti della scienza e della filosofia nella sua

dimensione identificante ed essenzialista viene indagato. B=B è la libertà umana dopo il sistema, l’io che rimembra la sua vita antecedente la produzione del sistema, l’’io come individuo singolo e particolarissimo, “nome e cognome”. A=A è Dio prima di ogni relazione con il mondo, avulso da ogni relazione sistematica, mentre A=B è il mondo degli enti catalogabili secondo concetti universali, come lo stesso rimando all’assoluto A= sta ad indicare. Il segno “=” rinvia proprio alla relazione che il pensiero filosofico è in grado di instaurare all’interno dell’elemento in questione, come relazione alla sua rispettiva essenza. Come scriverà Rosenzweig nel Nuovo Pensiero parlando dei tre elementi fattuali dell’essere, “ciascuno è essenza lui stesso, ciascuno è da se stesso sostanza, con tutto il peso metafisico di questa espressione”46.

Nella Cellula originaria, indicando questa relazione interna a ciascuno dei tre elementi originari, parla di “un ponte” del pensiero, il segno “=”, gettato all’interno dell’elemento uomo o “libera personalità”47, e che non conduce fuori di esso. Soltanto l’evento della rivelazione di Dio, fa sì che egli possa andare oltre se stesso, e porsi in relazione con altre personalità. Una relazione non comunque

46 Idem, Il nuovo pensiero, in La Scrittura, op. cit., p. 263. 47 Idem, «Cellula originaria», op. cit., p. 246.

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76 di carattere sistematico, il che significherebbe una riconduzione dell’alterità alla propria identità e alle proprie categorie. Questa operazione, secondo l’autore, ha caratterizzato l’intera storia della filosofia, dall’antichità classica dei presocratici all’età moderna. L’età antica, in questo senso, è stata secondo Rosenzweig per lo più “cosmologica”, riconducendo la molteplicità a principi di volta in volta materiali, il medioevo “teologico”, identificando il cosmo con Dio, e la modernità “antropologica”, ponendo l’uomo e la ragione filosofica al centro del mondo.

Il modello di relazione a cui invece pensa Rosenzweig è tale da salvaguardare le identità dei tre singoli elementi fondamentali dell’essere, e da evitare che l’essenza dell’uno venga rintracciata in quella dell’altro, annullando così di fatto la sua propria specificità.

Anche quando l’uomo diviene oggetto a se stesso, senza ricondursi né a Dio né al mondo quanto alla propria essenza, entra nel mondo della “terza persona”, cessa di essere io, nome e cognome e diviene “l’uomo”. Il sistema è proprio, secondo l’autore, “il mondo in forma di terza persona”48, il compimento ultimo della capacità filosofica di analizzare un oggetto, prendendone le dovute distanze, al di fuori di un coinvolgimento personale. Il pensatore ritiene che il prossimo, per poter essere veramente tale, deve essere intenzionato da un “tu” e non da un “egli”, esso (“er, sie, es”)49. L’amore del prossimo particolare non lo intende derivato dall’idea generale di umanità, per cui l’amore del mio interlocutore sarebbe solo il caso particolare di un amore a priori universale rivolto all’umano in quanto tale. Come abbiamo detto poco fa’, il “ponte del pensiero” non è né può essere, a parere dell’autore, gettato da B=B a un altro B=B; non è più il pensiero e l’essenza cui esso si indirizza l’origine dell’amore, un amore quindi a priori, ma l’esperienza di un “evento” che mi è accaduto e che ha dischiuso la mia autoreferenzialità a un’alterità considerata nella sua assoluta trascendenza.

E’ perché si sa fratello dell’uomo in genere, di “tutti” gli uomini, o del mondo in generale […] che lo stoico “ama”, che lo spinoziano “ama” il prossimo. Di

48 Ivi, p. 247. 49 Ibidem.

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fronte a un tale amore, che sgorga dall’essenza, dall’universale, sta l’altro, che sorge dall’accadimento, cioè da quanto di più particolare vi sia50.

