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«Come il mondo vero finì col diventare favola»

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Academic year: 2022

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«Come il “mondo vero” finì col diventare favola»

Compreso nel Crepuscolo degli idoli (1888), questo breve testo riassume per tappe l’intera storia della metafisica occidentale, da Platone al «nuovo inizio» rappresentato dallo Zarathustra. È intitolato Storia di un errore: la svalutazione del mondo reale.

Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, – egli vive in esso, lui stesso è questo

mondo.

(La forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”

)1

.

Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso (“al peccatore che fa penitenza”).

(Progresso dell’idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna

2

, si cristianizza...)

Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(In fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l’idea sublimata, pallida, nordica, königsbergica).

3

Il mondo vero – inattingibile? Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che si potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo)

4

.

“Il mondo vero” – una idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un’idea divenuta inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola!

(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens

5

e della serenità; Platone rosso di vergogna;

baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? ... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!

(Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità;

INCIPIT ZARATHUSTRA.)

[F. Nietzsche, Götzendämmerung, oder Wie man mit dem Hammer philosophiert (1888); trad. it. di F. Masini, Crepuscolo degli idoli, in Opere di F. Nietzsche, cit., vol. VI, t. 3, pp. 75-76]

1. Negli ultimi scritti di Nietzsche si fanno più violenti gli attacchi a Socrate e a Platone. È di quest’ultimo, «fanatico della verità», la colpa del «peggiore e più ostinato e pericoloso di tutti gli errori»: l’«invenzione del puro spirito e del bene in sé».

2. Nietzsche non è certo un femminista. Nei suoi scritti, “femminile” è per lo più l’opposto di “virile”, “vigoroso”, “profondo”,

“vitale”.

3. Ovvio riferimento a Kant (nato a Königsberg) e al suo idealismo trascendentale.

4. Nella scienza positivistica Nietzsche vede un primo inizio della critica all’idealismo: il mondo in sé, dicono gli scienziati, è inconoscibile, quindi non può essere oggetto della scienza, che si limita ai fenomeni.

5. “Buon senso”, “senso comune”, in francese

Pagine tratte da: A. La Vergata – F. Trabattoni, Filosofia cultura cittadinanza vol. 3, La Nuova Italia, Milano 2011, pp. 269-275

Il superuomo

Nietzsche considerava Così parlò Zarathustra la sua opera più importante: «Donandolo all’umanità - scrisse - le ho fatto il più grande regalo che abbia mai avuto». Pubblicata tra il 1883 e il 1885 in quattro parti, scritte in brevissimo tempo rielaborando materiali frutto di una lunga incubazione, è l’opera nicciana più ambiziosa ed enigmatica. Lo stile è diverso dagli altri scritti: non aforismi o brevi saggi, come nelle opere precedenti e successive, ma un susseguirsi di apologhi e parabole che costituiscono nel loro insieme quasi un lungo poema in prosa, in un linguaggio profetico, metaforico, simbolico, visionario. Vi si annuncia un nuovo inizio della storia: la «filosofia del mattino» e l’«aurora»› di cui

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Nietzsche parlava negli scritti precedenti hanno raggiunto la pienezza del «meriggio», l`«apogeo dell’umanità»; ma la sua luce «è un bagliore che acceca», e costante è il rischio del fraintendimento. È, come dice il sottotitolo, «un libro per tutti e per nessuno».

Zarathustra (o Zoroastro) è un personaggio effettivamente esistito, anche se avvolto nel mito: saggio principe persiano, fu il fondatore dello zoroastrismo (o mazdeismo), la religione che dominò la Persia dal VI secolo a.C. alla conquista araba. Secondo una leggenda, nacque ridendo: la persona più adatta per riprendere il messaggio di Dioniso («dire di sì alla vita›› e amare il proprio destino) e portarlo oltre. In realtà lo Zarathustra di Nietzsche ha in comune con quello storico solo il nome. E’ un saggio che, stanco del possesso solitario della saggezza, lascia il suo rifugio in montagna dove è vissuto dieci anni, per portarla in dono agli uomini («io amo gli uomini››). Giunto in città, annuncia: «Io vi insegno il superuomo».

