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Approfondimento. Teoria e pratica del restauro: il restauro in architettura. 1 Istituto Italiano Edizioni Atlas. Il restauro di un edificio

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Approfondimento

Teoria e pratica del restauro: il restauro in architettura

Fig. 1 Giovanni Filippini, particolare della carta catastale manoscritta intitolata Iconografia della città e castello di Milano, 1722. Milano, Raccolta Bertarelli.

In una lettera indirizzata a papa Leone X, scritta intorno al 1518, Raffaello Sanzio auspicava un vero e proprio programma di mantenimento e di restauro delle opere di architettura. Non più considerata un astratto modello di perfezione, l’arte classica era per Raffaello una fase storica, certamente la più apprezzata e studiata, comun- que inscritta in un processo di cui tutti i capitoli meritavano uguale attenzione. “Né bisogna che in cuore d’alcuno – egli scriveva – nasca dubbio che degli edifici antichi li meno antichi fossero men belli o meno intesi, perché tutti erano d’una ragione”.

Raffaello anticipava in questo modo il pensiero moderno sul restauro architettonico: il fatto che un edificio abbia attraversato più fasi storiche, por- tando i segni stratificati di questo percorso, può di per sé legittimarne la salvaguardia.

È ovvio che quando si interviene su monumenti importanti sotto il profilo tipologico e stilistico ci si affida a indagini specifiche e si recuperano sup- porti documentari di assoluto rigore scientifico; la prassi del restauro architettonico è dotata di un ricco apparato metodologico di indagine e di rilevamento. È altrettanto vero che i princìpi teo- rici sono applicati in modo meno rigido quando si interviene sul patrimonio edilizio di minor pregio, e sono spesso soggetti a margini interpretativi poco controllabili. Non è raro, tuttavia, che un edificio di scarso valore tipologico od estetico sia sottoposto ad un mantenimento rigoroso in ogni sua parte,

mentre si assiste a scempi di edifici pregevoli sotto il profilo storico. Non sempre, comunque, è possi- bile stabilire precise categorie di intervento: la ca- sistica del patrimonio edilizio, soprattutto in Italia, è così ampia da non consentire generalizzazioni.

Negli ultimi decenni si è affermata l’idea della con- servazione integrata: restaurare un edificio non vuol dire soltanto “curarlo” dai dissesti statici o dagli effetti di invecchiamento; occorre operare nel rispetto della tipologia originaria, dei suoi ca- ratteri distributivi. Oggi il recupero degli edifici si integra con le nuove realizzazioni, e in questo interessante contesto gli architetti non perdono occasione per sperimentare nuove soluzioni tec- nologiche. Un buon restauro può farci scoprire che un edificio antico può ben confrontarsi con una parte nuova, la quale può a sua volta sugge- rirci nuove chiavi di lettura dell’edilizia storica. Così un muro antico, reso grezzo dal tempo, può coesi- stere con una sottile scala moderna, o al contrario una parete nuova, solcata da segni leggeri, può offrire un interessante parametro di interpretazione ad una antica modanatura, e così via.

Inoltre, la rapida evoluzione sociale e tecnologica delle città porta con sé nuovi problemi: in tutte le epoche, la riflessione sul recupero di un edificio ha avuto come oggetto di interesse la sua continuità funzionale: come possiamo oggi riutilizzare una vecchia stazione di posta, un antico ospedale, una porta urbana?

Il restauro di un edificio

A.

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L’indagine preliminare nel restauro

Ogni intervento di restauro è un’operazione molto complessa, che comprende elaborate indagini preliminari e varie ipotesi di intervento.

L’analisi preliminare dell’edificio deve essere svol- ta per fasi.

Il profilo storico

Occorre conoscere l’età dell’edificio e delle sue parti, il nome del progettista, l’origine e le carat- teristiche professionali delle maestranze che lo hanno costruito.

A questo scopo si possono svolgere ricerche di archivio, facendo attenzione che le fonti non siano condizionate da giudizi critici. Si consulta- no archivi storici catastali, provinciali, comunali, parrocchiali; si cercano antiche descrizioni.

