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CAPITOLO I IL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO

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CAPITOLO I

IL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO

1. IL FATTORE CRUCIALE DELLE DECISIONI DATORIALI: IL COSTO DEL LAVORO

La produzione di beni o servizi migliori e il mantenimento di prezzi più bassi della concorrenza, oggi più che mai, data l’attuale presenza di una recessione economica mondiale, costituiscono due risultati aziendali fondamentali che debbono essere accompagnati da una capacità organizzativa datoriale, consistente anche nell’abilità del datore di lavoro di gestire il proprio personale dipendente in modo da ottenere un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo.

Al fine dell’ottenimento di un vantaggio competitivo durevole nel tempo, l’impresa dovrà adattarsi ai cambiamenti che provengono sia dalle mutevoli esigenze dei potenziali e attuali clienti, che dai diversi fabbisogni finanziari interni dell’azienda; in tale contesto, il personale dipendente diviene una risorsa strategica per le aziende che vogliano ottenere un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza sostenibile nel tempo, in quanto esiste uno stretto legame tra competitività e gestione delle risorse umane.

Il controllo dei costi di produzione è infatti, oggi più che mai, un’attività svolta dai datori di lavoro a prescindere dalle dimensioni della loro attività e dal settore merceologico di appartenenza. Tale controllo è finalizzato a verificare la sostenibilità

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dell’attività economica nel tempo. Tra le voci dei costi di produzione, quello del costo del personale è indubbiamente uno dei più rilevanti, sia in termini quantitativi che in termini di importanza.

Il controllo dei costi del personale non viene svolto per perseguire buoni risultati produttivi o maggiori profitti, ma piuttosto al fine della sostenibilità del rapporto di lavoro e talvolta della sopravvivenza dell’impresa stessa.

Il controllo dei costi del personale consente al datore di lavoro di valutare costantemente la sostenibilità di tali costi in relazione al lavoro dell'impresa.

Per raggiungere tale fine, i datori di lavoro, sia di piccole che di grandi dimensioni, hanno introdotto il controllo di gestione, ossia un'operazione consistente nell’elaborazione e nella quantificazione di differenti dati da riepilogare nelle busta paga.

Il costo del lavoro viene calcolato prendendo come riferimento tre tipologie di dati: - retributivi;

- contributivi previdenziali e assistenziali; - fiscali.

I fattori che determinano differenti costi del lavoro sono: - la tipologia del contratto individuale;

- il contratto collettivo nazionale applicato; - la mansione assegnata;

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- la sede di lavoro;

- i premi produttività riconosciuti; - i superminimi accordati;

- fringe benefits riconosciuti al lavoratore.

È chiaro che, nella scelta se assumere o meno un nuovo lavoratore, il datore dovrà preventivamente determinare i futuri costi che dovrà sostenere per il nuovo personale, in un’ottica di maggiore produttività, e quindi di maggiori profitti conseguibili nonché di sopravvivenza economica dell’impresa stessa.

In realtà, tale calcolo viene sempre più eseguito dai datori di lavoro anche in riferimento al personale già in forze in azienda; ciò è spiegabile sia a causa della forte crisi economica, sia a causa dell’attuazione di processi riorganizzativi aziendali, per recuperare efficienza produttiva ed economica.

Oggetto di analisi saranno i possibili margini di libertà del datore di lavoro di modificare unilateralmente alcuni dei principali elementi contrattuali del rapporto lavorativo, ponendoli sempre a confronto con i diritti dei lavoratori; ovviamente, il tema delle modifiche apportabili al contratto individuale unilateralmente da parte del datore di lavoro si riferisce soltanto al personale già operante in azienda, poiché tali variazioni si inseriscono nell'ambito delle scelte di riorganizzazione dell’attività aziendale del datore di lavoro, tuttavia l'esercizio di tale potere talvolta nasconde veri e propri obiettivi di riduzione del personale in forma implicita, ai fini di un maggior contenimento dei costi del lavoro.

