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Capitolo 1 Origini ed evoluzioni della spesa pubblica italiana

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Origini ed evoluzioni della spesa pubblica italiana dall’Unità d’Italia ad oggi

1.La nozione di spesa pubblica

La “spesa pubblica” e il “debito pubblico” sono spesso considerati come i mali peggiori, in un ordinamento in cui primeggia all’ordine del giorno la parola “crisi economica1”. Per

crisi economica2 si intende un andamento di arresto e di caduta

prolungata dei processi produttivi, seguito dalla

sottoutilizzazione degli impianti, caduta dell’occupazione, riduzione degli investimenti, chiusure o fallimenti delle imprese.

La presente crisi si sostanzia in una sofferenza generalizzata del processo di crescita e di accumulazione del sistema capitalistico, che si è riverberato sulle situazioni di squilibrio anomalo dei bilanci dei settori pubblici, soprattutto per quanto riguarda gli equilibri dell’indebitamento pubblico troppo elevato rispetto al PIL.

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Mi riferisco alla crisi finanziaria ed economica del 2007-2011, questa non ha riguardato solamente le sfere della finanza e dell’economia, ma ha coinvolto pienamente le caratteristiche strutturali e funzionali dell’Eurosistema.

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Spesa pubblica e debito pubblico sono due concetti che è bene tenere distinti nonostante il primo abbia un’incidenza sul secondo. Il debito pubblico3 è l’importo complessivo dei prestiti che lo Stato, le aziende statali, le regioni, le provincie, i comuni, le imprese e gli enti speciali appartenenti allo Stato contraggono periodicamente a fronte dei deficit di bilancio. La sua copertura viene realizzata con l’emissione di titoli di Stato o con l’aumento delle imposte correnti.

Il bilancio dello Stato si trova in deficit quando non viene raggiunto il c.d pareggio, ossia quando l’ammontare delle entrate non riesce a coprire l’ammontare delle uscite, sulle quali influisce in maniera rilevante per l’appunto la spesa pubblica.

La nozione di spesa pubblica4 può essere considerata per certi versi evanescente e tautologica, per essa si intende l’erogazione di risorse effettuata dallo Stato o da altri enti pubblici per produrre beni e servizi necessari al soddisfacimento dei bisogni pubblici e al raggiungimento delle altre finalità perseguite dagli enti stessi. La sua base normativa risiede nell’art 269 del r.d 23.5.1924 n 827, approvativo del regolamento di

3 Enciclopedia Treccani.

4 F. Zaccaria, La spesa pubblica in Italia tra espansione e controlli, F. Angeli, 2005, p. 34 ss.

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esecuzione alla vecchia legge di contabilità generale dello Stato, adottata con r.d 18.11.1923 n 2440. Questo articolo è ancora in vigore e precisa che “sono spese dello Stato quelle a cui si deve provvedere a carico dell’erario a norma di leggi, decreti, regolamenti o altri atti, di qualsiasi specie, e quelle, in generale, necessarie per il funzionamento dei servizi pubblici che dipendono dalle amministrazioni dello Stato”5

. Questa norma, di ampia portata, sottolinea che la spesa pubblica è espressione dell’attività amministrativa e si ricollega alla teoria generale della pubblica amministrazione. In diritto amministrativo, infatti, la spesa pubblica è quella posta in essere da un soggetto della pubblica amministrazione nell’esercizio di una funzione amministrativa o di un servizio pubblico; è essenziale per assicurare lo svolgimento da parte degli organi amministrativi delle competenze loro affidate e di un’adeguata azione per il conseguimento degli obiettivi in funzione dei quali sono attribuite loro le competenze. Le pubbliche amministrazioni hanno perciò un peso determinante nel concorrere alla formazione della spesa pubblica e al suo incremento, ragion per cui, devono attenersi all’art 97 Cost che guida il loro agire. Nel

5 Idem .

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corso degli anni sono state oggetto di numerose riforme volte ad eliminare i loro lati “oscuri”, caratterizzati da sprechi, inefficienza e cattiva gestione delle risorse loro affidate.

Oltre a queste considerazioni riguardo l’incidenza delle pubbliche amministrazioni, la spesa pubblica è uno strumento di politica economica ed il suo aumento è dovuto all’inversione di tendenza della posizione dello Stato che da un atteggiamento di laisser faire, fiducioso nel liberismo economico, già a seguito delle Guerre Mondiali e soprattutto dopo il periodo di Grande Depressione6, è passato a divenire uno Stato interventista, ergendosi a strumento generale di correzione delle inefficienze ed insufficienze dei mercati sempre più incerti e rischiosi. Dopo l’avvento della Costituzione e gli avvenimenti catastrofici che segnarono la storia, l’Italia ha assunto la veste di welfare state, in cui lo Stato si propone di fornire e garantire diritti e servizi sociali a tutti i cittadini in conformità con l’art. 3 Cost., cercando di ridurre e rimuovere le disuguaglianze sociali, facendosi carico

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La Grande Depressione, detta anche crisi del 29’ o crollo di Wall Strett, fu una grave crisi economica e finanziaria, che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti, con ripercussioni duranti i primi anni del decennio successivo. La grande crisi si propagò rapidamente fuori dagli Usa e i primi furono tutti quei paesi che avevano stretti rapporti finanziari con gli Stati Uniti, a partire da quelli europei che si erano affidati all’aiuto economico americano, dopo la Prima guerra mondiale. In tutti quei paesi si assistette a un drastico calo della produzione seguito da diminuzione dei prezzi, crolli in borsa, fallimenti e chiusure di industrie e banche, aumento dei disoccupati, il tutto aggravato dall’introduzione di misure protezionistiche come il freno al libero scambio nel sistema economico mondiale.

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delle situazioni più disagiate e avendo come finalità quella della redistribuzione del reddito nazionale. Nel periodo di crisi che stiamo vivendo la crescita e l’occupazione sembrano utopie e concetti così lontani da noi. Ci vorrebbero delle misure urgenti che rimediassero a questa situazione. La spesa pubblica negli ultimi anni, a seguito delle sue finalità, ha raggiunto i record più alti nella storia, ammonta a 800 miliardi di euro, circa il 51% del PIL7, considerando che è sempre stato il nostro tallone d’Achille. L’epoca in cui viviamo si caratterizza per la perdita di fiducia nella capacità dell’intervento dello Stato8

che si è dimostrato incapace di risolvere i problemi dell’odierna società delle volte peggiorando la già tragica situazione. Come dar torto ai cittadini che esasperati dalle condizioni in cui vivono, richiedono forme di intervento urgenti e incisive. È proprio in questo scenario che il diritto è chiamato a svolgere questa “missione”: creare misure eccezionali e tempestive, adottare correttivi tramite nuovi istituti o modificando quelli preesistenti. La soluzione sarebbe banale, ma la colpa della non soluzione è imputabile alla nostra classe

7 Dati presi da articolo, in Confcommercio online, 2013. Rapporto comparativo Ocse sui governi e sulle pubbliche amministrazioni dei Paesi membri: nel 2011 la spesa pubblica italiana era di circa 4 punti superiore alla media, mentre il debito la superava di oltre il 40%.

8 F. Reviglio, La spesa pubblica. Conoscerla e riformarla, Venezia, Marsilio editore, 2011, p. 43 ss.

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politica, altro grande male della nostra società, che antepone i propri interessi economici e particolari a quelli del Paese.

1.1. Origini ed evoluzione storica

La spesa pubblica, nel corso degli anni, ha subito degli andamenti fortemente progressivi, influenzati dal relativo contesto storico, dalle necessità del momento e soprattutto dal diverso modo di concepire il sistema finanziario. Si è così passati, da un’impostazione di finanza neutrale e limitata, a una finanza funzionale di tipo keynesiano, a una finanza diretta a garantire l’armonia sociale e infine a quella del riequilibrio9

. Questi modelli ispiratori sono retti da principi e regole diverse e vedremo come si sono realizzati nel corso degli anni.