Importanti sono i documenti che attestano la fon- dazione e le eventuali trasformazioni successive;

per la conferma delle ipotesi storiche può essere necessario rintracciare documenti indiretti, quali antichi contratti di lavoro o ricevute delle merci.

Forse da un’antica mappa (molte sono riprodotte in pubblicazioni locali) si evince che un edificio ha contribuito a determinare l’evoluzione urbanistica di una parte della città: ciò, ad esempio, nel caso significativo in cui questo abbia rappresentato uno dei primi nuclei costitutivi dell’abitato. Ci si può accorgere, allora, che anticamente l’edifi- cio mostrava un fronte principale diverso, e che l’apertura di un nuovo asse viario ne ha alterato l’assetto organizzativo originario.

Il valore estetico

Il valore estetico di un edificio riguarda due aspetti: il suo carattere stilistico e quello tipologico. Apprezziamo un edificio quando vi riconosciamo una coerenza tra tutti gli elementi formali ed organizzativi che lo costituiscono: in un palazzo neoclassico individuiamo il portale,

l’atrio con scalinata, il giardino interno, le sale al cosiddetto piano nobile, il mezzanino.

Piccoli innesti (lapidi, frammenti di pietre incise con date o frasi, pietre scolpite) possono costi- tuire un interessante indizio storico. Alcuni ele- menti sono stati probabilmente recuperati da altri manufatti, altri sono sorti con l’edificio stesso.

Un’architettura all’apparenza modesta può con- servare stemmi ed emblemi, talvolta modificati (come in occasione del cambio di proprietà), e ancora stipiti, stucchi, apparati o frammenti de- corativi.

Particolari secondari, infine, rivelano talvolta ul- teriori aspetti del palazzo originario: una porta murata può significare che sono state scisse le unità abitative; una dissimmetria nel ritmo delle finestre può nascondere l’accecamento, magari in tempi lontani, di una di esse, ecc.

L’analisi costruttiva e le modalità di intervento L’analisi costruttiva di un edificio va affrontata re- lativamente alle sue strutture, ai materiali di costruzione, agli elementi di invecchiamen- to o di dissesto. Questa indagine deve essere svolta mediante un esame diretto dell’edificio, da corredare con una descrizione dettagliata, con rilievi complessivi e di parti, con fotografie.

Oggi tutti gli studi professionali utilizzano softwa- re specifici, che consentono da un lato di racco- gliere e catalogare dati sui dissesti degli edifici, da un altro lato di “simulare” gli effetti visivi di un intervento.

Un dissesto statico può essere causato dall’in- vecchiamento dei materiali, da errori di costru- zione o dall’intervento di agenti esterni.

Poiché la struttura portante in cemento armato si è diffusa nell’edilizia civile a partire del primo ventennio del Novecento, gli edifici di età prece- dente si sostengono su muri portanti, con solai in legno. I muri possono essere in pietra o in

Gli strumenti e i metodi di analisi storica di un edificio

• Carte geografiche

Si utilizzano carte, mappe catastali, piante di città, ecc.

• Ricerca bibliografica

Bisogna saper selezionare il materiale saggistico e critico, spesso assai ricco, magari classifi- candolo per ambiti tematici. I testi sono a loro volta utili per trovare approfondimenti bibliografici.

• Ricerca in loco

È utile la raccolta di tradizioni orali, ma anche di pareri di anziani muratori, abituati a misurarsi con edifici analoghi.

• Documentazione fotografica

Può essere diretta o indiretta: vecchie fotografie (rintracciabili in archivio o in testi specializzati) possono farci scoprire il disegno originario del sagrato di una chiesa, di una piazza, di facciate.

• Documentazione grafica

Consiste nella ricerca di antichi disegni, rilevazioni attuali, fotografie. È importante individuare l’eventuale esistenza di progetti, più o meno recenti, che potrebbero avere alterato l’originario assetto o la distribuzione dell’edificio.

• Metodi di indagine costruttiva

Spesso in un muro di mattoni si trovano pietre, e viceversa. Particolari strumenti a raggi infra- rossi permettono di evidenziare l’età di un corpo attraverso il calore. Questi innesti, quando non appartengono a materiali troppo eterogenei, e quando non sconvolgono l’assetto statico, vanno mantenuti.