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Le motivazioni sottostanti alle modifiche contrattuali apportabili possono essere le più svariate, ne abbiamo citate solo alcune poc’anzi, ma a prescindere da quali esse siano, quello che interessa ai fini della presente tesi è fino a che punto il datore di lavoro sia libero di apportarle senza pregiudicare o ledere i diritti dei lavoratori e quali conseguenze possono discendere da tali modifiche contrattuali.

Il recente caso dell’azienda automobilistica Fiat, con la sua fuoriuscita da Confindustria e dunque da Federmeccanica, è stato il più emblematico caso di disapplicazione unilaterale del contratto collettivo nazionale applicato, per poter invece applicare accordi individuali plurimi, qualificati dalla stessa Fiat come “contratti speciali di

primo livello”, equiparandoli così ai CCNL, oltre che continuare a applicare ai propri

dipendenti il contratto aziendale vigente.

Nel febbraio e nel giugno 2010, nell’ambito del piano industriale per il rilancio dello stabilimento di “Gianbattista Vico” di Pomigliano D’Arco e quello di Mirafiori a Torino, la Fiat richiese ai sindacati firmatari del contratto aziendale di introdurre regole innovative in materia di orario di lavoro, straordinari, distribuzione di mansioni tra operai diretti ed indiretti, assenteismo, sistema della pause, e di fornire maggiori garanzie in ordine alla concreta esigibilità dello stesso.

La diversa disponibilità dei sindacati firmatari su tale punto costituì uno dei fattori scatenanti l’aspra contesa tra CISL e UIL da una parte e CGIL dall’altra, quest’ultima venne ritenuta, da molti, il detonatore di una crisi latente nel complesso sistema di relazioni industriali, in quanto proprio in ragione del dissenso della CGIL-FIOM, Fiat decise di uscire da Confindustria e di recedere così dal CCNL dei metalmeccanici.

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Nei moderni contesti imprenditoriali, il contratto aziendale è divenuto uno strumento indispensabile per il conseguimento di più alti livelli di produttività richiesti dal mercato, da ciò nasce l’esigenza che i sindacati assicurino la concreta implementazione di quanto pattuito negli stessi, facendoli diventare così imperativi imprescindibili. Tutto discende dal fatto che, a seguito della stipula di un contratto collettivo, nazionale o aziendale o territoriale che sia, e della non sempre facile individuazione dell'ambito di efficacia soggettiva, derivino in capo agli stessi soggetti firmatari una serie di diritti e obblighi reciproci.

La diversa sensibilità da parte delle maggiori confederazioni sindacali, CISL, UIL e CGIL, ha dato origine a forti tensioni, contrapponendo chi, come CISL e UIL, accettava una simile responsabilizzazione, a chi per contro, come la CGIL, non riteneva necessario od opportuno riconoscere tali prerogative alla parte datoriale.

Da ormai un decennio e più viviamo in un contesto economico che tenta di puntare all’allocazione efficiente delle risorse disponibili, sempre di più limitate, al fine di recuperare quel divario di competitività con economie concorrenti, le quali invece puntano all’abbassamento del costo del lavoro.

In un contesto come questo, diviene elemento imprescindibile, per la realizzazione di un qualsivoglia progetto imprenditoriale, la prevedibilità dei relativi costi, che nello specifico della contrattazione collettiva significa anche avere la garanzia di esigibilità delle poste attive, ricavate nella dialettica contrattuale.

Grande scalpore mediatico si ebbe quando la Fiat pose in essere una contrattazione separata con solo alcune delle principali sigle sindacali, ovviamente con quelle disponibili alla nuova contrattazione collettiva, alla quale ricordiamo la CGIL non

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partecipò; l’obiettivo era quello di consentire alla contrattazione aziendale di poter pattuire deroghe temporanee, modificative del CCNL, dando la possibilità al contratto aziendale di ricollegare il comportamento del singolo lavoratore che rende inesigibili gli impegni assunti con la perdita del diritto al premio produttività, si tratta della famosa, quanto discussa, clausola di responsabilità.

