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Gaia Giovagnoli Cos hai nel sangue. nottetempo

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Academic year: 2022

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Gaia Giovagnoli Cos’hai nel sangue

nottetempo

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Prima parte

And then it didn’t matter which one of you I called, the wound was that deep.

Louise Glück

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i

La madre è lì, distesa, nell’ombra oltre la tenda. È aperta sotto ai suoi occhi, la carne spalancata come quella di un coniglio. Nel chiaroscuro della stanza una ferita, umida e scura – la bambina la fissa, rossa, e non capisce. La vagina della madre le si imprime dentro agli occhi. Quella donna è come sventrata, tutta lucida, e mentre la bambina la guarda si chie- de perché la mamma non chiuda le gambe, adesso, e vorrebbe che stringesse le ginocchia, le chiederebbe di ritornare chiusa, la supplicherebbe. Ritorna uguale a com’eri, pensa – in un secondo che sembra eterno glielo vorrebbe urlare.

La bambina era corsa lì poco prima – magra magra, e tanto veloce che era difficile vederla per intero. Di lei sembrava ci fossero solo le gambe nude e un po’

storte che calciavano l’aria. La luce era quella del tar- do pomeriggio: la colpiva sulle ginocchia e sui polpac- ci a ogni slancio dei piedi.

Aveva le caviglie e i talloni tutti sporchi. La terra le si infilava tra le dita e sotto le unghie – i piedi anneriti, la pianta di cuoio. A ogni calcio della corsa c’era un lampo di polvere che si alzava.

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La bambina aveva corso così, poco prima, ed era arrivata alla casa che sapeva. Finalmente.

Il fiatone le si era accumulato, le iniziava a pizzicare il naso. Ha fatto un gemito per riprendere aria. Ha guardato giù. Le ginocchia magre e pulite che spic- cavano.

Sapeva che in casa ci avrebbe trovato qualcuno che conosceva.

Sono a casa, le è venuto da dire, ma non è riuscita a farlo per il fiato corto.

Mamma, le è venuto da chiamare.

Mamma, le è riuscito. Le sillabe che rimbombava- no sul portone massiccio, ancora chiuso. Si è quasi appoggiata con la fronte su quel legno ruvido mentre girava la chiave, e ha accompagnato la porta in avanti.

Mamma, ha urlato: questa volta il primo ma ha riem- pito la cucina e, quando si è girata per chiudere la por- ta, l’altro ma ha riverberato attutito dalla superficie.

Davanti a lei una grossa tenda ricadeva dal soffitto al pavimento. La bambina l’ha guardata un secondo, lo sapeva: era la tenda che divideva la cucina dal sog- giorno. Nel chiaroscuro si intuiva il velluto rosso un po’ macchiato, un buco di sigaretta sulla sinistra, la polvere che attenuava il colore vivo. Era strano che la tenda fosse chiusa.

Mamma, ha detto scocciata, sono tornata.

Mentre si avviava verso il tendone, la bambina ma- gra e sporca ha lasciato le impronte sul pavimento,

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anche se cercava di stare in punta di piedi per farne il meno possibile. Poi ha scostato la tenda con la mano.

Le è pesata sul braccio e ha faticato ad aprirla, ma l’ha spinta un po’ e ha scoperto il buio dietro, lo ha rischiarato di poco e chiamava. Mamma, ha chiamato, ma dove sei?

Faceva tutto di fretta, la bambina, ed è entrata con il corpo nel soggiorno. Si è infilata però solo con le spalle nello spacco creato nella tenda, immergendosi nel buio per metà. Si è fermata con le gambe in cucina – era sia oltre la tenda sia fuori. Si è fermata.

Ha urlato: Mamma, e le si è scomposta la parola, ha dovuto ripeterla – il fiato che era tornato.

Ha urlato ancora una volta in un trillo, con tutta la gola, le si vedevano i denti sotto, la bocca nera e lucida di saliva.

Mamma.

Poi ha ritratto le spalle e il busto che aveva infila- to nel buio – voleva riportarli all’altezza delle gambe, delle ginocchia, dei piedi sporchi. Sarebbe voluta tor- nare tutta indietro, la bambina, e ha pensato di torna- re alla luce, tutta, di chiudere la tenda. Ma non lo ha fatto. Ha invece tenuto aperto il telo con una mano e ha guardato ancora, ma non come chi vuole vedere:

come chi ha visto qualcosa e non riesce a capire.