• Schedatura del materiale

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mattoni pieni, le cui dimensioni variano talvolta da regione a regione.

I cedimenti più frequenti si concentrano tra gli innesti di due muri, di cui almeno uno portante, o sopra le architravi di porte, finestre o logge.

In questi casi le fessurazioni si notano al centro dell’architrave, o a lato di essa, in corrispondenza dell’imposta.

Frequenti i casi di flessione (o imbarcamento) delle travi del solaio. Questo fenomeno si ve- rifica quando lo spazio coperto dalle travi (la luce) è eccessivo, o quando è stato applicato incautamente un peso, magari non all’origine (ad esempio, un setto murario), senza che al piano inferiore vi corrisponda un elemento portante.

Se la fessurazione verticale di un muro sembra inoltrarsi sotto il pavimento, con ogni probabilità si è verificato un cedimento nelle fondazioni. Oc- correrà, quindi, intervenire con precauzione con uno scavo, condotto con metodi archeologici, e capire se si tratta di un cedimento del terreno, dei materiali di costruzione, o se sia stato causato da un sovraccarico dei pesi soprastanti.

Una parte importante dell’analisi riguarda la dia-

gnosi e la bonifica dell’umidità, le cui tracce sono spesso presenti sui muri, nelle parti strutturali lignee o nelle decorazioni. Nel primo caso l’umi- dità può essere ascendente (e dunque proviene dal terreno) o discendente (proviene, per esem- pio, dal tetto). In tutti e due i casi l’intonaco si deteriora irreparabilmente e va sostituito.

È importante riservare grande attenzione agli aspetti relativi alla sicurezza: quando si recupera un edificio occorre ottemperare alle odierne nor- mative e garantire l’adeguamento degli standard.

Un edificio oggi è solcato, in verticale e in oriz- zontale, da numerose reti tecniche (quali l’impian- to di riscaldamento, elettrico, di refrigerazione, ecc.), che necessitano talvolta di spazi adeguati entro le murature o accostati ad esse.

Non di rado è necessario intervenire alterando l’assetto statico originario dell’edificio. In questo caso, la messa in evidenza delle nuove struttu- re può modificare considerevolmente l’estetica dell’edificio. Nuove strutture in ferro o in cemento armato a vista possono divenire solidali con le antiche murature portanti, e esaltarne l’assetto strutturale.

Figg. 2, 3 Rafael Moneo, Intersezione dei muri con le aperture ad arco (a sinistra) e prospettiva interna della navata longitudinale del Museo di Arte Romana (a destra). Mérida (Spagna), 1980-1984.

© F. Català-Roca.

Fig. 4 Flavio Albanese, Casa di lava e ossidiana a Pantelleria, realizzata su preesistenti damusse, 1998.

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L’ausilio del mezzo informatico: il trattamento di immagini digitali

Prima di intervenire su un antico edificio è necessario svolgere attente analisi riguardo gli aspetti tipologici, la tenuta strutturale, nonché la qualità e la condizione delle superfici murarie.

Molti operatori utilizzano oggi software per il “disegno assistito”, che permettono di “simulare”

l’intervento dalla fase dell’acquisizione dei dati fino alle operazioni in cantiere.

Si parla pertanto di image processing, ovvero del processo che contempla l’elaborazione digitale delle immagini. Questo strumento consente confronti e simulazioni in tempi molto bre- vi, e trova spazio sia nella fase analitica sia in quella progettuale. Testando l’assetto delle varie parti dell’edificio in ogni fase del progetto, tali strumenti consentono di pervenire a precise scelte operative e di controllare il risultato finale.

Un’applicazione interessante è quella, ad esempio, che consente di simulare la qualità visiva di una parete o di una sua parte in diverse condizioni di luminosità. Nella fase di analisi si acquisi- scono informazioni sullo stato del degrado o sulla caratteristica dei materiali mediante specifiche strumentazioni, o mediante tecnica fotografica digitale.

