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Attualità e Cultura

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Academic year: 2021

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PRIMUM VIVERE DEINDE PHILOSOPHARI OVVERO

RIFLESSIONI SULLA SELVICOLTURA “DIMENTICATA”

“Prima vivere, poi si fa filosofia”: questo aforisma è attributo al filosofo Tho- mas Hobbes (1588-1679), uno dei maggiori esponenti del movimento di pensiero definito “razionalismo inglese”. Con questa frase, inserita nel contesto specifico di una concezione rigorosamente materialistica, il filosofo anglosassone ha voluto teo- rizzare come l’uomo sia fondamentalmente spinto nel suo agire da due bisogni (o necessità) fondamentali. Il primo bisogno è costituito dall’istinto di sopravvivenza:

ecco perché prima bisogna pensare a vivere poi si può fare filosofia. L’affermazio- ne, ampliando il concetto, si presta altrettanto bene ad indicare la necessità del pragmatismo e della concretezza nella quotidianità delle vicende umane prima ancora di poter dare libero sfogo ai pensieri della mente.

Spostando l’attenzione sul settore forestale, i più si potranno chiedere con ragione qual è il nesso di collegamento tra questa massima e la selvicoltura.

La risposta è presto data: analizzando e focalizzando l’obiettivo su quanto accade all’interno di non pochi popolamenti forestali del nostro Paese si ritiene che ci possa essere – in senso lato – un chiaro e ben definito riferimento dell’afori- sma allo stato in cui versa la selvicoltura dei giorni nostri.

Entrando nello specifico della questione, si intende porre in evidenza come all’attualità, in molti casi concreti, nell’effettuazione di molteplici interventi che vanno ad interessare i soprassuoli forestali ci si trovi assai distanti dall’applicazione della selvicoltura così come andrebbe intesa al passo con i tempi.

* * *

Dopo un lungo percorso di evoluzione, la selvicoltura è giunta a considerare ai giorni nostri le formazioni forestali quali sistemi biologici complessi all’interno dei quali debbono essere le leggi dell’ecologia forestale a disciplinare l’impostazio- ne e l’esecuzione degli interventi gestionali.

Sulla base di questo presupposto parrebbe più che logica conseguenza il fatto che l’applicazione della selvicoltura debba avvenire nel pieno rispetto di quei principi che indicano al Selvicoltore di eseguire interventi cauti, capillari e conti- nui. Oltre a ciò parrebbe altresì scontato che la produzione di beni e servizi forniti

– L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 69 (4): 231-236, 2014 © 2014 Accademia Italiana di Scienze Forestali

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dai complessi boscati debba essere la conseguenza – e non il solo fine – delle attivi- tà gestionali, considerando il bosco quale “soggetto” – e non oggetto – della gestione.

La situazione, in estrema sintesi appena descritta nei suoi presupposti essenzia- li, dovrebbe rappresentare la condizione ottimale e diffusa all’interno dei popola- menti forestali della Nazione.

A tale riguardo, il mondo accademico ed il mondo scientifico e della ricerca hanno da tempo intrapreso percorsi ben individuati per comunicare e per far com- prendere come dopo la selvicoltura produttiva e la selvicoltura naturalistica siano i principi della selvicoltura sistemica a dover indirizzare gli interventi gestionali all’in- terno delle formazioni forestali.

Premesso ciò, si può però in molti casi notare – nella realtà pratica dell’appli- cazione della selvicoltura nei boschi del nostro Paese – quanto si sia ancora ben lon- tani dal perseguire i principi che considerano i popolamenti forestali quali – repetita iuvant – sistemi biologici complessi.

Ma non basta e c’è di più: molti degli interventi selvicolturali attuati (in parti- colare ci si riferisce ai tagli intercalari ed ai tagli di utilizzazione) sono altrettanto distanti anche dalle indicazioni sia della selvicoltura produttiva sia di quella naturali- stica.

Di fatto è come se ci si fosse “dimenticati” della selvicoltura.

