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Mahler, ovvero la colonna sonora del Secolo Lungo

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Academic year: 2022

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Mahler, ovvero la colonna sonora del Secolo Lungo

Tardo pomeriggio di un sabato di fine febbraio, in cui pare che l’inverno – fino a questo momento piuttosto mite – si sia ricordato tutt’insieme della propria esistenza e di essere ancora in tempo per prendere a schiaffi con la sua tramontana le gote dei romani che passeggiano per strada. È in programma in questi giorni la Sinfonia n°4 “Italiana” di Felix Mendelssohn e la Sinfonia n°1 “Titano” di Gustav Mahler. Il viaggio in macchina in direzione auditorium lo passo sgomento e angosciato come tutti quanti nell’ascoltare alla radio ciò che sta succedendo in queste ore in Ucraina e giungo al Parco della Musica con la voglia di svuotare per un po’ la mente dai pensieri per riempirla di emozioni positive. Emozioni che non tardano ad arrivare, complice uno straordinario Daniele Gatti alla direzione di un’orchestra di Santa Cecilia che sembra aver acquisito sotto la sua bacchetta un nuovo smalto e una nuova verve comunicativa.

Se è vero che la musica è la forma d’arte effimera per eccellenza, che nasce e muore nello stesso istante in cui vengono prodotti i suoni, e che nessuna registrazione suonata da un impianto hi-fi potrà mai sostituire la spazialità e le sfumature di un’orchestra dal vivo dentro una sala da concerto, credo che ciò sia particolarmente vero per la musica di Mahler.

Ho sempre pensato che Mahler fosse il compositore la cui vita e la cui arte avessero rappresentato, in anticipo di qualche decennio, l’Uomo di quello che lo storico Eric Hobsbawm definì Secolo Breve, con tutte le sue contraddizioni, i suoi drammi esistenziali, il suo cosmopolitismo, le sue conquiste e le sue sconfitte e la sua incapacità di esprimere appieno sé stesso e la complessità del mondo. Mahler è l’artista dei grandi conflitti interiori, dei successi e degli abissi, dei

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contrasti fortissimi che difficilmente trovano un loro equilibrio. Così, analizzando la sua vita, ci si accorge che fu uno stimatissimo direttore d’orchestra, che però in vita quasi mai fu preso in considerazione come compositore; fu il g r a n d e i n t e r p r e t e d e l l e o p e r e d i M o z a r t e d e l s u o contemporaneo Puccini, ma è colui che scrisse solamente lieder e sinfonie, senza mai avventurarsi nel melodramma; è l’ebreo che comincia ad avvertire sulla propria pelle il crescente antisemitismo nella Mitteleuropa e che si converte al cattolicesimo, rimanendo però, agli occhi del pubblico, sempre l’ebreo boemo, nonostante ebreo non fosse più e nonostante potesse definirsi a ben diritto viennese, essendo divenuto (tra l’altro) il direttore stabile dell’Opera di Stato di Vienna, una delle istituzioni musicali tuttora più prestigiose al mondo; è colui che sentì la necessità di avere a disposizione una quantità di mezzi espressivi senza precedenti, che sfocerà in quell’Ottava, chiamata la Sinfonia dei Mille per il numero di esecutori richiesti; è colui che negli ultimi anni rimarrà affascinato dal misticismo orientale e dalla poetica cinese; è colui che porterà alle estreme possibilità espressive il sistema tonale, che proprio nelle sue ultime sinfonie comincerà a scricchiolare, lasciando presagire quel crollo totale che si verificò pochi anni dopo la sua morte. Pur cosciente di essersi spinto verso un punto di non ritorno, Mahler probabilmente non se la sentì di fare un ulteriore passo verso l’ignoto, lasciando la responsabilità al suo discepolo Schönberg, che di lì a qualche anno divenne l’alfiere ed il teorizzatore del sistema dodecafonico.

E poi la sua vita è segnata dal dramma esistenziale, che sembra il percorso della storia del dramma che vivrà l’Uomo del Novecento. Sappiamo che soffriva di una nevrosi che a l l ’ e p o c a v e n i v a d e f i n i t a f o l l i a d e l d u b b i o e c h e probabilmente oggi verrebbe collocata nel disturbo ossessivo- compulsivo. Ebbe un incontro con Sigmund Freud che lo aiutò molto a far luce sui suoi complessi e a guardare sotto un’altra luce sua moglie, Alma Schindler, di 19 anni più

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giovane e donna dalla brillantissima mente, ambita e corteggiata dagli intellettuali di mezza Europa (ebbe relazioni e matrimoni, tra i vari, con Gustav Klimt, Oskar Kokoschka, Walter Gropius…).

Nelle sue composizioni, Mahler non dà quasi mai certezze, ma lascia l’ascoltatore nel dubbio e nella tempesta. Spesso si nota la sua difficoltà a trovare una soluzione ad un garbuglio in cui si è immerso, suo malgrado. E nel risolverlo ha bisogno di un numero sempre maggiore di mezzi espressivi: nella sua Sesta Sinfonia, ad esempio, utilizza un martello enorme che percuote una cassa di legno rivestita di cuoio e lo fa per tre volte, come le volte che il Destino busserà alla sua porta.