Al primo caso appartengono le immagini digitali ad infrarosso, che consentono, dallo studio dell’intensità luminosa dei livelli di grigio dei pixel, di risalire alla temperatura di ogni parte edificata, e dunque alle caratteristiche dei materiali o alla data della loro applicazione.

Riguardo il secondo caso, si può risalire, ad esempio, al tipo di lavorazione degli intonaci o delle decorazioni apposte; una volta fotografata la superficie con luce radente, che ne rafforza le ombre, le immagini vengono rielaborate a computer sulla base del contrasto rilevato.

Interessante è lo strumento dell’equalizzazione dell’immagine, che consiste nell’estendere sul più ampio spettro tutti i diversi valori di luminosità, che invece ad occhio nudo appaiono simili.

Equalizzando l’immagine si evidenzieranno sul video figure apparentemente nascoste di una vecchia decorazione, fenditure o rialzi dell’intonaco, ecc.

Figg. 5, 6, 7, 8 Rafael Moneo, Esempi di elaborazioni virtuali e di immagini equalizzate della facciata di Santa Maria della Misericordia in Albenga

(a lato) e di un edificio privato (sotto).

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A sinistra: Fig. 9 Roma, l’Arco di Tito prima del restauro del 1819-1821. Da una stampa ottocentesca.

Al centro: Fig. 10 Roma, l’Arco di Tito dopo

il restauro eseguito da Giuseppe Valadier nel 1819-1821.

© Foto Anderson.

A destra: Fig. 11 Dettaglio delle parti

di completamento realizzate da Valadier

per l’Arco di Tito.

Fig. 12 Giuseppe Valadier, Progetto per la Piazza della

Colonna Traiana a Roma, 1816 circa.

Il restauro degli edifici in Età neoclassica

Si è soliti far risalire al decreto della Convenzione nazionale francese del 1794, che proclamava il principio della conservazione dei monumenti, il primo importante capitolo della moderna idea del restauro. Fino ad allora tale questione veni- va affrontata, ad eccezione di alcuni contributi teorici, con un approccio meramente utilitaristi- co, volto al semplice adeguamento funzionale di un edificio o ad una sua reinterpretazione monumentale, in relazione a mutate esigenze rappresentative. Si pensi, ad esempio, alla “ri- progettazione” della Chiesa di San Francesco a Rimini nel Tempio Malatestiano, opera di Leon Battista Alberti.

L’Età neoclassica, orientata a sottoporre a rigo- rosa verifica l’architettura antica, segnò l’avvio di una nuova concezione, volta a valorizzare il mo- numento antico in quanto tale.

Si è fatto ampio riferimento alle scoperte arche- ologiche di Ercolano e Pompei come momento catalizzatore di questa coscienza; tali scoperte, peraltro, misero subito in evidenza la scarsità di

conoscenze tecniche e metodologiche per la ri- costruzione.

Sia pure in modo empirico, vennero realizzati così i primi interventi di anastilosi, che consiste nel riassemblare le parti cadute, quando queste si trovino ancora in loco, e quando si è certi della loro originaria positura.

In questo clima furono compiuti i primi restau- ri di monumenti importanti, cui si accompagnò un’ampia riflessione sia sotto il profilo filologico sia sotto quello tecnico. Si pensi, ad esempio, alla sperimentazione di nuovi metodi di scavo.

Roma offrì, soprattutto in età napoleonica, l’oc- casione per un vasto numero di interventi, gene- ralmente finalizzati a liberare i monumenti classici dalle sovrapposizioni successive, a ricomporli e a consolidarli.

Fondamentale fu l’apporto di Giuseppe Campo- rese (1763-1822), Raffaello Stern (1774-1820) e Giuseppe Valadier (1762-1839), che accompa- gnarono l’attività di restauro a quella progettuale.

Nel restauro del Colosseo (1826) e in quello dell’Arco di Tito (1819-21), il romano Stern ed il successore Valadier coniugarono le conoscenze sulle strutture e sui materiali (fondamentali negli interventi di consolidamento degli edifici) ad una approfondita erudizione archeologica.

