L’Italia Forestale e Montana / Italian Journal of Forest and Mountain Environments 73 (1): 49‐52, 2018
© 2018 Accademia Italiana di Scienze Forestali
Attualità e Cultura
DE ARBORUM NEMORUMQUE SENECTUTE
Ho aspettato con impazienza la fine di aprile: a quel tempo, nelle Foreste Casentinesi, la Giogana - il crinale appenninico - si ricopre del verde trasparente delle foglie nuove dei faggi e parlare con loro è di nuovo possibile.
Volevo sentire quel che nella sua secolare esperienza un vecchissimo faggio della riserva naturale integrale di Sasso Fratino - un bosco che più vecchio non è possibile - mi avrebbe potuto raccontare sulla vecchiaia del bosco e degli alberi in genere.
Un argomento, questo della vecchiaia reale o presunta di un bosco, portato all’attualità dal TUF, il Testo Unico Forestale recentemente promulgato dal no- stro Presidente della Repubblica.
Mi era stato presentato, quell’albero antico, da Gianluca Piovesan e Alfredo Di Filippo, due selvicoltori speciali, che di faggete vetuste - di invecchiate, di- cono, non ne esistono - bene se ne intendono.
Sono loro i responsabili della “pratica” scientifico burocratica da “evadere”
per ottenere l’ambita dichiarazione ufficiale UNESCO con la quale quel lembo di faggeta viene a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità “assieme alle faggete primordiali dei Carpazi e di altre Regioni d’Europa”. “Il faggio più vec- chio rinvenuto a Sasso Fratino - mi hanno scritto - ha 509 anni a 1,30 da terra (per cui dovrebbe avere almeno 520-530 anni) e un diametro di 90 cm. È quindi coetaneo di Michelangelo e Leonardo e probabilmente è nato prima della morte di Lorenzo dei Medici”.
Chi più saggio, più esperto di chi su quei monti vive da più di cinquecento anni e gode ancora di ottima salute e di buona memoria? Il faggio antico ha accettato di malavoglia l’incontro con il vecchio ispettore forestale e soltanto per l’insistenza del comune amico, il faggio dell’arboreto di Vallombrosa.
Come responsabile dell’istituzione della riserva naturale integrale di Sasso Fratino, mi considerava quasi un nemico: da allora, mi ha rinfacciato, aveva perso la sua grande pace secolare, disturbata al massimo, ad ogni morte di Papa, da qualche cacciatore o cercatore di funghi.
Era al corrente della drammatica prospettiva creata dall’apparire della nuova legge forestale. Aveva sentito quel che ne se ne diceva nel giro dei suoi amici.
Era inorridito per la sublime noncuranza del legislatore, non soltanto nei con- fronti dell’ecologia, ma anche dell’economia forestale. Era stupito dal fatto che si fossero trasformate in legge dello Stato pressioni lobbistiche, malcelate - così diceva - da apodittiche affermazioni pseudoscientifiche.
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“Non avrei mai potuto immaginare - mi disse - una legge forestale che obbli- gasse a tagliare i boschi e ne favorisse la distruzione quando osassero espandersi sui poverissimi terreni abbandonati dall’agricoltura o dalla pastorizia”.
Non aveva ancora valutato le possibili conseguenze del TUF in tutta la loro pesantezza, ma mi fu ugualmente facile fargli capire che, con l’aria che tira, la sua tranquillità, se non assoluta come nel passato, fosse meglio garantita dopo la dichiarazione UNESCO. Nel discutere di invecchiamento umano e boschivo apprezzò il fatto che mi ritenessi biologicamente suo coetaneo, che i miei 98 anni corrispondessero più o meno ai suoi 520.
“Vedi - mi disse - è proprio questo che non volete capire: per esempio, che a 250 anni un faggio ha il vigore di un uomo di 50, che per noi alberi della foresta la vita scorre molto più lentamente della vostra. Dovreste avere un po’ più di pazienza: lasciarci crescere secondo la nostra natura.
È questa enorme differenza nel valutare lo scorrere del tempo che il vostro TUF ignora, con pesanti conseguenze negative, se nuovi legislatori non lo met- teranno da parte.
Per altro esempio, come si può dire con convinzione che un ceduo di faggio, compiuti 50 anni, sia da considerare invecchiato tanto da doverlo tagliare perché non deperisca?
Si può asserire che abbia abbondantemente superato un ipotetico ‘turno’, ma quale? Quello minimo finora stabilito da leggi e regolamenti per evitare - in que- sto caso giustamente - che il ceduo degradi a terreno cespugliato? A 50 anni i polloni dominanti del ceduo di faggio sono già differenziati abbastanza da con- figurare il bosco come una giovane fustaia ed hanno l’età biologica di un bam- bino di 10 anni: li considerate davvero vecchi?”
“Tu semplifichi troppo - gli risposi - la questione è molto complessa”.
“È vero - obiettò - ma non semplifico più di quanto abbia fatto il legislatore del TUF e chi lo ha ispirato.
In preparazione del testo legislativo, gli esperti - mi hanno detto - discussero tanto sulla convenienza di ringiovanire i boschi, dandosi l’un l’altro ragione, ma sempre sulla base di quel ragionamento davvero semplice secondo il quale il bo- sco invecchiando deperisce, assumendo, per la misura del tempo che farebbe invecchiare il bosco, il trascorrere della vita dell’uomo. Non è questa una sem- plificazione estrema e per di più fasulla?
Proviamo ad attenerci all’evidenza dei fatti. Vicino come sono al crinale, espo- sto a tutta la grande rosa dei venti, vengo al corrente di quanto succede dalle Alpi ai Nebrodi.
Di lamentele ne sento e ne risento giorno e notte, ma nessun faggio, nessuna quercia, nessun abete bianco o rosso si è mai lamentato della vecchiaia tanto da implorare la dolce morte.
