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Giordano Bruno e la nascita della scienza moderna

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Dialoghi - Rivista di Studi Italici, vol. IV, 2000, n. 1/2 , pp. 1-53

Marco Mamone Capria

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Giordano Bruno e la nascita della scienza moderna

Brunum Romae crematum ex Domino Wackherio didici; ait, constanter supplicium tulisse. Religionum omnium vanitatem asseruit, Deum in mundum, in circulos, in puncta convertit.

J. Kepler, 1608

*

1. Introduzione. La vicenda intellettuale e umana di Giordano Bruno (1548-1600) fornisce una prospettiva privilegiata da cui guardare a quel momento di trasformazioni nella concezione del mondo in cui è nata la scienza moderna. Bruno fu filosofo in un periodo in cui nessun ramo dello scibile esorbitava dalle competenze della filosofia, ed entrò in numerose controversie accettando un isolamento ideologico e istituzionale che poteva avere conseguenze personali molto serie - come di fatto accadde. E d'altra parte, qualunque cosa si pensi del suo personale contributo alla maturazione del sapere scientifico e filosofico moderno, il filosofo di Nola (“il Nolano”, come amava denominarsi), portò nella battaglia delle idee un tipo di passione e, se vogliamo dire la parola, di intemperanza che scosse l'Europa, lasciando un segno duraturo nella sua storia culturale.

Bisogna dire che i giudizi di Bruno sono stati molto vari (già fra i suoi contemporanei, come vedremo). L'età del positivismo, che ne celebrò il terzo centenario della morte e gli eresse un monumento sul luogo del supplizio (la piazza romana detta Campo de' Fiori),

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salutò in lui il martire della scienza e ne fece il simbolo di una accesa polemica anticattolica. Nella famosa Storia della letteratura italiana (1870) Francesco De Sanctis dedicò a Bruno parecchie pagine del capitolo su “La nuova scienza”, facendo da lui partire il risorgimento ideale e, in definitiva, anche politico, del popolo italiano.

Il quarto centenario, che cade appunto in questo anno 2000, è stato invece caratterizzato da una maggiore incertezza sul preciso posto da assegnargli nella storia della cultura, e ciò per diverse ragioni.

In primo luogo, alla carica anticlericale di fine Ottocento si è oggi sostituita una prudenza che si nasconde dietro la pretesa che si sia ormai ‘superata’ l'epoca delle

‘contrapposizioni ideologiche’, in particolare tra scienza e religione. Quanto ci si possa fidare di queste dichiarazioni di avvenuto ‘superamento’ lascerò giudicare al lettore.

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# Dipartimento di Matematica, via Vanvitelli, 1, 06123 Perugia. Questo articolo ha tratto origine da una conferenza tenuta nell'aprile del 2000 presso il Liceo “Ettore Majorana” di Orvieto, che ringrazio - in particolare nella persona del prof. Luca Umena - dell'ospitalità.

* “Che Bruno è stato bruciato a Roma l'ho appreso dal signor Wackher; ha detto che sopportò con fermezza il supplizio. Asserì la vanità di tutte le religioni, trasformò Dio nell'universo, nei cerchi, nei punti” (K, II, p. 596). N.B. Salvo avviso contrario: 1) le traduzioni sono mie, 2) nelle citazioni i corsivi, le parentesi quadre, e le note sono aggiunti da me. Le abbreviazioni utilizzate per i riferimenti alle opere di Bruno, Galilei e Keplero sono elencate nella bibliografia.

1 Il monumento fu inaugurato il 9 giugno 1889; il Papa di allora, Leone XIII, protestò contro

“l'atto sacrilego” (Sale 2000).

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Ma c'è una seconda ragione, che ci interessa di più in questa sede, ed è che gli studi bruniani, sotto l'impulso di eminenti storici delle idee come Eugenio Garin e, soprattutto, l'inglese Frances A. Yates, hanno a partire dagli anni Sessanta sempre più messo l'accento sugli aspetti ‘arcaici’ del pensiero bruniano, e in particolare sul suo legame con la tradizione ‘magica’ ed ‘ermetica’ . In effetti già prima di questi contributi, nel 1941, lo storico delle idee Lynn Thorndike aveva sminuito l'importanza della componente scientifica sia nel pensiero di Bruno che nelle ragioni della sua condanna da parte dell'Inquisizione;

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con la tesi ‘ermetica’ si è avuto uno spostamento di prospettiva ancora più netto: da antesignano della nuova scienza Bruno è diventato un epigono di una falsa sapienza la quale sognava le sue radici in un Egitto leggendario e torbido.

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E ciò ha portato anche a una drastica reinterpretazione del processo subìto da Bruno. Benché gli studi citati abbiano sicuramente giovato a rinnovare l'interesse per il nostro autore, ci si può a buon diritto domandare - come vedremo - se la sua figura non abbia subito più ingiustizie dalla reinterpretazione ‘ermetica’ che dall'unilaterale interesse dei positivisti per gli aspetti scientifici del suo pensiero.

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In questo saggio cercherò di disegnare un profilo di Bruno filosofo della natura e della scienza che non si riduca a un sondaggio della genuinità delle sue ‘anticipazioni’, ma che renda almeno in parte giustizia alla complessità della sua posizione intellettuale, ed espliciti i motivi di un interesse non puramente antiquario per essa.

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In particolare vedremo che, in alcuni casi in cui le tesi di Bruno ci appaiono come ‘ovviamente’

bizzarre, la loro stranezza dà la misura della difficoltà di problemi che ancor oggi non si possono dire risolti del tutto soddisfacentemente.

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Le sezioni 2-6 sono dedicate agli aspetti più famosi di Bruno: il suo copernicanesimo, la cosmologia dell'universo infinito, il principio di relatività; la sezione 7 riguarda poi una questione connessa ma non altrettanto nota, cioè il rapporto conflittuale di Bruno con la matematica del suo tempo. A questo punto comincio la discussione della tesi

‘ermetica’ (§§8-9) e passo all'altro lato della concezione del mondo bruniana, cioè il suo animismo (§§10-11), mostrandone i collegamenti con problemi di concettualizzazione in fisica (§12) e in biologia (§§13-14), e soffermandomi sulla questione del fondamento del diverso giudizio moderno sui resoconti storici di eventi prodigiosi (§15). Faccio poi vedere che la posizione di Bruno rispetto alla medicina e

2 È da questo punto di vista significativo, e deprimente, che la sola discussione che si sia sviluppata con una certa ricchezza sulla stampa italiana nell'anno 2000 a proposito di Bruno abbia riguardato una questione di ‘appropriazione indebita’ di meriti editoriali. Il clima del

“Giubileo” cattolico, al quale hanno reso omaggio le più alte cariche politiche e istituzionali italiane, non è stato ovviamente estraneo a questa sordina.

3 Thorndike 1923-58, vol. VI, pp. 423-8.

4 “[...] Bruno fu un intenso ermetista religioso, un credente nella religione magica degli Egizi come è descritta nell'Asclepius, della quale profetizzò in Inghilterra l'imminente ritorno, prendendo il Sole copernicano come un prodigio nel cielo di questo imminente ritorno. [...]

Copernico, sebbene non immune dall'influenza del misticismo ermetico del Sole, è completamente libero dall'ermetismo nella sua matematica. Bruno spinge indietro l'opera scientifica di Copernico fino a uno stadio prescientifico, all'ermetismo, interpretando il diagramma copernicano come un geroglifico di misteri divini” (Yates 1964, p. 155). Vedi anche P, p. 98.

5 Va però detto che la Yates ammise che ci furono feconde connessioni tra 'scienza' ed 'ermetismo' (cfr. in particolare il cap. 8 di Yates 1988, originariamente pubblicato nel 1967).

6 Per ragioni di spazio, ho tralasciato ogni discussione delle opere mnemotecniche di Bruno (cfr.

la classica introduzione Yates 1972).

7 Della letteratura secondaria ho trovato specialmente utili: Tocco 1889, Yates 1964,

Aquilecchia 1993, e l’analisi del processo contenuta in P.