Il punto da cui partire è quello della proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861. Prima di allora sarebbe stato improprio parlare anche d’Italia, dal momento in cui la maggior parte dei territori italiani erano dominati dall’occupazione straniera. Durante il lungo periodo del Risorgimento, questi territori vennero liberati e annessi, a seguito di un plebiscito popolare, al

9 F. Zaccaria, op. cit, , p.60 ss.

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Regno di Sardegna. Il Regno di Sardegna era una monarchia pattizia, in cui Carlo Alberto, nel 1848, aveva concesso lo Statuto Albertino, “legge fondamentale della monarchia”, che rimase in vigore per circa un secolo, in tutta Italia, primo esempio di Costituzione, che si inserisce nel filone costituzionalistico di ispirazione liberale10.

Si ebbe così il passaggio da una monarchia assoluta a una monarchia, che prevedeva, l’intervento attivo delle assemblee parlamentari. Gli interessi del Paese non coincidevano più con gli interessi della Corona, dovendo gli organi rappresentativi dar conto del loro operato al popolo.

Dopo l’unificazione e la proclamazione del giovine Regno d’Italia con a capo re Vittorio Emanuele II, lo Statuto Albertino venne esteso a tutto il Regno, rimanendo immutati tutti gli aspetti, quanto alle norme, quanto alla forma di governo. In accordo con i canoni economici e finanziari dell’epoca, lo Statuto recepì un’impostazione tipica di finanza neutrale, in forza della quale lo Stato doveva limitare i propri interventi in campo economico, per evitare di alterare gli equilibri del sistema. Il

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G. Morangiu, La politica fiscale dell’Italia liberale dall’Unità alla crisi di fine secolo, Firenze, Fondazione Luifi Einaudi, 2010, p. 24 ss.

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bilancio dello Stato doveva risultare in pareggio ed il prelievo fiscale, improntato a criteri di proporzionalità, non aveva alcuna finalità redistributiva. Venne però sancito il principio della riserva di legge per l’approvazione del bilancio e l’imposizione di tributi, perciò nessuna legge in materia, poteva essere promulgata senza il consenso del Parlamento.

L’Italia appena creata era però solo un’entità geografica e aveva bisogno di trovare non solo la propria identità nazionale, ma anche risolvere quelli che erano i problemi post-bellici. Primo tra tutti, seppur unita, il territorio era separato internamente, mancavano infrastrutture che collegassero i vari territori. Scuole e Università c’erano, anche al Sud, ma la popolazione era

costituita per la maggior parte da analfabeti.

L’industrializzazione stentava a decollare, le uniche industrie erano quelle della lana, della seta e del cotone, solo nel Nord11. Le attività più sviluppate che davano sostentamento erano l’agricoltura, per certi versi arretrata, ma specializzata in alcune produzioni oggetto di esportazione e il settore manifatturiero e artigianale, da sempre legato a vecchie tradizioni, che faceva sì che i prodotti italiani fossero rinomati all’estero, in particolar

11 G. Morangiu, op. cit., p. 65 ss.

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modo, per quanto riguarda l’oreficeria, la ceramica, la lavorazione dei mobili. Molte zone erano abbandonate, incolte, padulose con la conseguente piaga della malaria e di altre malattie. L’Italia era non solo il paese più povero d’Europa, ma soffriva anche dei suoi problemi interni, in cui lo squilibrio tra Nord e Sud era conclamato. L’unità doveva fare i conti con la tendenza all’autonomia di alcuni territori, perciò l’apparato statale prevedeva la suddivisione delle funzioni tra le varie amministrazioni, centrali e periferiche, ma per ragioni politiche fu scartata ogni tendenza regionalistica e accentrato il potere nelle amministrazioni centrali, estendendo la legislazione piemontese alle amministrazioni locali12.

Si presentò il problema dell’omogeneizzazione contabile del Regno, dovendo il neo-nato Stato, adottare un unico modello contabile e di bilancio, in grado di sintetizzare e uniformare i vari modelli.

Il primo tentativo13 per risolvere in modo tempestivo ed efficace il problema dell’armonizzazione contabile, fu la legge di

12 Idem .

13 G. De Gruttola, Ricerca normativa in merito all’evoluzione normativa in tema di

contabilità pubblica e di bilancio dello Stato nel periodo intercorrente tra l’Unita d’Italia e il 1930.

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contabilità emanata da Cavour, la legge del 23 marzo 1853 n.1483. L’intervento di Cavour, allora presidente del consiglio dei ministri, fu coerente con i principi dell’epoca, introdusse il metodo contabile della partita doppia alla Contabilità dello Stato. Inoltre l’unificazione dei debiti contratti dai governi italiani per le guerre precedentemente sostenute, fecero emergere un altro problema, quello delle finanze del nuovo Stato che erano a dir poco disastrose. Secondo Cavour14 la completa liberazione dell’Italia non dipendeva tanto dal numero di soldati, ma da quanto si potesse disporre per sostenere la guerra; quindi bisognava rimettere in sesto le casse dello Stato. Apparve presto opera odiosa e impopolare da condurre: l’unico modo era quello di puntare sulla pressione fiscale. Integrò il carente sistema tributario con nuove tasse e imposte dirette e indirette, facendo sì che il bilancio fosse tendenzialmente in pareggio, e cercò di risolvere almeno alcuni dei problemi prospettati. L’intervento dello Stato doveva essere limitato ai settori più importanti: difesa nazionale, sanità, infrastrutture, crescita economica.

Altro importante intervento meritevole di attenzione per significatività è la legge Cambray-Digni n. 5026 del 22 aprile

14 G. Morangiu, op. cit., p. 89 ss.

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1869, recante disposizioni sull’amministrazione del patrimonio dello Stato e sulla contabilità. Questa legge ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi l’istituzione di garanzia e di corretta gestione delle risorse pubbliche. Nata dall’esigenza di amministrare e di controllare in modo oculato le finanze dello Stato, istituì nel Regno, la figura della Ragioneria Generale dello Stato. Cavour fu il primo a mettere l’accento su quanto fosse importante che le spese autorizzate dallo Stato fossero eseguite con regolarità ed economicità, per poter garantire un buon bilancio. Si necessitava di un organismo che coadiuvasse il ministro delle finanze e, coordinasse, vigilasse e stimolasse tutti gli uffici, per una regolare attuazione e gestione del bilancio. La sua funzione era la redazione delle “situazioni finanziarie” e dei documenti di bilancio (progetto di bilancio di previsione e di assestamento, rendiconto generale dell’esercizio scaduto). Questo sistema di contabilità aveva lo scopo di riunire e di tenere in evidenza la contabilità descrittiva delle entrate e della spesa del Regno, scomponendo le entrate e le spese in partite di credito e debito a carico dei singoli agenti per individuarne la responsabilità. Questa legge fu oggetto di molte critiche parlamentari sia riguardo dell’aggravio delle spese derivanti

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dall’istituzione di tale organismo, sia il metodo delle doppie partite. Le critiche furono respinte, giustificando che questo era l’unico per dotare in tempi utili il Paese di un sistema contabile razionale ed in grado di garantire un’efficace controllo/ riscontro contabile. La legge entrò in vigore dopo un anno, nel 1870, a seguito di vivaci dibattiti e, nonostante l’impegno e l’entusiasmo con cui si partì con questo progetto, tale sistema risultò inadeguato sul profilo dell’identificazione della responsabilità e molte volte il riscontro, si limitava ad essere un controllo formale, non risultava essere così “regolare” come si proponeva di essere, mentre nella prassi continuavano a formarsi eccedenze di impegni di spesa, rispetto agli stanziamenti accordati. Si cercò di porre rimedio con il R.D. n.4219 del 26 dicembre del 1877 con cui il ministro De Pretis istituì il Ministero del Tesoro, con il compito di “dare esecuzione alla nuova legge di contabilità, di sorvegliare sull’esercizio del bilancio ed i servizi di cassa”15

.