Il termine «superuomo» (Übermensch) è diventato così popolare, anche per coloro che non si occupano di filosofia, che il pensiero di Nietzsche è quasi identificato con questa idea. Eppure proprio la sua fortuna ne ha favorito interpretazioni semplicistiche. Comunemente, la parola può far venire in mente tre cose: un individuo eccezionale, dotato di poteri straordinari; oppure il rappresentante di una nuova specie o razza di uomini; oppure un uomo superiore a tutti gli altri, un uomo più uomo, in cui sono potenziate al massimo le caratteristiche già presenti nelle persone normali. Nulla di tutto questo. ll superuomo di Nietzsche è il risultato della trasformazione e del superamento delle energie, degli impulsi e delle passioni dell’uomo attuale. Del resto, la preposizione tedesca über ha in sè il senso del “passare oltre": per questo è stata proposta e si è diflusa nella nostra lingua anche la traduzione

“oltreuomo”.

Dice infatti Zarathustra: «L’uomo è qualcosa che deve essere superato»; «L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo - un cavo al di sopra dell’abisso». All'uomo attuale si offre la possibilità decisiva di «transizione e tramonto» in vista di un nuovo inizio e di una più alta realizzazione. Dice Zarathustra:

«lo amo coloro che non sanno vivere se non per tramontare, perché sono coloro che passano dall’altra parte».

Che cosa sia il superuomo, si capisce meglio dal confronto con quello che Zarathustra chiama l`«ultimo uomo». Si tratta della forma estrema della vecchia umanità, «l`uomo più disprezzabile, quello che non sa più disprezzarsi» (cioè che non sente i propri limiti e quindi nemmeno la necessità di superarsi). E’

l’uomo della società di massa, conformista, livellata, mediocre, schiava del benessere, della convenienza e del conformismo, e proprio per questo con la coscienza in pace: «Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuole la stessa cosa, è uguale: chi sente in modo diverso, entra spontaneamente in manicomio». Questo tipo di uomo non è più capace di raccogliere la sfida della creazione. Dice Zarathustra: «Si deve avere ancora del caos dentro di sè per poter generare una stella che danza...

Ahimè! Si avvicina il tempo in cui l`uomo non genererà più stelle». L'ultimo uomo, con il «proprio piacerucolo per il giorno e il proprio piacerucolo per la notte», minaccia di dominare il mondo, «la sua razza è inestinguibile come quella della pulce di terra; l'ultimo uomo vive più a lungo di tutti».

Se la società moderna tende ad appiattire gli uomini nel «gregge», le nature superiori possono affermarsi solo se si distaccano dalla massa e percorrono un cammino tutto loro: un’ascesa verso esiti superiori, nella ricerca di una vita più vera e alta, attraverso l’autodisciplina, l’autonomia, l'«autosuperamento». Questo è l’ideale incarnato nel superuomo.

La possibilità di superarsi è preclusa a chi è prigioniero delle «menzogne dell’ideale» e dei valori assoluti (Dio, il bene, la verità ecc.). L’ultimo uomo fa di se stesso il proprio idolo; il superuomo non ha idoli, né vi sostituisce il culto di se stesso; egli va talmente oltre tutto che sa «dimenticare anche se stesso»: «Io - dice Zarathustra - amo colui che ha l’anima così traboccante da dimenticare se stesso e tutte le cose che sono in lui: tutte le cose diventano così il suo tramonto».

Coloro che si rifugiano in un mondo al di là del presente sono i «nemici della vita», i «predicatori di morte››. Il superuomo non cerca altra pienezza o verità che non sia quella di questa vita su questa terra. La sua «fedeltà alla terra», il suo «sì alla vita» è totale: abbraccia non solo tutto ciò che è, ma anche tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. ll passato grava sugli uomini, li asservisce, determina frustrazione e impotenza.