Adesso la madre è lì, nell’ombra oltre la tenda. La donna è aperta sotto ai suoi occhi: la pelle schiusa come quella di un coniglio sul tavolo del macellaio.

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Nel chiaroscuro della stanza risalta quella ferita ba- gnata – la bambina la fissa e non capisce. La bambina si chiede perché la donna non chiuda le gambe, ades- so, e vorrebbe che stringesse le ginocchia, le chiede- rebbe di ritornare chiusa come sempre, la suppliche- rebbe – mentre ora la investe un odore di saliva.

Cosa…?, chiede alla madre continuando a fissarla, le labbra nitide, il centro rosso, Perché è così rosso?, e la madre porta veloce una mano alla bocca mentre sposta l’altra dall’ombelico verso sotto, verso il taglio – ma piano, lo fa piano. Perché vai così lenta mamma?, vorrebbe chiederle, Troppo piano, vorrebbe urlarglielo.

Dal buio emerge una voce nuova e la bambina ca- pisce che c’è un’altra persona lì con la madre. È una voce sottile e acuta, quasi un soffio. Assomiglia a quel- la di suo padre.

Questa voce si fa strada ma lei non vede chi sia a parlare. Le dice: Da brava, fai la brava, lo ripete con un tono flemmatico. Non è la voce del babbo, non può esserlo – è così aguzza e bianca che sembra quella di un bambino.

Brava.

Si chiede dove sia chi sta parlando, da dove venga questa voce strana. Scruta il buio. Poi capisce, capisce che viene da destra, da dove tiene ancora il braccio sulla tenda, teso e aggrappato, ed è come se si avvi- cinasse, andando verso le sue dita – sente un alito, Da brava, vicino alla sua mano. La bambina ritrae il

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braccio inorridita. Finalmente la tenda ricade e la chiude tutta fuori.

La madre vuole che vada via dalla casa, le chiede di uscire. Non è niente, vedrai, dopo ti spiego bene.

Lo dice con calma ma le viene da ridere, così prova a strozzare la risata, quasi tossisce. Anche l’altra voce si gonfia e diventa più alta, ancora più acuta, sussul- tando. La madre chiede alla voce di bambino di fare piano. Dai, non ridere, ci è rimasta male.

Il tendone ricade pesante ma si sente quel ridere, ancora quel ridere tutto attorno. Poi dei rumori. Un altro Fai piano, e poi soltanto il silenzio.

Un ginocchio dietro l’altro la bambina corre via da questo orrore. Corre indietro e dice Cosa?, dice Per- ché?, e le pizzica la gola, non riesce a scandire le paro- le – la r inciampa, la p non parte.

Perché?

La bambina se lo chiede, da sola, mentre vorrebbe an- dare da suo padre, che è da qualche parte nel bosco. La bambina si chiede dove sia adesso, nel bosco, e pensa che lui potrà aiutarla – mentre torna solo magra, mentre tor- na solo bambina, ed è tutta magra, sporca, e corre.

Mi sporgo per capire da che parte sia andata.

Voglio inseguirla tra gli alberi e bloccarla.

Voglio dirle qualcosa.

La bambina con le gambe svelte si confonde tra i tronchi, così perfetta da sparire nello sfondo.

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Rimbomba solo la sua corsa regolare. Mi sporgo an- cora e intuisco un inciampo – faccio un passo un po’

incerto nella sua direzione.

Le voglio dire di calmarsi. Ma chi è? Le voglio sfio- rare le ginocchia.

So che quello che ha visto fare alla sua mamma toc- cherà anche a lei, un giorno, e so che lo odierà.

Ma come faccio a saperlo?

Per distruggere quel momento dovrà distruggere se stessa. Vorrei dirglielo perché forse, facendolo ora che è ancora una bambina, potrei strapparle gli occhi in tempo. Lavarglieli. Salvare anche me.

Aspettami!, le urlo e, quando si gira appena, la rico- nosco: è molto simile a come è adesso.

La chiamo per nome.

L’ultimo tonfo del suo piede mi rimbomba nell’o- recchio libero dal cuscino.

Il chiasso continua anche ora che ho gli occhi aper- ti: di là in salotto un rumore di legno che sbatte. La porta che si chiude.

C’è una luce accecante: il sole mi si conficca dritto nelle pupille, nonostante le coperte tirate sulla faccia.