Altro importante intervento fu la legge Magliani n. 1455 dell’8 luglio 1883 di riforma alla legge Cambray –Digny. Essa dettò una disciplina più rigorosa degli impegni di spesa e dispose la formazione di un bilancio unico di competenza. Eventuali

15 Idem.

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variazioni delle previsioni originarie dovevano essere apportate mediante la compilazione di un bilancio di assestamento, nel quale, oltre ai capitoli da variare, dovevano essere apportati i mezzi necessari al mantenimento dell’equilibrio generale di entrata e di spesa, nel rispetto del principio del pareggio del bilancio16.

Nonostante questi istituti non brillassero per precisione, il sistema finanziario in quel tempo era abbastanza stabile e la spesa pubblica nel 1870 era attorno al 10 %17 del PIL. Gli avvenimenti che accaddero immediatamente dopo determinarono un cambiamento sia qualitativo che quantitativo e una rapida espansione. Tra il 1870 e il 1913 la situazione rimase abbastanza immutata, la spesa pubblica aumentò ma in maniera lieve, raggiunse il 13,7 % del PIL. Cominciò ad aumentare a partire dalla Prima Guerra Mondiale, dove ovviamente lo Stato per far fronte alla guerra aveva bisogno di risorse. Ma la Guerra oltre alla distruzione, portò con sé, anche alcune concezioni. Sino a quel momento, l’intervento dello Stato nell’economia era abbastanza marginale se non assente. Erano diffuse alcune teorie,

16 G. Marongiu, op. cit., p. 110 ss.

17 V. Tanzi e L. Schuknecht, La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale, Firenze University press, 2007, pp. 5-10.

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la più nota, quella di Adam Smith18 e di Keynes, in cui si diceva che il ruolo dello Stato fosse solo circoscritto all’allocazione di risorse e doveva occuparsi solo dei servizi pubblici. L’idea predominante era quella del laissez faire. Dopo la Prima guerra Mondiale, negli anni venti, l’atteggiamento nei confronti del ruolo dello Stato cominciò a cambiare come dimostrato dal titolo del libro di Keynes “The end of Laissez Faire” del 1926. Secondo Keynes: “La cosa importante per lo Stato, non è fare cose che gli individui già fanno, facendole un po’ meglio o un po’ peggio; ma fare quelle cose che al momento non vengono assolutamente fatte”. In questi anni furono introdotti dei primitivi sistemi di sicurezza sociale, ma solo dopo la Grande Depressione, interpretata come il fallimento del laissez faire e dell’economia di mercato, vennero predisposti dei programmi sociali che portarono all’incremento della spesa pubblica19

. Dopo la Guerra, l’Italia nel 1921, si trova ad affrontare un breve periodo di intensa crisi, legata alla caduta internazionale della domanda e della produzione e aggravata dagli squilibri nei rapporti economici tra Stati, nonché dalla riconversione

18 A. Smith, The Wealth of Nations, An inquiry into the Nature and Causes of The

Wealth of Nations, 2009.

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dall’economia di guerra a un’economia di pace. La crisi si manifestò però passeggera e anzi dal 1922 al 1926 si ebbe un periodo di crescita economica. Il nuovo ministro delle Finanze, Alberto De Stefani20, avviò una politica di disimpegno dello Stato dall’economia, pur non rifiutando di intervenire salvando banche e industrie in difficoltà. Vennero smantellati controlli e vincoli statali, privatizzate aziende pubbliche e venne ridotta l’incidenza delle imposte. L’obiettivo fu quello di riportare in pareggio il bilancio dello Stato, puntando su di una drastica restrizione della spesa pubblica. Dal punto di vista contabile, con il R.D. n. 126 del 28 gennaio 1923, De Stefani riformò la vecchia legge, dispose che i provvedimenti che importassero delle variazioni alle entrate e alle spese, dovessero essere inviati al Ministero delle Finanze per il tramite delle Ragionerie centrali. Con questo si volle rafforzare il coordinamento di tutta l’attività economica, basandosi sul principio dell’unitarietà dell’azione di ripartizione dei mezzi finanziari disponibili, alla stregua dell’unitarietà del programma politico e sociale tracciato dal Governo e approvato dal Parlamento.

20 L. Tedesco, Intervento dello Stato e spesa pubblica in Italia, Torino, Istituto Bruno Leoni, 2010.

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La vera riforma fu il R.D. n. 2440 del 18 novembre 1923 recante “Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità dello Stato”. Il bilancio dello Stato venne concepito come un atto giuridico- formale soggetto a controllo da parte del Parlamento sull’attività finanziaria del Governo e venne enfatizzata la funzione autorizzativa. Venne messo inevidenza come però fossero i Ministri a impegnare e ordinare le spese; questi erano l’unico soggetto competente allo stato di previsione. La classificazione delle entrate e delle spese rispecchiava criteri aziendali, queste erano suddivise in: effettive – permutative e ordinarie-straordinarie. Avevano poi, una suddivisione molto analitica, in categorie e capitoli. La finalità era quella di trovare una correlazione tra fonti di finanziamento e impieghi di spesa, in modo tale da assicurare l’equilibrio finanziario.

Durante il periodo Fascista21, Mussolini riuscì a rilanciare l’economia nazionale, nonostante l’impresa non si presentava delle più facili. Creò prima l’IMI e poi l’IRI, acquistò le azioni delle banche che ormai valevano carta straccia, si fece carico dei migliori investimenti industriali. Anticipò la teoria di Keynes,

21 D. A. Fausto, La politica finanziaria del fascismo, in Ricerche economiche, aprile-giugno 1975.

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stimolando la domanda e l’occupazione, attraverso un nutrito programma di opere pubbliche e di benefici sociali, facendo sì che la spesa investita nelle opere pubbliche creasse lavoro a piccole e medie imprese, risolvendo il problema della disoccupazione. Le più importanti opere che vennero realizzate furono: elettrificazione dell’intero paese, sviluppo dell’industria dell’automobile e della seta, creazione di un moderno sistema bancario, prosperità dell’agricoltura, costruzione di una larga rete di autostrade, bonifica di notevoli aree agricole. Risalgono al periodo fascista anche molte leggi in materia di previdenza,

assistenza, beneficienza, tutela della salute, riforma

dell’ordinamento scolastico, Carta del lavoro. Si stavano gettando le basi per quello che sarebbe stato un cambiamento radicale.

La Seconda Guerra Mondiale, determinò un aumento della spesa pubblica, tuttavia con ritmi moderati, nel settore della difesa.

Subito dopo la fine, il 2 Giugno del 1946 in Italia venne proclamata la Repubblica e a distanza di 2 anni nel 1948 venne emanata la Costituzione Italiana. La quale si fece carico, di tutte

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le aspettative che il popolo nutriva e, ispirata a principi, che sembravano ormai dimenticati, quali libertà, uguaglianza, dignità, solidarietà, ridisegnò il nuovo volto dell’Italia. Sono presenti anche principi economici, gli articoli 23, 41, 42, 53, 81, 100 Costituzionali, che si occupano di disciplinare i vari aspetti della vita economica. Non si può più parlare di finanza neutrale, ma di finanza funzionale22.

Tuttavia tra il 1946 e il 1948, in particolare nell’anno 1947, si può notare come il livello della spesa pubblica fu bassissimo. Questo fu il risultato, sullo scenario politico, della politica economica di Luigi Einaudi fortemente deflazionistica e attenta alla spesa pubblica e ai salari, che riuscì a far diminuire drasticamente l’inflazione, rendendo la lira più stabile e permise così all’Italia di inserirsi nel mercato internazionale. Al tempo stesso provocò una caduta della domanda e la conseguente riduzione degli investimenti e della produzione industriale con riflessi negativi sull’occupazione e sulla crescita del reddito nazionale. Ma in soccorso della finanza pubblica nazionale, arrivarono gli ingenti aiuti americani del Piano Marshall che contribuirono a risanare il bilancio dello Stato.