Bisogna liberarsene. Come? Non dicendo “voglio qualcosa di diverso”: questo sarebbe ancora un conservare il passato dentro di noi, come un modello negativo col quale confrontare le novità; sarebbe quindi un modo di rimanervi legati, non di liberarsene. Il consiglio di Zarathustra è paradossale:

bisogna affermare il passato, «dire di sì al passato» come abbiamo detto di sì alla vita. Solo quando

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avremo accettato tutto il passato ne saremo liberati. Zarathustra esprime questa idea in parole a prima vista oscure: bisogna trasformare l’«è stato» (cioè il passato) in «così ho voluto, così voglio, così vorrò». Per comprendere meglio questo punto dobbiamo affrontare la dottrina più enigmatica e difficile di Nietzsche: l”«eterno ritorno».

L’eterno ritorno

Come abbiamo già detto, per Nietzsche la realtà non e né buona né cattiva: è, e basta. Non esistono criteri per valutarla dall’esterno, come se non ne facessimo parte, è assurdo giudicarla moralmente. I criteri morali sono invenzioni umane, alle quali in natura non corrisponde nulla. La realtà è puro processo; non ha un senso, uno scopo, una direzione, un ordine, un alto e un basso, un centro e una periferia: non va verso la pace, la giustizia, l’altruismo, la resurrezione della carne e tutti i miti e gli ideali che gli uomini hanno inventato per rinviare di vivere o per illudersi di vivere. Ogni evento e necessario, perché tutto è connesso con tutto il resto; ogni evento vale in sé quanto gli altri. È questa la dottrina che Nietzsche chiama dell'«innocenza del divenire», cioè della non valutabilità morale della realtà. Solo gli spiriti grandi e forti sono in grado di comprenderla e accettarla fino in fondo, sopportandone il «peso tremendo». Ma “sopportare” non vuol dire affatto rassegnarsi, rinunciare ad agire, annullarsi. Vuol dire invece sfidare la realtà, obbedire ai propri istinti vitali, senza appellarsi a istanze illusorie, a ideali religiosi, a valutazioni morali, a consolazioni. Le nostre azioni possono darci gioia o dolore: in tutti i casi dobbiamo accettare l’esito senza sentirci premiati da Dio o dalla storia, o perseguitati dal destino, o vittime di un'ingiustizia. La realtà non ha colpe, e nemmeno noi (al contrario di quanto vogliono far credere coloro che deformano la realtà, sovrapponendole un’interpretazione morale). Nel confronto con la realtà siamo soli con noi stessi.

Per sapere se si è in grado di accettare fino in fondo l’innocenza del divenire basta porsi alcune semplici, decisive domande: sei pronto ad accettare, ora e subito, di rivivere la tua vita esattamente come l’hai vissuta? Ad accettare che il mondo ricominci daccapo lo stesso cammino, che tutti gli eventi si ripetano uguali, in eterno? Sei disposto a dire di sì a tutto ciò che è, come se fosse eterno? Se hai dubbi nel rispondere di sì vuol dire che nella tua vita non sei stato pienamente te stesso, che speri di avere altre occasioni se le cose cambiano, o, peggio, che ti illudi che il futuro, spontaneamente, ti porti quello che non hai saputo conquistare. Ma la speranza nel futuro non è vivere, è rinviare di vivere. La speranza è la peggiore nemica della vita. Bisogna «vivere in modo da poter desiderare di vivere questa stessa vita in ripetizione eterna». ll pensiero dell’«eterno ritorno dell’uguale›› costituisce una sorta di criterio in base al quale ogni uomo può commisurare la propria avvenuta metamorfosi di avvicinamento al superuomo.

Un criterio al quale lo stesso Nietzsche pare essersi sottoposto, in uno dei tanti momenti di solitudine e di sofferenza della sua vita, come testimonia un frammento del dicembre del 1882: «Io non voglio la vita di nuovo. Come ho potuto sopportarla? Producendo. Che cosa fa sì che io ne sopporti la vista? la visione del superuomo, il quale dice di sì alla vita. Anch’io ho tentato - ahimè! »

L’eterno ritorno, scrive Nietzsche, è un «pensiero abissale». Trova espressione in un aforisma della Gaia scienza e poi nello Zarathustra, di cui viene presentato come la «concezione fondamentale».