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alla filosofia del suo tempo ha qualcosa da insegnarci (§§16-17), ed espongo la sua critica a certi aspetti della dimensione sociale della scienza dell'epoca (§18). Dopo aver trattato del suo atteggiamento ambivalente nei riguardi della libertà religiosa (§19), entro brevemente (§20) nella questione del rapporto tra la sua filosofia della natura e il processo e la condanna; in particolare, contro una tendenza oggi molto diffusa, sottolineo come le accuse a Bruno fossero, in parte, legate al progressivo irrigidimento della curia romana verso il copernicanesimo. Mi soffermo poi sulla ‘religione cosmica’

bruniana, per esplorare i rapporti tra la sua cosmologia e la concezione della vita (§21).

Passo poi ad alcuni aspetti dell'influenza e dell'eredità bruniane, e dopo una sintesi delle relazioni con alcuni scienziati suoi contemporanei (§22), concentro l'attenzione su Galileo Galilei, mostrando affinità con Bruno spesso ignorate o sottovalutate (§23).

Alcune osservazioni di carattere generale chiudono il lavoro (§24).

Ho riportato un certo numero di citazioni da Bruno stesso, per favorire un approccio quanto più è possibile diretto a questo autore incisivo e dalla straordinaria inventiva linguistica, capace di passare, nei dialoghi italiani, dalla commedia più irriverente alla solennità del poema filosofico a poche pagine di distanza.

2. Bruno e Copernico. Negli anni 1583-1585 Giordano Bruno, ex frate domenicano, fuggito dall'Italia in seguito a denunce circa sue affermazioni eterodosse e a un'accusa di aver gettato un confratello nel Tevere,

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si trova a Londra ospite dell'ambasciatore francese, il signore di Mauvissière, dietro raccomandazione dello stesso re di Francia, Enrico III. Ad Enrico III Bruno ha impartito lezioni di arte della memoria, e ha dedicato una delle sue prime opere sull'argomento, il De umbris idearum. Sulle vicende inglesi abbiamo informazioni frammentarie e da fonti disparate (alcune scoperte solo pochi anni fa), e soprattutto dalla prima delle sei opere dialogiche italiane pubblicate tra il 1584 e il 1585, che è forse anche la più famosa, La cena delle ceneri (1584).

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Nella Cena Bruno racconta di una disputa che sarebbe avvenuta il 14 febbraio 1584 (mercoledì delle Ceneri, appunto) a casa di uno dei suoi amici inglesi, intorno alla teoria copernicana. L'opera fondamentale di Copernico, il De revolutionibus orbium caelestium, era stata pubblicata nel 1543, con tanto di dedica al papa Paolo III, ma anche con una lettera dedicatoria che discuteva conflitti con l'ortodossia cattolica già emersi e che sarebbero di lì a non molto esplosi (cfr. §20).

È notevole che nella Cena si trovi, tra l'altro, la prima discussione dei rapporti tra scienza e interpretazione della Scrittura, proprio in relazione alla questione del moto della Terra - e secondo linee che sono state più volte riconosciute essere identiche a quelle seguite nelle sue “lettere copernicane” da Galilei stesso:

nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le dimostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma, in grazia de la nostra mente ed affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azioni morali. Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti gli occhi, nel resto non si cura di parlar secondo

8 Accusa infondata, come indicato dal fatto che, pur nota al tribunale dell'Inquisizione, fu da questo lasciata cadere (cfr. Spampanato 1921, pp. 263-5, e Aquilecchia 1972, p. 654).

9 Qui Bruno ammette di non sapere l'inglese, ma che dei gentiluomini con cui aveva occasione di

parlare tutti sapevano “o latino o francese o spagnolo o italiano” (Cena, p. 86). Quanto alla

diffusione della lingua italiana, può essere interessante ricordare che la regina Elisabetta I, con

cui Bruno ebbe varie conversazioni, “parlava l'italiano e ‘con gli italiani’, scriveva l'ambasciatore

veneto [...] ‘non vuol mai parlare altrimenti’” (DI, p. 67, n. 2). Del resto, Bruno sottolinea

ripetutamente, contro il pedantismo dei filologi, la differenza tra competenze linguistiche e

concettuali: “anco non è che impedisca che uno ch'abbia a pena una de le lingue, ancor bastarda,

sia il più sapiente e dotto di tutto il mondo” (De la causa, p. 260; cfr. § 18).

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quella verità, per la qual non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al bene; ma di questo il pensiero lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale. [Cena, pp. 120-1]

Che Galilei abbia conosciuto la Cena è ipotesi suffragata anche da diverse analogie tra essa e il galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), a cominciare dalla somiglianza tra il nome del pedante nella Cena (Prudenzio) e dell'aristotelico nel Dialogo (Simplicio);

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avremo occasione di tornarci.

Bruno, che ha come portavoce il personaggio di Teofilo, definisce la sua concezione della natura dichiarandosi a favore delle idee fondamentali di Copernico, ma, da un lato, estendendole vertiginosamente e, dall'altro, indicando in “altri proprii e più saldi principii” (p. 91) la base della sua adesione. Copernico

aveva un grave, elaborato, solecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudosso e tutti gli altri [...]

Egli era arrivato a tanta eccellenza

per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità. Ma però non se n'è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii [...] [p. 28]

Ma pur parlando anche altrove di “quel suo [di Copernico] più matematico che natural discorso” (p. 29), Bruno rende onore all'opera di Copernico non solo qualificandolo come “una aurora, che dovea precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia” (Bruno qui allude a se stesso, con tipica immodestia), ma anche confutando la pretesa contenuta nella prefazione al De revolutionibus (anonima, ma del teologo protestante Andreas Osiander), che la teoria copernicana dovesse essere intesa soltanto come un metodo per semplificare i calcoli astronomici. In effetti, quando, nel libro I della sua opera maggiore, Copernico risponde “sufficientemente [...] ad alcuni argomenti di quei che stimano il contrario”, egli “non solo fa ufficio di matematico che suppone, ma anco di fisico che dimostra il moto della terra” (p. 90).

3. In difesa del sistema copernicano. La distinzione che Bruno traccia tra il

“matematico” e il “fisico” è essenziale per capire la natura della controversia nata attorno alla teoria copernicana. In effetti che fosse possibile descrivere il moto della Terra dal punto di vista del Sole non era certo cosa da sconcertare i geometri del tempo, per non dire di quelli antichi. E neppure che una descrizione potesse essere, ai fini del calcolo, più conveniente di un'altra. Il punto che si discuteva era invece chi, fra il Sole e la Terra, fosse veramente fermo. L'influenza di una interpretazione diffusa, ma sviante, di ciò che la teoria generale della relatività sarebbe riuscita a realizzare quattro secoli dopo (1915-6), ha convinto molti esegeti che una tale disputa non aveva ragione di essere: non aveva e non ha senso chiedersi se qualcosa è o non è ‘veramente’ in quiete.

Tuttavia una tale banalizzazione di una disputa che ha coinvolto nel corso di secoli

10 Prudenzio è detto “troppo prudente” (p. 25); ciò fornirebbe una base testuale ulteriore per

l'interpretazione usuale del nome “Simplicio” nel Dialogo (“Simplicio” sarebbe allora il ‘troppo

semplice’). Vedi, per altri paralleli, Aquilecchia 1995.

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alcuni dei massimi pensatori è di per sé poco plausibile, e di fatto non valida nel caso della disputa copernicana.

Se Copernico era da prendersi alla lettera, se cioè i pianeti orbitavano attorno al Sole e non alla Terra, ciò era ritenuto avere conseguenze di due tipi, astronomiche e fisiche.

E se queste conseguenze non corrispondevano ai fatti osservativi, allora la teoria copernicana andava abbandonata come descrizione letterale del sistema del mondo (senza per questo perdere tutta la sua utilità). È su questo genere di considerazioni, niente affatto verbalistiche, che verté l'intera controversia.