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Dopo il 1960, la spesa pubblica crebbe vertiginosamente, inverosimilmente, in un periodo in cui non c’era nessun impegno bellico e si era superata la crisi legata al periodo di Depressione. Quest’espansione rifletteva il cambiamento di atteggiamento del ruolo dello Stato. Gli anni Sessanta e Settanta sono considerati come l’apogeo del keynesianesimo ed il periodo in cui i governi erano considerati efficienti nell’allocazione e ridistribuzione delle risorse, e nello stabilizzare l’economia. Lo Stato acquisì gli elementi di un welfare state. Si diffuse la teoria di Keynes sulla spesa pubblica, secondo cui la spesa pubblica è uno strumento di macroeconomia in grado di risolvere le instabilità delle economia di mercato, dovute ad aspetti strutturali, influenzando il ritmo di sviluppo economico e la distribuzione del reddito. L’intervento pubblico avrebbe un effetto positivo sulla domanda, facendola tornare in equilibrio, e questa aumenterebbe l’occupazione. In proposito si parla anche di funzione anticiclica della finanza pubblica23.

In virtù di quest’espansione, l’attenzione non poteva essere distolta, ed è di questo periodo un’altra riforma nel sistema contabile. Il 1° marzo del 1964, venne approvata la legge n. 62,

23 D. Franco, op. cit., p. 43 ss.

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meglio conosciuta come la legge Curti.24 Questa legge introdusse delle importanti innovazioni: l’adozione dell’anno solare ai fini della decorrenza dell’esercizio finanziario del bilancio e del rendiconto statale, l’unificazione della legge di bilancio, l’introduzione di nuovi criteri per la classificazione delle entrate e spese. Di queste modifiche, l’ultima fu la più importante, in quanto introdusse una prospettiva di analisi sia economica che funzionale.

La nuova classificazione prevedeva per le entrate, che venissero suddivise in: titoli (secondo la fonte); categorie (secondo la loro natura); rubriche (secondo l’organo al quale è affidato l’accertamento); capitoli (secondo il particolare oggetto).

Per quanto riguarda le spese, vennero ripartite in: titoli (secondo l’utilità economica dei beni e servizi acquisiti); sezioni (secondo l’analisi funzionale); rubriche (secondo l’organo che amministrava le spese); categorie (secondo l’analisi economica); capitoli (secondo il particolare oggetto). I titoli in realtà furono solo due: spese correnti e spese in conto capitale, cui si aggiunse la classe delle spese per il rimborso dei prestiti. Le prime sono

24 M. Nardini, Politica di bilancio e programmazione della spesa. Dalla legge n. 62 del

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riferite alle spese rivolte al funzionamento dello Stato e alla realizzazione dei servizi istituzionali, le seconde sono le spese per investimenti, concessione di crediti e anticipazioni. La distinzione non è ben chiara e ha generato molti problemi applicativi. Questa riforma introdusse la novità di classificare la spesa, non soltanto dal punto di vista analitico-economico, ma anche funzionale, novità che poi verrà ripresa e perfezionata.

Gli anni Settanta sono stati caratterizzati da una crescente incertezza, dovuta alla crisi petrolifera e agli effetti inflazionistici da essa prodotti, riverberatasi sull’economia nazionale e sulla gestione della finanza pubblica. Lo Stato doveva intervenire a sostegno delle imprese in crisi e questo ebbe degli effetti distorsivi sul debito pubblico. Lo Stato, non aveva più la capacità di pianificare i propri interventi economici-finanziari su base annuale, dal momento che l’aumento della spesa aveva orizzonti temporali pluriennali25. Questo portò alla legge di riforma n. 468 del 197826, con cui cambiò il ruolo del bilancio dello Stato, venne concepito come uno strumento di programmazione finanziaria e fu accompagnato dalla predisposizione di nuovi strumenti

25 Idem.

26 S. Buscema, Trattato di contabilità pubblica, Milano, Giuffrè editore, 1981, pp. 512- 524.

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contabili da aggiungersi al sistema del bilancio dello Stato. Viene predisposto il bilancio pluriennale, per proiettare le previsioni finanziarie nel medio-lungo periodo e per garantire una programmazione razionale della spesa.

Fu introdotta in seguito, la legge finanziaria27, che aveva il compito di adeguare, le entrate e le uscite del bilancio dello Stato agli obiettivi di politica economica cui si ispirano il bilancio pluriennale e il bilancio annuale. In realtà, con la legge finanziaria si voleva creare un possibile meccanismo per eludere l’art. 81 Cost , terzo comma, dal momento in cui, tale legge disponeva che il disegno di legge doveva essere presentato contemporaneamente a quello di approvazione del bilancio di previsione, e si potessero operare delle integrazioni e modifiche alle leggi vigenti concernenti precetti di entrata e di spesa. Questo meccanismo predisponeva un’elusione, nemmeno troppo celata, dell’art. 81 Cost, che prevedeva che con la legge di bilancio fosse espressamente proibito introdurre nuovi tributi e nuove spese, e ogni altra legge che impone nuove o maggiori spese, deve indicarne i mezzi per farvi fronte. Spettava alla legge finanziaria il compito di fissare il limite massimo del saldo netto

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da finanziare e del ricorso al mercato finanziario, per ciascun anno considerato nel bilancio pluriennale. La nuova manovra finanziaria di spesa ed entrata, era costituita dal bilancio annuale di previsione e della legge finanziaria. La ratio di tale riforma, risulta essere, il cambiamento di ruolo del bilancio dello Stato, che cessa di essere concepito, seguendo una logica tradizionalistica, come strumento giuridico formale, con cui il Parlamento autorizza la riscossione delle entrate e l’erogazione delle spese, ma viene concepito come uno strumento di programmazione, con il quale creare una correlazione tra decisioni, azioni e risultati ottenuti.

Nel corso degli anni, della legge finanziaria, se ne fece uso maldestro, così da definirla “legge omnibus”, visto il suo contenuto sempre più dilatato. Così che venne riformata, dopo 10 anni, dalla legge n. 362 del 198828. Si cercò di delimitarne il contenuto, stabilendo che con tale legge, si potesse regolare ogni anno solo le grandezze previste nella legislazione vigente, allo scopo di adeguare gli effetti finanziari di tali misure agli obiettivi programmati.

28 M. Mirabella, La riforma del bilancio nel sistema della legge 362/88, in Manuale di

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Gli anni Novanta, segnarono l’inizio di un nuovo periodo, l’era dell’Unione europea. Nel 1992 l’Italia rarificò il Trattato di Maastricht e si obbligò a rispettare i vincoli da esso derivanti. Nel biennio del 1992-1993 si manifestò un periodo di grande crisi economica, figlia di politiche economiche sbagliate, volte a sedare l’inquietudine sociale di quel tempo29

. Il Paese già agli inizi degli anni 90 era gravato da enormi deficit e da un alto livello di indebitamento, ma nel settembre del 1992 si palesò l’incapacità dello Stato di attenersi ai parametri di Maastricht e spinse la lira fuori dal rapporto di cambio europeo. Dando un’occhiata ai dati quantitativi, nel 1993 il PIL fu in negativo dello 0,7%, il declino della domanda interna era circa del 5% e del 11% per quanto riguarda gli investimenti, la disoccupazione si avvicinò all’11%, i deficit di bilancio statale rimasero al livello dell’11% del PIL, il debito pubblico salì fino al 108% del PIL, il valore della lira. Da questi dati ci si può render conto di come la situazione fosse abbastanza sfavorevole per l’Italia30

. Fu anche un periodo di gravi squilibri interni alla politica, infatti il sistema

politico chiamato della Prima Repubblica, implose

rovinosamente.