Devo aver sbavato, dormendo. Mi tocco il collo per capire quanto.

La voce accomodante di mia madre arriva fino al letto.

“Venga dentro, non faccia complimenti”.

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Mi stringo addosso la vestaglia mentre una voce poco profonda le risponde.

Entro in cucina quasi correndo. Con uno strascico di sonno dico alla mamma che non dovrebbe aprire agli sconosciuti e, rivolta all’uomo ormai seduto, che se è qui per farle firmare cose, proporre offerte o ven- dere olio, grazie, ma non ci serve niente.

Lui mi guarda mortificato. Ha la schiena curva e le mani unite tra le ginocchia, che battono l’una sull’al- tra. Tra i piedi tiene uno scatolone usurato, senza co- perchio, pieno di carte e di buste impilate alla rinfusa.

Un registratore grigio piuttosto vecchio sbuca tra i fogli. Interrompe il movimento ritmico delle gambe e fa quasi per alzarsi ma si blocca: fissa interrogativo la mamma e torna su di me, spingendosi gli occhiali sul naso. Gli occhi sui miei capelli spettinati.

Portandogli una tazzina di caffè, la mamma gli spiega che io sono Caterina, e sorride guardandomi i piedi nudi.

“Alessandro Spina,” dice lui con un cenno della testa. “Sua figlia ha tutte le ragioni di pensare… In- somma, posso immaginare,” fa trattenendo la e nella fessura delle labbra.

“Non la giustifichi,” lo blocca la mamma con lo stesso sorriso di cortesia. “È stata maleducata. Che figura mi fai fare, Cate? Con qualcuno che conosce la mia famiglia poi”.

Di specchio fa una smorfia anche lui e si mette più composto. La tazzina sulla coscia.

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“Mi scusi, non immaginavo vi conosceste”.

L’uomo continua a guardarsi attorno, si schiarisce la gola e fissa il bordo del piattino. Precisa che in rea ltà ho ragione: loro due non si sono mai visti pri- ma d’ora.

“Ho solo sentito parlare di lei, signora Gaggi,” fa ri- volto alla mamma prima di voltarsi. “La stavo cercan- do da…” e si ferma rincorrendo dei numeri. “Mesi. E se non fosse stato per la sua vecchia scuola… Se non fosse stato per loro, ancora la starei cercando”.

Beve un po’ di caffè in punta di labbra e, quando riappoggia la tazzina sul coccio, lo fa troppo forte.

“Cate, il professor Spina è un antropologo, sai?” fa la mamma prima che l’uomo possa dire altro. “Ed è qui per farmi un’intervista”.

Gli fisso le gambe stranita, mentre lui accarezza con la scarpa lo scatolone accucciato ai suoi piedi.

“È la prassi, nella ricerca. Le interviste sono… Si parla con le persone di vari… Ma sono più che altro chiacchierate”.

“Ed è venuto qui per chiacchierare con lei?” chiedo indicando la mamma. Lei distoglie lo sguardo.

L’uomo continua ad aspirare il caffè. Qualche goc- cia riga la tazzina e lui prova a pulirla delicatamente con la punta di un dito.

“È su… Coragrotta. Lo studio è su Coragrotta,” fa l’uomo. Sembra aspettare che sia la mamma a darmi qualche spiegazione in più, ma lei non interviene.

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Spina mi chiarisce allora che lui si occupa di folklo- re, elenca altri studiosi, dice che l’Italia è piena di bor- ghi isolati che spariranno. Spesso stanziano dei fondi – le Regioni, l’Europa. Coragrotta è un paese così.

“Sono già quattro anni che faccio avanti e indietro da là. Al paese hanno delle tradizioni… interessan- ti,” continua Spina, puntando ancora gli occhi sulla mamma.

L’espressione gli si fa ancora più seria e un filo sotti- lissimo sembra sporgere da dietro le sue parole – una volta dette continuano a essere strattonate verso un punto sconosciuto. Dicono una cosa, ma parlano an- che di altro.

Intervistando la gente di Coragrotta ha scoperto che la signora Gaggi se n’è andata via dal paese quan- do era giovanissima. Lei fa sì con la testa.

“Guardi, sono sicura che il suo sia uno studio im- portante,” dico rallentando le parole, “ma di questo posto io non ho mai sentito parlare. E penso nem- meno lei,” continuo indicando ancora la mamma, che ha iniziato a pulire con un fazzoletto il cuscino del divano. “Immagino stia cercando una sua omonima”.