Forse perché la vita ce la togliete molto prima di quando potrebbe venirci a noia, molto prima di diventare insopportabile per gli acciacchi della vecchiaia.
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Ma tu che di boschi ne hai visti tanti e tanti li hai potuti seguire per tanto tempo, di malandati per invecchiamento, per il perfido abbandono da parte dell’uomo, ne hai mai osservati?”
“È questa una domanda - ho risposto - che mi sono fatta più volte di fronte all’ostinata insistenza degli esperti sul male assoluto dell’abbandono del bosco e del conseguente disastroso invecchiamento.
In verità non mi sono mai trovato di fronte ad una simile rovina. Ho potuto constatare invece che un bosco in cattive condizioni, se lasciato alla sua naturale evoluzione, se abbandonato - come dicono gli esperti - impiega fino ad una cin- quantina d’anni per rimettersi in forma. Attraversa, questo sì, fasi esteticamente assai sgradevoli e a volte può essere addirittura impraticabile per l’intrico dei rami secchi o per la presenza di arbusti spinosi che non si possono avvicinare senza strapparsi gli abiti.
Poi, quando il secco, il fatiscente e gli spini scompaiono, e gli alberi o i polloni che hanno vinto la concorrenza si differenziano, quasi d’improvviso il bosco si trasforma e riacquista il proprio consueto aspetto sontuoso: è come quando, passato il periodo ingrato della adolescenza, una bambina bruttina e lentigginosa diventa una splendida ragazza o una libellula esce dal bozzolo e con il vibrare delle grandi ali iridate avvia magici giochi di luce sulle acque dello stagno.
Certo, per gli alberi, si deve avere la pazienza di aspettare qualche decennio.
A quanto pare, gli esperti non l’hanno mai avuta o sono ancora troppo giovani.”
“Ma come - ha insistito il faggio, riprendendo il discorso sull’abbandono - al tempo della mia giovinezza era prevista perfino la pena capitale per chi avesse tagliato un faggio sugli “alti monti” e ora diventa obbligatorio farlo?”.
“Non è proprio così - l’ho interrotto - ma la tua espressione di amara mera- viglia rende bene le dimensioni del cambiamento, o meglio del capovolgimento, provocato dal TUF: si passa praticamente dalla difesa del bosco delle consuete leggi forestali alla difesa dal bosco. Questa l’essenza della nuova legge forestale.
Non è la prima volta che succede qualche cosa del genere - ricordai al faggio - sul finire del ’700 il Granduca Pietro Leopoldo, sospinto dagli esperti di allora, dai capricciosi filosofi di corte, ha liberalizzato i tagli anche sul crinale dell’Appennino”.
Il vecchio faggio ricordava “come oggi” le distruzioni, avvenute più di due secoli fa, delle antiche faggete e abetine appenniniche, sostituite da un paesaggio lunare di pietre e sterpi stentati.
Era scampato alla mala sorte, lo sapeva bene, perché l’opera del Duomo di Firenze, proprietaria di quel lembo di foresta, aveva una buona pratica di selvi- coltura attiva, nel senso che sopperiva alle necessità finanziarie e materiali - le grandi travature - pur conservando quel meraviglioso ecosistema forestale, che allora si chiamava con il bel nome di Macchia di Santa Maria del Fiore, nel pieno delle proprie capacità produttive e protettive.
Purtroppo, convenimmo, ricordare l’antico errore del Granduca, le gravi con- seguenze che ha avuto e il buon esempio dell’Opera di Santa Maria del Fiore non basterà a convertire gli esperti e la politica, tanto da indurli a rinnegare il TUF.
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Né, a quanto sembra, l’appassionato appello di tanti amanti della natura, di tanti ambientalisti.
Con il faggio ne abbiamo parlato fino al calar del sole.
Non esiste in Italia, abbiamo dovuto constatare, un associazionismo forestale popolare, come, per esempio, quello svizzero, che già nell’800, a difesa del bosco, ha ottenuto una modifica della Costituzione.
Allora si trattava di bloccare le utilizzazioni sfrenate dei boschi avviate per la produzione di carbone vegetale, a sostegno della “rivoluzione industriale”. Ora noi ci potremmo ritrovare in una situazione del genere, creata dalla possibilità di produrre energia a buon mercato con le biomasse forestali: il TUF vede con favore questa opportunità di “svecchiare” i nostri boschi.
“Potrebbe anche essere - dissi al faggio - che non di svecchiamento si trat- tasse, ma di vera selvicoltura ben pianificata”
Il faggio non era assolutamente d’accordo, di biomasse non ne voleva sentir parlare. Dal suo punto di vista era comprensibile.
“Non esiste – ripeteva - un associazionismo ambientalista capace di contenere entro limiti tollerabili lo sfruttamento energetico delle biomasse forestali”.
“È vero - ho dovuto ammettere - il 6 aprile a Rieti si sono riuniti trecento e più professori, naturalisti, medici, forestali, amanti sinceri della natura, tutti alla ricerca di una strategia di protesta efficace conto il TUF. Erano tutti d’accordo sulla necessità di fare qualche cosa, ma per la maggior parte erano anche convinti dell’impotenza attuale del nostro associazionismo”.
Il sole del mattino, illuminando le foglie nuove, aveva creato, come sempre a primavera nella faggeta, un’atmosfera verde, fiabesca, di fiduciosa speranza.
A sera, dopo il tramonto, il verde è gradualmente impallidito e ne è seguita una vaga ed amara sensazione di scoraggiamento.
Tuttavia ci siamo voluti salutare nella convinzione che almeno il vecchio fag- gio sarebbe arrivato a vedere tempi migliori.
FABIO CLAUSER