Senza soffermarci sull’intera vicenda, ciò che emerge è lo stretto legame che sussiste tra le scelte datoriali di investimento, quali ad esempio innovazione, efficienza, qualità produttività e la possibilità di beneficiare di condizioni normative di maggior favore, disposte o dal legislatore o pattuite direttamente con i sindacati; tale legame ha avuto un riscontro legislativo con l’art. 8 del D. L. n. 138/2014, norma che consente, per l’appunto, di poter introdurre, per via pattizia, deroghe, anche in senso peggiorativo, ad un vasto numero di norme lavoristiche di rango primario, fermo restando il rispetto di limiti ritenuti invalicabili dallo stesso legislatore.

In virtù di tale norma, che però non ha avuto un favorevole accoglimento dalle parti sindacali, si consente alla contrattazione collettiva aziendale, di introdurre, in chiave promozionale, deroghe alle fonti legali, primarie e contrattuali collettive nazionali, permettendo così al contempo una salvaguardia dei livelli occupazionali, e quindi una tutela dei lavoratori e del loro posto di lavoro, e l’implementazione delle scelte di investimento effettuate dalle aziende. È evidente che, laddove non si riesca a pervenire a tali accordi collettivi, il datore sarà spinto a percorrere strade differenti, talvolta lecite, talvolta al limite della liceità, per poter consentire l’ottenimento della redditività degli investimenti da lui posti in essere.

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Altro caso emblematico che ha riportato in auge il dibattuto tema della disdetta e del recesso del CCNL, è quello della vertenza dei Metalmeccanici (che ovviamente riguardò anche l'azienda Fiat), relativo alle vicende in cui il CCNL dei metalmeccanici del 2008, con durata quadriennale, stipulato da Federmeccanica e Assistal e dai tre maggiori sindacati dei lavoratori, CGIL, CISL e UIL, venne disdetto ante tempus, dalle associazioni datoriali e soltanto da CISL e UIL per i lavoratori, per sottoscrivere un nuovo CCNL nel 2009.

Il sindacato dissenziente CGIL, firmatario del CCNL del 2008 e non di quello del 2009, rivendicò la perdurante vigenza del CCNL del 2008 e conseguentemente l'inefficacia sia della disdetta che del rinnovo del 2009 alle aziende che applicavano il CCNL del 2009 ai suoi lavoratori iscritti, ravvisando in tale condotta datoriale il carattere dell'antisindacalità ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori.

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2. I LIMITI AL POTERE DIRETTIVO DEL DATORE

DI LAVORO

Secondo un diffuso orientamento dottrinale1, il potere direttivo datoriale, ossia la

specificazione e la conformazione della singola prestazione di lavoro dall’esterno2, è da

qualificarsi quale proiezione del più generale potere organizzativo – gestionale dell’impresa, di cui è titolare il datore di lavoro in base all’art. 2082 del codice civile. La collocazione del potere direttivo all’interno del perimetro contrattuale non esclude peraltro l’applicazione di limiti esterni al medesimo, quali sono i precetti del secondo comma dell’art. 41 della Costituzione, in quanto l’esercizio di tale potere direttivo viene a costituire il rovescio della medaglia della stessa nozione di subordinazione. Trattandosi di un potere derivato da un contratto, lo stesso è sottoposto anche a un controllo sull’osservanza delle clausole generali di buona fede e correttezza, che governano lo svolgimento di qualunque rapporto contrattuale, tra cui anche quello lavorativo, e soggiace al tempo stesso ai limiti dettati dalla Carta Costituzionale, in materia di iniziativa economica privata e in materia di dignità umana, libertà e sicurezza.

1 A. PERULLI, Potere direttivo e suoi limiti generali, in Digesto IV, Disc. Priv., Sez. Comm.,

App., 2009, pag. 850 e segg.; G. VARDARO, Il potere disciplinare giuridificato, in Giorn. Dir.