L’uomo aggrotta la fronte, fissando quelle mani che si muovono sul cuscino.

“Mia mamma non sta bene,” continuo. “Se le ha fatto intendere che conosce questo suo paese mi dispiace, ma il motivo è solo questo. Di solito è lu- cida. No, mamma?” continuo seguendo anche io la

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sua mano che sfrega. “Ma è facile ormai farle crede- re cose che non sono vere. Basta farle le domande giuste”.

Con le dita ancora sul fazzoletto inumidito, lei bloc- ca la sua operazione.

“Come quando sei tornata qui, no? Mi si fa credere di tutto, no? Pure che una figlia debba essere pagata per stare con la sua mamma”.

Allontano la sedia dal tavolo, attenta a non fare ru- more.

“A lei sembra normale?” fa all’uomo con un sorriso rigido, escludendomi dalla conversazione. “Che si fa pagare per stare con me”.

Forse senza accorgersene, l’antropologo scuote ap- pena la testa.

“Sono cose contro natura, infatti,” prosegue la mam- ma. “Ma non è strano, sa, non è poi così strano. Basta vedere cosa pensa di me, e lo ha visto: Caterina pensa che io non abbia vissuto un solo giorno prima che ar- rivasse lei su questa terra. Questo pensa: che io non ho nulla da dire. Le pare normale che una figlia non voglia assistere la madre? Pensa che non sono niente di niente. È così. Ma io l’ho messa al mondo e lei deve accompagnarmi al prossimo. È scritto nel nostro san- gue di esseri umani. Lei che li studia lo saprà meglio di me,” conclude la mamma guardando finalmente in faccia Spina. “Solo le persone cattive meritano di esse- re abbandonate”.

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Mi siedo di fronte allo studioso che si aggiusta una manica e contrae i muscoli delle gambe, stringendo lo scatolone fra i piedi. Sussurra qualcosa di incompren- sibile e non aggiunge altro.

“La lasci perdere,” dico all’uomo mentre una vam- pa mi si allarga sulle guance. “Alla mamma piace es- sere drammatica”.

Fisso tutta me stessa su quella donna spigolosa che ora serra i denti così tanto da creare un solco sotto agli zigomi.

“Mi sembra sia logico pagare per un servizio, come fai con Tanya, mamma. Ma te l’ho già spiegato, chiu- so il discorso. E comunque al signore non interessano queste cose”.

Mi immagino arrossata, con gli occhi secchi e i ca- pelli che iniziano ad appiccicarsi alla fronte.

“Non tutto ti è dovuto,” sussurro, “solo perché sei mia madre”.

Lei inclina il mento, fa sì con la testa e intercetta gli occhi dell’uomo. Gli chiede se lui abbia figli, e gli augura con una risata ispida che non siano come me.

“Ma nemmeno come sono stata io, suppongo,” con- tinua sorridendo. Con il fazzoletto di carta ricomincia a sfregare il cuscino in lotta con un’altra macchia in- visibile. Anche Spina tende le labbra – e qualcosa, di nuovo, si appoggia a una fibra invisibile che sta dietro alle parole.

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“Comunque sono io, la Gaggi che cerca,” fa alzan- do gli occhi sul mio collo. “Sono andata via da Cora- grotta che ero una ragazzetta, come dice il signore”.

“Bene,” dico – mentre mi assicuro di sbattere a rit- mo le ciglia: rallentandole di un po’ sembrerò più cal- ma; mentre mi obbligo a non muovere il mento dalla posizione in cui è adesso: alto, il collo steso; e fermo la schiena così che non ceda alla curva delle spalle, chiuse così da sempre, ma che ora, proprio ora, non si devono stringere di più.

“Vorrei che le domande me le facesse da sola però,”

continua rivolta allo studioso. “Visto che quello che c’è a Coragrotta non sono affari di Caterina”.

L’uomo fa una croce su un foglio precompilato e le chiede di firmare lì accanto.

“Lasciami sola con lui,” mi ordina con il foglio cal- cato sul ginocchio.

Rialzo a fatica gli occhi che si abbassano sul pavimen- to; stendo le dita che si contraggono – tutto il mio cor- po che obbedisce a lei, anche dopo anni, e mi si stringe la gola, le costole fanno male, le ossa sono più deboli.