Ma l'ipotesi che il mondo ricominciasse daccapo per ripetersi esattamente uguale non era per Nietzsche solo un esperimento mentale, una sorta di test psicologico per scoprire se si ha la stoffa per iniziare il cammino verso il superuomo. Gli sembrava una credibile ipotesi filosofica e scientifica:

enunciata già nell'antichità (in particolare dagli stoici), l’idea di un tempo ciclico universale trovava ai suoi occhi conferma negli sviluppi recenti della fisica e della cosmologia. Non pochi filosofi, scienziati e letterati s’interrogavano sulle implicazioni dei principi della termodinamica e sulla possibilità della morte dell’universo per raffreddamento. Secondo Nietzsche, il principio di conservazione dell’energia implicava che il ciclo delle trasformazioni potesse ricominciare daccapo. I tentativi di Nietzsche di dare valore scientifico a questa ipotesi sono molto complicati e forse lasciano il tempo che trovano, ma le implicazioni filosofiche dell’idea sono importantissime. Vediamole.

La concezione di un tempo che ritorna eternamente su se stesso si contrappone a quella comunemente accettata, che è lineare, in quanto dispone il tempo secondo l’asse passato-presente-futuro.

Quest’ultima è la concezione ammessa implicitamente dagli storici quando spiegano gli eventi con quelli che li hanno preceduti; ma è soprattutto la concezione cristiana, che assegna al mondo e al

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tempo un inizio (la creazione), una fine (la fine del mondo) e un fine (la redenzione e la vita futura).

Nella visione cristiana l’intera vita presente acquista senso solo come preparazione alla “vita che verrà”. Il rifiuto della concezione lineare del tempo fa tutt’uno con l’idea nicciana che la vita debba invece essere vissuta qui e ora, non soffocata nell’attesa del futuro o nel rimpianto del passato.

Possiamo tornare ora alla dottrina del superuomo. Essa è inscindibile da quella dell’eterno ritorno.

Solo il superuomo, infatti, è capace di abbracciarla fino in fondo. Non solo non prova nessuno «spirito di vendetta» nei confronti della vita, ma dice di sì alla totalità della vita: non solo sì alla vita qui e ora, ma eternamente sì al qui e ora che eternamente ritorna. Ama la vita come se fosse ciò che lui ha sempre voluto. Il suo “sì” è dunque «amore per il fato» (amor fati): «La mia formula per la grandezza dell’uomo - scrive Nietzsche in Ecce homo - è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario ma amarlo...». Così facendo, il superuomo va oltre la stessa temporalità, si redime dal tempo: «Redimere i passati e trasformare il “così fu” in un “così volli che fosse” - questa sola per me si chiamerebbe redenzione!” ». L’amor fati del super-uomo, dunque, non è affatto rassegnazione, ma un «fatalismo gioioso e fiducioso»: liberazione e sorriso, identificazione attiva con la totalità del divenire, apertura totale.

E’ l’espressione più alta della «volontà di potenza» che è l’essenza della vita, e della quale dobbiamo ora occuparci.

La volontà di potenza

Come quello di super-uomo, anche il concetto di «volontà di potenza» (Wille zur Macht) è complesso e difficile da comprendere, ed è stato frainteso e strumentalizzato. Viene introdotto nello Zarathustra e diventa sempre più importante nelle opere successive. Volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori era il titolo scelto da Nietzsche per l’opera mai compiuta (a un certo punto rinunciò al progetto). I molti frammenti preparatori furono pubblicati insieme con altri sotto questo titolo dalla sorella Elizabeth nel 1906, in una edizione di cui molti studiosi successivi hanno sottolineato l’arbitrarietà. Alcuni hanno attribuito a questa edizione la responsabilità dei fraintendimenti c delle strumentalizzazioni di cui è stato oggetto il pensiero di Nietzsche, soprattutto nel periodo nazista. È vero che Elizabeth manipolò molti brani, ma rimane il fatto che quei frammenti e abbozzi di aforismi li aveva scritti il fratello, non lei. Ma lasciamo le polemiche, che fanno tuttora versare fiumi d'inchiostro, e vediamo che cosa intende Nietzsche con “volontà di potenza”.