Lav. Rel. Ind., 1996, pag. 1 e segg.; V. CRISAFULLI, Diritti di libertà e poteri

dell'imprenditore, in Riv. Giur. Lav., 1954, I; R. DE LUCA TAMAJO, Profili di rilevanza del

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Inoltre, lo Statuto dei Lavoratori ha introdotto ulteriori limiti esterni all’esercizio dei poteri del datore di lavoro, promuovendo il controllo sindacale e le azioni a tutela dei diritti dei lavoratori, quale ad esempio l’art. 28.

Il contratto individuale di lavoro resta pur sempre un contratto, per cui, ogni qual volta non sia reperibile, nella disciplina lavoristica, il criterio di soluzione di un caso, gli interpreti ed i giudici potranno fare ricorso ai principi e alle clausole generali dei contratti, quali ad esempio la buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 del codice civile, quali criteri di scrutinio della legittimità delle scelte datoriali unilaterali; e ancora, per la valutazione della protezione della dignità e della sicurezza del lavoratore a seguito di decisioni unilaterali datoriali imposte al lavoratore, si potrà fare riferimento all'art. 2087 del codice civile.

Ricordiamo inoltre che il giudice non potrà sindacare sulle scelte tecniche ed organizzative compiute dal datore di lavoro, in quanto sconfinerebbe in un controllo di merito; tale limite, già invalso nella giurisprudenza, trova oggi anche una norma positiva che lo prevede. Si tratta dell'art. 30, primo comma, L. n. 183/20103, nota come

Collegato Lavoro.

A fronte dell’insindacabilità delle scelte e delle ragioni organizzative, tecniche e produttive, il necessario controllo giudiziale verterà soltanto sulla corretta applicazione dei principi generali di correttezza e di buonafede, ex art. 1375 del codice civile, che 3 Secondo l'art. 30 L. n. 183/2010:“ (…)In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle

materie di cui all'art. 409 del codice di procedura civile e all'art. 63 comma primo del D. Lgs. del 30 marzo 2001 n.165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento d'azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento , all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche , organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”.

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impongono al datore di scegliere, tra differenti soluzioni organizzative, quella soluzione meno gravosa per il dipendente, tenuto conto della sussistenza di specifiche ragioni personali e familiari del dipendente stesso.

Pertanto, la libertà decisionale del datore di lavoro verterà su tutti gli aspetti dell’attività d’impresa, fra cui scelte produttive, organizzative e commerciali, ma non si estenderà automaticamente agli atti ed ai comportamenti adottabili nei riguardi dei lavoratori, anche se le sue decisioni, che costituiscono esercizio della libertà d’impresa, hanno inevitabilmente ricadute su di essi.

Ai fini della valutazione della legittimità dell’esercizio dei poteri imprenditoriali il giudice dovrà effettuare una valutazione prognostica, dell’una o dell’altra opzione gestionale, e indicare successivamente la previsione che gli appare più corretta, fermo restando il principio, sempre ribadito dalla giurisprudenza, oltre che espressamente sancito dal richiamato art. 30 della L. n. 183/2010, dell’insindacabilità delle scelte gestionali dell’imprenditore.

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3. IL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO

Come per ogni contratto, anche per quello individuale di lavoro è richiesta, ai fini della valida ed efficace stipulazione, la libera espressione del consenso.

Il contratto individuale di lavoro contiene, di solito, soltanto le indicazioni essenziali per poter dar vita ad un rapporto obbligatorio di lavoro ossia:

- identità delle parti, datore e lavoratore; - luogo della prestazione;

- durata del contratto e orario di lavoro;

- inquadramento professionale attribuito e qualifica correlata; - mansioni assegnate;

- misura della retribuzione, indicabile anche attraverso un rinvio al contratto collettivo nazionale applicabile.

Nel contratto individuale di lavoro possono essere incluse anche clausole liberamente negoziate tra le parti, purché di miglior favore per il lavoratore rispetto ai termini legali e contrattuali collettivi, ad esempio trattamenti retributivi integrativi, migliorativi dei minimi tabellari previsti dai CCNL, quali i superminimi. Eventuali clausole inserite nel contratto individuale di lavoro, all’atto della stipula o successivamente per modifica dello stesso, che siano in contrasto con disposizioni imperative di legge o di contratto collettivo sono da considerarsi nulle e sostituite di diritto da quelle previste dal contratto collettivo, ex art. 2077 del codice civile.