In particolare, Valadier superò il concetto di re- stauro empirico, giungendo a quello che nel No- vecento sarà chiamato “restauro di completa- mento”: egli ha realizzato nell’Arco di Tito, ad esempio, in travertino le parti nuove, perché non si confondessero con quelle antiche, in marmo.

Giusto un secolo dopo Gustavo Giovannoni non mancherà di fare notare che per recuperare l’Arco di Tito erano state abbattute costruzioni medie- vali importanti, propaggini della turris chartularia e fortificazioni palatine. In verità, un peso decisivo nelle scelte di Valadier fu giocato dalle esigenze rappresentative e di riordino urbanistico dell’am- ministrazione francese. Gli interventi in cui egli si confrontò con l’architettura antica, non a caso, si caratterizzarono spesso per la loro scala urba- na. In qualità di direttore dei lavori di risanamento La nascita dell’idea moderna di restauro architettonico

B.

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urbano della capitale, Valadier intervenne anche nel piano generale per la sistemazione a pubblica passeggiata del comprensorio dei Fori (1811).

Pur adottando, a volte, soluzioni discutibili sotto il profilo filologico, egli valorizzò i monumenti of- frendo loro un contesto edilizio di pregio. Para- digmatico è il caso della sistemazione dell’area posta intorno alla Colonna Traiana a Roma. Il progetto di Valadier era volto ad esaltare la veduta del monumento, ponendolo a fulcro visivo di una piazza a doppia esedra, lontana dalla concezione originaria di insieme.

Solo per impulso dell’Accademia di San Luca e della Commissione degli abbellimenti, che considerava la Colonna come completamento del Foro di Traiano, nel 1813 il piano Valadier veniva sostituito da quello di Pietro Bianchi, orientato, secondo una concezione ben più moderna, verso un progetto di respiro archeo- logico, recuperando contestualmente gli scavi della Basilica Ulpia.

Le teorie romantiche del restauro

Nell’Ottocento il dibattito sul restauro dei mo- numenti fu influenzato ampiamente dalla cultura romantica. Lo “stato” della disciplina fu in buona parte condizionato, pur se in direzioni diverse, da due sostenitori del revival medievale: Viollet- le-Duc e Ruskin.

In Francia, Eugène Viollet-le-Duc (1814-1879) avanzava l’idea che il restauro di un monumento debba “ristabilirlo in uno stato completo che può non essere mai esistito in nessun momento”. In tal modo, egli affermò la legittimità di qualsiasi intervento volto a ripristinare l’unità stilistica di un edificio, anche per analogia con altre testimonian- ze coeve.

Venivano così formulati i princìpi del cosiddetto restauro stilistico, che ebbe nel Dictionnaire rai- sonné d’architecture del 1854-1868 il suo testo di riferimento.

Guardando principalmente all’architettura medie-

vale ed in particolare a quella gotica, Viollet-Le- Duc suggerì come intervenire nelle parti mancanti, manomesse o compromesse di un edificio, che dovevano essere completamente ricomposte nel segno stilistico e con le modalità costruttive originarie.

Secondo questo principio furono ricostruite inte- re parti della città francese di Carcassonne, della Basilica di Notre Dame a Parigi e del Castello di Pierrefonds.

Il pensiero di Viollet-Le-Duc segnò l’avvio di una nuova concezione nel recupero degli edifici sto- rici, soprattutto per l’introduzione di una rigorosa analisi delle fonti; il procedimento, tuttavia, deter- minò in molti casi evidenti licenze interpretative sulla ricostruzione delle parti mancanti, che non sempre poteva essere basata su prove docu- mentate.

Una tesi così suggestiva non tardò ad affermarsi in Italia, ed in particolare nelle città in cui il recu- pero dei monumenti era un’occasione per riaffer- mare il valore e l’individualità della storia civica.

Celebri sono a Firenze il completamento delle facciate delle Basiliche di Santa Croce (1857- 1863), di Nicola Matas, e di Santa Maria del Fiore (1866-1887), di Emilio de Fabris.

L’influenza delle teorie del restauro stilistico giunse persino al XX secolo: si pensi all’intervento mas- siccio e nello stesso tempo astratto dell’inglese Arthur Evans nel Palazzo minoico di Cnosso, realizzato a partire dal 1900.