29 M. Giusti, op. cit., p. 130 ss.

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Dopo questa fase di grave crisi economica l’Italia si riprese nel 1995 e il PIL aumentò fino al 4%. Questa ripresa fu dovuta al deprezzamento della lira che rese più convenienti le esportazioni, ma negli anni successivi ci fu una maggiore attenzione al controllo dei deficit di bilancio, operando delle misure dirette al risanamento della finanza pubblica in vista della conclusione del processo di formazione dell’Unione Economica e Monetaria e dell’applicazione del Patto di stabilità e crescita. Si inaugurò il programma delle privatizzazioni dei servizi pubblici, e vennero attuate numerose riforme del sistema pensionistico e della sanità, assieme all’imposizione della “tassa per l’Europa”. Tutte queste misure, fecero sì, che nel 1999 l’Italia entrò a pieno titolo nel gruppo dei Paesi che inaugurarono l’euro il 1° gennaio del 1999. Affinché l’Italia permanesse nella zona euro, era necessario che i parametri di Maastricht fossero rispettati anche successivamente, perciò questi eventi hanno maturato la consapevolezza che il risanamento della finanza pubblica richiedeva un’azione più incisiva verso un modo diverso di governare. Si rendeva necessaria sia una riforma contabile che amministrativa; un’amministrazione più efficiente e responsabile, e un sistema

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contabile che consentisse il contenimento della spesa pubblica31. Su quest’ultimo versante con la legge n. 94 del 1997 e il d.lgs. n. 279 del 1997 fu modificata la legge n. 468 del 1978. Nonostante i buoni propositi della legge 468 ci si rese conto come questa fosse carente in alcuni punti, in quanto il sistema di formazione delle scelte di bilancio non trovava fondamento in una visione di medio-lungo termine disposta dal bilancio di previsione pluriennale; la legge finanziaria invece di contrastare la tendenza espansiva dei disavanzi pubblici, era diventata un veicolo per introdurre nuovi stanziamenti nei settori di spesa, ottenendo il risultato opposto; la struttura di bilancio risultava inadeguata in merito a valutazioni di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa. Così la nuova riforma avrebbe dovuto perseguire quattro obiettivi fondamentali: rendere più stringente il collegamento tra la regolazione della finanzia pluriennale e il bilancio annuale dello Stato; modificare la struttura interna del bilancio, in modo da accrescere la rispondenza dell’intervento pubblico alle esigenze della collettività e il grado di controllo dell’evoluzione della spesa; restringere l’aria di applicazione della legge finanziaria; razionalizzare l’utilizzo di alcuni

31 Idem.

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strumenti di programmazione finanziaria. L’aspetto più importante di tale riforma fu l’introduzione di una nuova classificazione del bilancio annuale, ispirata dalla necessità che le poste di bilancio fossero meno frammentate, in modo da rendere più intellegibili e trasparenti i contenuti complessivi del bilancio, a vantaggio di una deliberazione parlamentare più consapevole ed efficace. Inoltre le istanze di rinnovamento interne alla Pubblica amministrazione32, spostarono l’attenzione sulla spese pubbliche, che si sarebbero dovute erogare in funzione delle effettive necessità, in modo congruo rispetto alle indicazioni di legge e dei programmi e progetti, ottimizzando la produttività e il controllo della spesa, si sarebbe dovuto esprimere non solo in termini di legittimità, ma secondo parametri di costi-benefici. La riforma del 1997 operò una separazione tra il bilancio di previsione da sottoporre alla deliberazione da parte del Parlamento (bilancio politico) e il bilancio disposto ai fini della gestione e della rendicontazione (bilancio amministrativo). I due documenti si differenziano per il grado di dettaglio che presentano sia le entrate sia le spese. Mentre il bilancio

32Il d.lgs. n .29 del 1993, “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego”, diede vita alla

separazione tra attività di indirizzo politico ed attività di gestione dell’azione amministrativa, responsabilizzando l’attività di gestione della dirigenza pubblica e diede l’input per la creazione di un sistema di controlli basato su parametri di efficienza.

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amministrativo classificava le entrate e le spese in capitoli, il bilancio politico classificava le poste in entrata e in uscita introducendo le funzioni-obiettivo e le unità previsionali di base. Queste ultime, oggetto dell’approvazione parlamentare, erano determinate con riferimento ad aree omogenee di attività, in cui si articolavano le competenze istituzionali di ciascun ministero, ed esse venivano definite come l’insieme organico delle risorse finanziarie affidate alla gestione di un unico centro di responsabilità ammnistrativa. In questa maniera le risorse erano direttamente affidate ai dirigenti responsabili della gestione e dei risultati conseguiti, questi avrebbero individuato i valori massimi di spesa che avrebbero potuto impegnare, previa la definizione da parte dei Ministri, degli obiettivi che l’Amministrazione avrebbe perseguito e l’indicazione del livello dei servizi, degli interventi, dei programmi e dei progetto. Diversamente, le funzioni-obiettivo, erano individuate con riguardo alle politiche pubbliche di settore e dovevano misurare il prodotto dell’attività amministrativa, ove possibile, in termini di servizi resi ai cittadini33. Attraverso questa ristrutturazione del bilancio, sarebbe stata consentita un’effettiva comparabilità tra i bilanci di

33 M. Giusti, op. cit., p. 57 ss.

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previsione e i rendiconti, e le Camere avrebbero potuto operare meglio il loro controllo, non solo di legittimità, ma di responsabilità di gestione, attraverso il rapporto costi-benefici e obiettivi-risultati. Anche questo sistema si dimostrò negli anni fallace, in quanto non c’era riscontro tra le spese votate dal Parlamento con il bilancio decisionale e quelle di fatto applicate, ed anche in ordine all’individuazione dei centri di responsabilità, delle volte le funzioni-obiettivo erano suddivise in modo trasversale tra i vari Ministeri, eludendo il meccanismo di identificazione del responsabile della gestione34. Nonostante questi insuccessi nel sistema, la spesa pubblica fu sempre oggetto di maggior controllo, sulla spinta europea, e si mantenne su dei livelli abbastanza stabili. Questo fino al 2007, anno di grave crisi economica internazionale, che portò dal 2008 ai giorni d’oggi a una crescita con ritmi incalzanti. Le cause di quest’incremento vertiginoso sono varie e molteplici, ma si può notare che la voce della spesa pubblica che ha continuato a crescere senza freni è quella per le “Prestazioni sociali in denaro”, legata essenzialmente alle pensioni e al trattamento sanitario. 35Nel

34 Idem.

35 D. Franco e M. Marè, Le pensioni: l’economia e la politica delle riforme, in Rivista

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2008 questa crisi venne, per certi versi sottovalutata, infatti vennero adottati dei provvedimenti blandi. Tremonti cercò di contenere le spesa pubblica, attraverso tagli lineari, blocco degli stipendi pubblici, blocco turn over del pubblico impiego.

Nel 2011, il governo Monti, ha approfondito maldestramente i tagli della spesa pubblica, ha fatto un uso sconsiderato del maggior prelievo fiscale, con l’applicazione di nuove imposte, aumento delle aliquote, abolizione dei trasferimenti di risorse alle regione e comuni, instaurando un regime di austerità, dettato dai paesi forti dell’UE. Queste scelte hanno aggravato la recessione delle crescita economica del Paese, ritardando il momento della ripresa. Per questo motivo gli anni 2011-2012, sono stati anni densi di interventi da parte dello Stato, si possono annoverare: il D.L 201/2011 (Salva Italia), il D.L 1/2012 (Cresci Italia), il D.L 5/2012 (Decreto semplificazioni), il D.L 83/2012 (Decreto sviluppo), il D.L 16/2012 (Decreto di semplificazione fiscale), il D.L 135/2012 ( della spending review)36.