Nella prefazione “Ad lectorem de hypothesibus huius operis”, sopra menzionata, Osiander demoliva le pretese di verità della teoria esposta da Copernico, nella maniera più diretta, e cioè citando osservazioni astronomiche in disaccordo con essa. Infatti, l'ipotesi eliocentrica

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comporta che la distanza dei pianeti interni (Venere e Mercurio) dalla Terra debba variare considerevolmente, con una differenza massima uguale al diametro dell'orbita del pianeta, e ciò implica a sua volta una variazione notevole del diametro e della grandezza apparenti del pianeta visti dalla Terra. Questo, scrive Osiander, lo capisce chiunque sappia qualcosa di geometria e di ottica. Eppure la variazione del diametro, per esempio, di Venere, che dovrebbe essere di più di 4 volte, di fatto non si osserva.

Lo ‘strumentalismo’ di Osiander era quindi di natura estremamente concreta: la teoria copernicana spiega sì alcuni dati osservativi sui movimenti dei corpi celesti, ma entra in conflitto con altri. Letteralmente parlando essa è falsa! Inoltre ha in comune con le altre teorie astronomiche di non assegnare “le cause delle diseguaglianze apparenti dei moti”. In generale l'astronomo si deve limitare a scegliere l'ipotesi “più facile da capire”, mentre il filosofo

forse richiederà piuttosto la verosimiglianza; tuttavia né l'uno né l'altro comprenderà o insegnerà qualcosa di certo, a meno che non gli sia stato rivelato divinamente.

A questa posizione, che nega a Copernico, ma non al teologo, qualsiasi pretesa conoscitiva, Bruno si oppone con veemenza, irridendo l’“asino ignorante e presuntuoso”, il “bel portinaio” del De revolutionibus, che così bassamente introduce

alla partecipazione di quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare e misurare e geometrare e perspettivare non è altro che un passatempo da pazzi ingeniosi.

[p. 89]

Questa è una brillante ridicolizzazione di una delle risposte oggi più comuni sul valore delle teorie scientifiche: esse avrebbero valore in quanto ‘funzionanti’, cioè capaci di prevedere correttamente i risultati sperimentali. Galileo Galilei, su questo punto, la penserà esattamente come Bruno, e relegherà in fondo al suo Dialogo quell'argomento con cui Urbano VIII faceva propria, in sostanza, la posizione di Osiander (cfr. §23).

Bisogna però ammettere che l'atteggiamento di Bruno nei riguardi dell'uso della matematica nella scienza della natura è, nel complesso, negativo, come quando confuta la spiegazione usuale (che è ancora la nostra) della diversa temperatura estiva e invernale in termini dell'inclinazione dei raggi solari: sarebbe appunto una grande sciocchezza dire

11 A rigore Copernico sostiene non esattamente la centralità, ma la ‘quasi-centralità’ del Sole;

d'altro canto secondo lui il Sole è perfettamente immobile, così il suo sistema è più precisamente

‘eliostatico’ che ‘eliocentrico’.

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li raggi perpendicolari e retti esser causa di maggior caldo, e li acuti ed obliqui di maggior freddo. Il che però è accidente del sole, vera causa di ciò, quando persevera più o meno sopra la terra. Raggio reflesso e diretto, angolo acuto ed ottuso, linea perpendicolare, incidente e piana, arco maggiore e minore, aspetto tale e quale son circostanze matematiche e non cause naturali. Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura. Non son le linee e gli angoli, che fanno scaldar più o meno il fuoco, ma le vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore. [Cena, p. 148]

La distinzione qui tracciata non sembra coerente: non si vede, infatti, perché lo stare il Sole più a lungo a minore distanza da un punto della Terra sia una condizione meno

‘geometrica’ del suo mandare i raggi secondo un certo angolo. L'aspetto interessante della critica è, a mio avviso, più generale: il rifiuto di considerare come adeguata spiegazione di un fatto fisico una mera relazione funzionale fra grandezze misurabili,

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non importa se confermata dall'esperienza. In altre parole, a una genuina spiegazione fisica Bruno chiede che si conformi a principi plausibili di filosofia naturale. Questa esigenza - oggi per lo più considerata ‘ingenua’, ma sulla quale attualmente manca, a mio parere, un'adeguata riflessione storico-critica - sarà condivisa da quegli antinewtoniani, fra cui Leibniz, i quali non si accontenteranno del successo predittivo della legge dell'attrazione universale, ma ne pretenderanno una interpretazione meccanica.

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4. Le dimensioni apparenti dei pianeti e l'epiciclo lunare. Bruno replica in dettaglio alla confutazione osservativa del sistema copernicano avanzata ‘in limine’ da Osiander.

Comincia obiettando che dalle dimensioni apparenti di un oggetto non si può dedurre la distanza, perché bisognerebbe prendere in considerazione anche la sua luminosità intrinseca. Ma da questa corretta considerazione trae un completo scetticismo sulla relazione tra dimensioni e distanza dall'osservatore, anche per uno stesso corpo la cui luminosità possa ritenersi costante (che è appunto il caso di Venere nel ragionamento di Osiander). Neanche la tesi di Eraclito e poi di Epicuro (e Lucrezio) che le dimensioni apparenti dei corpi celesti sono proprio quelle reali sarebbe confutabile sulla base di ottica e geometria, in quanto quei corpi

se per la distanza perdessero la grandezza, a più raggione perderebbero il colore, e certo, dice [Epicuro], non altrimente doviamo giudicare di que' lumi, che di questi, che sono appresso noi. [Cena, p. 93]

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Come si vede, Bruno adotta il principio che nel discutere questioni di fisica che riguardano i corpi celesti ci si possa rifare a ciò che si constata sulla Terra; e in effetti cita diverse esperienze di visione di fuochi, i quali non riducono la propria grandezza apparente nella proporzione in cui aumenta la loro distanza dall'osservatore. Da qui Bruno prosegue con una digressione spericolata su varie questioni di ottica, che gli ha meritato ingenerosi, ma non infondati, rimproveri.

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In particolare cerca di confutare la

12 Almeno grossolanamente, per quanto riguardava, all'epoca, la temperatura.

13 In questo senso, com'è noto, Newton stesso non fu un ‘newtoniano’.

14 Il riferimento epicureo è a Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 91, oltre che al V libro (vv.

564-91) del De rerum natura di Lucrezio, citato da Bruno (p. 94). È da notare che anche Plotino (Enneadi, II, 8, 2) ha obiezioni alla valutazione della grandezza dei corpi distanti mediante l'ottica geometrica.

15 In relazione proprio alle considerazioni di ottica che seguono, uno storico francese della

matematica, il Libri, ha affermato che Bruno “sembra aver abbracciato a priori il sistema di

Copernico per mezzo di una specie di intuizione, perché era tutto fuorché un matematico: le sue

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dimostrazione della maggior grandezza del Sole rispetto alla Terra tratta dalla limitatezza del cono d'ombra proiettato da questa. Il punto chiave della ‘confutazione’ è che, dato che una sorgente puntiforme, posta davanti a una sfera, illumina una calotta sferica maggiore via via che se ne allontana, essa dovrebbe illuminare, da una distanza abbastanza grande, anche più di un emisfero! Tale bizzarro argomento è associato con una dottrina fisico-matematica che ha in Bruno radici più profonde, cioè quella del minimo (cfr. §7).

Resta tuttavia il fatto che, effettivamente, la luminosità dei corpi può ingannare circa la loro grandezza, e che dalla uguaglianza della grandezza visiva niente si può dedurre sulla distanza: in questo la parte dell'argomentazione bruniana derivata dall'esperienza è corretta. Della stessa questione si occupò Galilei nella Terza Giornata del Dialogo, dove, avvalendosi delle nuove osservazioni ottenute con il cannocchiale, e dell'assunto che le esperienze di osservazioni terrestri siano estrapolabili ai corpi celesti, potrà dire che l'invarianza delle dimensioni visive di Venere portata da Osiander come confutazione della teoria copernicana era in effetti un'illusione ottica:

In questo ci ha gran parte l'impedimento del nostro occhio stesso, [...] dal quale gli oggetti risplendenti e lontani non ci vengono rappresentati semplici e schietti; ma ce gli [= li]

porge inghirlandati e di raggi avventizii e stranieri, così lunghi e folti, che il lor nudo corpicello ci si mostra ingrandito 10, 20, 100 e mille volte più di quello che ci si rappresenterebbe quando gli si levasse il capellizio [= la capigliatura] radioso non suo.