Nella seconda metà dell’Ottocento si affermò in Inghilterra il cosiddetto restauro romantico, ispirato da John Ruskin (1819-1900). Questi auspicava il rispetto del monumento così come giunto dal passato, anche se in forma frammen- taria, e rifiutava ogni intervento che non fosse di tipo strettamente conservativo; qualsiasi altro ap- proccio avrebbe infatti alterato il valore unico ed originario dell’edificio.

Ruskin, che nella sua Inghilterra aveva assistito a significativi cambiamenti sociali ed economici A lato: Fig. 13

Franz von Lembach, L’Arco di Tito a Roma, 1858.

Olio su tela, 98x74,5 cm.

Monaco, Städtische Galerie in Lenbachhaus.

Molto spesso i pittori ottocen- teschi pongono gli antichi mo- numenti entro ambientazioni naturalistiche e mettono in evidenza i segni inequivocabili del tempo.

A destra: Fig. 14 Eugène Viollet-le-Duc, Immagine dal Dictionnaire raisonné d’architecture, alla voce Construction, ‘Costruzione’, 1854-1868.

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determinati dal massiccio sviluppo industriale, si contrappose a qualsiasi evoluzione estetica che potesse essere da questo condizionata.

Il suo pensiero si concentrò, pertanto, sull’esigen- za di mantenere valori già consolidati, quale, ad esempio, l’individualità dell’artista e dell’artigiano.

Tale concezione si tradusse in una sorta di mistici- smo della natura: il monumento antico trova mo- tivo di esistenza nel rapporto con una natura “sel- vaggia”, esaltato dalla sua condizione di rudere.

La proposta di lasciare morire l’opera del passato è coerente con il suo scagliarsi contro la “vitalità”

del mondo capitalistico e industriale. Ma questo stesso atteggiamento, possiamo desumere, im- pedì a Ruskin di promuovere una prassi struttu- rata e una critica del restauro.

L’idea di restauro in Italia

nella seconda metà dell’Ottocento

In Italia, Camillo Boito (1836-1914) sostenne una teoria attenta a mediare le posizioni estreme di Ruskin e Viollet-le-Duc.

Egli espose per la prima volta la sua teoria, nota come restauro scientifico, al Congresso degli Ingegneri ed Architetti italiani, tenutosi a Roma nel 1883.

Boito non considerava prioritaria l’unità architet- tonica dell’edificio: al contrario, tutte le modifiche che si sono succedute nel tempo devono essere salvaguardate, a testimoniare la storia del monu- mento. Per lo stesso motivo esse devono essere ben distinguibili dalle preesistenze, nella tecnica e nei materiali.

L’edificio storico, pertanto, deve esibire, come veri e propri documenti delle proprie fasi stori- co-evolutive, le aggiunte successive alla data di edificazione.

Ammonendo gli operatori a curarsi di “conserva- re, non restaurare”, Boito pose un freno all’arbi- trarietà di molti interventi ottocenteschi.

Tuttavia, egli avrebbe voluto la pubblicazione di un “libro d’oro” dei principali monumenti da salva- re, allineandosi in questo modo alla volontà della classe borghese dirigente. Non dobbiamo dimen- Fig. 15

Nicola Matas, Facciata di Santa Croce,

1857-1863. Firenze.

Figg. 16, 17 Due immagini di Piazza della

Frutta a Padova prima (in alto) e dopo (sopra) l’intervento di Camillo Boito (1872-1874).

Nel suo intervento su Palaz- zo delle Debite, Boito non è riuscito a salvaguardare il ca- rattere originario della piazza:

l’edificio, impostato su un por- tico eccessivamente alto, con la sua cromaticità violenta e la complessità stilistica si im- pone visivamente sul Palazzo della Ragione.

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ticare, infatti, che nella seconda metà dell’Otto- cento molti interventi di pianificazione urbanisti- ca tendevano a salvaguardare solo alcuni edifici monumentali, usati come “quinte” nobilitanti di un rinnovato tessuto edilizio.

Proponendo una sorta di parametro estetico, che valorizzasse il “bell’edificio”, Boito sembrava dun- que ridurre la portata dei princìpi che egli stesso affermava con la teoria del restauro scientifico.