Quanto accade fa riflettere sulla distanza che sta sempre più aumentando tra quelle che sono le indicazioni teoriche e la realtà dell’esecuzione pratica degli inter- venti selvicolturali all’interno dei popolamenti forestali.

A tal proposito – tra i molti esempi che si potrebbero citare – si ritiene estre- mamente significativo riportare qui il caso di quanto si sta verificando in diversi ambiti territoriali dell’Appennino centrale all’interno delle pinete di pino nero.

Ai più è certamente nota l’origine della quasi totalità di tali soprassuoli i quali sono stati impiantati in due momenti storici ben precisi del secolo scorso: il primo a cavallo dei due conflitti bellici mondiali (i cosiddetti “boschi dell’Impe- ro”) ed il secondo in conseguenza dell’applicazione della legge 25 luglio 1952, n.991 - Provvedimenti in favore dei terreni montani (conosciuta come “legge della montagna” oppure anche come “legge Fanfani” dal nome del suo promotore allo- ra Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste), legge che ha permesso la realizzazione di estesi rimboschimenti in gran parte della Penisola.

Detti soprassuoli hanno vissuto in passato decenni di totale disinteresse lega- to soprattutto alle situazioni di macchiatico (estremamente) negativo. Negli ultimi tempi però, nei confronti dei medesimi – giunti a differenti gradi di sviluppo in considerazione delle diverse condizioni stazionali – si possono notare una rinnova- ta attenzione ed un crescente interesse. Questo deriva in gran parte dall’impiego del materiale legnoso ottenuto dagli interventi selvicolturali per la produzione di energia attraverso gli impianti alimentati a biomasse.

La maggior parte delle attività gestionali che si vanno ad attuare all’interno delle formazioni di pino nero dell’Appennino centrale sono tagli di diradamento in

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considerazione del fatto che tali popolamenti forestali non hanno ancora raggiunto lo stadio di maturità (ecologica ed economica).

A seconda dell’Ente di competenza (Regioni, Province, Comunità Montane, Unione di Comuni, Enti di gestione di aree protette) risultano essere differenti le procedure amministrative necessarie per l’esecuzione degli interventi. Trattandosi però di attività rientranti nella tipologia dei tagli intercalari, nella quasi totalità dei casi non viene richiesta una “specifica” autorizzazione bensì è sufficiente una

“semplice” comunicazione. Detta procedura non prevede pertanto la presentazio- ne di un “progetto di taglio” (o documento similare) il quale debba venir sottopo- sto al vaglio e alla successiva eventuale approvazione dell’Ente competente. È suf- ficiente – in quanto stabilito dalle norme – che il proprietario del bosco (o il pos- sessore o l’affittuario) presenti una dichiarazione di esecuzione del taglio di dirada- mento il quale deve essere realizzato nel rispetto delle “prescrizioni”, “linee guida”, “indicazioni tecniche” contenute nei documenti di pianificazione forestale adottate dall’Ente medesimo.

Seguendo le indicazioni della procedura, accade pertanto assai di frequente – per non dire nella quasi totalità dei casi – che, nell’esecuzione del taglio delle piante del soprassuolo al fine di un dirado, la scelta dei soggetti da abbattere non sia effet- tuata da un Selvicoltore bensì – nel pieno rispetto delle procedure – direttamente dalla ditta boschiva che esegue materialmente il diradamento.

Questo con tutte le conseguenti situazioni di criticità che si possono presentare.

Doverosa premessa alla critica della realtà testé esposta è quella per cui si ritiene necessario che siano la mente, l’occhio e la mano del Selvicoltore ad indiriz- zare le scelte gestionali all’interno di un popolamento forestale.

Da questo contesto però, nella realtà delle cose, si è decisamente assai distanti.