[Dialogo, p. 363]

Di conseguenza l'effetto indicato da Osiander si rivela, oltre mezzo secolo dopo, come una conferma della tesi copernicana!

Allo stesso modo Bruno insiste sul fatto che la non visibilità di alterazioni della posizione relativa delle stelle fra loro non dipende dal fatto che queste siano veramente

‘fisse’, ma solo dalla loro lontananza:

E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesma equidistanza da noi e tra loro; ma perché il lor moto non è sensibile a noi. Questo si può veder in essempio d'una nave molto lontana, la quale, se farà un giro di trenta o di quaranta passi, non meno parrà che la stii ferma, che se non si movesse punto. Cossì, proporzionalmente, è da considerare in distanze maggiori [...] [Cena, p. 145]

Come dice ancora Bruno, variazioni della posizione delle stelle fisse non sono mai state trovate perché una tale scoperta necessitava di “lunghissime osservazioni”, e queste

non sono state cominciate, né perseguite, perché tal moto nessuno l'ha creduto, né cercato, né presupposto; e sappiamo che il principio dell'inquisizione è il sapere e conoscere, che la cosa sii, o sii possibile e conveniente, e da quello si cave profitto. [p.

145]

Queste considerazioni metodologiche sono estremamente ‘moderne’ e appropriate, e permettono anche di chiarire in che senso i meriti di Bruno nell'abbracciare (e procedere oltre, come vedremo) la teoria copernicana non si debbano ricercare, nemmeno in linea di principio, solo nel fatto che egli abbia contribuito a ‘dimostrarla’.

In effetti, senza una preliminare scommessa a favore della plausibilità di una teoria -

opere racchiudono gli errori più singolari in geometria” (DI, pp. 97-8, n.1). Ora, mentre gli

errori sono innegabili, non vale la conseguenza che l'adesione di Bruno al sistema copernicano

non sia stata argomentata, e anche con buone ragioni.

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scommessa che va peraltro difesa e argomentata, come Bruno fece - questa non potrebbe mai crescere fino a mostrare la sua forza.

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Ma Bruno sapeva veramente in che cosa consisteva la teoria copernicana? Alcuni critici l'hanno messo in dubbio a partire da un momento del IV dialogo della Cena, in cui scopriamo che Bruno riteneva che, secondo Copernico, la Terra si muovesse sull'epiciclo lunare, il quale quindi non sarebbe geocentrico. Questa interpretazione erronea, sia del testo, sia della figura che si trovano nel De revolutionibus, nasce, curiosamente, da un'esigenza empirica: quella di spiegare come mai il diametro solare visibile dalla Terra subisce variazioni (Cena, p. 140). Ora, è chiaro che la conoscenza dell'astronomia matematica da parte di Bruno non era paragonabile a quella dei (peraltro pochissimi) contemporanei in grado di seguire passo per passo le dimostrazioni di Copernico. Va però notato che nella teoria copernicana, il caso Terra/Luna è singolare: di tutti gli astri, a parte il Sole, soltanto la Terra è centro di rivoluzioni di altri pianeti. Questa stranezza, che la lettura - sbagliata - di Bruno avrebbe il merito di rimuovere (o meglio, di sostituire con un'altra stranezza!), fu avvertita anche da Galileo, il quale la nota come qualcosa che addirittura “par che alteri in guisa l'ordine, che lo renda inverisimile e falso” (Dialogo, p. 361). Come sappiamo, la difficoltà sarà risolta da Galileo stesso quando, trent'anni dopo la memorabile serata bruniana, scoprirà quattro delle “lune” di Giove.

5. Il principio di relatività. Poiché la Terra è tonda - dice Copernico nel cap. 8, libro I della sua opera principale - perché non attribuire ad essa “quella mobilità che si addice per natura alla sua forma [mobilitatem illi formae suae a natura congruentem]”, piuttosto che all'universo, del quale né sappiamo né possiamo sapere quali confini abbia?

E [affermiamo] che le cose stanno come le descriverebbe l'Enea virgiliano, quando dice:

Provehimur portu, terraeque urbesque recedunt.

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Poiché in una nave fluttuante in tranquillità [sub tranquillitate], tutto ciò che è al di fuori è visto dai naviganti muoversi secondo l'immagine di quel moto, e viceversa essi ritengono di essere in quiete con tutto ciò che hanno con sé. Così, non c'è da meravigliarsi se nel moto della Terra può accadere che tutto l'universo sia stimato girare.

È interessante che precisamente lo stesso argomento era stato presentato, un secolo prima (1438-40), da Nicola Cusano nel De docta ignorantia (II, 12):

Ormai a noi è chiaro che codesta Terra in verità si muove, sebbene a noi ciò non appaia.

Infatti non ci rendiamo conto [apprehendimus] del moto se non per un certo confronto con qualcosa di fisso. Se infatti qualcuno ignorasse lo scorrere dell'acqua e non vedesse le rive, stando in una nave nel mezzo dell'acqua, in che modo si renderebbe conto che la nave si muove? E perciò, poiché a chiunque, che si trovi sulla Terra o sul Sole o su altra stella, pare sempre di essere al centro, come [quasi] immobile, e che tutte le altre cose si muovano, egli certamente determinerebbe poli diversi se stesse sul Sole, sulla Terra, sulla Luna e su Marte, e così delle altre [stelle]. Quindi la macchina del mondo sarà come se

16 Non c'è dubbio che anche le ricerche di un grandissimo scienziato come Keplero risentono della sua visione neopitagorica del cosmo in una misura che certamente influenzò i suoi obiettivi teorici.

17 “Partiamo dal porto, terre e città indietreggiano” (Eneide, III, 72).

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avesse il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, poiché la sua circonferenza e centro è dio, che è dappertutto e in nessun luogo.

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Come si vede, per Cusano è la natura relativa di ogni moto, come noi lo conosciamo, che impedisce a chi è sulla Terra di accorgersi che la Terra, in realtà, si muove.

Copernico sposta l'accento, sia pure di poco, dalla ‘logica’ del moto e dalla prospettiva visiva, alla fisica in senso proprio, richiedendo che la navigazione sia tranquilla. Ma il progresso compiuto da Bruno nella Cena, che pure cita “il divino Cusano” come suo predecessore (Cena, p. 91),

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è evidente quando prende in esame l'obiezione classica, derivata dal De caelo (II, 14) di Aristotele, per cui

sarebbe impossibile che una pietra gittata a l'alto potesse per medesima rettitudine perpendicolare tornare al basso; ma sarrebbe necessario che il velocissimo moto della terra se la lasciasse molto a dietro verso l'occidente.