Riteniamo tuttavia innovativa la constatazione che ciascun monumento rappresenta un documen- to della vita di un popolo. Non serve ricordare quanto questo assunto abbia trovato fortuna nelle elaborazioni teoriche successive.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il milanese Luca Beltrami (1854-1933) propose il restauro storico. Secondo i suoi princìpi è lecito ricostruire un edificio antico, o parti di esso, se l’analisi delle fonti documentarie o delle testimo- nianze iconografiche del passato consentono di tracciare un’ipotesi sull’assetto formale e stilistico complessivo, legittimandone così l’intervento.

Un’approfondita indagine storico-archivistica ed archeologica si pone, così, alla base della rico- struzione filologica dell’antico edificio.

Se nella progettazione di nuovi edifici Beltrami adottò lo stile neorinascimentale, nella ricostru- zione di edifici del passato sperimentò più stili.

A lui si devono a Milano, tra gli altri, un progetto per la facciata del Duomo, la ricostruzione inte- grale della Torre nel Castello Sforzesco (detta del Filarete) e della facciata di Palazzo Marino che fronteggia Piazza alla Scala.

Ormai il rispetto del dato storico era un criterio condiviso dai più attenti protagonisti del restauro architettonico; nuovo era, però, il confronto a viso aperto tra un singolo professionista e gli operatori bancari e immobiliari. Agli interessi speculativi di questi, Beltrami oppose il valore di testimonian- za civica di alcuni monumenti. Emblematico è il caso del Castello Sforzesco, che molti avrebbero voluto distruggere.

In un piccolo volume di ampia divulgazione risa-

lente al 1907, Note sull’arte di costruire le città, Ugo Monneret de Villard poneva la questione dell’abbattimento delle mura storiche nella città moderna. Pur ritenendo “questo anello di pietra un grave impedimento”, egli affermava l’esigenza di “isolare e conservare” le porte urbane. Il mo- numento, pertanto, trovava riconoscimento solo come “segno” del passato, e non come tassello di un unicum storico.

Eppure con Monneret de Villard veniva superato il principio di legittimazione della ricostruzione in stile: nell’opporsi al “vandalismo restauratore, ter- ribile e deleterio quanto il vandalismo distruttore”, egli suggeriva di “curare la sicurezza statica di tali avanzi, ma non permettersi mai di rifarne anche il minimo pezzo salvo casi eccezionali”.

In realtà, lontana dalla riflessione teorica, la prassi concreta tendeva a riutilizzare i monumenti più rappresentativi come quinte scenografiche, ele- menti catalizzatori di rendita fondiaria, allo scopo di avallare interventi di speculazione in intere aree dei centri cittadini.

La città borghese, infatti, non accetta l’idea della salvaguardia di un insieme monumentale; essa, al contrario, scrive il teorico Leonardo Benevolo,

“tende ad assorbire e a distruggere l’organismo precedente”, in quanto vi sovrappone nuovi edi- fici. E lo fa, aggiungiamo, lasciando intatti solo alcuni brandelli del corpo storico, elevati ad un ruolo di pura rappresentanza.

Il restauro scientifico:

Gustavo Giovannoni

All’inizio del Novecento si era ormai affermata un’idea di conservazione dei monumenti basata sulla loro manutenzione costante.

Gustavo Giovannoni (1873-1947) organizzò con coerenza, nella Carta del restauro del 1932, i princìpi espressi da Camillo Boito. Egli riaffermò il metodo filologico e la necessità di dare maggior risalto al materiale storico-documentario su quello stilistico-formale.

Se il monumento ha innanzitutto valore di testimo- Fig. 18

Luca Beltrami, nuovo fronte di Palazzo Marino su Piazza della Scala a Milano (lavori completati nel 1889).

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Figg. 19, 20 Gustavo Giovannoni, Nuovo portico di raccordo a fianco della Cattedrale di San Nicola (a sinistra) e sistemazione della Piazza

di San Pietro (a destra) a Bari. Da La sistemazione edilizia di Bari vecchia, 1932.