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In base all’art. 1 del D. Lgs. n. 152/1997, emanato in ottemperanza alla Direttiva Europea 91/533/CEE, si è stabilito che il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore le seguenti informazioni:

1. identità delle parti, datore e lavoratore;

2. luogo di lavoro, se non vi è un luogo fisso, l’indicazione che il lavoratore sarà occupato in luoghi diversi; è consigliabile una definizione ampia, per garantire una certa flessibilità in caso di modifiche successive al medesimo;

3. data di inizio del rapporto lavorativo;

4. durata del rapporto di lavoro e sua qualificazione, precisando se si tratta di un rapporto a tempo indeterminato o determinato, di lavoro subordinato , di apprendistato;

5. durata del periodo di prova, se previsto;

6. inquadramento, livello, qualifica attribuita o la descrizione sommaria delle mansioni affidate che dovranno essere svolte;

7. importo iniziale della retribuzione ed i relativi elementi costituivi, con l’indicazione del periodo di pagamento;

8. durata delle ferie retribuite e modalità di determinazione nonché di fruizione delle stesse;

9. orario di lavoro;

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Qualora il datore di lavoro non adempia o adempia in modo ritardato, inesatto o incompleto agli obblighi informativi previsti dalla normativa, il lavoratore potrà rivolgersi all'organo amministrativo (oggi, ITL), affinché esso intimi al datore di lavoro di adempiere alle disposizioni di legge, sotto la minaccia di irrogazioni di sanzioni amministrative.

Talune delle informazioni, che il datore di lavoro è tenuto a fornire possono essere richiamate mediante rinvio alle norme del contratto collettivo applicato al lavoratore, quale ad esempio il periodo di prova, importo della retribuzione, ferie, orario di lavoro e termini di preavviso. Per tale motivo è preferibile inserire nel contratto individuale di lavoro anche il riferimento del rinvio al contratto collettivo applicato, in modo da assoggettare il lavoratore alla disciplina da quest’ultimo prevista ed anche alle sue modifiche successive, purché conoscibili o conosciute dal lavoratore.

Ricordiamo che, in tal modo, il CCNL richiamato potrebbe, eventualmente, rinviare ad un contratto collettivo aziendale.

In caso di modifica degli elementi essenziali del contratto, ex art. 3 del D. Lgs. n. 152/1997, successivamente all’assunzione del lavoratore e che non derivi direttamente da disposizioni legislative, il lavoratore dovrà essere informato per iscritto entro un mese dall’adozione della stessa, con riferimento a retribuzione, fruizione di ferie, orario di lavoro e termini di preavviso.

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4 . LE POSSIBILI DEROGHE AL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO

Come già esposto precedentemente, ex art. 2077 del codice civile, le pattuizioni individuali derogatorie in peius sono da ritenersi nulle; al contrario, qualunque patto individuale avente contenuto migliorativo rispetto alla legge o al contratto collettivo, nazionale, aziendale o di prossimità che sia, sarà pienamente valido ed efficace.

L’art. 2113 del codice civile prevede il divieto di porre in essere rinunce, quali atti unilaterali a carattere dismissivo, e transazioni, ossia quei contratti disciplinati dagli art. 1965 e seguenti aventi la finalità di porre fine ad una lite già iniziata o di prevenirne la sua insorgenza, attraverso delle reciproche concessioni tra le parti lavorative, aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi (dunque trattasi di diritti indisponibili4 del lavoratore); invece

possono costituire oggetto di rinunce o transazioni quei diritti disponibili5 del

lavoratore, previsti dal contratto individuale di lavoro che normalmente comportano condizioni di miglior favore rispetto a quelli previsti dalle norme inderogabili citate dall'art. 2113 del codice civile, già sorti ed entrati nel suo patrimonio giuridico.