Alzo le spalle e, lenta, mi avvicino alla porta della sala.

Lo studioso tira fuori dalla tasca un piccolo regi- stratore, identico a quello ancora nello scatolone. Lo scuote un momento portandoselo all’orecchio e la cassetta al suo interno fa un suono sordo. La riavvolge per pochi secondi e spinge il tasto rosso sul lato. Un leggero rumore bianco si diffonde a filo nell’aria.

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Sto richiudendo la porta quando domanda alla mamma perché sia andata via dal paese.

“Per lei,” risponde la mamma guardandomi nello spiraglio. “Me ne sono andata per lei”.

Quel filo di suono che vibra dal registratore, fra- gile e bianco, inizia ad annodarsi freneticamente su se stesso. Lo guardo attraverso la serratura, mentre si avvita e ondeggia sempre di più dalla coscia dell’uo- mo a mia mamma che, bianca e fragile, con la voce dà corpo ad anni che non sapevo esistessero.

Lei parla e in mezzo alla stanza prendono forma la macchina che le ha dato un passaggio fino alla stazio- ne, l’unica borsa stipata nel bagagliaio e il profumo dei tramezzini, arrotolati nei tovaglioli; descrive poi alcune donne, tante, tutte senza capelli, e sembrano entrare là pure loro, in piedi accanto alla sedia, si tengono a braccetto; poi ecco sua mamma, mia non- na, con cui viveva in una casa proprio in cima a una salita – raccontandola emerge il profilo di una don- na ruvida che le aveva insegnato molte cose, sulle erbe e sulle spezie, che le aveva fatto toccare per la prima volta gli spiriti. Poi, bianca e fragile, con la voce stipa nella cucina una siepe di fiori rotondi, e un odore di vecchio e rappreso sale dal basso fino al naso, mentre la mamma continua a parlare e parlare, riempiendo il salotto di alberi secchi e immensi, di una radura spoglia e di un tappeto di funghi. Funghi

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che non ha più visto, buoni, ma così buoni, che san- no di terra e di pane.

Il filo di rumore che lega mia mamma al registratore diventa più scuro e pesante. La voce inizia a raschiarle la gola e invade con più forza la stanza, arriva alla por- ta, sfondandola, tanto che ora non c’è più posto per la mamma e lo studioso, seduti composti nel salotto, le mani strette tra le ginocchia, le braccia conserte;

tanto che ora a causa di quella sua voce sporca non c’è più spazio per me, di qua dalla porta – e inizia a stringermi la vestaglia, la testa si ripiega sul petto, il mento punta sul torace; c’è spazio solo per il raccon- to, mentre procede il flusso di domande dall’uomo alla mamma rendendo grandi, quasi grandi due metri, delle bestie che sono spiriti buoni e hanno bisogno di cure; mentre le donne si fanno tantissime in quei pochi metri di spazio, e scrutano la mamma con la pancia gonfia, piena di me, una figlia che cresce, e ormai salgono in piedi sul tavolino, gonfie e pelate, le toccano la pancia ancora poca, ancora appena visibile sotto il vestito, le dicono: Speriamo, stavolta speriamo sia la volta buona – e ora no, non c’è davvero più aria, è tutto troppo pieno di parole, tutto troppo pieno di altro, mentre i rami toccano con le punte il soffitto che inizia a scricchiolare.

L’uomo le dice di fermarsi. Quelle cose le sa già tut- te quante.

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Ho il respiro sospeso, la bocca aperta. Deglutisco e, mentre lo faccio, mi brucia il fondo della gola.

Cerco di non respirare – e la saliva si fa strada ai lati delle labbra, seccandole. Le parole che ho appena ascoltato, qualsiasi cosa vogliano dire, mi rimbom- bano dentro. Ogni parte di me si chiede cosa stia davvero raccontando, quella donna piena di ombre e di spigoli, cosa stia cercando di dire a quell’uomo – o a me – quella donna che ha il cervello che scalcia dentro l’assurdo. Sa che sono dietro alla porta?

“Signora Gaggi, ascolti, lei…” dice l’uomo men- tre si regge la testa con una mano. “Lei mi deve dire di più del bosco attorno a Coragrotta”. Stringe gli occhi cercando di rimanere attaccato a quel pensie- ro. “C’erano persone che giravano nel bosco quan- do era ancora là… e che mettevano qualcosa nella terra?”