36 M. Giusti, Fondamenti di diritto pubblico dell’economia, Padova, Cedam , 2013, p. 23 ss.

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1.2. L’attuale articolazione della spesa

Nel corso dei secoli, la composizione della spesa pubblica è cambiata a seconda delle mutevoli percezioni di cosa lo Stato avrebbe dovuto fare. Si constata che mentre un secolo fa, era limitata al mantenimento della legge e dell’ordine, alla sicurezza esterna, e a un insieme molto ristretto di beni, servizi e investimenti, negli ultimi anni la forte tendenza espansionistica, riflette quelle che sono le accresciute funzioni che lo Stato svolge. Più che la spesa reale, si può constatare come sia aumentata la spesa di cassa, ossia quella legata alla spesa sociale.37 Disoccupazione e mutamenti demografici hanno anch’essi contribuito alla crescita della spesa pubblica, tant’è che si sostiene che se le politiche attuali persisteranno, la spesa sociale, incluse le pensioni e la spesa per la sanità, assieme al

37 Con il termine spesa sociale si intende la quota della spesa pubblica o privata destinata a coprire il settore dello Stato sociale.

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crescente peso degli interessi reali sul debito pubblico, porterà la spesa pubblica a dei livelli insostenibili di non ritorno38.

La componente più importante della spesa pubblica, è data dall’acquisto diretto da parte dello Stato, di beni e servizi per fornire ai privati i beni o servizi pubblici cc.dd “puri” quali la difesa nazionale, la sicurezza interna e la giustizia, la moneta, l’illuminazione pubblica, la prevenzione alle malattie infettive, le misure di igiene pubblica e la ricerca di base. Insieme a questi, lo Stato fornisce, altri beni e servizi meritevoli di tutela, denominati “misti”, perché avendo le caratteristiche della divisibilità e escludibilità, potrebbero essere forniti dai privati, ma lo Stato preferisce fornirli direttamente, anche se in questo campo ci sono varie spinte dell’iniziativa privata che creano concorrenza sul mercato. Lo Stato39, quando fornisce questi beni e servizi può offrirli gratuitamente, oppure può chiedere in corrispettivo un prezzo pubblico o politico. Il prezzo pubblico copre il costo medio di produzione, mentre quello politico è più basso del costo medio, perciò richiede un trasferimento dal bilancio dello Stato o l’applicazione di tariffe differenziate inferiori al costo in favore

38 D. Franco e M. Marè, Le pensioni: l’economia e la politica delle riforme, in Rivista

politico economica, il Mulino, luglio-agosto 2002, pp. 198-205.

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delle fasce più deboli40. Fanno parte di questi gruppo, le prestazioni della sanità e dell’istruzione, la provvista di abitazioni per meno abbienti, servizi postali, la salvaguardia del patrimonio artistico e ambientale, le strade e in generale tutte le opere pubbliche e i servizi di pubblica utilità. Questi beni o servizi pubblici costituiscono il 20% del PIL, che insieme ai beni pubblici puri, raggiunge circa la metà della spesa pubblica, l’altra metà è destinata ai trasferimenti. I trasferimenti, costituiscono la spesa pubblica per la previdenza e per l’assistenza, rappresentano oggi , la componente maggiore della spesa per la protezione sociale, che è l’espressione più rilevante dello Stato del benessere. I trasferimenti hanno come destinatari sia le famiglie, che le imprese e si sostanziano, sia in trasferimenti monetari diretti al mantenimento dei redditi nelle situazioni di vecchiaia, invalidità, vedovanza e disoccupazione, sia offerta di servizi sanitari gratuita41. In quest’ottica, rientrano, perché rispondono agli stessi obiettivi di protezione dei ceti più deboli, anche gli interventi diretti ad assicurare ai meno abbienti un grado di istruzione adeguato, abitazione e trasporti pubblici a prezzi politici. Entrano in gioco anche delle politiche tributarie , sono

40 F. Reviglio, op. cit., p. 75 ss.

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previsti: trattamenti agevolati della famiglia dell’imposta sul reddito che rispondono alle esigenze degli assegni familiari,

detrazioni d’imposta, agevolazioni nell’imposizione

patrimoniale immobiliare sulla prima abitazione. Insieme alle famiglie, anche le imprese sono meritevoli di tutela, ci si riferisce in primo luogo alle imprese di pubblica utilità, nei loro confronti sono previsti dei trasferimenti per consentire di provvedere a servizi a prezzo politico, così da soddisfare quella parte degli utenti che non sarebbe in grado di pagare il servizio a un prezzo privato o pubblico. Altri tipi di trasferimenti perseguono finalità di politica economica, quali lo sviluppo delle aree arretrate, gli investimenti nella ricerca di base, investimenti in particolari settori dell’industria e dei servizi per favorirne il progresso. Questi trasferimenti, in realtà, sono dei sussidi ai settori in crisi, che vengono tenuti in vita senza che si provveda a una ristrutturazione o riconversione che ne ripristini la redditività, perciò molto spesso rappresentano uno spreco di risorse.

Un’altra componente molto importante della spesa pubblica è il pagamento degli interessi sul debito pubblico (interessi e

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ammortamento del capitale) 42. Gli interessi rappresentano il prezzo per il servizio ricevuto dai risparmiatori che hanno investito in titoli dello Stato. Se invece i risparmiatori sono stranieri, gli interessi rappresentano un trasferimento di risorse nazionali all’estero e il paese s’impoverisce. A seguito delle politiche degli ultimi anni, di forte espansione della spesa pubblica e di incuranza dei disavanzi, il debito pubblico è notevolmente accresciuto, e la spesa per gli interessi è influenzata dal tasso d’interesse. I tassi d’interesse dipendono dall’andamento internazionale dei tassi e dallo spread.

Altro profilo da analizzare è quello delle politiche degli aiuti, che rappresenta un altro aspetto dell’intervento pubblico dello Stato sempre a fini distributivi. Queste politiche, hanno preso avvio nel secondo dopoguerra e si sono particolarmente sviluppate dagli anni ottanta in poi. Consistono nel trasferimento di denaro e nell’abbattimento delle protezioni doganali dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, dirette a permettere anche in quei paesi la crescita economica. Per quanto siano animate da sentimenti solidaristici, in verità celano, come fine ultimo, quello di favorire le proprie industrie esportatrici e di

42 Idem.

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contenere l’immigrazione. Politiche di aiuto umanitarie completamente diverse, sono quelle interne al Paese, che si verificano nel caso di catastrofi naturali. In queste malaugurate occasioni, lo Stato stanzia dei finanziamenti, volti a dare

soccorso alle popolazioni colpite, permettendogli la

sopravvivenza, assistenza, nonché cercare di ricostruire case, strade, città.

Attualmente il bilancio dello Stato è disciplinato dalla legge n. 196 del 2009 modificata dalla legge del 7 aprile 2011 n. 39 “Modifiche alla legge 31 dicembre 2009, n.196, conseguenti alle nuove regole adottate dall’Unione europea in materia di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri”. Tale normativa nasce dall’esigenza di armonizzazione e trasparenza dei bilanci e, lascia quasi sostanzialmente immutata la legge n.196 del 2009, prevede degli aggiustamenti, che si sono resi necessari per rendere compatibili le procedure e il ciclo programmatorio del bilancio con i tempi e i modi delle procedure dell’ Unione europea, nella prospettiva del consolidamento e della stabilizzazione dei conti pubblici43.