Questa conseguenza non vale, risponde Bruno, ponendo immediatamente il parallelo tra il moto della Terra e quello di una nave, e facendo la necessaria distinzione tra i due sistemi di riferimento impliciti nell'argomento: essendo infatti il lancio della pietra

dentro la terra, è necessario che col moto di quella si venga a mutar ogni relazione di rettitudine ed obliquità: perché è differenza tra il moto della nave e moto di quelle cose che sono nella nave. Il che se non fusse vero, seguitarebbe che, quando la nave corre per il mare, giamai alcuno potrebbe trarre [= lanciare] per dritto qualche cosa da un canto di quella a l'altro, e non sarebbe possibile che un potesse far un salto e ritornare co' piè onde le [= li] tolse. [p. 116]

20

Analogamente se dalla cima dell'albero di una nave qualcuno getta verticalmente una pietra,

quella per la medesma linea ritornarà a basso, muovasi quantosivoglia la nave, pur che non faccia degl'inchini. [p. 117]

C'è qui lo stesso paragone della Terra con la nave che verrà utilizzato da Galilei in una celebre pagina del Dialogo, che presenta la più nota formulazione galileiana del principio di relatività. Si noti che Bruno non si fa sfuggire la condizione cruciale che il moto debba essere uniforme, appena accennata da Copernico, e che Galilei formulerà un po' più precisamente con l'espressione: “pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là” (Dialogo, p. 213). Bisogna però notare che Bruno insiste, con

18 La famosa comparazione (per la cui storia si può vedere DI, pp. 321-2, n. 2) è utilizzata anche da Bruno: “possiamo affermare che l’universo è tutto centro, o che il centro de l’universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella” (De la causa, p. 321). I curatori tedeschi dell’edizione del De docta ignorantia da me utilizzata rinviano, per un precedente impiego dell'esempio della nave, a Guglielmo da Conches, nel XII secolo (Wilpert, Senger 1994, vol. II, p. 133, n. 159). In realtà lo troviamo già in Lucrezio, in una lista di illusioni dei sensi (De rerum natura, IV, 387-90), e in Cicerone (Academica, II, 25).

Il primo manoscritto del De rerum natura fu scoperto nel 1417, la prima edizione a stampa apparve nel 1479; gli Academica erano noti già a Petrarca (Schmitt, Skinner 1988).

19 Il nome “Nolano” con cui Bruno amava farsi chiamare è chiaramente esemplato su “Cusano”.

20 “È Giordano Bruno che, in un senso quasi moderno, precisa il concetto di sistema meccanico

o di solido di riferimento” (Tonnelat 1971, p. 30).

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le stesse parole di Cusano, anche su un punto di vista più generale, quello secondo cui il moto - ogni moto - dovrebbe essere inteso solo in senso relativo:

come han notato gli antichi e moderni veri contemplatori della natura e come per esperienza ne [= ci] fa manifesto in mille maniere il senso, non possiamo apprendere il moto se non per certa comparazione e relazione a qualche cosa fissa: perché, tolto uno che non sappia che l'acqua corre e che non vegga le ripe, trovandosi in mezzo l'acqui entro una corrente nave, non arrebe [= avrebbe] senso del moto di quella. Da questo potrei entrare in dubio ed essere ambiguo di questa quiete e fissione; [...] [De l'infinito, p. 447]

C'è dunque un conflitto fra l'esistenza di precise condizioni empiriche che rendono il moto di un sistema non rivelabile dal suo interno, e l'esigenza logica di concepire il moto come essenzialmente relativo.

21

Le discussioni su questo difficile problema proseguiranno per secoli e, a mio parere, neanche oggi si può dire che siano arrivate a una soluzione del tutto soddisfacente.

22

6. Oltre Copernico: l'universo infinito. La visione del mondo di Bruno non si esaurisce però nella difesa del copernicanesimo. Copernico era rimasto cautamente al di qua di un vero e proprio discorso cosmologico, rinviando all'indagine dei fisici la questione della finitezza o infinità del mondo.

23

L'argomento fondamentale con cui Bruno argomenta a favore dell'infinità dell'universo è che è assurdo ammettere un

“primo efficiente”, come faceva la metafisica aristotelica, il quale sia infinito ma che non si esplichi attraverso un effetto infinito. E all'obiezione che non si vedrebbe perché la “maggiore e minore mole di dimensioni” sia un elemento atto a determinare l'azione divina, Filoteo, portavoce di Bruno nel dialogo De l'infinito, universo e mondi, replica che la “dignità” è non “della dimensione o della mole corporea”, ma “delle nature e specie corporee”,

perché incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l'eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti. Però [= perciò], bisogna che di un inaccesso volto divino sia un infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri. [p. 377]

Infatti,

perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? [...] perché deve essere frustrata la capacità infinita, defraudata la possibilità de infiniti mondi che possono essere, pregiudicata la eccellenza della divina imagine che deverebe più risplendere in uno specchio incontratto e secondo il suo modo di essere infinito, immenso? [p. 381]

Inoltre, dato che “è bene che questo mondo sia” (p. 374), è lecito chiedersi:

Qual raggione vuole che vogliamo credere, che l'agente che può fare un buono infinito, lo fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere ed il fare tutto uno? [p. 383]

21 La stessa oscillazione è rilevabile in Galileo (cfr. Dialogo, pp. 140-1).

22 Una raccolta di interventi che danno un'idea dello stato dell'arte è in Barbour, Pfister 1995.

23 “Sive igitur finitus sit mundus, sive infinitus, disputationi physiologorum dimittamus [...]”

(Copernico 1543, lib. I, cap. 8).

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Qui tocchiamo uno dei punti cruciali in cui la posizione di Bruno anticipa, senza alcun rischio di ‘anacronismo’, quella di Spinoza (1632-77), il quale però non lo citerà mai.

24

Ma la difesa della sua cosmologia involge Bruno in una articolata confutazione delle obiezioni aristoteliche contro l'infinità del mondo. Per esempio, contro la tesi dell'ottava sfera come confine del mondo, Bruno afferma che, ammessane l'esistenza:

Io credo ed intendo che oltre quella margine immaginata del cielo sempre sia eterea regione, e corpi mondani, astri, terre, soli; e tutti sensibili absolutamente secondo sé ed a quelli che vi sono o dentro o da presso, benché non sieno sensibili a noi per la lor lontananza. [p. 430]

Ma, in primo luogo, l'ottava sfera, se si abbandona la prospettiva geocentrica, è appunto solo “immaginata” - è un'illusione ottica, dovuta all'enorme distanza. In secondo luogo, il fatto che noi non possiamo vedere oltre una certa distanza non ha un particolare significato: i limiti dei nostri sensi non riescono a distinguere neanche quella parallasse stellare che pure, su basi teoriche, i copernicani devono ammettere; del resto Bruno ha già messo in chiaro, preliminarmente, che “l'infinito non può essere oggetto del senso” (p. 369).

Guardando alla questione con il senno di poi, ciò che colpisce nella posizione aristotelica è, paradossalmente, l'audacia concettuale di rifiutare la naturale obiezione alla finitezza dell'universo, già formulata dal pitagorico Archita di Taranto nel IV sec. a.

C., e poi ripresa da Lucrezio (I, 968-83): se l'universo è finito, che cosa succede se si va fino ai suoi confini e si lancia una freccia o si stende una mano? Dove va la freccia o la mano?

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Aristotele sventa questa possibile confutazione definendo il 'luogo' in modo che la domanda risulti priva di significato. Secondo la sua definizione (Physica IV, 212 a), infatti, il ‘luogo’ di qualcosa è “il termine [peras] di ciò che lo contiene”:

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è allora evidente che non può esserci un ‘dove’ al di là dell'ultima sfera. A ciò Bruno oppone innanzitutto una difficoltà logica: stando alla definizione aristotelica, l'ultima superficie sarebbe ‘luogo’ con il suo lato concavo (interno), ma non con il lato convesso (esterno);

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inoltre, anche se si accetta questa definizione di luogo, non si riesce a capire come ci possa essere una superficie che delimiti l'intero universo e che abbia al di fuori (letteralmente) nulla - il non essere. Naturalmente un aristotelico potrebbe replicare che il ‘nulla’ non è ‘al di fuori’, se non in un senso logico (il nulla come complementare insiemistico del tutto). Ma l'unico senso in cui Bruno riesce ad accettare il ‘nulla’ è di concepirlo come vuoto: “non possiamo fuggire il vacuo, se vogliamo ponere l'universo

24 È interessante che il padre Mersenne, che pure scrive un libro dedicato in gran parte a confutare Bruno (De l'impiété des déistes, athées et libertins du temps, del 1624), pochi anni dopo mostra di accettare l'argomento fondamentale di Bruno, pur dissimulando la sua approvazione: “Quanto a Giordano, sebbene si serva di fondamenti cattivi, nondimeno è abbastanza probabile che il mondo è infinito, se può esserlo. Infatti, perché volete che una causa infinita non abbia un effetto infinito? Una volta ho avuto altre dimostrazioni contro ciò, ma è facile dissolverle” (lettera del 10 aprile 1632, cit. in Ricci 1996, p. 32).