Nella casistica specifica che qui si sta illustrando, le formazioni forestali defi- nite in maniera a volte un po’ semplicistica e riduttiva come “pinete di pino nero”

sono nella gran parte dei casi boschi misti, pluristratificati, spesso caratterizzati da una notevole complessità di composizione specifica e di struttura ed in evoluzione, più o meno accentuata, verso situazioni più prossime alla naturalità. Presentano inoltre di frequente rinnovazione affermata di varie specie di latifoglie a nuclei o diffusa su tutto il popolamento e/o evidenziano gruppi di piante delle medesime specie che hanno già raggiunto gli strati intermedi e/o piante singole che si posso- no considerare facenti parte del piano dominante.

Se di per sé – e su questa affermazione si ritiene non ci possano essere dis- sensi – un taglio di diradamento eseguito in un soprassuolo monospecifico (ancor più se formato da conifere) costituisce un intervento selvicolturale relativamente semplice e senza particolari incognite – sempre attenendosi ai criteri indicati dalle scienze forestali riguardo il tipo, l’intensità, l’epoca di attuazione – il medesimo taglio può presentare notevoli ed evidenti complicazioni se realizzato in situazioni di particolare complessità strutturale e specifica.

Premesso ciò, nei soprassuoli che vengono identificati con il termine di

“pinete di pino nero”, specie nell’Appennino centrale, un taglio di diradamento

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(che andrà necessariamente a condizionare e indirizzare il futuro della formazione boscata) non può essere pertanto ritenuto nella totalità dei casi un intervento di semplice e schematica realizzazione.

Un altro aspetto che preme porre in evidenza è il ruolo di “terzietà” che viene esercitato dal Selvicoltore rispetto al proprietario ed alla ditta boschiva;

infatti l’uno in molti casi per un verso e l’altra nella totalità delle situazioni per un altro, mirano essenzialmente al tornaconto economico.

Il ruolo di terzietà è da ritenersi pertanto necessario, fondamentale e presup- posto irrinunciabile perché un’attività che venga eseguita all’interno di un popola- mento forestale possa essere definita quale intervento selvicolturale nell’accezione dell’applicazione delle indicazioni fornite dalle scienze forestali.

Il Selvicoltore, nel suo agire, deve porsi obbligatoriamente il fine di tutelare in primis le esigenze della formazione forestale e conciliare – per quanto possibile – le richieste delle parti (proprietario e ditta boschiva) considerando sempre il bosco quale sistema biologico complesso anche e soprattutto quando impiega il martello forestale (oppure le bombolette spray, molto più di moda – stante la praticità – negli ultimi tempi, ma così lontane dal fascino della specchiatura dei fusti e dell’imprimere sulla ceppaia il sigillo!).

Si vuole altresì precisare che nessuna critica e men che meno accusa vogliono venir mosse alle ditte boschive le quali – è bene porre la cosa nel giusto risalto – ricoprono un ruolo fondamentale ed insostituibile nelle filiera del settore forestale.

È un incontrovertibile dato di fatto però – e non potrebbe essere diversa- mente – che le ditte boschive perseguono il loro più che legittimo tornaconto eco- nomico ovvero i profitti derivanti dalla commercializzazione dei prodotti legnosi ricavati dagli interventi di taglio dei soprassuoli forestali.

Si ritiene però nel contempo che sia condizione necessaria – e qui si presup- pone non possano sollevarsi voci di dissenso – che il sopra citato tornaconto non venga perseguito in maniera libera (e spesso incontrollata) bensì in un contesto che solo il Selvicoltore può disciplinare all’interno di un popolamento forestale.

In nessun caso poi – affermazione più che lapalissiana – una sanzione com- minata a seguito di un intervento eseguito in difformità delle norme può riparare ai danni (più o meno gravi) subiti dall’ecosistema bosco.