Diciamo subito che il termine “volontà” (Wille) può ingannare. Fa pensare infatti a una scelta, a una decisione, a uno scopo consapevole, o alla facoltà della volizione (ma Nietzsche, ricordiamolo, non credeva nel libero arbitrio). Invece, come in Schopenhauer, indica tutt’altro: un impulso originario e fondamentale che non ha nulla di razionale, È presente in ogni forma di vita, anche nelle più elementari, e sta alla base di tutte le attività vitali, anche delle più spirituali. Dice Zarathustra: «Dove troverai essere vivente, la troverai volontà di potenza». Rispetto alla Volontà di Schopenhauer c’è però una differenza fondamentale: la volontà di potenza non deve essere negata, ma affermata; anzi, non può essere negata, poiché perfino la negazione ascetica della vita è una sua espressione (anche se contraddittoria: un desiderio di dominio che nasce dalla vita e va contro la vita). Il mondo è il teatro di un gigantesco conflitto tra le diverse volontà cli potenza.

Anche il termine “potenza” (Macht) può ingannare. Fa pensare al potere politico, militare o economico.

Certo, queste forme di potere possono essere manifestazioni della volontà di potenza (Giulio Cesare, Napoleone, Cesare Borgia sono esempi di realizzazione della volontà di potenza, secondo Nietzsche), ma il significato fondamentale di “potenza” è dominio sulla realtà, in tutti i suoi aspetti. «La vita - scrive Nietzsche in Al di là del bene e del male - è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare». È potenza quella che si esprime in tutte le caratteristiche che danno slancio vitale all'organismo: forza, salute, coraggio, bellezza. È potenza quella dell’organismo microscopico che si appropria dell'ambiente per mangiare e riprodursi, quella che si manifesta nella creazione artistica, quella dell’asceta che sottomette tutti i suoi istinti, quella del filosofo che convoglia tutte le sue energie nel perseguimento della conoscenza.

La volontà di potenza non va confusa con la ricerca del piacere, di cui è anzi l’opposto. Non spinge

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infatti a godere di soddisfazioni effimere, a sopravvivere alla bell’e meglio. Spinge all’affermazione di sé, a realizzare al massimo le proprie potenzialità, ad andare sempre oltre, anche a costo di soffrire e di rischiare la vita. È come l’impulso che spinge l’animale a riprodursi e a cercare il cibo anche se per farlo compie atti che lo mettono in pericolo. È l'impulso che spinge l’artista a obbedire alla sua vocazione anche a costo di una vita di miseria materiale. Non va quindi confusa con l’istinto di conservazione; per affermare la volontà di potenza, infatti, la vita sacrifica anche l’autoconservazione.

Nietzsche rimprovera a Darwin e ai suoi seguaci di aver visto in natura solo la «sopravvivenza››:

costoro, dice, parlano di «lotta per l’esistenza», ma in realtà si tratta di una lotta per l’espansione della propria esistenza, l’affermazione di sé e il dominio. L`errore dei darwiniani era dovuto alla loro mentalità (tipicamente inglese, dice Nietzsche)«ottusa», meschina e per nulla eroica, che vedeva nella ricerca dell’utile immediato l’essenza della vita.

Ogni essere vivente è «egoista››, non nel senso corrente, moralistico, del termine, ma nel senso che è spinto irresistibilmente ad affermare se stesso, costi quel che costi.

L'egoismo consiste nel costruire la propria identità attraverso un processo di ricerca e conoscenza doloroso, solitario, rischioso, sprezzando il giudizio altrui, rispondendo solo a noi stessi. L'invito di Nietzsche a «vivere pericolosamente» non è un invito a vivere avventatamente o criminosamente, ma a rischiare se stessi, mettendosi in gioco totalmente, potenziando (con l’autocontrollo) i propri istinti vitali. Nietzsche esprime questa idea in modo persino brutale: «Che cos'è la libertà? - scrive ad esempio nel Crepuscolo degli idoli - Avere la volontà di assumere la responsabilità su se stessi.