25 Il passo di Lucrezio è citato da Bruno nel De infinito, p. 348 e all'argomento risponde il

‘pedante’, l'aristotelico Burchio (p. 371).

26 Cfr. Bruno: “Aristotele ha definito il loco [...] come una superficie di continente corpo” (De l'infinito, p. 372).

27 Per Koyré [1957, p. 43] la critica di Bruno ad Aristotele è “erronea, naturalmente”; secondo

me, invece, è Koyré che travisa il testo di Bruno, a cui attribuisce “la convinzione del tutto

erronea che essendo questa 'superficie più interna' una concezione puramente matematica, essa

non può opporre resistenza al movimento di un corpo reale”. In realtà questa affermazione non si

trova affatto in Bruno (cfr. p. 373, che è probabilmente alla base dell'interpretazione di Koyré).

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finito” (p. 373), e da questo punto in poi il discorso procede in una direzione nettamente fisica. In particolare Bruno, per arivare alla sua dottrina degli infiniti mondi, assume il principio di omogeneità e isotropia: da qualunque punto e in qualunque direzione si osservi, l'universo ha lo stesso aspetto. Come scriverà nel De immenso:

Abbiamo detto spesso che nell'universo infinito, secondo la verità della cosa, il centro è ovunque: pertanto non importa se siamo qui o altrove, per vedere lo stesso aspetto delle cose intorno a noi: come la faccia di quegli astri a cui ci avviciniamo cresce, così anche diminuisce quella di questi da cui ci allontaniamo. [...] cosicché non c'è nell'universo un punto che, rispetto ad altri, non sia centro, polo, zenith, nadir, tropico, e qualsiasi altro di tal genere. [IV, p. 32]

È questo il principio fondamentale anche della moderna cosmologia relativistica, dove è usuale chiamarlo ‘principio copernicano’: ma, dato che né Copernico, né - come vedremo (§22) - il massimo astronomo copernicano, cioè Keplero, hanno mai sostenuto niente del genere, penso che un nome più giusto sarebbe principio bruniano.

Ora, è chiaro che la teoria aristotelica non è internamente contraddittoria, e che le argomentazioni bruniane contro di essa cercano solo di mostrarne la ‘stranezza’ - la difficoltà di immaginarla. Non c'è nulla di assurdo nel concepire l'universo come una sfera piena, o come una boccia aperta (cioè una sfera piena senza la superficie esterna).

In entrambi i casi, però, l'obiezione di Archita si può riproporre: che succede se, da una distanza di qualche braccio dalla frontiera del mondo, si scaglia una freccia verso di essa? Questa non è - di nuovo - un'obiezione logica, ma certamente pone una difficoltà tecnica: il cosmo aristotelico, infatti, è profondamente non omogeneo e non isotropo, e quindi è certamente giustificato chiedersi quali leggi fisiche valgono se ci si pone in un certo punto e si studia una certa direzione.

Per evitare di dover dare spiegazioni su questo punto, gli aristotelici avrebbero potuto cambiare la geometria del cosmo, e immaginare le proprie sfere bidimensionali come sezioni parallele di una ipersfera tridimensionale. In tal modo l'universo sarebbe stato finito, ma non limitato (cioè non avrebbe avuto ‘confini’), e tutti i suoi punti, e tutte le direzioni uscenti da un certo punto, sarebbero stati equivalenti. In effetti il concetto di ipersfera non era al di là dei mezzi concettuali degli aristotelici - prova ne sia che lo si trova adombrato in Dante Alighieri!

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Ma si tratta di un'anticipazione senza sviluppi, un tentativo, fatto da un poeta di eccezionale ingegno, di esprimere l'indicibile (l'avvicinamento a Dio). Curiosamente, per Bruno sarebbe stato possibile arrivare a una tale concezione sfruttando la cusaniana “coincidentia oppositorum” tra circonferenza di raggio infinito e retta, e cioè interpretando lo spazio ordinario come il caso limite di una ipersfera; ci sono nei testi bruniani formulazioni che sembrano sfiorare proprio questa idea.

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La possibilità concettuale di distinguere in maniera matematicamente rigorosa tra finitezza e limitatezza del mondo, e così di eludere l'argomento di Archita, si darà però solo dopo il 1854, anno in cui Bernhard Riemann lesse la sua celebre conferenza “Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria”: è in essa che, probabilmente per la prima volta, la possibilità di una geometria 3-dimensionale analoga a quella della sfera ordinaria fu chiaramente enunciata e discussa.

28 Nel canto xxviii del Paradiso. Per una discussione recente della questione vedi Egginton 1999.

29 Per esempio: “Di tutte le cose l’infinito è in massimo grado sferico, anzi, è di per sé la sfera per eccellenza [Infinitum maxime omnium est sphaericum, immo est per se ipsissima sphaera];

una superficie interminata è il più vero dei circoli, e d’altro canto il corpo interminato, che esista

(come crediamo) o che sia supposto, è necessariamente una sfera e accetta [suscipit] la vera

definizione di sfera” (Articuli, p. 22).

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7. Contro i matematici. Nell'opera di Bruno l'attenzione nei confronti della matematica è presente e viva, ma è molto diversa da quella di Galilei, che farà di questa disciplina l'organo della filosofia naturale: si tratta di un'attenzione al tempo stesso affascinata e fortemente critica. È senza dubbio notevole che le ultime opere scritte da Bruno prima dell'arresto siano di carattere geometrico (le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum).

Troviamo diagrammi geometrici un po' in tutte le opere di Bruno, anche là dove meno ce le aspetteremmo, come nello Spaccio (pp. 755-9), in cui è proposta una 'soluzione' del problema della quadratura del cerchio, ispirata a un analogo tentativo di Cusano. A Cusano, e alla sua dottrina della “coincidenza degli opposti” fa riferimento molta della

‘matematica’ bruniana, affascinata dall'identificazione tra circonferenza di raggio infinito e retta, boccia di raggio infinito e spazio, minima corda e minimo arco ecc. (cfr.

§6). Trovo le critiche di Bruno alla matematica del suo tempo – sulle quali i commentatori sono stati generalmente severi

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- più interessanti che i contributi con intenzioni ‘costruttive’: esse infatti mostrano la problematicità delle nozioni che i matematici stavano faticosamente eleborando e dell’applicazione di queste all’indagine fisica.

Uno dei temi che ispirano la sua ostilità è la trattazione aristotelica del continuo, di cui tratta nel Camoeracensis Acrotismus,

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del 1588. Bruno contesta che il continuo non sia composto di indivisibili, almeno da un punto di vista fisico. Nella sua discussione si scontra con difficoltà che lasceranno perplessi parecchi grandi matematici, fino alla seconda metà dell’Ottocento, circa la possibilità di confrontare gli insiemi infiniti: se un segmento e la sua metà sono entrambi divisibili all'infinito, come possono avere un diverso numero di parti? Eppure è evidente che il segmento doppio deve avere un numero doppio di parti. Si dovrà dire che il segmento minore è egualmente divisibile ma ha meno parti del maggiore? La soluzione bruniana è che

Esiste un qualche termine indivisibile alla divisione fisica [naturae dividenti], il quale non si divide in altre parti quando la divisione sarà arrivata ad esso; e se la ragione e la matematica, senza alcuna conseguenza pratica o uso, ma solo al fine di una vana contemplazione, volesse assumerlo infinitamente divisibile, faccia come crede. [...] Ed è necessario che un individuo aggiunto a un individuo faccia una somma maggiore, poiché gli individui sono corpi fisici, non vane specie dei matematici. [Acrotismus, p. 154]

Con la sua teoria del minimo,

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Bruno può affermare, negli Articuli del 1588, che “tutte le grandezze sono commensurabili”, e “la ragione del continuo segue necessariamente la ragione del discreto”. I geometri non si rendono conto delle assurdità in cui cadono quando affermano che il loro minimo (il punto) “è ciò che non ha parti”, perché con ciò essi stanno affermando “espressamente che la misura che essi riconoscono è nulla”. È chiaro che queste considerazioni bruniane mettono in evidenza diversi aspetti problematici della definizione del continuo e della misura associata ad esso. La conclusione a cui è arrivata la matematica odierna giustifica ampiamente la sensazione di paradossalità avvertita da Bruno: in breve, l'unico modo ‘ragionevole’ per far sì che i punti della retta reale abbiano misura nulla, senza che per questo anche la misura di

30 Vedi per es. Tocco 1889, p. 412.

31 Questo titolo curioso dovrebbe significare, pressappoco, “conferenza a[l collegio di]

Cambrai” (che si trovava a Parigi); cfr. Tocco 1889, p. 107.