La presente riflessione può certamente suscitare delle perplessità, specialmente nella nostra epoca in cui l’amore del prossimo come nostro simile, come soggetto umano, si vuole intriso di un ragionamento a priori. Ed anche Rosenzweig stesso nella sezione finale della Stella evoca l’umanità intera come attrice e destinataria della redenzione finale, al di là di ogni particolarismo religioso o etnico. Il particolarismo viene salvaguardato, in quanto ebraismo e cristianesimo hanno ruoli differenti nella suddetta opera di redenzione del mondo. Ma l’amore del prossimo piuttosto che sorgere dal concetto stesso di umanità sorge da un comandamento calato dall’alto, vissuto come un’esperienza di vita, un’esperienza su cui non abbiamo potere decisionale. L’istanza tutta contemporanea di un amore “razionale” a priori, come rimedio ai mali del nostro tempo, potrebbe così essere contemperata, senza però venire mai surrogata, con il recupero rosenzweighiano della componente esperienziale ed eventuale dell’amore stesso, come avente luogo da un evento che ci accade e che promana da un’alterità non concettualizzabile.

Anche nella Cellula originaria che stiamo adesso analizzando Rosenzweig si riferisce, in chiusura, all’umanità tutta come soggetto del mondo escatologico, e quindi di salvezza, quando scrive che “solo alla fine “l’unità” del sistema viene sostituita dalla “comunità” di tutti […], l’ordine (A=B)” viene sostituto da “seità” e “immediatezza (B=B)”. L’amore universale, corollario della definizione di uomo, nasconde secondo il pensatore quella “voglia di sistema” che è presente nella natura umana, in virtù della quale, come esito estremo ed apicale, i nostri stessi simili verrebbero equiparati agli oggetti intramondani, nella misura dell’interscambiabilità che è caratteristica di quella rete di relazioni, priva di direzioni univoche e scale di valore51, che del sistema filosofico è propria.

50 Ivi, p. 250.

51 “Di ideali ce ne sono molti. L’uno toglie luce all’altro. La legge di convertibilità reciproca di tutti

gli oggetti del mondo- di-A = B vale anche per loro; posto in mezzo a essi l’uomo sa per certo solo di dover donare tutto se stesso, ma non sa a quale ideale. Regna sovrana la tragedia del conflitto

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II, III. Nuova filosofia e nuova teologia in “Credere e sapere”

Possiamo rinviare, prima di dedicarci all’analisi di filosofia e teologia nel

Nuovo Pensiero, lo scritto–manifesto del pensiero rosenzweighiano, a un altro

breve saggio che il pensatore scrisse nella natia Kassel nel ‘20, una volta tornato dal fronte, nello stesso periodo in cui riordinava la Stella, scritta sulle cartoline postali durante il suo arruolamento, in vista della pubblicazione. Nell’incipit del saggio, dal tono incalzante e riassuntivo della proposta ivi avanzata, l’autore stigmatizza il termine stesso “filosofia” come quello di “religione”, perché di “qualcosa che riguarda tutti, appunto credere e sapere, ne fanno […] una disciplina specialistica”52. L’attenzione si appunta tuttavia sul credere, che deve essere redento dalla “confisca teologica”. Con ciò il pensatore intende dire che esso si annuncia come una disposizione umana, equiparabile al sentimento di fiducia e di disponibilità all’accoglimento, piuttosto che come una fede incondizionata agli articoli di una confessione religiosa particolare. Un altro termine di matrice “religiosa” di cui Rosenzweig intende chiarire la sua lettura in chiave più ampia, è quello di “preghiera”. Anche la preghiera si svela ai suoi occhi come un atteggiamento semplicemente antropologico, quanto ognuno di noi può sperimentare in condizioni di “speranza e abbandono”.

Il sapere in senso forte non vi si trova disgiunto. Se il sapere “dubita” di tutto, come è suo compito fare, e nonostante la sua natura epistemica e fondata “vacilla”, il credere è in grado di permearlo e di sostenerlo nelle sue acquisizioni. Per spiegare quest’idea il pensatore si rifà ad alcuni luoghi cardine della scienza del suo tempo: le leggi di natura, l’evoluzione darwiniana, ma anche il concetto di libertà. L’evoluzione organica prima fra tutti presuppone la gradualità e la progressività dei suoi passaggi, e ciò vorrebbe valere, a parere di Rosenzweig, anche per l’evoluzione storica universale, e per quella del singolo. Il pensatore

dei doveri. Il comandamento di Dio è un ordine, inequivocabilmente impartito a questo uomo e in questa situazione […], né si può deviare su un altro binario del sistema, perché qui non esiste

alcun sistema di linee, c’è solo un unico tratto a due binari” (corsivi miei). Ivi, p. 251. 52 Idem, Credere e sapere, in Ebraismo, Bildung e filosofia della vita, op. cit., p. 75.

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