Divenire indifferenti alle difficoltà, alle privazioni, alle avversità, alla vita stessa, essere preparati a sacrificare esseri umani per la propria causa, compresi se stessi». Non è certo un messaggio di tranquillità, né personale né sociale.

Il Prospettivismo

Abbiamo visto che il nichilista compiuto rinuncia all’idea di verità. Ma allora che cosa ne è della conoscenza? Per rispondere, dobbiamo partire dalla concezione che Nietzsche ha dell’organismo vivente, e che è nutrita di molte letture biologiche.

Ogni organismo vivente è un «centro di forze», di impulsi che da questo partono e interagiscono con le forze esterne. Scrive Nietzsche in un frammento del 1888: «Ogni centro di forza - e non soltanto l'uomo - costruisce partendo da sè tutto il resto del mondo, ossia lo misura, lo tasta, lo forma secondo la sua forza». Spinto dalla volontà di potenza, imprime al mondo una propria prospettiva e una propria valutazione: una sua verità, una sua “visione del mondo”. Conoscere vuol dire «interpretare» il mondo esterno per agirvi e dominarlo. E’ così per gli organismi più elementari come per l’intelligenza più raffinata. Ogni conoscenza è quindi funzionale ai bisogni e relativa alla prospettiva assunta dall`organismo nella sua azione sulla realtà. Non è possibile un’unica, oggettiva, assoluta forma di conoscenza, ma ogni conoscenza è «prospettica››; è, dice Nietzsche col suo linguaggio paradossale, un «errore», non nel senso che è sbagliata rispetto a un ideale di certezza assoluta, ma nel senso che è un tentativo che in sé vale quanto un altro: la differenza fra i diversi errori è data dal loro successo pratico. La vita si costruisce, si afferma sulla base di errori che hanno avuto successo. Del resto, di queste «bugie» abbiamo bisogno per introdurre discontinuità, punti fermi a cui aggrapparci in un mondo che è continuo flusso; altrimenti saremmo trasportati in una corrente inarrestabile.

Inventiamo finzioni che fermano artificialmente la realtà in concetti, numeri, formule, dottrine.

Viviamo dunque grazie a menzogne che hanno successo, di cui abbiamo dimenticato l’origine.

Come non esiste una realtà vera in assoluto, ferma in attesa di essere conosciuta, cosi l’io stesso è un caos di forze e impulsi. Non c’è un “io penso” razionale e ordinatore. L’identità personale è assicurata da un istinto, il più forte e fondamentale: la volontà di potenza. Essa fa convergere tutti gli impulsi vitali sull’obiettivo di dare forma al caos della realtà, di plasmarlo e dominarlo. La personalità sana e forte è quella in cui gli impulsi sono organizzati in una struttura dalla volontà di potenza.

Se tutte le conoscenze sono inevitabilmente prospettiche, allora «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni». […]

Il prospettivismo è una sfida radicale a imporre su ogni aspetto della propria vita il sigillo della personalità libera e forte, portando alle estreme conseguenze un'interpretazione pluralistica, ma coerente e creativa della realtà, e a correre il rischio che le nostre interpretazioni si infrangano contro

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altre superiori; poiché Nietzsche non ha mai dubitato che vi siano forme superiori e forme inferiori di realizzazione dell’umanità e della volontà di potenza.

