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Valerio Cetraro MEGHINZIA

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Academic year: 2022

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Meghinzia

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Valerio Cetraro

MEGHINZIA

Racconto

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Copyright © 2012 Valerio Cetraro Tutti i diritti riservati

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“A mia madre e a mio fratello”.

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Il regno di Meghinzia è molto piccolo. È talmente pic- colo che potrebbe persino smarrirsi dentro ad un gra- nello di sabbia. Invisibile ai nostri occhi, deve però apparire immenso alla vista di chi lo abita; sì, perché si adorna di magnifici palazzi d’oro, di mari, monti e deserti che non possono essere contenuti in uno spa- zio ridotto. Minuscolo e sconfinato allo stesso tempo, molti uomini e donne, alla ricerca di luoghi incantati, l’hanno ammirato. E sapete qual è il bello? Tutti l’hanno descritto in maniera diversa.

Sulla sua nascita fioccano le leggende. Una di que- ste narra che lo splendore di Meghinzia sbocciò

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dall’incontro fra un raggio di sole e una foglia secca: il raggio riscaldò così forte la foglia che in un baleno s’infiammò, e da una scintilla fiorì in breve il meravi- glioso regno. Un’altra invece racconta di un gigante che pianse a dirotto: da una lacrima caduta al suolo prima ebbe origine la sua capitale, Città di Luce, e di seguito, pian pianino, si formarono le restanti terre.

Vi è poi una terza leggenda che parla di un bambi- no, più precisamente di un principe. Ma la sua storia è troppo lunga per sintetizzarla in poche righe. Con- verrà quindi narrarla perché merita di essere narrata.

Di otto anni, sebbene per l’imponenza ne dimo- strasse di più, questo bambino viveva nel suo regno coi propri genitori. Assai sgarbato, non si curava dei sentimenti altrui, neanche di quelli del papà o della mamma. Tutti uguali, tutti suoi servi.

Il re e la regina, sin da quando era venuto al mon-

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do, gli avevano concesso qualsiasi privilegio, perfino quello di attribuirsi un nome. Tuttavia il neonato dis- sentiva sempre allorché papà e mamma gliene propo- nevano uno. Pertanto, non avendo un nome, a lui ci si riferiva semplicemente come “Principino”.

Abituato ad averla vinta in continuazione, ormai governava lui al posto del re. E impartiva ordini a non finire! Diceva sovente:

– Prendimi questo…

– Prendimi quello…

– Vieni qua…

– Vai di là…

E nessuno pareva poterlo accontentare dato che, agli ordini stabiliti, aggiungeva qualche immancabile lamento:

– Ah, questo non va bene.

– Sono circondato da incompetenti!

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– Uffa! Ma è mai possibile che nessuno sia capace di esaudirmi?

Superbo e incontrollabile, anche i genitori erano in balia del figlio. Non riuscivano a rispondergli con un secco:

– No!

E non sia mai che si permettessero di contraddirlo o di arrossirgli le guance con una carezza un po’ più forte. No, non sia mai che ciò accadesse, altrimenti il bambino scoppiava in un pianto lungo e fastidioso:

così lungo da allagare l’intero castello e così fastidioso da far diventare sordo chiunque.

Ogni volta che usciva dalla residenza reale preten- deva che gli venissero offerti doni a volontà dai suoi sudditi, i quali, pur di non udire i pianti del capriccio- so monello, s’indebitavano fino all’osso del collo.

– Il principino! – bisbigliava all’orecchio del vicino

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chi per primo lo vedeva.

– È arrivato il principino: orsù, preparate i doni! – ordinava il capofamiglia.

L’erede al trono passava in rassegna tutte le genti coi propri omaggi. La sua stanza era piena di cose i- nutilizzate, di regali che erano stati tolti ad altri bim- bi, solo perché desiderava essere rispettato.

Affermava sempre:

– Mio padre, il re, chiede tributi; io, invece, ai miei servi chiedo regali.

Spesso invidiava quegli stessi bimbi cui egli sottra- eva i giochi: assieme ad altri coetanei, essi continua- vano a divertirsi, mentre lui, nonostante i giochi e le premure ricevute, non aveva nessuno col quale condi- videre i soleggiati pomeriggi d’estate o le fredde serate d’inverno. Non si riteneva tanto fortunato come gli al- tri credevano.

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– È il figlio del re! – dicevano tutti. – Chissà quante cose potrà avere. Cose che neppure noi immaginiamo.

Dentro ad un corpicino arrogante c’era tanta tri- stezza e solitudine. Per questo si comportava in modo dispotico: era geloso degli altri fanciulli del regno che vivevano spensierati e felici.

Nel silenzio della notte tutto taceva, perfino l’irrequieto animo del monello. Prima di addormen- tarsi osservava la luna: si sedeva davanti alla finestra e, con i suoi piccoli occhietti, la scrutava per moltis- simo tempo. Com’era bello stare seduti a guardare la luna! Gli sembrava un sole nella notte.

– Ma può essere che questo sole sia anche abitato?

– si domandava. E pensando alla luna e al firmamen- to, poi si appisolava lentamente per svegliarsi subito dopo e coricarsi nel comodo lettino.

Come al solito una sera contemplava le stelle,

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