Fig. 21 Giovanni Michelucci, Ampliamento della sede centrale della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.

È un esempio interessante di innesto di un nuovo edificio in un contesto storico.

nianza storica, tutte le aggiunte o i mutamenti che ne testimoniano l’evoluzione vanno ugualmente tutelati. Giovannoni promuove, così, il cosiddetto restauro scientifico, in opposizione all’interven- to “creativo” propugnato da Viollet-le-Duc. Ep- pure Giovannoni stesso non esita ad accettare senza riserve i “restauri di completamento”, come quando suggerisce di ricostruire le “ardite volte ogivali” dell’Abbazia di San Galgano (Siena), uno dei maggiori monumenti del Gotico italiano, da secoli rimasto privo di copertura.

Altri risultati non furono esenti da contraddizioni anche molto gravi. Quando Giovannoni operò nella città, finì con il diradare le vie storiche, ab-

battendo o sostituendo qua e là edifici o loro parti considerate di minor pregio, allo scopo di conservare il “carattere” generale del quartiere.

La “liberazione” di alcuni monumenti dal loro im- mediato intorno, accompagnata da ipotesi di mo- dernizzazione, offrì, così, facili spunti ad interventi speculativi nei centri storici.

Altro spessore critico è garantito dalla posizione vigile, ad esempio, del razionalista Le Corbusier, che riteneva si dovessero lasciare integre intere parti della città storica. Egli si mostrò lungimiran- te: nel Secondo Dopoguerra, infatti, si sarebbe affermata l’idea, e in alcuni felici casi la prassi, di salvaguardare il centro storico nel suo insieme.

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zoom OPERA

Il Castello fu eretto nel 1450 a Milano come dimo- ra signorile del duca Francesco Sforza.

Allo splendore rinascimentale seguì, però, una lunga fase di decadenza, durante i periodi di do- minazione spagnola, francese e infine austriaca, quando il Castello fu utilizzato come caserma.

La sua presenza, e quella della vicina Piazza d’Armi sul lato occidentale, ebbe il merito, nell’Ot- tocento, di frenare ogni intervento speculativo le- gato al congiungimento di Corso Sempione con Piazza Cordusio; il fascino legato alla sua storia lo preservò persino dalla decisione comunale, presa nel 1886, di abbatterlo.

La valorizzazione e il ripristino del Castello sono senz’altro dovuti a Luca Beltrami.

Ottenuto il vincolo ministeriale di salvaguardia, perché fosse destinato a museo, Beltrami avviò la complessa operazione di ripristino.

Fase di spicco dell’operazione fu la ricostruzione della Torre detta del Filarete, crollata nel 1521

in seguito ad un’esplosione di polvere da sparo.

Essa fu eretta al centro della facciata, rivolta ver- so la città. Nell’intervento fu abbattuto il recinto della Ghirlandaia.

Spinto dalla volontà di realizzare un restauro storico, Beltrami avviò una scrupolosa disami- na di documenti, rilievi e saggi sulle strutture e i materiali originali.

Nonostante le prove documentarie fossero lacuno- se riguardo l’esatta collocazione e le caratteristiche architettoniche della torre, Beltrami volle ricostruir- la “in stile”, con un criterio di verosimiglianza che appare senz’altro un’operazione di forzatura teo- rica. Convinto che il restauro avesse una valenza

“patriottica”, egli riteneva che la torre ricostruita con uno stile fortemente connotato potesse as- surgere a simbolo della comune cultura nazionale.

Trova analoga giustificazione il massiccio inter- vento di restauro nella Sala delle Asse di Leonar- do, anch’essa nel Castello.

Antonio Averulino, detto Filarete

Ricostruzione della Torre del Filarete al Castello Sforzesco

A lato: Fig. 22 Milano, Torre del Filarete

nel Castello Sforzesco, ricostruita da Luca Beltrami su esempio di torri sforzesche e di antiche rappresentazioni.

Sotto: Fig. 23 Antonio Averulino, detto Filarete, Entrata di una rocca signorile.

Pagina miniata dal Trattato di Architettura, 1460 circa.

Firenze, Biblioteca Nazionale.

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