Nell’ultimo movimento, più si è vicini a una conclusione e più i dilemmi aumentano, più si aggiungono complicazioni e gomitoli da sbrogliare. Si avverte quasi la difficoltà nel comunicare la complessità dell’esistenza e dell’universo in cui l’Uomo è immerso. E cosa non è, se non ciò che vivrà l’umanità nel XX secolo?

Ma torniamo al concerto e a quella Prima Sinfonia che è riecheggiata nella sala Santa Cecilia di Roma in questo freddo ed inquieto pomeriggio del XXI secolo. Ho sempre pensato che questa sinfonia fosse quasi folle nella sua sfrontatezza, nella sua audacia e nel suo mostrarsi così diversa e difficilmente collocabile rispetto alla musica sinfonica che fino ad allora era stata composta. Siamo nel 1889 e l’allora ventottenne Mahler dovette lasciare quanto meno perplesso il pubblico di Budapest, dove questo suo primo capolavoro fu eseguito per la prima volta. Ma, oltre alle considerazioni fatte sulla sua musica poc’anzi, non possiamo non notare una certa ironia nelle sue partiture, spesso amara, nonché un gusto per il grottesco e per la parodia, come si nota in quello che potrebbe sembrare uno jodel da taverna nel secondo movimento di questa sinfonia.

Forse l’elemento più ricorrente nelle composizioni di Mahler è però quello della Natura e dei suoi suoni, come esplicitamente

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si può udire nel primo movimento di questa Prima Sinfonia (e poi di nuovo nel finale), dove i cinguettii degli uccelli riecheggiano insieme ai gorgoglii dei ruscelli.

Mahler è anche un cittadino del mondo, nonostante sia strettamente e indissolubilmente legato alla sua Vienna. Lo si capisce chiaramente non tanto perché trascorse la sua vita in giro per l’Europa e per gli Stati Uniti invitato a dirigere le più grandi orchestre, ma perché – come nel primo movimento di questa sinfonia – si odono il passare di fanfare militari e di bande di paese, così come danze e melodie popolari di varie parti d’Europa. Egli non dimentica neppure le sue origini rurali e il suo amore per la montagna, testimoniato anche dai suoi frequenti soggiorni di isolamento ristoratore nella sua casa tra le montagne dell’allora austriaca Toblach – oggi Dobbiaco, in Italia. La sua ricerca non si limita, però, solo alle espressioni esteriori dell’essere umano, ma è in lui presente una forte dimensione spirituale che spesso coincide con la trascendenza del divino delle religioni monoteiste a cui fu educato e a cui aderì, ma che a volte sembra quasi aderire ad una dimensione legata alla correlazione tra tutti gli esseri viventi e le forze della natura, più vicina alla concezione orientale del divino (come si intuisce nella sua Nona).

La cosa che sicuramente ha reso famosa questa Prima Sinfonia è quel bizzarro trattamento della famosa melodia del Bruder Martin: si tratta della nenia infantile della nostrana Fra’

Martino campanaro, patrimonio da secoli degli infanti di ogni angolo del Vecchio Continente. Come si fa nel famoso gioco attorno a questa canzoncina, Mahler ripete la melodia a canone, ma variandola e soprattutto trasportandola in tonalità minore, il che le fa assumere le sembianze di una parodia di una marcia funebre. Il fatto di affidare le prime esposizioni del tema – tra i vari – a due strumenti gravi come il contrabbasso e la tuba in registri insolitamente acuti, dà a questa marcia un sapore decisamente grottesco. Come ebbe a

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dire il direttore Bruno Walter (discepolo e collaboratore dello stesso Mahler) “siamo condotti in un inferno che non ha forse l’eguale nella letteratura sinfonica”. Il tono parodistico prende vigore con l’entrata di un tema dal sapore

“ungherese”, accennato dagli oboi con il controcanto delle trombe. C’è spazio anche per un frammento lirico, con la citazione dell’ultimo dei suoi Lieder eines fahrenden Gesellen; ritornano però la spettrale marcia iniziale e il beffardo tema tzigano, che rafforzano ancor più l’effetto di annichilimento: questa canzoncina infantile che si trasforma in marcia funebre potrebbe essere elevata a simbolo dell’universo mahleriano.

Ed è proprio mentre ascoltavo inebriato di emozioni forti e contrastanti questo movimento, che ho pensato che quella fosse la colonna sonora perfetta per questi giorni in cui assistiamo con incredulità e apprensione all’avvicendarsi del conflitto armato in Ucraina.

È rimasta famosa la frase che una volta Mahler pronunciò: “il mio tempo verrà”. Era conscio che la sua musica avrebbe fatto fatica ad essere accettata durante la sua vita, ma che avrebbe sicuramente trovato spazio nei decenni a venire. Ed il suo tempo è effettivamente arrivato, dopo la metà del ‘900, ma nonostante la velocità a cui procede la storia negli ultimi decenni, sembra che quell’epoca non sia poi tanto diversa da quella attuale.

Hobsbawm si sbagliava. Quel secolo, che doveva sembrare breve, si è dimostrato lunghissimo.

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