4 Quasi tutti i diritti del lavoratore hanno natura indisponibile per legge o per contratto collettivo, dunque i diritti derogabili sarebbero soli quelli a carattere accessorio.

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In giurisprudenza6 è ormai diffuso l'orientamento secondo cui le rinunce o transazioni

aventi ad oggetto diritti futuri dellavoratore siano da ritenersi non valide, dunque nulle per contrarietà a norme imperative, ex art. 1418 del codice civile, suscettibili di rimozione anche oltre il termine di sei mesi.

Le rinunce o transazioni aventi ad oggetto diritti indisponibili del lavoratore o diritti futuri7 nascenti dal rapporto di lavoro non sono valide, dunque il lavoratore potrà

impugnare tali atti, a pena di decadenza, nei modi e nei tempi prescritti dall’art. 2113 del codice civile, che dispone quanto segue: “Le rinunzie e le transazioni che hanno per

oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide. L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a rendere nota la volontà. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile”.

L’azione giudiziale verrà posta in essere qualora il lavoratore intenda conseguire l’annullamento della rinuncia o della transazione per rivendicare il diritto che è stato oggetto dell’atto dispositivo invalido.

6 Cassazione, 13 marzo 1992, n. 3093; Cassazione, 8 novembre 2001, n. 13834; Cassazione, 13 luglio 1998, n. 6857; Cassazione, 15 febbraio 1988, n. 1622.

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Le disposizioni di cui all'art. 2113 del codice civile non si applicano e dunque non si produce alcuna invalidità laddove la rinuncia o la transazione, pur avendo ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili di legge o da contratto collettivo, sia adottata in sedi protette, dedite alla protezione degli interessi e dei diritti del lavoratore, ovverosia: - davanti alla Commissione provinciale di conciliazione, costituita presso l'ITL;

- con l'assistenza di un'associazione sindacale;

- davanti all'autorità giudiziaria, nell’ambito di controversie in materia di lavoro;

-davanti a un organo abilitato alla certificazione dei contratti di lavoro, ex art. 82 del D. Lgs. n. 276/2003.

E’ opportuno ricordare che quanto è concordato tra datore di lavoro e lavoratore nelle sedi protette o di certificazione, al fine di modificare il contratto individuale di lavoro, potrà essere impugnato dal lavoratore in caso di vizi del consenso o di violazioni procedurali, nonché per cambiamenti sopravvenuti successivamente a tale accordo. La ratio della validità, in via eccezionale, delle rinunce o delle transazioni, poste in essere nel corso del rapporto di lavoro, aventi ad oggetto diritti indisponibili dalla legge o dal contratto collettivo, realizzate in sedi protette verte sul fatto che in tali sedi la debolezza negoziale naturale del lavoratore viene meno grazie alla presenza di soggetti od organismi preposti alla protezione del lavoratore, i quali assistono inoltre il lavoratore nella stipula di tali atti dispositivi ad effetti permanenti, al fine di garantire che essi siano veramente l'esito di una volontà perfettamente informata e consapevole del lavoratore.

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Questo è il punto controverso del sistema lavoristico attuale, in quanto in tali sedi protette viene a piegarsi il principio dell’inderogabilità in peius, permettendo al lavoratore di vedersi restituita, sotto la vigilanza di soggetti qualificati, la propria autonomia negoziale, in ordine a vicende pregresse del rapporto di lavoro o alla gestione di situazioni che ne derivano.

Stiamo assistendo, da un punto di vista normativo, a un nuovo sviluppo dell’assetto del diritto del lavoro, consistente nel superamento della sottrazione dell’autonomia negoziale alla parte considerata ontologicamente debole, ossia il lavoratore, con la restituzione a quest'ultimo di parte del proprio potere decisionale.

L’inderogabilità in peius è stata da sempre ritenuta essenziale per permettere al diritto del lavoro di assolvere la sua funzione vocativa protettiva del lavoratore; dunque con il nuovo assetto derogatorio del contratto individuale di lavoro si assisterebbe ad uno snaturamento della originaria funzione vocativa del diritto del lavoro.