43 M. Giusti, op. cit., p. 57 ss.

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La legge n. 196 del 2009 crea una nuova struttura del bilancio dello Stato, per missione e programmi, riprendendo il progetto sperimentale pensato dal Dipartimento della Ragioneria generale nel 2008. Tale nuova struttura ha come obiettivo primario, quello di rendere diretto il legame tra risorse stanziate e azioni perseguite, con l’evidenziazione della finalità all’interno di ciascun apparato amministrativo. In questo modo le risorse disponibili sarebbero state allocate in maniera più efficiente tra i vari settori d’intervento, e si sarebbe individuato un chiaro centro di responsabilità amministrativa, cosa sempre fallita in tutte le leggi precedenti. La nuova impostazione del bilancio per missione e programmi si auspica di raggiungere due scopi: maggiore consapevolezza, leggibilità e consapevolezza del bilancio. La condizione dei conti pubblici, la precarietà, dettata, da un lato, dalla scarsità delle risorse, e dall’altro, dal loro irrazionale e improduttivo impiego, poneva una necessità di primaria importanza. L’approvazione delle Camere non doveva convergere più sul quantum di risorse stanziare, ma direttamente sugli obiettivi da raggiungere con le risorse messe a disposizione dai centri di responsabilità. Quindi oggetto dell’approvazione parlamentare non sarebbero state più le unità previsionali di base,

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ma le unità di voto parlamentare determinate con riferimento ad aree omogenee di attività e costituite dai programmi, quali aggregati diretti al perseguimento degli obiettivi definiti nell’ambito delle missioni44

. Questo sistema di voto, avrebbe consentito al Parlamento di far impegnare le Amministrazioni al raggiungimento delle finalità e inoltre di formulare le proposte e le decisioni di spesa, in modo coerente con gli obiettivi dichiarati, realizzando il c.d effetto di vincolo del bilancio ,in quanto le Amministrazioni sono sottoposte alla misurazione e verifica dei risultati raggiunti. Volendo definire nello specifico la struttura, le missioni rappresentano le funzioni principali e gli obiettivi strategici perseguiti con la spesa. Ogni missione si realizza con più programmi. I programmi sono individuati di anno in anno e rappresentano aggregati omogenei di attività svolte all’interno di ogni singolo Ministero, allo scopo di perseguire gli obiettivi definiti nell’ambito delle finalità istituzionali. I programmi a loro volta sono frazionati in macroaggregati e al di sotto di questi a fini di conoscitivi sono correlati i centri di responsabilità amministrativa. La classificazione della spesa è stata articolata, per ciascun stato di

44 Idem.

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previsione su tre livelli di aggregazione: missioni, programmi e macroaggregati. Alla spesa è stata applicata ,per i primi tre livelli (Divisioni, Gruppi, Classi ) , una classificazione funzionale COFOG45 secondo il Sistema dei Conti Europei SEC95, mentre il quarto livello sulle “missioni istituzionali” è espressivo della realtà funzionale della spesa pubblica nel nostro Paese.

2 La spesa pubblica nella disciplina costituzionale italiana

La Costituzione del 1947 ha dedicato una sola norma, peraltro molto sintetica, alla disciplina della spesa pubblica. La spesa pubblica, trova la sua chiave di volta, nell’articolo 81, inserito nella parte II della Costituzione, al titolo I, relativo al Parlamento.

La motivazione di questa scarsa attenzione dei costituenti riguardo il tema della finanza pubblica, risiede nella circostanza che in quell’anno le dimensioni della spesa pubblica italiana

45

Ragioneria Generale dello Stato. La C.O.F.O.G è una classificazione delle funzioni di governo, articolata su tre livelli gerarchici ( rispettivamente denominati Divisioni, Gruppi e Classi) per consentire tra l’altro, una valutazione omogenea delle attività delle Pubbliche Amministrazioni svolte dai diversi Paesi europei. Dall’integrazione fra la C.O.F.O.G. e le risultanze della ricognizione delle attività della Pubblica Amministrazione italiana, disposta con circolare n°65 de l 1997, è nata la classificazione funzionale per funzioni obiettivo. Tale classificazione si articola in sei livelli, ai primi tre corrispondono gli elementi della C.O.F.O.G, mentre gli elementi di quarto livello sono denominati Missioni istituzionali, quinto e sesto Servizi.

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erano assai ridotte. L’art. 81 della Costituzione fu discusso e approvato rapidamente e gli interventi degli onorevoli costituenti riguardarono nulla o poco le questioni fondamentali e si soffermarono per lo più su aspetti secondari o marginali46.

Il dettato costituzionale, così delineato, si rivelò ben presto incapace nel contenere l’inesorabile crescita della spesa e del debito pubblico e nonostante numerosi tentativi di modifica, questa riuscì solamente con la recente legge costituzionale n. 1/2012 sotto la spinta europea, per molti aspetti innovativa e per altri di conferma del vecchio articolo 8147.

Il vecchio articolo 81 della Costituzione stabiliva che il Parlamento doveva approvare ogni anno il disegno di legge di bilancio, presentato dal Governo. Tale legge di approvazione del bilancio non poteva stabilire né nuovi tributi, né nuove spese, rispetto a quanto disposto dalla legislazione fiscale e di spesa vigente . Ogni altra legge di spesa, diversa dalla legge di

46 M. Stramacci, Contributo all’interpretazione dell’articolo 81 della Costituzione, in

www. Documenti.camera.it, p. 153 ss.

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Della modifica dell’articolo 81 della Costituzione e dell’introduzione del principio di pareggio del bilancio se ne parlerà approfonditamente nel Cap. 3, par. 3.

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bilancio, doveva indicare i mezzi per farvi fronte, venendo così sottoposta al cd. obbligo di copertura finanziaria48.

Con questo articolo venne attribuito il compito istituzionale al Parlamento e Governo, attraverso una ripartizione di poteri, stabilendo che il Governo curasse la parte tecnica, attraverso la presentazione del disegno di legge, che per divenire esecutivo, doveva essere approvato dal Parlamento, ogni anno, mediante legge.

Questa impostazione fu il risultato di un compromesso in sede di assemblea costituente49, nella quale l’onorevole Einaudi sottolineò come l’esperienza avesse dimostrato il pericolo di riconoscere alle Camere l’iniziativa del disegno di legge di bilancio e allo stesso tempo, affidandola al Governo, si rendesse necessario limitarla.

48 M. Passalacqua, “Pareggio” di bilancio contro intervento pubblico nel nuovo art. 81

della Costituzione, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2013, p. 1ss.

49

La sottocommissione si propose il quesito relativo all’opportunità di attribuire il potere di iniziativa legislativa, anche in materia finanziaria, al Parlamento, o di limitare tale potere invece al Governo. In un questionario preparato per raccogliere il parere di esperti e studiosi venne inserita una domanda concernente appunto l’opportunità di limitare il potere di proporre le spese al solo Governo o di estenderlo al Parlamento, e in questo secondo caso, l’opportunità di stabilire limitazioni a tale iniziativa, disponendo che le leggi portanti nuove o maggiori spese dovessero indicare i capitoli di entrata con cui fronteggiare la spesa. Si poneva la radicale alternativa tra la negazione dell’iniziativa parlamentare di spesa e l’introduzione dell’obbligo di indicare la copertura finanziaria. La maggior parte degli interrogati si dimostrò favorevole a negare al Parlamento l’iniziativa in materia di spesa, adducendo come motivazione l’esperienza pregressa che il Parlamento attuasse una politica demagogica della spesa e rilevando che l’esecutivo ha la responsabilità del mantenimento del pareggio del bilancio, e quindi ad esso, deve essere riservata la proposta di nuove o maggiori spese.

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Per molti anni è stato sostenuto che la legge di approvazione della legge di bilancio fosse soltanto una legge di natura formale o autorizzativa, ma in seguito sono state fatte una serie di considerazioni50. Oltre al fatto che il Parlamento ha un ruolo attivo nella fase di approvazione, potendo proporre degli emendamenti, è proprio mutato il compito affidato alla legge di bilancio. Questa è uno strumento di programmazione finanziaria, dovrebbe svolgere la finalità di allocare nel miglior modo possibile le risorse disponibili in base agli obiettivi stabiliti. La legge, oltre a determinare le decisioni di spesa, stabilisce quali devono essere i programmi e i controlli dell’attività pubblica. La spesa pubblica non deve essere solo pensata, anche programmata e controllata in virtù delle scelte di intervento economiche, così che in sede di controllo sia possibile verificare quali siano stati i mezzi di finanziamenti prescelti e valutare se ci sia congruità con l’onere tributario imposto ad ognuno; in ossequio a un indirizzo economico unitario.

L’ex art. 81 della Costituzione, al secondo comma, stabiliva poi, che nel caso in cui il Parlamento non avesse approvato la legge di bilancio, l’esercizio provvisorio del bilancio venisse

50 M. Giusti, op. cit., p. 42 ss.

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affidato al Governo attraverso una legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Tale previsione è stata confermata nel nuovo art. 81 della Cost., nel quarto comma.