Brani tratti da: Costantino Esposito, La questione aperta del nichilismo da Nietzsche a Heidegger (e oltre), in AA.VV., Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea, Itaca Edizioni, 2014, pp. 21-25

Nietzsche è sicuramente uno che se ne intendeva di inquietudine, ma che ha voluto prendere le distanze da essa attraverso una delle dottrine più difficili da decifrare, ma più decisive per lui: l’eterno ritorno dell’eguale . […]

Ed è una cosa struggente, che ti mette alle strette, quando Nietzsche afferma: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse:

“Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo chiaro di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Ma potrebbe anche darsi che tu abbia vissuto per una volta sola un attimo immenso, per cui avresti risposto cosi: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”. [. . .] quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima, eterna sanzione, questo suggello?›› (Nietzsche, La gaia scienza) . ll divino più alto è la “necessità”.

Allora il dire “Sì” alla vita diventa il dire “Sì” all’eterna necessità. Nietzsche, affascina tanto i nostri ragazzi, perché sembra il più decostruttore, il più libertario, il più free, ma è il grande filosofo della necessità. La crisi del Novecento non nasce semplicemente perché i filosofemi dell'idealismo, del positivismo sono messi in crisi da Nietzsche - lo sappiamo, è vero - ma la chiave di questa crisi non è

“liberi tutti!”, ma è “tutti costretti!”, costretti nell’ estrema necessità dell’ eterno ritornare. […]

Vi siete mai chiesti che cosa vuol dire che il tempo ritorna in circolo? Vuol dire che non c'è senso, inteso come significato del tempo. Perché, se tutto ritorna, le cose non vanno verso qualcosa, cioè il mondo non va verso il suo significato, non va verso un compimento, perché per Nietzsche il compimento, la realizzazione del mondo, sta nel ritornare. E perché ritorna sempre? Semplicemente: perché ritorna.

Come sapete, la domanda “Perché c’è la necessità?” è una domanda che cade da sé, perché, se c’è la necessità, non si può più chiedere il “Perché?”, cioè “l'in vista di che cosa” è la necessità, ma tutto è semplicemente necessario nell’eterno ritorno dell’uguale. La necessità, in qualche modo, pietrifica la domanda. La domanda di verità o di libertà di Nietzsche è una domanda che viene pietrificata dalla sua risposta. […]

Mi sembra che quello che Nietzsche vuole sia una nuova metafisica (e proprio qui sta la grandezza di Heidegger: egli ha capito che quella di Nietzsche è una vera e propria “metafisica”); ma come è possibile che Nietzsche voglia una nuova metafisica, se è proprio colui che si è proposto come decostruttore, distruttore della metafisica stessa? Mi sento di dire che è una metafisica perché è un modo di prendere posizione su ciò che c’è e su che cos’è quello che c'è. C’è la necessità della natura.

Primo: cos’è questa natura? Non è niente di dato. Ricorderete che, quando Zarathustra introduce la volontà di potenza, insiste sul fatto che la cosa più difficile per l’uomo è capire che la volontà non ha soltanto potere o potenza rispetto a ciò che verrà - quello lo capiscono tutti: la volontà può costruire qualche cosa che ancora non c’è, ma che la volontà abbia potere anche su ciò che è stato. Ciò che è stato dovrebbe essere senza ritorno: è appunto già stato. E come è possibile che la volontà di potenza debba poter esercitare la sua potenza su ciò che è già stato? Di qui l’idea, tragicamente geniale, che la volontà possa aver potenza su ciò che è già stato solo nel “circolo”, perché ciò che è stato sempre

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ritorna. La natura non è semplicemente “data”, ma “si dà” compiutamente ed eternamente. La sua necessità è il suo stesso ritorno inesorabile, eterno.

Ora, la natura non è data, ma non è dato neanche l’io. L’uomo non è dato, e quindi non ha provenienza, ma si dà. Parlerei di un vero e proprio horror dati: l’orrore non è per il vuoto, ma per il dato, perché il dato dice sempre il donatore, implica sempre uno che dà, uno o qualcosa che dà, qualcosa che è prima, più grande di ciò che è, che si è dato. […]

Ci chiediamo forse perché in natura i “grandi uccelli rapaci” mangiano gli “agnellini”? Risposta: no, non ce lo chiediamo, appunto perché è un fatto naturale!”. Provate a pensare: non c’è senso, bisogna semplicemente assecondare la necessità della natura nell’eterno ritorno.

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