Oltre a quanto in precedenza evidenziato riguardo le pinete di pino nero, potrebbero essere anche altri gli esempi da poter citare a supporto dell’afferma- zione di come in molti casi la selvicoltura sia stata come “dimenticata” ovvero ci sia stata di fatto l’esclusione del Selvicoltore dalle scelte nei riguardi degli inter- venti gestionali da attuare all’interno dei popolamenti forestali. Gli esempi andrebbero ad interessare varie realtà territoriali, diverse tipologie di soprassuo- li, differenti modalità di interventi, particolari situazioni e specifiche realtà, come d’altronde è giusto considerare ogni popolamento forestale. Si potrebbe appro- fondire il discorso su quali siano i criteri di impostazione e le modalità di attua- zione degli interventi nei boschi cedui in conversione, nelle aree percorse da incendio, nei soprassuoli di neoformazione, nei boschi cedui invecchiati, nel

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mantenimento di alcune forme tradizionali di governo e trattamento dei sopras- suoli (ad esempio il ceduo a sterzo), negli interventi su limitate superfici i quali a volte vanno ad interessare realtà di particolare pregio e valenza forestale e/o ambientale e che se sommati nel loro insieme vanno a riguardare aree di signifi- cativa estensione.

Gli interventi cui si è appena fatto cenno vanno quasi tutti ad interessare soprassuoli forestali divenuti nel tempo formazioni miste, pluristratificate, com- plesse e nella maggior parte dei casi in evoluzione, pertanto realtà complesse dove però di fatto – nel totale rispetto delle norme – gli interventi possono essere realiz- zati senza il coinvolgimento attivo del Selvicoltore, ma solamente dichiarando di agire nel rispetto delle direttive emanate dai vari Enti.

Inoltre, sempre in riferimento alla criticità di che trattasi, non si considera volutamente la realtà, più diffusa di quanto si possa supporre, dei boschi cosiddetti

“abbandonati” ovvero dove l’uomo ha eseguito per decenni (se non addirittura in molti casi per secoli) interventi selvicolturali legati in prevalenza alla produzione di materiale legnoso secondo le direttive della selvicoltura produttiva (ma è pur sem- pre selvicoltura!) che sono poi cessati – in gran parte nel secondo dopoguerra – per il venir meno della convenienza economica degli stessi.

Come non accennare infine a tutta quella serie di interventi selvicolturali che vengono eseguiti nella loro interezza (impostazione, progettazione, esecuzione) da figure professionali diverse dal Selvicoltore e che in alcuni casi poco o nulla ne hanno a che vedere.

Si ritiene che l’addentrarsi in una trattazione dettagliata di quanto sopra accennato costituirebbe un ulteriore e ridondante appesantimento nella illustrazio- ne della tematica ed uno più che scontato rafforzamento della doglianza che con queste righe si è voluta evidenziare.

A tale riguardo, si presuppone che l’evidenziazione esemplificativa di quello che avviene in molte “pinete di pino nero” ben rappresenti la punta dell’iceberg, sufficiente pertanto per poter far comprendere le dimensioni della problematica.

* * *

Nella variegata realtà dei popolamenti forestali del Bel Paese molteplici sono le situazioni dove la selvicoltura viene interpretata ed applicata ai soprassuoli in maniera attenta e puntuale e con l’apporto fondamentale – ed insostituibile – del Selvicoltore.

Di contro, anche in conseguenza dei segnali di rinnovato interesse che negli ultimi tempi si stanno manifestando per la gestione e l’utilizzazione dei soprassuoli boschivi – aspetti quanto mai positivi nell’ottica della conservazione e del migliora- mento delle formazioni forestali – sono in aumento i casi in cui non si può parlare di una applicazione della selvicoltura bensì semplicemente di esecuzione di tagli boschivi (e/o di altre attività) senza una precisa connotazione scientifico-tecnica e gestionale.

È doveroso pertanto prestare la massima attenzione su quello che quotidiana-

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mente avviene nell’impostazione e nella realizzazione degli interventi gestionali in genere ed in particolare dei tagli intercalari e delle utilizzazioni forestali, auspicando che ci si indirizzi sempre più verso un modo corretto di “vivere” la selvicoltura sia nei principi che nelle applicazioni pratiche.

Si potrà così evitare che la mozione finale del Terzo Congresso Nazionale di Selvicoltura appaia solamente come lontana “filosofia”.

gianpiero andreatta (*)

(*) Dottore forestale. Primo Dirigente del Corpo Forestale dello Stato - Comandante Provinciale di Forlì-Cesena; [email protected]

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