32 Sviluppata in uno dei tre ‘poemi’ del 1591, il De Triplici Minimo et Mensura.

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qualsiasi sottinsieme della retta sia nulla, è di accettare che ci siano sottinsiemi non misurabili.

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Connessa alla questione del minimo è l’interpretazione del contatto tra corpi: che vuol dire che due corpi ‘si toccano’? Se significasse che hanno il punto di contatto in comune, allora essi formerebbero un singolo continuo, e non sarebbero più due; per evitare questa conclusione, Bruno propone che tra le due superfici tangenti ci sia in realtà uno spazio vuoto atomico.

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(Come in tanti altri casi, il lettore che volesse valutare questa proposta bruniana dovrebbe prima tentare di fornire una sua soluzione al problema!).

Bruno critica la geometria sferica, e anche la trigonometria del suo tempo, rea di misurare gli angoli con i segmenti, e quindi di utilizzare un'unità di misura disomogenea. Qui c'è sicuramente un fraintendimento degli scopi della trigonometria, ma è altresì chiaro che Bruno è travagliato da una insoddisfacente definizione di

‘misura’. In effetti, è vero che nessun segmento può ‘misurare’ una circonferenza, se ciò vuol dire che un segmento non è mai sovrapponibile a un arco di circonferenza;

mentre un arco di circonferenza può ‘misurare’ una circonferenza (dello stesso raggio!).

Ma come si farà a ‘misurare’ una figura curvilinea arbitraria? Bruno riteneva inaccettabile il dare misure approssimate,

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ed è chiaro che alla base di queste resistenze c’era la mancanza di una precisa nozione di limite (e in definitiva di numero reale). Si tratta di problemi che resteranno fonte di confusione per secoli; nel 1710 Leibniz potrà parlare del continuo come di uno dei “due labirinti famosi in cui la nostra ragione molto spesso si perde”.

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Vale infine la pena di ricordare che la misura degli angoli pone problemi peculiari, e non è facile ancor oggi presentarla con la dovuta precisione nell’insegnamento elementare (una funzione di misura degli angoli, nel senso in cui esiste per i segmenti, non è definibile).

Sul piano dei rapporti tra matematica e fisica è infine notevole l'insistenza di Bruno circa l'impossibilità che una forma si realizzi perfettamente nella materia; così una sfera perfetta non può esistere, ma non può esistere neanche una sfera ‘imperfetta’, se nondimeno la sua forma è intesa nel senso geometrico ideale; tale dottrina deriva dai

“platonici”, i quali sostennero, “non del tutto male”, che “nessuna forma è veramente nella materia, [...] né il vero uomo, né il vero cavallo”. Pertanto

Il geometra da nessuna parte troverà il vero punto e la vera linea, anzi (se è saggio), non crederà nemmeno che esistano, a meno che non li definisca diversamente da come lo sono comunemente. [De immenso, III, p. 362]

Allo stesso modo, “la sfericità che conviene agli astri non è esatta geometricamente, o a regola di matematica, ma secondo le differenze convenienti ai corpi fisici” (Acrotismus, p. 168). Come si vede, se Bruno qui accentua il divario tra matematica e mondo fisico, d’altro canto concede alla matematica una sua autonomia, seppure di basso profilo filosofico (cfr. la “vana contemplazione”). Questa concezione si può contrapporre a quella galileiana, secondo cui il contrasto tra l’‘astrattezza’ della matematica e il

33 Precisazione tecnica: questo è vero sotto l'ipotesi che la funzione di misura sia numerabilmente additiva (e della validità dell'assioma della scelta). Se ci si limita a richiedere la finita additività, allora si può misurare ogni sottinsieme della retta, ma la funzione di misura non è unica (teoremi di Vitali, Ulam, Tarski ecc.).

34 Bruno cita Democrito a suo supporto (cfr. Tocco 1889, pp. 155-7).

35 Cfr. Articuli, p. 22. Ma su questo punto Bruno oscilla (cfr. Tocco 1889, p. 164).

36 Essais de Théodicée, “Préface”.

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‘concreto’ della materia può essere interamente ricomposto, senza residui, dallo scienziato sagace: basterà che “difalchi gli impedimenti della materia”.

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8. La falsa antichità di Ermete Trismegisto. A questo punto ci proponiamo di discutere una questione a cui si accennava all'inizio (§1). Secondo la citazione ivi data (in nota), Yates affermò che Bruno aveva “interpreta[to] il diagramma copernicano come un geroglifico di misteri divini”, e così aveva “spin[to] indietro l'opera scientifica di Copernico”. Bruno sarebbe stato affascinato, come del resto molti altri pensatori del Rinascimento, dal ruolo svolto dal culto solare nei misteriosi testi del Corpus Hermeticum. Uno di questi, forse il più famoso, l'Asclepius, era circolato in traduzione latina (la sola versione, peraltro, che ci è pervenuta), durante il Medio Evo. Altri trattati, di temi e forma diversi, largamente incoerenti gli uni con gli altri, erano stati tradotti da Marsilio Ficino nel 1463-4 e interpretati come la testimonianza di un'antichissima sapienza religiosa egiziana, contemporanea a, se non addirittura precedente, quella ebraica del Pentateuco; e come la paternità di questi libri della Bibbia era attribuita a Mosè, così l'autore del Corpus fu identificato nel sapiente egiziano Ermete Trismegisto,

“contemporaneo di Mosè”.

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Bruno, secondo la Yates, si sarebbe creduto l'erede di quella ipotetica antichissima tradizione, dotata di una forte componente magica, e avrebbe accolto il copernicanesimo come simbolo del suo ritorno. Ne segue che si sarebbero sbagliati di grosso gli studiosi che avevano collegato l'adesione al copernicanesimo alla sia pure imperfetta intuizione, da parte di Bruno, della sua verità scientifica. Per giunta, lo statuto privilegiato attribuito ai trattati ermetici si fondava su un equivoco: lungi dall'appartenere a un'antichità così remota, essi risalivano a tempi ben più recenti. La straordinaria sintonia con alcuni elementi della filosofia pitagorica, platonica e cristiana era semplicemente da attribuirsi alla loro provenienza da ambienti culturali neoplatonici e gnostici! Questa scoperta fu merito dell'erudito olandese Isaac Casaubon, che la pubblicò nel 1614: troppo tardi perché Bruno potesse trarne profitto - ammesso che ciò fosse quanto egli sarebbe stato pronto a fare se ne fosse venuto a conoscenza.

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Insomma: da un banale errore di datazione

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avrebbe preso le mosse un movimento di pensiero gravido di conseguenze per la storia culturale europea, e di cui Bruno fu il rappresentante più insigne.

Alla luce di quanto abbiamo detto nelle sezioni precedenti, che cosa si può dire di questa suggestiva e straordinariamente fortunata ricostruzione? Pur non volendone negare il fascino e anche, fino a un certo punto, la pertinenza, a me pare nel complesso insoddisfacente.

37 “ Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Sì come a voler che i calcoli tornino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, così, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell'astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti” (Dialogo, p. 234).

38 Come recita l'iscrizione in margine alla tarsia marmorea raffigurante “Hermes Mercurius Trimegistus” (sic), che si trova sul pavimento del duomo di Siena, e che risale a (circa) il 1482.