In realtà sono numerosi i casi in cui al lavoratore viene comunque riconosciuto l’esercizio di autonomia negoziale individuale, come ad esempio per la stipula di un contratto di lavoro non standard (cioè non di tipo subordinato), l’effettuazione di rinunce e transazioni, la stipula del patto di prova, la stipula del patto di non concorrenza, la concessione del consenso per l’effettuazione di lavoro straordinario, la richiesta di inserimento del TFR in busta paga, ect.

Alle già numerose ipotesi di autonomia negoziale si sono aggiunte poi quelle introdotte dal Jobs Act8 in materia di mansioni, introducendo così la possibilità di derogare, anche

in peius, le mansioni, la categoria e il livello di inquadramento nonché il relativo

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trattamento retributivo spettante al lavoratore, così come era stato definito in origine dal contratto individuale di lavoro.

In conclusione sempre più il lavoratore ha recuperato, giuridicamente, spazi di autonomia negoziale, per regolare la sua posizione nel rapporto di lavoro sulla base di scelte volontarie e perfettamente coscienti, assistito sempre da soggetti preposti alla sua tutela ed al suo consenso informato.

Se è vero che l’imposizione eteronoma della disciplina del rapporto di lavoro, con la limitazione dell’autonomia negoziale della parte considerata debole, è sempre stata giustificata dalla presenza di distorsioni che si manifestano nel mercato del lavoro, è altrettanto vero che laddove queste venissero superate, non vi sarebbe alcun ostacolo alla restituzione, quasi in modo integrale, dell’autonomia negoziale al lavoratore. Si avrebbe in tal modo un progresso sociale, della parte tradizionalmente ritenuta debole, ed un mercato del lavoro privo di asimmetrie informative, costi di transazione e da fattori di dipendenza economica, in cui il lavoratore sarebbe effettivamente libero di scegliere il se, il come, il quando, il quanto e il dove lavorare, in ottemperanza all’art. 2 e 4 della Costituzione, tale per cui sarebbe strettamente necessaria la restituzione della sua autonomia negoziale, al fine di evitare di ledere una sua prerogativa costituzionale. Tale evoluzione è perfettamente in linea con quella dell’ordinamento comunitario, che punta soprattutto sulla correzione del difetto di informazione, di formazione e di mobilità, mediante anche l’azione del Fondo Sociale Europeo, piuttosto che sul ricorso alla limitazione dell’autonomia negoziale individuale del lavoratore.

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Brevemente ricordiamo che una parte della dottrina9 ritiene che l’attuale assetto del

diritto del lavoro rimetta al centro lo spazio e il ruolo del contratto individuale di lavoro, riducendone i vincoli eteronomi ma, al contempo, ri-legittimando anche il potere di supremazia datoriale, attraverso una negoziazione di facciata, che lo libera da futuri e probabili controlli esterni (quali quelli giudiziali e/o amministrativi).

Per tali motivi il lavoratore potrebbe ritrovarsi al punto di partenza, ovvero di contraente debole, quindi alle prese con una libertà negoziale che non sarebbe in grado di usare efficacemente o che non sia davvero affidata alla sua disponibilità.

In questo senso si ritiene che il diritto del lavoro abbia ingranato una marcia all’indietro e che non riesce a trovare un modo satisfattorio di valorizzare davvero l’autonomia negoziale individuale del lavoratore.

È indubbio che il contratto individuale di lavoro abbia confini, per così dire, porosi, nei quali si infiltrano valori e norme di diritto costituzionale e valori e norme di diritto commerciale; ma è altrettanto vero che esso non può essere fatto orbitare né in una dimensione né nell’altra, pena il suo assorbimento nelle fonti eteronome, in un caso, o in un mercato privo di regole, improntato a principi di libera concorrenza e di libero scambio, nell’altro.

9 L. ZOPPOLI, Le rughe dello Stato e le maschere del futuro, in Lavoro e diritto, 2010, n. 1,

pag. 59 e segg.; C. MURENA, Un dibattito sempre aperto:l'art. 2113 cod. civ., in Dir. Lav.

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