Con questo intervento, da un lato si vuole evitare un blocco nell’attività governativa ed amministrativa, e dall’altro si vuole limitare il potere concesso al Governo sia sotto il profilo temporale che della sua concreta attività, per scongiurare prevaricazioni con le attribuzioni parlamentari. Il Governo attua temporaneamente, il progetto di bilancio, ancora oggetto di approvazione, ma è fortemente limitato sul versante della spesa, salvo per la spesa obbligatoria o non suscettibile di impegni o frazionamenti in dodicesimi, può spendere in ragione di tanti dodicesimi di spesa previsti da ciascun capitolo, quanti sono i mesi dell’esercizio provvisorio51

.

Ma i commi più significativi e importanti del vecchio articolo 81 della Cost., sono il terzo e il quarto.

Il terzo comma dell’art. 81 della Costituzione stabiliva che con la legge di bilancio non si potessero introdurre né nuovi tributi e né nuove spese. La ratio di tale divieto, era di impedire

51 M. Giusti, op. cit., p. 31.

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che con la legge di bilancio fossero introdotti nuovi tributi o spese sovvertendo l’iter classico di approvazione. Inoltre le spese dovevano essere programmate facendo riferimento alla legislazione vigente. Il Parlamento, potendo con la legge di bilancio introdurre nuovi tributi, avrebbe avuto nelle proprie mani uno strumento che gli avrebbe consentito di poter correggere in itinere gli errori sulla spesa, favorendo una crescita incontrollata della stessa.

Il quarto comma dell’art. 81 della Costituzione prevedeva che “ogni altra legge che comporti nuove o diverse spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Questa previsione in origine era stata predisposta per consentire anche al Parlamento l’iniziativa legislativa in materia, limitando tale potere. Secondo l’onorevole Einaudi, in tal modo, obbligando i parlamentari ad accompagnare ogni proposta di spesa con la correlativa proposta di entrata a copertura della stessa, la proposta acquisiva un’impronta di serietà. In sede di discussione dell’assemblea costituente, anche l’onorevole Vanoni si trovo d’accordo su tale previsione, ricordando che identica norma era contenuta nella legge di contabilità generale , e che l’obbligo di copertura era stato proposto dalla Commissione economica del Ministero della

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Costituente, come “garanzia della tendenza del pareggio del bilancio”52

. In origine, infatti, si sosteneva che il bilancio dello Stato fosse ispirato al principio del pareggio, e che questo principio fosse codificato proprio nel quarto comma dell’art. 81 della Cost. Però, la scelta dei costituenti di non estendere l’obbligo di copertura finanziaria alla legge di bilancio, ha sottovalutato come gran parte della spesa pubblica si sarebbe originata proprio da quest’ultima legge, potendo registrare il disequilibrio tra entrate e spese. In virtù di queste considerazioni, non si ritengono condivisibili le argomentazioni di quella parte della dottrina che ha sostenuto tale posizione53.

Anche altri articoli della Costituzione disciplinano in modo indiretto la spesa pubblica; in particolare l’art. 3 che è uno dei cuori pulsanti della nuova Costituzione ‘48. Secondo tale articolo lo Stato assurge a una funzione solidaristica ed è tenuto a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,

52

V. Onida, L’articolo 81, comma quarto, della Costituzione nei lavori preparatori, in

www.dirittoditutti.giuffrè.it, p. 151 ss.

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economica e sociale del Paese”. La discrezionalità del legislatore è limitata, nel momento in cui deve, assicurare per situazioni uguali trattamenti uguali, e per situazioni diverse trattamenti ragionevolmente differenziati, e in questo secondo caso, essendo il suo ruolo attivo quale soggetto economico finanziario, deve accollarsi le situazioni per garantire l’uguaglianza non solo di fatto ma anche di diritto. Ispirati a quest’ottica, sono gli art. 23 e 53 Cost., che riguardano il momento del prelievo fiscale. La stessa Costituzione delinea, un nesso ben preciso tra la fase del prelievo tributario e quello della spesa pubblica, dal momento che l’eguaglianza viene perseguita non solo con la spesa, ma anche con la determinazione dei tributi. Perciò l’art 23 Cost, stabilisce una riserva assoluta di legge in materia, recitando che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”(quindi nessun tributo se non c’è un riconoscimento normativo) e l’art 53 stabilisce il modo con cui i cittadini devono concorrere alle spese pubbliche, cioè in ragione della loro capacità contributiva. Il concorso delle spese pubbliche, non è proporzionale al reddito di ciascuno, ma cresce

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progressivamente in ragione della consistenza del reddito prodotto54.

Riguardo ai rapporti economici, la nostra Costituzione riconosce la concorrenza, anche se nel periodo in cui fu concepita ,il concetto di concorrenza non aveva quei connotati che si sono sviluppati successivamente, grazie al riconoscimento e la disciplina europea. Infatti una disciplina organica della concorrenza nel nostro ordinamento è pervenuta solo con la legge 287/1990 (norma per la tutela della concorrenza e del mercato). I padri fondatori della Costituzione, privilegiavano più una visione protezionistica delle dinamiche del mercato, con un intervento con un accento spiccatamente pubblicistico. L’art 41 Cost. sul presupposto che la proprietà è pubblica o privata e che i beni economici appartengono allo Stato, ad enti e privati, riconosce l’iniziativa economica privata, considerandola libera, ma la subordina ad alcune condizioni, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità. L’iniziativa economica privata, anche del resto la pubblica, deve poi sottostare a quelli che sono i programmi ed i controlli stabiliti dalla legge. Lo Stato stabilisce i

54 M. Giusti, op. cit., p. 8.

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programmi e i controlli che ritiene più opportuni, perché la complessiva attività economica deve essere indirizzata e coordinata in senso unitario, nonché verso i fini sociali55. Gli indirizzi economici-finanziari del Paese sono unitari, verso una visione d’insieme e il sistema costituzionale assicura il corretto svolgimento di questo sistema. La legge poi, prevede alcuni casi , in cui l’iniziativa dei privati è praticamente soppressa a favore di esigenze collettive rappresentative di interessi di rango costituzionale. Quest’ipotesi è disciplinata dall’art. 43 Cost che recita: “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori, o utenti di determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia, o a situazioni di monopolio ed abbiamo carattere di preminente interesse generale . Conferma del fatto che si ritiene che in alcune circostanze o in alcuni settori, lo Stato e le sue amministrazioni, agiscano meglio in assenza di un regime di concorrenza, riservandosi queste attività56.

55 M. Giusti, op. cit., p. 4ss.

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La finanza pubblica statale risulta essere fortemente influenzata dal sistema contabile delle Regioni e degli enti locali, che pesano gravemente sul bilancio statale. L’art. 114 della Costituzione li riconosce come articolazioni della Repubblica che è una, sola e indivisibile, e al tempo stesso altri articoli quali il 117, 118, 119 Cost. riconoscono una potestà legislativa, amministrativa e tributaria.

Fino a non poco tempo fa la finanza del Paese era considerata “derivata”, perché derivante dal bilancio dello Stato, in quanto gli enti territoriali, seppur costituzionalmente erano dotati di autonomia finanziaria, di fatto non godevano di nessuna autonomia ma erano soggetti alle decisioni delle amministrazioni centrali e non avevano tributi propri, ma vivevano attraverso i trasferimenti statali; quindi gli art. della Cost risultavano essere soltanto lettera morta57.

Già a partire dagli anni 90, iniziò un percorso, poi seguito dalla legge costituzionale 1/1999 e 3/2001 di riforma della seconda parte del titolo V della Cost, ora ancora in atto con i decreti legislativi del federalismo fiscale, che ha ridisegnato quelle che

57

R. Perez, Autonomia finanziaria degli enti locali e disciplina costituzionale, in Rivista

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