La mamma si aggrappa con un dito ai capelli e li tira appena dalle punte.

“Le donne, sì, al Monte,” risponde lei con lo sguar- do perso. “Ma gliel’avranno già detto questo, se ho capito bene. O no?”

“Sì, signora. Sì. Ma non ci sono solo loro,” fa l’uo- mo con gli occhi rossi dallo sforzo, “proprio là, al Monte, e chissà in quali altri posti, forse… c’è qual- cos’altro. Qualcuno deve…” dice con la voce im- provvisamente acuta – le sfumature più profonde cancellate con un colpo di tosse. “Ho bisogno di lei,

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signora Gaggi. Se lei sa qualcosa deve… Se sa qual- cosa dobbiamo dirlo a chi di dovere”.

L’uomo ha la bocca impastata e non riesce a pro- cedere. Fissa la scatola a terra e stringe ancora i piedi attorno al cartone.

“C’è qualcosa sottoterra,” sussurra ancora, tampo- nandosi con il dorso della mano il naso che cola. “E i bambini, e i paesani, signora Gaggi… Penso dipenda da questo”. Le ciglia gli si bagnano, appiccicandosi le une alle altre. Serra gli occhi.

La mamma fissa il pavimento e non risponde, poi si spinge le dita sugli occhi con forza.

“Non può non saperne niente”.

Abbassa la fronte, quasi appoggiandola sulle ginoc- chia, e inizia a mugolare.

Mi aggrappo alla sensazione sgradevole della lin- gua che si è completamente asciugata. Apro la porta con foga ordinando all’uomo di spegnere quel regi- stratore dell’anteguerra, che chissà poi se funziona davvero.

“Basta così,” ringhio stringendo un pugno. “Avanti, basta. Si diverte a prendere in giro la gente?”

I capelli che mi tirano un po’ di più nella coda, l’o- dore dello shampoo e del sudore.

“Ci ho provato ad andare alla polizia, signora Gag- gi,” sospira senza girarsi nella mia direzione, “ma loro non…”

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Quando si alza in piedi noto che è molto più alto di quanto pensassi e così magro che i pantaloni mezzi vuoti gli cadono male. Le ginocchia ossute rigonfiano appena la stoffa.

“Mi aiuti, per favore,” dice ancora rivolto solo alla mamma, che resta immobile. “Se lei sa, come credo che sia, se sa deve… Per il bene di tutti”.

Sembra un bambino che è stato picchiato: passa il peso da una gamba all’altra, ha gli occhi lucidi che vorticano per il salotto. Si allunga verso il basso il bor- do della camicia – le mani grandi e pallide.

Mentre sovrasta il divano dove la mamma è ancora seduta, lo prendo per un braccio e faccio per trasci- narlo verso la porta. L’uomo, sotto la mia mano, è cal- do e sudato. Si lascia portare per qualche metro per poi bloccarsi.

La mamma si copre gli occhi con le mani e si lascia andare a poco a poco sullo schienale del divano.

“I morticini,” mugola. “Che fine farebbero quei morticini?”

Stringo l’uomo con tutta la forza che ho, ma lui cer- ca di ritornare seduto al suo posto.

“Quindi lei… Mi dica, la prego, signora Gaggi.

Deve dirmi cosa sa,” dice allungando la mano con il registratore verso il viso della mamma.

Lei però, ancora stesa, inizia a sfregarsi il vestito con entrambe le mani, premendo sullo spazio che va dal seno alle cosce.

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“Che cazzo,” grido all’uomo. “La sta facendo deli- rare, ma non vede?”

Le vene delle mani e i tendini le si gonfiano sotto la pelle, mentre passa con forza sulla stoffa il palmo aperto, sempre più arrossato.

Grido all’uomo di andarsene subito.

“Devo chiamare i carabinieri?”

Lo spingo verso la porta e lui cammina all’indietro, un passetto concitato alla volta, la faccia ancora in- collata al salotto. Anche una volta superato l’ingresso con un inciampo, la sua sagoma magra riempie lo spa- zio tra lo stipite e il portone socchiuso: non si gira di spalle, non si allontana. Continua invece a fissare con pena lei che urla, ora seduta, con le unghie aggrappa- te al divano e la testa bassa sull’ombelico.

Il legno sbatte sul legno e si sigilla.

L’uomo strizza gli occhi mentre lo serro fuori con tre giri di chiave.

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