39 Yates 1964, cap. XXI. La Yates, che descrive Bruno come tanto convinto del proprio ruolo di messìa ermetico da sfiorare la follia (p. 339), immagina appunto che egli avrebbe probabilmente sottovalutato, come fece Campanella, la scoperta di Casaubon (p. 402).

40 La ‘banalità’ consiste nel fatto che le tecniche di critica testuale impiegate da Casaubon erano

ben note alla filologia umanistica (Yates 1964, pp. 401-2).

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In primo luogo, come abbiamo visto, la difesa del copernicanesimo operata da Bruno nella Cena, e ancor più nel De l'infinito, nell’Acrotismus e nel De immenso, non si riduce certo alla dimostrazione della sua armonia con un certo credo più o meno religioso. Bruno affronta le possibili obiezioni astronomiche e fisiche cercando di provarne l'erroneità, e in ciò mostra intuizione e vigore, nonostante qualche, anche considerevole, abbaglio. D'altra parte, l'andare oltre Copernico, con la concezione di un universo infinito costellato di infiniti mondi, non poteva essere fondato empiricamente:

non poteva e non lo può neanche oggi. Anche la cosmologia contemporanea dipende, ineludibilmente, dalla posizione preliminare di principii generali, i quali si possono argomentare solo su basi filosofiche (cfr. §22).

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In secondo luogo, è chiaro che la sola evidenza disponibile a favore dell'ipotesi copernicana, nel 1584, era di natura negativa: cioè la sua capacità di opporre ragionevoli controargomentazioni alle difficoltà avanzate dagli aristotelici. Anche Galilei non riuscirà a dare una soddisfacente dimostrazione dei moti della Terra. È solo all'inizio del Settecento - bisogna ricordarlo - che, con l'effetto dell'aberrazione stellare scoperto da Bradley nel 1727, si ha la prima vera conferma empirica della tesi copernicana (o più precisamente del moto orbitale della Terra: cioè che la Terra ha una velocità di traslazione non nulla rispetto alle stelle fisse).

Infine, non è neppure tanto chiaro che Casaubon avesse ragione nel dedurre, dagli anacronismi (di contenuto e di stile) presenti negli Hermetica, che essi, e in particolare l'Asclepius, non potessero tramandare elementi genuini dell'antica religione egiziana!

Che il mitico Ermete Trismegisto non ne fosse l'autore poco o nulla autorizzava a concludere su questo punto, di gran lunga il più importante.

42

In realtà era la divinizzazione della natura e il culto solare che Bruno aveva ritenuto i capisaldi della religione egiziana, e su ciò è plausibile che gli Hermetica non lo trassero in inganno.

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9. Chi è amico dell'antichità? La questione cruciale è però un'altra: è vero che Bruno avrebbe ritenuto l'antichità di una certa filosofia come una misura della sua validità?

Chiaramente la tesi della Yates si fonda in buona parte proprio sul presupposto che a questa domanda si possa dare una risposta positiva: infatti, in caso contrario, la supposta antichità degli Hermetica avrebbe al più avvalorato, ma non certo potuto fondare, l'adesione a tesi filosofiche ‘ermetiche’, come quella sulla mobilità della Terra.

Ora, per rispondere a questa domanda non occorre andare troppo lontano. In effetti, abbiamo già visto che nella Cena Bruno considera Copernico come il nunzio del ritorno del “sole de l'antiqua vera filosofia” (p. 29), e qui il qualificativo “vera” è già di per sé una preziosa indicazione. Ma poche pagine dopo troviamo una dichiarazione molto più

41 O ‘ideologiche’, come hanno scritto due noti esperti dell'argomento: “[...] non siamo capaci di costruire modelli cosmologici senza qualche mescolanza di ideologia” (Hawking, Ellis 1973, p.

134).

42 Questa fu appunto, nel 1678, la posizione di Ralph Cudworth, fra i principali “platonici di Cambridge” (Yates 1964, pp. 430-1), sposata da Bernal 1991, p. 162, ai cui capp. II e III rinvio per un'affascinante sintesi del destino della “sapienza egizia” dal Rinascimento al XVIII secolo.

43 “È chiaro che il Corpus [Hermeticum] contiene materiale scritto durante un lungo periodo, dal VI sec. a. C. al II sec. d. C. Malgrado la sua relativa tardità, è estremamente [overwhelmingly]

probabile che il Corpus contenga parecchi concetti religiosi e filosofici che sono molto più

antichi e che sia fondamentalmente egiziano. Le influenze iraniane e caldee sono state

menzionate sopra. Ci sono anche indubbie influenze greche, almeno nei testi più tardi. Credo,

comunque, che queste siano difficili da mettere in luce perché la filosofia greca pitagorica e

platonica era così pesantemente dipendente dalla religione e pensiero egiziani” (Bernal 1991,

pp. 144-5).

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esplicita in uno dei passi più celebri dell'intera opera bruniana, quando il pedante, Prudenzio, afferma di non volersi allontanare “dal parer de gli antichi, perché, dice il saggio, nell'antiquità è la sapienza”. A ciò Teofilo/Bruno replica:

E soggionge: in molti anni la prudenza. Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che dal vostro fondamento s'inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori: intendo, per quel che appartiene in certi giudizii, come in proposito. [p. 39]

E dopo una lista di astronomi (Eudosso, Calippo, Ipparco, Menelao, Albategno, e infine Copernico), ognuno dei quali avrebbe tratto profitto dall'esperienza dei predecessori, soggiunge, memorabilmente:

ma che di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati più accorti, che quei che furon prima, e che la moltitudine di que' che sono a nostri tempi, non ha però più sale, questo accade per ciò che quelli non vissero, e questi non vivono gli anni altrui, e, quel che è peggio, vissero morti questi e quelli negli anni proprii. [p. 41]

Tuttavia Prudenzio non si arrende e insiste di essere “amico de l'antiquità”; allora Teofilo ridicolizza la sua posizione come segue:

Bene, maestro Prudenzio; si questa volgare e vostra opinione per tanto è vera in quanto che è antica, certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello,

44

fu quella dei caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da' quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità, quanto alieni da la verità. Poniamo dunque da canto la raggione de l'antico e novo, atteso che non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova, come notò il vostro Aristotele.

[p. 41]

E dopo un'interruzione Teofilo prosegue dichiarando che “tanto è aver riguardo alle filosofie per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte” (p.

43): ciò che conta è se siamo nel giorno o nelle tenebre, il che si può giudicare “a la grossa da' frutti de l'una e l'altra specie di contemplazione”; quanto a questo, basta notare che i sostenitori della dottrina a cui si rifà Bruno erano

nel viver temperati, ne la medicina esperti, ne la contemplazione giudiziosi, ne la divinazione singolari, ne la magia miracolosi, ne le superstizioni providi, ne le leggi osservanti, ne la moralità irreprensibili, ne la teologia divini, in tutti gli effetti eroici; come ne mostrano lor prolungate vite, i meno infermi corpi, l'invenzioni altissime, le adempite pronosticazioni, le sustanze per lor opra trasformate, il convitto pacifico de que' popoli, gli lor sacramenti inviolabili, l'essecuzione giustissime, la familiarità de buone e protettrici intelligenze ed i vestigii, ch'ancora durano, de lor maravigliose prodezze. [p. 44]

In altre parole, è chiaro che per Bruno l'aspetto più qualificante della dottrina di cui aveva assunto l'eredità era la sua efficacia spirituale e operativa: e ciò aveva ben poco a che fare vuoi con la sua antichità, vuoi con l'esatta datazione delle opere che ne conservavano il ricordo. Naturalmente è vero, come risulta dall'ultima citazione, che Bruno credeva nelle testimonianze storiche sull'efficacia, e sperava di poter riprodurre le “maravigliose prodezze” di quegli adepti; a tale proposito anche solo l'ultima citazione mostra che il suo autore credeva nell'efficacia della magia. Ma prima di

44 Cioè quella aristotelica.

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